giovedì 24 febbraio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Roberto Bellarmino, maestro di apologetica di Massimo Introvigne, 23-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
2)    Muore Bernard Nathanson, campione della vita di Marco Respinti, 23-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
3)    23/02/2011 – CINA - L’Egitto e le paure di Pechino: una rivoluzione in Cina è inevitabile di Wei Jingsheng
4)    I figli sani di una società malata di Giuliano Guzzo, da http://www.pontifex.roma.it
5)    Il fallimento dell’educazione sessuale in Inghilterra, Francia e Svezia, 23 febbraio, 2011, da http://www.uccronline.it
6)    ATTUALITÀ DEL MAGISTERO DI LEONE XIII - L’enciclica Rerum Novarum da RADIO MARIA -  rubrica mensile «La vera storia della Chiesa» - A cura della professoressa ANGELA PELLICCIARI - Che ha per ospite monsignor LUIGI NEGRI, vescovo di San Marino e Montefeltro - 21 febbraio 2011, un ringraziamento particolare all'amico Claudio Forti, che ha pazientemente trascritto per Riscossa Cristiana la trasmissione, da http://www.riscossacristiana.it
7)    Diamo voce a chi sceglie la vita di Andrea Tornielli, 24-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
8)    "Desidera morire soltanto chi non si sente amato" di Raffaella Frullone, 24-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
9)    La lezione degli Usa: DAT inefficaci di Tommaso Scandroglio, 24-02-2011, da http://labussolaquotidiana.it
10)                      Capire la rivolta araba di Roberto Fontolan, giovedì 24 febbraio 2011, il sussidiario.net
11)                      SCUOLA/ Cari letterati, ecco chi vincerà la sfida tra l’analisi e il "cuore" di Feliciana Cicardi, giovedì 24 febbraio 2011, il sussidiario.net
12)                      Il biotestamento in discussione al Parlamento: una serie di articoli, da http://www.portaledibioetica.it
13)                      Avvenire.it, 23 febbraio 2011 - LA FAMIGLIA NEL MIRINO - Obama: la legge che vieta i matrimoni gay è incostituzionale
14)                      Il congresso - Il benessere? Passa da un’etica rinnovata - Alla Pontificia Università della Santa Croce a Roma due giorni di confronto sul pensiero bioetico Sgreccia: l’aborto, immane delitto «Occorre rafforzare il legame dell’uomo con il suo Creatore» E la tecnica non può dettare l’agenda dei comportamenti di Graziella Melina, Avvenire, 24 febbraio 2011
15)                      Se la vita diventa «disponibile» crolla il diritto - contromano - di Claudio Sartea, Avvenire, 24 febbraio 2011
16)                      «Diritto di morire», pericolo per chi è più debole - Luciano Eusebi argomenti - Nelle situazioni in cui è ormai irrecuperabile uno stato di salute piena vi sarebbe una fortissima pressione nei confronti del paziente (e della famiglia) a fare un passo indietro, liberando la società dall’onere di farsi carico di alcuni malati e disabili, di Luciano Eusebi*, Avvenire, 24 febbraio 2011
17)                      Fecondazione eterologa, i dubbi della Corte europea - il fatto - Ieri l’udienza a Strasburgo in vista della sentenza d’appello sulla legge austriaca che limita la provetta con donatori esterni Le ricadute sull’Italia di Pier Luigi Fornari, Avvenire, 24 febbraio 2011

Roberto Bellarmino, maestro di apologetica di Massimo Introvigne, 23-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Proseguendo nelle sue catechesi sui santi vissuti nel XVI secolo, «al tempo della dolorosa scissione della cristianità occidentale, quando una grave crisi politica e religiosa provocò il distacco di intere Nazioni dalla Sede Apostolica» con la frattura protestante, Benedetto XVI ha presentato nell'udienza del 23 febbraio la figura del grande teologo e apologeta san Roberto Bellarmino (1542-1621).

Pochi ricordano - a causa della sua lunga permanenza a Roma - che il santo era nato a Montepulciano ed era nipote, per parte di madre, del Papa Marcello II (1501-1555). Gesuita formatosi a Roma, Padova e Lovanio, fu dapprima professore in quest'ultima università prima di essere chiamato a Roma per tenere un corso di apologetica da cui nacquero, ricorda Benedetto XVI, le «Controversiae», «opera divenuta subito celebre per la chiarezza e la ricchezza di contenuti e per il taglio prevalentemente storico».

L'interesse per l'apologetica non era casuale. «Si era concluso da poco il Concilio di Trento e per la Chiesa Cattolica era necessario rinsaldare e confermare la propria identità anche rispetto alla Riforma protestante». Con Bellarmino l'apologetica acquistò, o meglio riacquistò, dignità di disciplina universitaria, ma il santo sapeva che doveva rivolgersi anche alle persone più semplici: agli anni 1597 – 1598 «risale il suo catechismo, "Dottrina cristiana breve", che fu il suo lavoro più popolare».

A riprova dell'importanza che la Chiesa dell'epoca attribuiva all'apologetica, nel 1599 fu creato cardinale e nominato arcivescovo di Capua. Mantenne la sede diocesana, dove peraltro si distinse per il grande zelo, per soli tre anni. Roma aveva bisogno di lui come guida teologica della Curia e della Chiesa, ruolo incontrastato che svolse per quasi vent'anni, occupando insieme molti e prestigiosi incarichi vaticani.

L'apologetica, ha spiegato il Papa, deve fare fronte in ogni tempo a nuove sfide, ma alcune rimangono sempre uguali. Per questo, gli insegnamenti apologetici di Bellarmino non sono affatto passati di moda. «Le sue "Controversiae" costituirono un punto di riferimento, ancora valido, per l’ecclesiologia cattolica sulle questioni circa la Rivelazione, la natura della Chiesa, i Sacramenti e l’antropologia teologica. In esse appare accentuato l’aspetto istituzionale della Chiesa, a motivo degli errori che allora circolavano su tali questioni. Tuttavia Bellarmino chiarì anche gli aspetti invisibili della Chiesa come Corpo Mistico e li illustrò con l’analogia del corpo e dell’anima, al fine di descrivere il rapporto tra le ricchezze interiori della Chiesa e gli aspetti esteriori che la rendono percepibile. In questa monumentale opera, che tenta di sistematizzare le varie controversie teologiche dell’epoca, egli evita ogni taglio polemico e aggressivo nei confronti delle idee della Riforma, ma utilizzando gli argomenti della ragione e della Tradizione della Chiesa, illustra in modo chiaro ed efficace la dottrina cattolica».

L'apologetica, però, ha bisogno anzitutto di un metodo. La più importante eredità del santo, ha detto il Papa, «sta nel modo in cui concepì il suo lavoro. I gravosi uffici di governo non gli impedirono, infatti, di tendere quotidianamente verso la santità con la fedeltà alle esigenze del proprio stato di religioso, sacerdote e vescovo. Da questa fedeltà discende il suo impegno nella predicazione. Essendo, come sacerdote e vescovo, innanzitutto un pastore d’anime, sentì il dovere di predicare assiduamente. Sono centinaia i sermones – le omelie – tenuti nelle Fiandre, a Roma, a Napoli e a Capua in occasione delle celebrazioni liturgiche. Non meno abbondanti sono le sue expositiones e le explanationes ai parroci, alle religiose, agli studenti del Collegio Romano, che hanno spesso per oggetto la sacra Scrittura, specialmente le Lettere di san Paolo. La sua predicazione e le sue catechesi presentano quel medesimo carattere di essenzialità che aveva appreso dall’educazione ignaziana, tutta rivolta a concentrare le forze dell’anima sul Signore Gesù intensamente conosciuto, amato e imitato».

L'apologeta può talora dover adottare toni forti, ma l'essenziale è che la sua opera sia animata dalla vita interiore e dalla preghiera. Il santo offre dunque anche «un modello di preghiera, anima di ogni attività». Il Pontefice ha richiamato un'opera non molto conosciuta di Bellarmino, «De ascensione mentis in Deum »- «Elevazione della mente a Dio» -, dove leggiamo: «O anima, il tuo esemplare è Dio, bellezza infinita, luce senza ombre, splendore che supera quello della luna e del sole. Alza gli occhi a Dio nel quale si trovano gli archetipi di tutte le cose, e dal quale, come da una fonte di infinita fecondità, deriva questa varietà quasi infinita delle cose. Pertanto devi concludere: chi trova Dio trova ogni cosa, chi perde Dio perde ogni cosa».

«In questo testo - commenta Benedetto XVI - si sente l’eco della celebre contemplatio ad amorem obtineundum – contemplazione per ottenere l’amore - degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola [1491-1556]. Il Bellarmino, che vive nella fastosa e spesso malsana società dell’ultimo Cinquecento e del primo Seicento, da questa contemplazione ricava applicazioni pratiche e vi proietta la situazione della Chiesa del suo tempo con vivace afflato pastorale».

L'eco degli «Esercizi» ignaziani, aggiunge il Papa, si ritrova in altre importanti opere spirituali del santo. «Nel libro "De arte bene moriendi" – l’arte di morire bene - ad esempio, indica come norma sicura del buon vivere, e anche del buon morire, il meditare spesso e seriamente che si dovrà rendere conto a Dio delle proprie azioni e del proprio modo di vivere, e cercare di non accumulare ricchezze in questa terra, ma di vivere semplicemente e con carità in modo da accumulare beni in Cielo. Nel libro "De gemitu columbae" - Il gemito della colomba, dove la colomba rappresenta la Chiesa - richiama con forza clero e fedeli tutti ad una riforma personale e concreta della propria vita seguendo quello che insegnano la Scrittura e i Santi». A chi parla di riforme, Bellarmino «insegna con grande chiarezza e con l’esempio della propria vita che non può esserci vera riforma della Chiesa se prima non c’è la nostra personale riforma e la conversione del nostro cuore».

Non si potrebbe insistere troppo, sottolinea il Papa, sull'importanza degli «Esercizi» ignaziani per l'apologetica. «Agli Esercizi spirituali di sant’Ignazio, il Bellarmino attingeva consigli per comunicare in modo profondo, anche ai più semplici, le bellezze dei misteri della fede. Egli scrive: “Se hai saggezza, comprendi che sei creato per la gloria di Dio e per la tua eterna salvezza. Questo è il tuo fine, questo il centro della tua anima, questo il tesoro del tuo cuore. Perciò stima vero bene per te ciò che ti conduce al tuo fine, vero male ciò che te lo fa mancare. Avvenimenti prosperi o avversi, ricchezze e povertà, salute e malattia, onori e oltraggi, vita e morte, il sapiente non deve né cercarli, né fuggirli per se stesso. Ma sono buoni e desiderabili solo se contribuiscono alla gloria di Dio e alla tua felicità eterna, sono cattivi e da fuggire se la ostacolano” (De ascensione mentis in Deum, grad. 1)».

Cose d'altri tempi? No, assicura Benedetto XVI. «Queste, ovviamente, non sono parole passate di moda, ma parole da meditare a lungo oggi da noi per orientare il nostro cammino su questa terra. Ci ricordano che il fine della nostra vita è il Signore, il Dio che si è rivelato in Gesù Cristo, nel quale Egli continua a chiamarci e a prometterci la comunione con Lui. Ci ricordano l’importanza di confidare nel Signore, di spenderci in una vita fedele al Vangelo, di accettare e illuminare con la fede e con la preghiera ogni circostanza e ogni azione della nostra vita, sempre protesi all’unione con Lui». Nulla di diverso è la vera apologetica.


Muore Bernard Nathanson, campione della vita di Marco Respinti, 23-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

È scomparso lunedì, all’età di quasi 85 anni, Bernard Nathanson, il medico americano già campione dell’aborto (si era vantato di essere stato responsabile, diretto o indiretto, di 75mila aborti) e poi protagonista di una clamorosa, famosa conversione che lo ha portato sul versante opposto, alla cultura della vita e al cattolicesimo.

Newyorkese di origini ebraiche, ateo professo e alfiere della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta, al cui cuore si rivelò presto esservi proprio la controcultura abortista, Nathanson fu tra chi fece di più per costruire l’atmosfera in cui alla fine, nel 1973, maturò, la legalizzazione dell’aborto americano, costata fino a oggi circa 50 milioni di vite umane. Per esempio gonfiando enormemente (lo confesserà con schiettezza anni dopo) le cifre dell’aborto clandestino, utili a creare la psicosi della “liberazione” necessaria. Nel contesto di questa grande offensiva ideologica, peraltro, Nathanson e i suoi sodali giudicarono sempre la Chiesa cattolica come il nemico principale, da abbattere a ogni costo.

Ma appena un anno dopo quel triste 1973 Nathanson cominciò a nutrire i primi dubbi, propiziati nientemeno che dalle nuove tecnologie in grado di mostrare per la prima volta a lui e a milioni di altre persone la realtà di un feto autentico nel grembo della madre carico di tutte le atroci sofferenze provocate da quella morte assurdamente procurata. E soprattutto la sua vera, piena umanità. Fu lì che Nathanson cominciò uno straordinaria trasformazione, buttando finalmente all’aria tutto il castello di menzogne e di false certezze su cui fino a quel momento si era retta la sua offensiva ideologica. Gradualmente ma non meno intensamente, divenne così, un testimone d’eccezione a favore del diritto alla vita, sostenuto e difeso contro tutti e contro tutto sempre con la sobrietà e la cristallinità dell’uomo di scienza, dell’uomo che impegna la ragione, dell’uomo che mostra fatti inopinabili.

Celebre è quel suo documentario che sconvolse il mondo, L'urlo silenzioso, del 1984, in cui l’aborto in diretta appare qual è in tutta la sua mostruosità. Da quel giorno Nathanson divenne una bandiera per l’intero mondo pro-life, una bandiera ancora una volta di ragione autentica e di fede pura, di dati concreti e di ragionamenti piani, di scienza e di buon senso. Con maestria, lo testimoniò attraverso un secondo documentario, Eclipse of Reason ("L'eclissi della ragione"), del 1987.

Nel 1979 aveva dato alle stampe un gran bel libro, Aborting America (scritto con Richard N. Ostling). La fede cattolica era ancora di là da venire, ma da quelle pagine Nathanson cominciava a rinascere. È l’unico suo libro tradotto anche in italiano, solo poche settimane fa, con il medesimo titolo inglese, a cura di Piero Pirovano, con prefazioni di Carlo Casini e Nicola Natale, ed edito dagli Amici per la Vita. Altri due sono seguiti, The Abortion Papers: Inside the Abortion Mentality ["Le carte dell'aborto: dentro la mentalità abortista"], scritto nel 1984 con la moglie Adelle R. Nathanson, e The Hand of God: A Journey from Death to Life by the Abortion Doctor Who Changed His Mind ["La mano di Dio: viaggio dalla morte all vita di un medico abortista che ha cambiato idea"], del 1996, libri che sarebbe utile diffondere anche in lingua italiana.

Scrive Narthanson in Aborting America: «L’etica dell’aborto è anche un invito all’irresponsabilità, alla violazione del concetto delle responsabilità inviolabili che ciascuno di noi ha verso gli altri». È la storia della sua vita, la prima. Con la seconda, rinata, Nathanson ha cercato di riparare, espiando in ogni modo umanamente possibile, espiando.


23/02/2011 – CINA - L’Egitto e le paure di Pechino: una rivoluzione in Cina è inevitabile di Wei Jingsheng
Uno dei maggiori dissidenti cinesi analizza il comportamento del Partito comunista cinese – che censura e minimizza le notizie riguardanti l’onda democratica nei Paesi arabi – e opera un paragone fra quei popoli e quello cinese. Oramai, spiega, “soltanto chi parla per il popolo viene ascoltato. E in Cina è tutto pronto per una nuova rivolta popolare”.

Washington (AsiaNews) - Mentre tutto il mondo presta attenzione all’onda democratica nelle nazioni arabe, si sente spesso qualcuno che si chiede che impatto possa avere tutto questo in Cina. Non è soltanto il popolo cinese a discutere della questione: i commentatori stranieri hanno la stessa preoccupazione. Mentre si impegnano duramente per bloccare le notizie, i dirigenti del regime comunista cinese puntano anche su una propaganda antagonista. I titoli spesso recitano “La Cina non è l’Egitto” o cose simili. Il Partito grida con forza per sottolineare le differenze fra i due Paesi, cercando di provare come l’ascesa democratica del Cairo non sia esportabile a Pechino. Ma se è davvero così, come mai il regime blocca le notizie relative all’Egitto sia sui media tradizionali che su internet? Perché non permette agli utenti del web di discutere di quella rivoluzione? Si tratta di una classica negazione che, per tutta risposta, diventa un’auto-denuncia.
Quando fattori diversi si accumulano fino ad arrivare a uno stato critico, la rivoluzione può scatenarsi in modi diversi, per ragioni diverse. La rivoluzione non dovrebbe infatti essere definita in una maniera specifica, dato che non deriva da alcun motivo specifico. Dire che la Cina non è l’Egitto è spazzatura, come dire che il pane non è riso. Perché, quando hai necessità di cibo, sia riso che pane possono servire allo scopo. Per quanto riguarda la rivoluzione, le varie strade e le varie ragioni scatenanti possono ognuna avere una possibilità. Tutto quello che questa gente vuole è raggiungere i propri obiettivi e una maggior libertà, invece di uno studio accademico sulla storia. Dopo tutto, la storia è composta da vari scopi: alcuni sono stati raggiunti, altri no. Quella storia non può dire se uno scopo verrà raggiunto o meno, al giorno d’oggi.

L’Egitto e le nazioni arabi sono società controllate da gruppi molto religiosi. In quei luoghi, la religione è sempre stata un fattore molto importante per il movimento sociale, e gioca un ruolo centrale per attrarre le masse. Sotto lo scudo della religione sono racchiusi scopi politici diversi. E questo è il motivo alla base della complessità delle società arabe.

La società cinese non è diversa. Ogni tipo di obiettivo politico emergente si ammanta nelle ideologie tradizionali e viene propagato alle masse, scatenando al momento giusto una riforma o una rivolta. Questo modello – mettere vino nuovo in bottiglie vecchie – va avanti dai tempi antichi, ed è considerato la maniera più efficace per veicolare l’idea della rivoluzione al minor costo possibile. Questo approccio sta lentamente emergendo in Cina, e rappresenta un segnale importante: anche quel Paese sta preparando la sua rivoluzione.

In Cina, i concetti democratici che arrivano dall’Occidente hanno già ricevuto il sostegno popolare. Persino all’interno dele lotte fra membri del Partito, ogni fazione usa il concetto di democrazia per ottenere posti di comando. Tuttavia, questa speranza per tutti i popoli non è ancora così forte come fattori essenziali tipo sopravvivere, tipo sale e riso. Storicamente, un nuovo sistema sociale può divenire intoccabile soltanto dopo molti anni di successi. Prima che questo avvenga, verrà avvolto da una vecchia ideologia per distribuirlo e farlo fermentare, fino a che non arrivi a distruggere in maniera graduale le fondamenta del vecchio sistema e costruisca la legittimazione necessaria all’emersione di una nuova società.

Nella Cina di oggi, la forma più ovvia di questo fenomeno è la cosiddetta “nuova sinistra maoista”. L’ultimo sviluppo di questo gruppo, avvenuto qualche giorno fa, si è espresso tramite una lettera di raccomandazioni al governo da parte dell’Associazione “dei figli di Yan’an”. Il linguaggio usato nel testo è quello tipico e stereotipato del Partito comunista, e basta leggere la lettera per capire che i suggerimenti sono insignificanti e impossibili da mettere in pratica. Quasi tutti i commenti che ho letto erano di derisione, come se il testo fosse stato scritto da un gruppo di idioti sognatori. Ad essere buoni si potrebbe dire che gli autori sono datati.

Tuttavia, se si guarda ai contenuti di questa lettera invece che al suo formato, o se la consideriamo una pubblicità o un’opinione pubblica, allora vale veramente la pena di leggerla. Va diretta al punto, e spiega come il fulcro dell’attuale conflitto sociale è dato esattamente dall’ingiustizia sociale e dalla disparità fra ricchi e poveri. Sottolinea poi in maniera particolare che, senza alcun dubbio, la responsabilità per questi problemi è del Partito comunista. Aggiunge che la nascita di questi problemi è da imputare alla mancanza di democrazia, e suggerisce un ritorno della democrazia per curarli. La ragione per promuovere la democrazia è la cosiddetta “linea di massa” tradizionale che è stata promossa dal Partito comunista ai suoi albori, invece della “elite che guida il Paese” che è stata portata avanti per molti anni.

Anche se non lo dice in maniera esplicita, questa lettera implica che gli elitismi imposti o la democrazia elitaria sono modelli falliti, i colpevoli della situazione in cui si trova oggi la Cina. Questa espressione è esattamente la teoria principale del movimento democratico cinese, così come l’ispirazione che il popolo cinese ha avuto dall’onda democratica araba. Dopo le ondate degli anni Settanta e Ottanta in Cina, diversi regimi autoritari hanno imparato a comprarsi le elite condividendo gli interessi della dittatura. L’esempio più tipico è quello di Jiang Zemin, che incluse le elite nelle “tre rappresentanze”. Il Partito comunista si è comprato un buon numero di lobby – che rappresentano una piccolissima parte della popolazione – per condividere gli interessi di un governo dispotico e trasportarli in un gruppo di interesse comune. Questo approccio vincente di pagare poco ed ottenere tanto è alla base del sistema autoritario tradizionale della Cina.

Sull’onda dei movimenti democratici arabi, le elite democratiche guidate da occidentali non sono riuscite a giocare un ruolo positivo. Questa stessa rivelazione porva che il “modello Cina” di comprarsi le elite è, nei fatti, positivo. Piuttosto si conosce poco del ruolo giovato in queste rivoluzioni dai giovani e dalle forze religiose. Una semplice verità che viene dal passato dice: “Prima che le ceneri nell’urna diventino fredde, arriverà il caos nello Shandong. Dopo tutto, Liu e Xiang non erano intellettuali”. In queste due frasi – tratte da un poema della dinastia Tang – le “ceneri nell’urna” si riferiscono al rogo dei libri operato dal primo imperatore cinese Qin Shi Huang; mentre “Liu e Xiang” sono i due leader più conosciuti della rivolta che ha abbattuto la dinastia Qin. Con la premessa di intense contraddizioni sociali, l’intera società ha bisogno di risolvere il conflitto per tornare alla normalità. Questa necessità guida le forze rivoluzionarie. Dobbiamo trovare un modo per liberare questa forza dinamica. Ovviamente, la cosa migliore sarebbe vedere gli intellettuali alla guida della rivoluzione; ma questa è un’ipotesi teorica. Quando gli intellettuali vengono comprati, o non sono in grado di gestire la situazione, quella forza dinamica cerca un altro modo per scatenarsi. E non si ferma fino a che non ha raggiunto il proprio scopo. Questo è il sentiero che mostrano l’Egitto e le altre nazioni arabe.

In Cina c’è anche un’altra ragione di fondo: la “linea delle masse” è tornata in auge dopo anni di incompetenza da parte delle elite di opposizione. Dato che la società internazionale è già stata comprata dai tiranni, l’importanza delle masse diventa evidente. Quando le dimostrazioni pacifiche si dimostrano inefficaci – come è già successo – una rivoluzione violenta e un colpo di Stato diventano le uniche opzioni rimaste. Negli ultimi anni, sono emersi sempre più gruppi della “sinistra maoista” che parlano per il popolo. Sono loro i gruppi più giovani, e in maggiore espansione, della società cinese.

Questo tipo di opposizione – mettere il vino nuovo nelle bottiglie vecchie – funziona come quella operata dai gruppi religiosi nelle nazioni musulmane. Questi gruppi sono la vera opposizione. Proprio come l’opposizione protestante durante le ondate democratiche in Europa, sono loro i promotori della democrazia. Saranno loro a preparare le fondamenta per una nuova rivoluzione popolare.


I figli sani di una società malata di Giuliano Guzzo, da http://www.pontifex.roma.it

Abbiamo il diritto di avere figli sani? E’ in questa breve, pungente domanda che si cristallizza uno dei nodi più centrali del dibattito bioetico contemporaneo. Accanto ai continui – e un po’ retorici, diciamolo pure – inviti a valorizzare il disabile, si stanno infatti diffondendo, nel mondo occidentale, ricorsi alla diagnosi prenatale finalizzati non tanto a rintracciare la presenza eventuale di patologie del feto, bensì a togliere di mezzo il bambino ancora nato ma già bocciato da aspettative sempre più esigenti e salutiste. Un caso emblematico è quello del dibattito sull’opportunità di effettuare esami prenatali per diagnosticare la sindrome di Down. Dibattito spesso molto spesso tecnico, che gli addetti ai lavori conducono senza mai considerare, o quasi, il rischio, purtroppo enorme, che tutto questo possa propiziare istanze eugenetiche, secondo le quali meritano di nascere solo coloro che rispondono a determinate aspettative. Con parole profetiche, il sociologo Zygmunt Bauman, nel suo Il disagio della postmodernità (Bruno Mondadori, 2002), ha scritto che presto l’umanità sarà divisa tra «i prescelti all’immortalità» e coloro che ne saranno esclusi con la giustificazione che «solo un certo tipo di vita meriti di esser protratto all’infinito». Catastrofismi? Non proprio. Lo conferma inequivocabilmente un fenomeno di questi anni: i bambini Down stanno statisticamente scomparendo. Non nascono più. E non a causa dell’inverno demografico - che pure rappresenta un problema enorme – ma perché vengono eliminati prima di poter nascere. E quando vengono al mondo, quasi sempre, è per puro caso, perché la sindrome non era stata correttamente diagnosticata.

Il caso più lampante, in Europa, è forse quello britannico: nel 1990 in Inghilterra e Galles le diagnosi prenatali di sindrome di Down erano state 1.075, nel 2008 avevano toccato quota 1.843 (+70%). Una bella impennata. Nonostante ciò, le nascite di bambini Down non solo non risultano - come ci si aspetterebbe - essere aumentate, ma son addirittura calate di 1 punto percentuale, passando da 752 a 743. Questo perché la percentuale di coppie che ricorre all'aborto dopo aver appreso di attendere un figlio Down, in Inghilterra, è pari al 92%. Sia chiaro: non s’intende in alcun modo, qui, esprimere giudizi su persone, ma solo indurre una riflessione su una mentalità che ricorda sempre più quella eugenetica e che annovera esempi inquietanti.

Pensiamo, ad esempio, a quanto scritto da Daniel Gunther e Douglas Diekema del Children’s Hospital and Regional Medical Center di Seattle, i quali, sulle pagine della rivista Archives of pediatric and adolescent medicine, hanno avanzato l’ipotesi di arrestare la crescita dei bambini handicappati trattandoli con dosi massicce di estrogeni. Alla base di questa disumana proposta, starebbe l’idea che un soggetto disabile minuto darebbe meno problemi, in termini di accadimento, di uno corpulento. Un esempio al quanto significativo di come siffatta mentalità stia prendendo progressivamente piede ci viene poi dall’appello lanciato qualche anno fa dall'associazione dei ginecologi inglesi - il prestigioso Royal College of Obstetricians and Gynaecology - attraverso le colonne del Sunday Times; un appello di cui è sufficiente, per rabbrividire, riportare il titolo: «Lasciateci uccidere i bambini disabili».

Un altro terreno fertile della mentalità eugenetica è indubbiamente quello della fecondazione in vitro. Centinaia, anzi migliaia di famiglie – spesso senza aver prima valutato alternative, quali ad esempio le cure della sterilità - si rivolgono alle strutture che eseguono questa tecnica e pretendono, non foss’altro per il consistente investimento che la procreazione medicalmente assistita chiede loro, un figlio sano. Una tendenza, questa, che ha contagiato anche le patriarcali società del Medioriente. Dal Maghreb ai Paesi arabi, dal Golfo all’Iran, già nel 2009 risultavano infatti raddoppiate le richieste di ricorrere a questo sistema per avere figli. Richieste molto spesso precise, per quanto riguarda sesso e salute dei nascituri. Alcuni studiosi dell’American University di Beirut, incuriositi dal fenomeno, hanno voluto censirlo. Ed hanno concluso che «più dell’80 per cento delle coppie intervistate, se viene a sottoporsi a fecondazione in vitro, chiede due cose: che sia sano e che sia maschio» (Corriere della Sera, 31/10/2010).

A questo punto è importante ricordare le ragioni che rendono la mentalità eugenetica del tutto inaccettabile. Esse sono principalmente tre. Anzitutto perché nega a degli esseri umani il diritto fondamentale alla vita, un diritto connaturato alla loro esistenza e pertanto inalienabile. Esso, infatti, spetta in egual misura ai più deboli come ai più forti, ed è il volto giuridico della dignità di ciascuno di noi. Una seconda motivazione di contrasto all’eugenetica, per stare all’Italia, ci viene ricordata dalla Suprema Corte di Cassazione, che ha chiarito come sia incompatibile col nostro ordinamento ogni «principio di eugenesi o di eutanasia prenatale», in quanto esso sarebbe in totale antitesi con «i princìpi di solidarietà» (Cassazione, sez. III civile, sent. 29 luglio 2004, n. 14488; Cassazione, sez. III civile, sent. 14 luglio 2006, n. 16123).

L’ultimo, non meno rilevante motivo di profonda ingiustizia dell’eugenetica riguarda il fatto che i disabili, come può testimoniare l’esempio di tantissime famiglie, non sono mai un peso, ma una risorsa per la famiglia e per la società. Il più toccante manifesto di questa realtà ce l’ha offerto in Nati due volte, romanzo pubblicato tre anni prima di morire, lo scrittore Giuseppe Pontiggia - a sua volta genitore di un disabile -, riferendo il commovente colloquio avuto con un medico a proposito dei bambini handicappati: «Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. Sono nati due volte e il percorso sarà più tormentato. Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita». [Fonte Libertà e Persona]


Il fallimento dell’educazione sessuale in Inghilterra, Francia e Svezia, 23 febbraio, 2011, da http://www.uccronline.it

Il 10 gennaio 2011 Benedetto XVI nel suo discorso tenuto di fronte al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ha sottolineato la presenza di «un’altra minaccia alla libertà religiosa delle famiglie» laddove «è imposta la partecipazione a corsi di educazione sessuale» che trasmettono concezioni della persona che «riflettono un’antropologia contraria alla fede e alla retta ragione». Il Pontefice ha poi esortato «tutti i governi a promuovere sistemi educativi che rispettino il diritto primordiale delle famiglie a decidere circa l’educazione dei figli e che si ispirino al principio di sussidiarietà, fondamentale per organizzare una società giusta». Recentemente, lo specialista in Medicina Interna e Segretario dell’associazione “Scienza & Vita” di Pisa e Livorno, dott. Renzo Puccetti, è intervenuto sulle parole del Santo Padre e sulle critiche ricevute per queste parole. «Si sostiene infatti che l’educazione sessuale obbligatoria nelle scuole è un progresso e si porta l’esempio di cosa è avvenuto in Francia, Olanda, Svezia, indicando quelle esperienze come veri modelli di civiltà, di pluralismo e scientificità», si legge su Corrispondenza Romana. Il dott. Puccetti spiega che l’educazione sessuale insegnata ai bambini e ai ragazzi nelle scuole dovrebbe servire a ridurre le malattie sessualmente trasmesse, le gravidanze indesiderate e gli aborti tra i giovani. Ma questi obiettivi sono stati raggiunti?

Inghilterra. Nel 2009 il prestigioso “British Medical Journal” ha pubblicato uno studio in cui i ricercatori, dopo aver analizzato un gruppo di 446 giovani a rischio, hanno verificato che le ragazze a cui era stato fornito un programma contenente informazioni sulla contraccezione mostravano un tasso di gravidanze tre volte e mezzo superiore rispetto alle coetanee che non avevano frequentato quelle lezioni. Con un tasso di abortività tra le giovani fino a 19 anni pari a 23, in Inghilterra l’ente preposto ha dato il via libera per la pubblicità televisiva delle cliniche per aborti. Il tasso di malattie sessualmente trasmissibili è decisamente alto: il 6,2%

Francia. E’ il Paese in cui il numero di pillole del giorno dopo vendute nell’ultimo anno è stato di un milione e centomila confezioni, la nazione in cui il 95% delle donne sessualmente attive che non desidera una gravidanza usa la contraccezione, in massima parte fatta di pillola e spirale, il Paese in cui sono obbligatorie 40 ore all’anno di educazione sessuale. Bene, proprio in questo paese nel 2007 sono stati praticati 213.382 aborti, con un tasso di abortività tra le ragazze di 15-19 anni pari a 15,6. Il tasso di malattie sessualmente trasmissibili è del 3,9%.

Svezia. Qui l’associazione per l’educazione sessuale è stata fondata nel 1933 dalla femminista Elise Ottesen-Jensen, nel 1945 apparve il primo manuale per l’educazione sessuale rivolto agli insegnanti e nel 1955 l’educazione sessuale nelle scuole è divenuta obbligatoria. Fin dalla più tenera età si insegna a impratichirsi con il profilattico durante i “condom’s days”. Eppure il tasso di abortività tra le giovani arriva al 22,5, cioè tre volte più alto rispetto a quello registrato tra i coetanei italiani.

Italia. Se in Svezia, nonostante l’obbligo di educazione sessuale, il tasso di abortività è del 22,5, i coetanei italiani raggiungono nell’ultima relazione il 7,2. Eppure, i giovani italiani non hanno obbligo di frequenza a corsi di educazione sessuale, ma si informano dagli amici, da Internet e, pensate un po’ che obbrobrio, persino dai genitori. Anche rispetto alle malattie sessualmente trasmesse, gli italiani -informa l’Organizzazione Mondiale della Sanità- hanno il tasso più basso: 2,7%.

«Se questi sono i risultati dell’educazione sessuale a scuola – conclude Puccetti – voglio essere ottimista e sperare che in Italia non si dia più neppure un centesimo per queste iniziative, lasciando che ciascuno, secondo il proprio grado di maturazione, inizi il proprio percorso di avvicinamento alla scoperta di una dimensione dell’umano grandiosa e potente».


ATTUALITÀ DEL MAGISTERO DI LEONE XIII - L’enciclica Rerum Novarum da RADIO MARIA -  rubrica mensile «La vera storia della Chiesa» - A cura della professoressa ANGELA PELLICCIARI - Che ha per ospite monsignor LUIGI NEGRI, vescovo di San Marino e Montefeltro - 21 febbraio 2011, un ringraziamento particolare all'amico Claudio Forti, che ha pazientemente trascritto per Riscossa Cristiana la trasmissione, da http://www.riscossacristiana.it


Pellicciari – Buon giorno. Sappiamo dalle precedenti trasmissioni che vi fu un esproprio del potere temporale da parte dei liberali e dei massoni in vista della fine del potere spirituale del Papa. Questo era l’intento vero portato avanti dagli uomini del Risorgimento. E sappiamo che Leone XIII lo definì un “risorgimento del paganesimo”.

Il Papa denucia questa realtà drammatica, incoraggiando la popolazione a resistere e a combattere contro le associazioni segrete, in primis la Massoneria e a contendere il campo all’azione di quelle forze.

Ecco, in  questo contesto, questa mattina, come vi avevo anticipato la volta scorsa, parliamo della Rerum Novarum con monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino e Montefeltro, mio caro amico, che voi conoscete benissimo.

Buon giorno don Negri! A te la parola.


Negri – Grazie! Saluto con molta affezione tutti gli ascoltatori di Radio Maria e soprattutto coloro che ascoltano nel tentativo di farsi un’idea vera di ciò che è accaduto nella vita della Chiesa e quindi nel mondo. Tu, Angela, hai già detto che io devo avere come preoccupazione quella di presentare la novità della Rerum Novarum all’interno dello straordinario complesso di magistero di questo grandissimo Papa, che ha avuto tra l’altro un lungo pontificato: dal 1878 al 1903. Alle spalle sta il beato Pio IX, che ha avuto una grandiosa responsabilità, e cioè quella di dire di no a una deriva di carattere anticattolico, anticristiano, antiumano, che si sintetizzava nelle grandi ideologie totalitarie che stavano nascendo, e che avrebbero avuto l’espressione definitiva nella creazione di stati totalitari. Stati che pretendevano di avere il diritto totale ed assoluto sull’uomo e sulla vita sociale secondo una frase condannata da Pio IX nel Sillabo: «Lo Stato è origine e fonte di tutti i diritti. Gode di un diritto che non ammette confini».

Pio IX dice: «Noi siamo moderni, ma non siamo atei. Noi accettiamo le grandi istanze della cosiddetta modernità, senza accettare l’ideologia anticattolica». Tocca a Leone XIII mostrarne in concreto la positività. L’alternativa all’ateismo non è semplicemente una negazione. L’alternativa a una società atea e totalitaria è una società fondata sulla persona, sulla sua libertà, sulla creatività culturale e sociale, sulla creazione di famiglie, eccetera. L’immagine di società che Leone XIII contrappone a quella che sarebbe poi diventata la società totalitaria, è una società in cui la persona è considerata come centro, come soggetto creativo di vita e di storia.

Prima della Rerum Novarum il Papa aveva pubblicato due encicliche fondamentali per introdurre poi bene la Rerum Novarum. Nel 1885 aveva pubblicato l’Immortale Dei (sulla costituzione cristiana degli stati), con una affermazione straordinaria: «Lo Stato non deve essere confessionale. Né confessionale cattolico, né confessionale laicista. Lo Stato si giustifica come servizio e tutela del bene comune». E l’altra, del 1888, sulla libertà, che è definita da Leone XIII: «Dono di Dio, a cui l’uomo sceglie di appartenere». Quindi è già una anticipazione profetica di quella concezione rilanciata da Giovanni Paolo II, che la libertà si collega alla verità. Non c’è libertà senza verità! La libertà non è fare quello che pare e piace, come sostanzialmente vale ancor oggi per la stragrande maggioranza del mondo, magari anche di certo mondo cattolico. La libertà è responsabilità! L’uomo deve prendersi la sua responsabilità di fronte alla sua coscienza, di fronte a Dio, di fronte alla storia, di fronte alla società. E quindi la libertà deve essere regolamentata da leggi che esprimano l’ordine con cui Dio ha creato la realtà.

Dentro questi concetti il Papa affronta il problema del lavoro. Nel 1891 – anno di pubblicazione dell’enciclica -, attenti!, non affronta astrattamente il problema del lavoro, perché ormai la vita della società è come dominata da forze e da meccanismi particolari. E chi possiede la legge dei meccanismi, possiede la società, o cambia la società. Questa è l’ideologia! La società è un insieme di meccanismi economici, politici, etnici, eccetera. Allora, la società è un campo di forze in cui pare che non esista un protagonista. O meglio, il protagonista che fa la storia è quello che, conoscendo le leggi di questi meccanismi, li domina.

Il Papa non affronta astrattamente il problema del lavoro, affronta il problema della condizione  operaia. Faccio una breve parentesi per dire la struttura dell’enciclica, che è divisa in 5 parti -: in cui la prima riguarda l’ingiustizia della soluzione socialista, che vuole l’abolizione della proprietà privata. La seconda parte dà le linee fondamentali della dottrina sociale della Chiesa. La terza – importantissima – introduce il ruolo dello Stato nella soluzione delle questioni sociali. La quarta riguarda la dignità della persona umana, che è il grande soggetto della vita e della storia. E l’ultima, la quinta, riguarda in particolare la funzione di strutture come il sindacato.

Allora, la situazione da cui il Papa parte è l’orrenda situazione in cui si è trovata la classe lavoratrice come prima conseguenza di quella industrializzazione forzata che ha distrutto il tessuto sociale in quasi tutti i paesi, soprattutto i più evoluti. “Accade – dice il Papa -, che, soppresse nel secolo scorso le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire al loro posto, mentre le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, a poco a poco le circostanze hanno consegnato gli operai, soli ed indifesi, alla disumanità dei padroni e alla sfrenata cupidigia della concorrenza. Una usura divoratrice sta distruggendo la vita economica e la vita sociale. È il grido di dolore di questa classe operaia, che colpisce il Papa! Il Papa non si muove per affermare una ideologia diversa dall’ideologia liberale o da quella collettivista. Arriverà a dare un giudizio su queste due formulazioni, ma fondamentalmente è preoccupato di mostrare a questi nuovi schiavi la sua attenzione verso di loro, e soprattutto di suggerire una linea di soluzione del problema della condizione operaia che favorisca l’uscita da questa situazione tremenda e insostenibile”.

Detto questo, la prima osservazione fondamentale è che al centro della vita sociale e quindi anche della vita del lavoro sta la persona e i suoi diritti fondamentali, fra i quali il diritto alla proprietà privata. «Il diritto alla proprietà appartiene alla natura dell’uomo. Pensare a un uomo senza la possibilità di avere una proprietà come espressione e conseguenza del suo lavoro, vuol dire togliere alla persona la capacità di creatività che è legata al fatto che un uomo che possiede il giusto, il necessario per vivere, è un uomo che può creare, che può andare al di là del solo lavoro. Il diritto alla proprietà privata è il diritto dell’uomo, che viene prima di tutte le strutture, quindi anche prima di quella dello Stato. L’operosità umana ha bisogno del riconoscimento dell’esercizio di questo diritto. Per cui, la soluzione che meccanicamente dice “togliamo la proprietà privata, sostituiamo alla proprietà privata una indifferenziata proprietà sociale”, che sostanzialmente è la proprietà dello Stato, è una soluzione che, prima di essere ingiusta nelle sue applicazioni economiche e sociopolitiche, offende gravemente la dignità della persona».

Nei numeri 4, 5, 6, 7 e 8, il diritto alla proprietà viene esaminato e proposto con estrema accuratezza. Credo che si possa sintetizzare così: il diritto alla proprietà si specifica nell’ambito della libertà di espressione e di creatività dell’uomo. La soppressione della proprietà costituisce una obbiettiva privazione di un diritto che attiene alla libertà dell’uomo e ne inaridisce la responsabilità morale e la capacità di creazione sociale. Come è profetico questo! Quando noi incontriamo uomini che hanno vissuto per decine d’anni in un clima di collettivismo, noi troviamo persone alle quali è stata quasi tolta la responsabilità della vita sociale e la capacità di creatività, perché da questo potere indifferenziato che possedeva tutti i beni, fluivano come dei doni quello che invece è diritto fondamentale dell’uomo.

«Questo proprio perché – dice il Papa – il diritto di proprietà è ciò che caratterizza l’uomo. E, appunto perché ragionevole, si deve riconoscere all’uomo qualche cosa di più che il semplice uso delle cose esterne». Il lavoro non è semplicemente l’uso delle cose esterne! Quel di più oltre il lavoro materiale che si fa, non può essere altro che il diritto alla proprietà stabile. «Né soltanto la proprietà di quelle cose che si consumano usandole, ma anche di quelle che restano dopo l’uso che se ne fa». Ecco quindi la persona che vive tutti i suoi diritti! In questo senso lo Stato non può intervenire direttamente, né sulla persona, sostituendosi ad essa o privandola di alcuni diritti fondamentali, ma non può neanche entrare in quello che il Papa chiama il santuario della famiglia. La proprietà non è solo quella del singolo, è la proprietà della persona accolta nelle sue strutture espressive fondamentali. Ed è indubbio che la struttura fondamentale che esprime la persona e i suoi diritti è la famiglia. Quindi la famiglia non può essere sostituita o condizionata dallo Stato. Lo stato invece deve aiutare la persona e la famiglia a vivere tutti i propri diritti.

In questo caso è necessaria un’autolimitazione dello Stato. La natura non gli consente di andare oltre la famiglia! «L’autorità paterna – dice il Papa – non può essere né abolita, né assorbita dallo stato, perché nasce dalla sorgente stessa della vita umana. La paternità e la maternità hanno un diritto inalienabile che viene prima di qualsiasi altra istituzione>>.

Come si risponde, allora, alla situazione dei lavoratori? Si risponde dicendo: siete persone! Siete persone create liberamente da Dio, redente da Gesù Cristo! Avete dei diritti fondamentali che nessuno può togliervi e neanche ridurvi!  «E quindi io – dice il Papa – vedo il problema della vostra condizione lavorativa a partire dal fatto che dovete essere tutelati nella vostra dignità personale, nel riconoscimento dei vostri diritti e nel loro esercizio»

Detto questo, che raccoglie tutta la tradizione del magistero sociale precedente e fin dai tempi del Nuovo Testamento, il Papa lancia una seconda, attualissima, provocazione! Il Papa dice: «Noi cristiani propugnamo la collaborazione fra le classi sociali». Stiamo bene attenti che allora cominciava quel meccanismo di carattere socioeconomico per cui tutta la società sarebbe stata fondata o condizionata negativamente da una irriducibile ostilità. La classe dei proletari esisteva animata da un odio invincibile nei confronti dei datori di lavoro. I datori di lavoro esistevano per una oggettiva volontà di ridurre la classe lavoratrice. E questo meccanismo, questa lotta meccanica inestinguibile si sarebbe dovuta risolvere soltanto con la negazione di uno dei due fattori. L’abolizione della proprietà privata avrebbe dato potere assoluto al proletariato che sarebbe diventato sostanzialmente il padrone della società e dello Stato. Oppure, il liberalismo, il capitalismo eccessivo, avrebbe sostanzialmente ridotto a sé la classe dei proletari semplicemente come strumenti di un lavoro da condizionare, da ridurre, da far vivere anche in modo assolutamente ingiusto.

La Chiesa ha un’altra immagine. Ha l’immagine del fatto che, prima di essere proletario, il proletario è uomo. Prima di essere datore di lavoro, il datore di lavoro è uomo. Quindi la Chiesa si occupa di far emergere quella sostanziale unità della natura umana, sulla quale unità si possono considerare in maniera nuova e originale le opposizioni che immediatamente sembrano irrisolvibili.

«Nella società le classi sociali sono destinate per natura – dice il Papa – ad armonizzarsi e ad equilibrarsi fra loro: l’una ha bisogno assoluto dell’altra, né può sussistere capitale senza lavoro, né lavoro senza capitale. La concordia fa la bellezza dell’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie». Pensate che questo è stato scritto nel 1891, e nel 2011 assistiamo alla realizzazione piena di questa che allora era una profezia, ma di cui la maggior parte della vita culturale, almeno dell’Occidente, non considerò assolutamente.

Quindi il problema sostanzialmente è quello di aiutare lavoratori e datori di lavoro ad avere dei diritti e dei doveri reciproci secondo giustizia. Mi permetto di consigliarvi la lettura, se potete procurarvi, ma credo che sia impossibile non procurarsi oggi un testo come la Rerum Novarum, del numero 16. È una cosa di straordinaria profondità e di straordinaria chiarezza! Come il numero 17: «È colpa gravissima defraudare il giusto salario. Quindi, nei rapporti fra datori di lavoro e lavoratori non può esistere giustizia, non può esistere evoluzione ed evoluzione positiva dei problemi culturali, economici e sociali se uno dei due fattori tenta di defraudare il giusto salario. Defraudare il giusto salario è colpa così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio. quindi, queste due classi che vengono a contatto e che la Chiesa vede, non come due nemici irriducibili, ma come due realtà che debbono cercare di comporsi nell’esercizio dei diritti e dei doveri secondo giustizia, fanno si che il lavoratore non venga defraudato del suo giusto salario>>. (Per chi desidera trovare tutte le encicliche Papali, basta andare sul sito www.totustuus.it e nel motore di ricerca digitare il nome del Papa desiderato. N. d. t.).

Il terzo fattore determinante, è che un problema come quello che il Papa ha indicato, non si risolve con il meccanismo della lotta fra le classi (pensate alla fine che hanno fatto nei regimi totalitari, soprattutto marx-leninisti, quelli che erano considerati capitalisti. Pensate ai 5milioni di piccoli proprietari terrieri, di contadini, chiamati Culachi, soppressi nel giro di qualche anno dal regime staliniano). Cioè, non è soltanto la negazione teorica, è che alla negazione teorica – se il regime è un regime totalitario -, segue la soppressione anche fisica.

Allora è come se il Papa riproponesse una intuizione che è davvero straordinariamente attuale! Il problema è quello di una educazione, non di un meccanismo! E di una educazione a uomini che accettano di essere educati a vivere le loro posizioni e le loro difficoltà, tensioni, dialettiche e limiti, secondo una giustizia riconosciuta. Una verità e una giustizia riconosciute. Ma diciamo il termine che riassume tutto: “Occorre educare gli uomini alla carità!”, perché è soltanto la carità che supera, all’origine, tutte le obbiezioni e tutte le opposizioni. E che avvia la vita sociale a un superamento delle tensioni e degli odi in una superiore situazione, quantomeno di giustizia. E oltre la giustizia, verso la carità.

Quindi vorrei sottolineare l’importanza che il Papa ripropone sulla funzione educativa che la Chiesa ha. La Chiesa ha una funzione di educazione, perché una funzione di educazione rende coscienti coloro che sono implicati in questa vicenda, che sembra irrisolvibile se lasciata nei meccanismi ideologici; ma se la Chiesa svolge la sua funzione educativa, mette le condizioni per la soluzione positiva.

Al numero 22 il Papa ha scritto una pagina lucidissima: «Gesù Cristo ha istituito la Chiesa Maestra di vita. Essa si sforza di educare e formare gli uomini alle massime della legge eterna, procurando che le acque salutari della sua dottrina scorrano largamente e vadano per mezzo dei vescovi e del clero ad irrigare tutta quanta la terra. Nel tempo stesso si studia di penetrare negli animi e di piegare le volontà, perché si lascino governare dai divini precetti. E in quest’arte, che è di capitale importanza, poiché ne dipende ogni vantaggio, la Chiesa sola ha vera efficacia. Infatti, gli strumenti che adopera a muovere gli animi le furono dati a questo fine da Gesù Cristo, ed hanno in sé virtù divina; sì che essi soli possono penetrare nelle intime fibre dei cuori, e far sì che gli uomini obbediscano alla voce del dovere, tengano a freno le passioni, amino con supremo e singolare amore Iddio e il prossimo, e abbattano coraggiosamente tutti gli ostacoli che attraversano il cammino della virtù».

Capite che mentre la società governata dagli ideologi, di destra o di sinistra, tendevano a creare meccanicamente una situazione profondamente disumana, perché negativa dei diritti delle persone e dei gruppi, il Papa indicava la strada dell’educazione. Educare i lavoratori ad essere persone che lavorano, come si sente in qualche brano di questa enciclica, ancor prima che sia precisata quella grande intuizione di Giovanni Paolo II che egli consegnò a Solidarnoshc, e che quel sindacato ricevette: “Non c’è il lavoratore, c’è l’uomo del lavoro. Perché il lavoratore è prima di tutto un uomo. Occorre occuparsi di lui come uomo affinché quella cosa importantissima che è il lavoro non finisca per essere, o idolatrata, o maledetta. Il lavoro ha bisogno di inserirsi in un contesto pieno di umanità. La Chiesa educa a questa pienezza di umanità”.

Ecco il numero 23, altro passo fondamentale: «Né si creda che le premure della Chiesa siano così interamente e unicamente rivolte alla salvezza delle anime da trascurare ciò che appartiene alla vita morale e terrena. Ella vuole e procura che soprattutto i proletari emergano dal loro infelice stato, e migliorino la condizione di vita. E questo essa fa innanzi tutto indirettamente, chiamando e insegnando a tutti gli uomini la virtù. I costumi cristiani, quando siano tali davvero, contribuiscono anch’essi di per sé alla prosperità terrena, perché attirano le benedizioni di Dio, principio e fonte di ogni bene; infrenano la cupidigia della roba e la sete dei piaceri (cf. 1Tm 6,10), veri flagelli che rendono misero l’uomo nella abbondanza stessa di ogni cosa; contenti di una vita frugale, suppliscono alla scarsezza del censo col risparmio, lontani dai vizi, che non solo consumano le piccole, ma anche le grandi sostanze, e mandano in rovina i più lauti patrimoni».

La gente che è educata a vivere sanamente come persona che lavora viene anche aiutata a vivere in condizioni adeguate. Il Papa parla del diritto al riposo, ad avere una abitazione adeguata, a esercitare la propria paternità nei confronti dei figli, eccetera. Il lavoratore non è soltanto quello che entra in fabbrica alle otto e esce alle otto di sera e deve essere considerato solo come un prestatore di opera: è un uomo che entrando nella fabbrica o nell’ufficio non abbandona tutto ciò che è, non abbandona le sue convinzioni religiose e culturali! Non abbandona la sua famiglia e il dovere verso i propri figli, ma è questa immagine personalistica del lavoratore, che è il grande contributo che nel 1891 Leone XIII ebbe il coraggio di dare, non soltanto ai credenti, ma anche agli uomini di buona volontà. Non l’ostilità propone quindi la Chiesa, ma collaborazione! Non principio dell’egoismo, ma principio della carità! E la carità, per essere tale, deve essere rispettosa della giustizia

Ora vorrei fare una corposa aggiunta a tutto quello che abbiamo detto finora, perché se la centralità della Chiesa in questa vicenda non è una centralità di carattere istituzionale e politico, è una centralità di tipo educativo. Allora si capisce perché la Chiesa, pur di fronte ai regimi totalitari ha sempre difeso la sua libertà di presenza e il suo diritto fondamentale all’educazione, non solo dei suoi figli, ma di tutti coloro che desiderano essere educati da Essa. Perché soltanto una presenza educativa di questo tipo evita l’irrigidirsi nei meccanismi ideologici.

Ora, questa funzione educativa della Chiesa, apre la grande questione dello Stato, alla quale il Papa dedica una parte sostanziale dell’enciclica. Perché lo Stato il Papa lo ha presentato come una funzione di servizio al bene comune. Ma lo Stato di allora, quello che era teorizzato dai massoni e dai liberali, e poi sarebbe stato teorizzato più o meno con le stesse parole dai nazisti e dai comunisti, non è lo Stato al servizio della società: è lo stato che “è la società”! Lo stato diviene l’insieme di tutti i valori della vita, della persona, dei gruppi e della società. E la società riceve la sua verità, la sua libertà, perché lo Stato gliela concede. Quindi lo Stato è al vertice di questa piramide dalla quale discende tutto. Lo Stato centralista, che da Roma comanda anche nelle più piccole frazioni e nei comuni della Sicilia, piuttosto che del Nord Italia!

Credo che si faccia bene a festeggiare l’unità d’Italia, ma credo che si farebbe ancor meglio se si facesse la festa dell’unità d’Italia dopo aver fatto una certa purificazione della memoria, come ha saputo fare Giovanni Paolo II per certe vicende della storia dei cristiani. Non è stato tutto pulito, né tutto indolore e soprattutto nemmeno rispettoso, nel processo di unificazione, della grande tradizione cattolica, contro la quale in qualche modo l’unità d’Italia è stata fatta.

Allora, se lo Stato è la fonte di tutti i diritti, in questo caso tocca a lui risolvere tutti i problemi! E certamente, siccome lo Stato è sempre di qualcuno (non essendo una realtà astratta), non è una realtà ideale. È lo Stato dei liberali borghesi del IX secolo, è lo stato dei fascisti, lo Stato dei comunisti o dei nazisti e quant’altro. Quindi lo Stato che pretende di essere la somma di tutti i diritti, come diceva Giovanni Gentile, uno dei grandi teorici di quello che poi divenne il fascismo (ma c’era una grande differenza fra l’intelligenza di Giovanni Gentile e ciò che il fascismo cercò di realizzare), bene, Giovanni Gentile diceva che lo Stato è un soggetto etico, un soggetto morale. Quindi ha una sua ideologia, delle convinzioni morali di tipo statale, eccetera, e per questo tocca allo stato educare i cittadini.

Allora vedete che se la Chiesa ritrova come sua funzione fondamentale quella di educare i cristiani e gli uomini di buona volontà a vivere adeguatamente la loro vita personale e sociale, ma se si trova di fronte uno stato che tenta di impedirle o quantomeno di ridurre il suo diritto educativo, avviene quella tensione che c’è stata fra gli stati totalitari e la Chiesa e che non è ancora finita, perché, per esempio, sul piano dell’educazione la nostra Repubblica Italiana è ancora ben lungi dall’aver concesso o riconosciuto un autentico pluralismo educativo e scolastico.

Ecco allora perché il Papa cerca di delineare una immagine di Stato sociale, non di stato etico. Qual è il dovere dello Stato? È quello di perseguire il bene comune. Non di avere un suo bene o una sua ideologia od obbiettivi da imporre alla società; non di avere l’idea folle di poter conquistare tutta l’Africa e mandare centinaia di migliaia di uomini a morire per un incremento del proprio prestigio. Non una guerra mondiale, la seconda, che scoppia semplicemente sulla follia di chi voleva sedersi al tavolo dei vincitori, e per questo ha mandato centinaia di migliaia di uomini a morire nelle steppe russe. «I governanti debbono in primo luogo concorrere al bene comune con tutto un complesso di leggi ed istituzioni, ordinando e amministrando lo Stato in modo che ne risulti naturalmente la pubblica e privata prosperità».

Lo Stato non è padrone della società. Non è padrone delle famiglie. «La prosperità della nazione deriva dai buoni costumi, dal buon assetto delle famiglie, dall’osservanza della religione e della giustizia, dall’imposizione moderata ed equa della distribuzione dei pubblici oneri. Dal progresso dell’industria, del commercio, dal fiorire dell’agricoltura e da quelle attività le quali, quanto maggiormente vengono promosse, tanto meglio favoriscono i cittadini».

Vedete, amici, che immagine viva di società! E che immagine viva di un servizio che lo Stato deve dare perché i cittadini, i gruppi, le realtà sociali possano vivere le loro funzioni. «Il benessere dei lavoratori, è poi il compito dello Stato, perché in questo processo di industrializzazione forzata, essi non siano la parte più debole! Lo Stato non può disinteressarsi o prendere posizione per l’uno contro l’altro, ma non deve neanche pensare che tutte le parti che sono in gioco abbiano le stesse forze. È giusto che il Governo si interessi dell’operaio facendo si che egli partecipi in qualche misura di quella ricchezza che esso medesimo produce, e si dia così vitto, vestito e un genere di vita meno disagiato. Si favorisca dunque al massimo che si potrà e in qualunque modo, migliorare la sua condizione, sicuri che questa Provvidenza, anziché nuocere a qualcuno, gioverà a tutti. Essendo un interesse universale che non rimangano nella miseria coloro da cui provengono vantaggi di tanto rilievo. Occuparsi della società vuol dire, nel caso del lavoro, preoccuparsi soprattutto di coloro che portano il massimo del peso e producono normalmente il massimo dei vantaggi dal punto di vista economico, ma vengono penalizzati come persone, come famiglie e come gruppi. Questo, lo Stato non deve perseguirlo, ma non deve nemmeno tollerarlo! Per questo il giudizio che la chiesa dà sui governanti è un giudizio relativo al bene comune. Se perseguono il bene comune della società. Se non perseguono il bene comune della società sono comunque sostanzialmente immorali perché non mettono al centro della considerazione la persona, i suoi diritti e la suai inesorabile capacità di realizzare pienamente la propria personalità, sia a livello familiare che sociale».

Vorrei scorrere con voi il numero 29 di questa enciclica, che è intitolato significativamente: “Obblighi e limiti dell’intervento dello Stato”. E mi pare una cosa fondamentale allora, come oggi. «È interesse per il bene comune come per quello privato che sia mantenuto l’ordine e la tranquillità pubblica. Che la famiglia sia ordinata conforme alla legge di Dio e ai principi di natura. Che sia rispettata e praticata la religione. Che fioriscano costumi integri, sia nella vita pubblica come in quella privata. Che la giustizia sia ritenuta inviolabile. Che una classe di cittadini non sia oppressa dall’altra. Che crescano sani e robusti cittadini atti a onorare e difendere, se occorre, la patria. Perciò, se a causa di ammutinamenti o scioperi si temono disordini pubblici, se fra i lavoratori sono sostanzialmente turbate le naturali relazioni della famiglia. Se la religione non è rispettata nell’operaio negandogli agio e tempo sufficiente a compiere i doveri. Se per la promiscuità del sesso ed altri incentivi al male l’integrità dei costumi corre pericolo nelle officine. Se la classe lavoratrice, oppressa con ingiusti pesi dai padroni o e ferita da fatti contrari alla dignità umana. Se con un lavoro eccessivo, non conveniente al sesso e all’età, si reca danno alla salute dei lavoratori, in questi casi occorre applicare, entro debiti limiti, la forza e l’autorità delle leggi.

È chiaro dunque che la funzione educativa della chiesa nei confronti delle persone che lavorano o che offrono lavoro, non può non contare sullo stato come a una struttura regolativa. Lo Stato deve mettere nelle condizioni perché il bene comune possa essere realizzato pienamente». Ecco che la società che vien fuori dalle parole di Leone XIII è una società che per troppi decenni, se non per secoli, è stata vilipesa. E invece di una società di uomini e di persone libere, si sono create delle strutture così rigidamente ideologiche, che negavano i diritti fondamentali della persona e la sua dignità.

Ecco perché il Papa aggiunge: «A nessuno è lecito violare la dignità dell’uomo». E al Numero 33 la necessità del riposo festivo. E il numero 34: «Il lavoro deve essere proporzionato alle forze dell’uomo, e perché questa proporzione sia attuata occorre una necessità di legislazione sociale». Quando il Papa scriveva queste cose, nelle fabbriche della “evolutissima” e massonica Inghilterra soffiavano il vetro bambini di 7, 8, 9 anni, senza un minimo di tutela dal punto di vista fisico e morale. E la mortalità infantile sul campo del lavoro raggiungeva vertici anche del 70, 80%. L’Inghilterra sempre progressiva, sempre intelligente, sempre animata da grandi propositi sociali, ma incivilmente anticattolica, e perciò antiumana.

«Bisogna che il lavoro delle donne e dei ragazzi – dice il Papa al numero 35 – debba essere particolarmente tutelato». E al numero 36: “Che il lavoratore deve avere un giusto salario per poter compiere bene il proprio lavoro”. E nel numero 37 una affermazione che non poteva non risultare rivoluzionaria sia per le destre che per le sinistre: «Non si può imporre con la violenza o la frode un salario ingiusto». E il salario ingiusto era la norma, a destra come a sinistra! E la Chiesa chiede nel 1891 che lo Stato intervenga a tutela dei lavoratori.

Ora, amici miei, come dire? Lo ha già accennato Angela Pellicciari e molte volte ne abbiamo parlato nei nostri colloqui: c’è sempre nel magistero della Chiesa un aspetto largamente profetico. Io l’ho verificato in tantissimi studi e l’ho verificato  in maniera impressionante nel magistero di uno dei papi più vilipesi dalla mentalità massonica e laicista: il beato Pio IX. Ma noi leggiamo queste pagine oggi, nel 2011, in una situazione economica e del lavoro che è andata implodendo. È andata implodendo esattamente perché tutto sommato ha retto ancora in questi ultimi 50, 60 anni l’idea che l’economia sia un meccanismo nel quale non si può intervenire se non in base alle regole, alle leggi stesse che vengono messe in evidenza dagli ideologi, e perciò si applicano poi in maniera inesorabile.

Ora, se noi confrontassimo queste pagine di Leone XIII con alcune straordinarie della Caritas in veritate, vedremmo che sostanzialmente nel 1891, come nel 2010, la Chiesa dice: «Noi abbiamo le condizioni per poter educare l’umanità a vivere tutti gli aspetti della vita, soprattutto quelli così determinanti per la vita sociale, come il lavoro, da un punto di vista non meccanico ed ideologico ma da un punto di vista di una maggiore e più intensa umanità. E questo mi pare il contributo di allora e di oggi di Leone XIII. Il suo magistero e quello di Benedetto XVI si illuminano reciprocamente per guidarci al futuro, che è il futuro che abbiamo imparato da Giovanni Paolo II. La civiltà della verità e dell’amore.

Lasciatemi dire un’ultima cosa prima delle domande. Pensate che di fronte a un magistero così lucido, così profondo, che ha formato generazioni di cristiani che poi hanno saputo impegnarsi nella vita culturale, sociale, politica ed economica in tutta una serie di realizzazioni come le scuole, le casse mutue, eccetera… Ma lasciatemi dire: che vergogna! E non soltanto da adesso… Si diceva “la giustizia sociale”, quindi c’era un aspetto di vangelo nella posizione dei socialisti. E poi si poteva essere anche un po’ fascisti, perché i fascisti avevano scoperto i valori fondamentali del cattolicesimo… (Si poteva essere anche un po’ comunisti, perché dicono di lottare per i poveri…). E poi, e poi, e poi… Abbiamo visto vilipesa la nostra grande identità cattolica alla ricerca delle alleanze. Ma noi non dobbiamo cercare le alleanze con nessuno. Dobbiamo essere noi stessi. Nella misura in cui saremo noi stessi, saremo capaci di dialogare con tutti, anche col Diavolo!, come diceva Pio XI. «Io ho fatto i concordati con il diavolo perché la chiesa potesse essere libera. E quando parlava di dialogo, parlava dei capi del nazismo e del fascismo. E poi, strada facendo, anche uno con i capi del comunismo. Ma non si potrà realizzare per ragioni storiche. Guai a scambiare la nostra identità col dialogo! La nostra identità è l’appartenenza alla Chiesa. Nella misura in cui siamo veramente appartenenti alla Chiesa, avremo una cultura originale e una capacità originale di porci nel mondo e saremo così in grado di dialogare con tutti. Vi ringrazio.


Alcune telefonate:


Pronto? Sono Gabriella da Milano. Grazie, eccellenza, per le sue idee chiarissime…


Mons. Negri –Lasciamo perdere l’eccellenza…


Senta, io vorrei chiedere come fare a far nascere nei giovani il desiderio di far politica attiva. Di mettersi in politica… La nostra politica!


Negri - dobbiamo aiutarli a riscoprire la bellezza della vita. La bellezza della vita, ma non come un istinto. Molti giovani vivono oggi la bellezza della vita distruggendosi. Io cito spesso una frase di Bernanos, che non era fra l’altro l’ideale di cristiano, per me. Comunque nel 1914, all’inizio della terribile prima Guerra Mondiale, che in Italia servì solo a lanciare le grandi industrie (che ci sono ancor adesso)… come tutta risposta ci hanno mandati a morire sulla Marna. Su quel fiume si svolse la prima terribile battaglia fra francesi e tedeschi, in cui morirono decine di migliaia di soldati.

Ma io dico spesso ai miei giovani: “Ma non capite che siete respinti sulla Marna anche adesso?”. La Marna sono le discoteche, sono i sabati e le domeniche come li vivete. La Marna è una scuola che non impegna minimamente. La Marna sono i rapporti fra l’uomo e la donna ridotti alla pura meccanicità sessuale. Ecco io credo che dobbiamo rieducarli alla bellezza della vita. Se li educhiamo alla bellezza della vita e facciamo fare loro esperienza di una vita bella e buona (Come dice il documento della Conferenza episcopale italiana sull’educazione), allora, se uno fa una bella esperienza di vita, la difende! La difende e la propone alla società. Con una tale esperienza uno non potrà più dire: “Ma io sono cristiano a casa mia, però se vogliono che ci sia l’aborto, il divorzio, l’eutanasia, pazienza… io non li farò. Questa è una ipocrisia con cui tanti cattolici hanno dato il loro apporto alla rovina del nostro paese. Se una cosa è bella, è bella per tutti! Non la imporrò a nessuno, ma la proporrò a tutti. E se ci sono momenti in cui si deve decidere la legislazione come deve andare, io do il mio contributo. Se perdo, come può succedere, obbediamo. Ma non possiamo dire che una legge ingiusta diventa giusta perché è stata adeguatamente proposta. Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae ha detto cose terribili sugli stati che hanno legittimato l’aborto!

Educare è educare a una presenza, fino a desiderare che ci siano alcuni che facciano quel gesto assolutamente straordinario di carità – lo aveva ben detto Paolo VI -: “La politica è una forma eminente di carità.”


un'altra telefonata


Buon giorno eccellenza! Dopo aver salutato lei desidero salutare la professoressa Pellicciari, perché 8 giorni fa è venuta a Lugo di Ravenna a tenere una splendida lezione sulla rilettura cattolica del Risorgimento italiano. In quel momento non sono riuscita a farle capire quanto avessi apprezzato il suo dire. Ma questa mattina ascoltando le sue riflessioni ho sentito nascere dentro di me una domanda che mi sta tormentando da molto tempo, a cui non è facile trovare risposta. Sono d’accordo su quanto avete detto, però in questo momento di grande crisi a livello politico e sociale, non solo per l’Italia, tutti questi valori sembrano quanto mai traballanti. Perché? Perché oltre alla crisi abbiamo degli sbarchi continui che ci portano in casa migliaia e migliaia di extracomunitari che, per carità, dobbiamo accogliere, ma che hanno mentalità, usi e costumi, educazione, legislazioni totalmente diverse dalle nostre. Gli altri stati non ci aiutano molto, ma il problema è nostro. Poi qui si trovano bene, rispetto ad altre realtà. Di fronte a queste trasformazioni non riusciamo a capire quale sarà il nostro futuro.


Negri – Ecco, io credo che lei abbia posto dei problemi che vanno oltre la Rerum Novarum. Sono problemi di una straordinaria urgenza e drammaticità. Credo che se ne potrebbe discutere più ampiamente un’altra volta, ma credo che ciò che con tanta drammaticità lei ha detto, metta in rilievo la debolezza degli italiani. C’è una debolezza dei giovani soprattutto. C’è una debolezza culturale e morale che fa si che chi arriva non possa trovare interlocutori coscienti della loro cultura. Io verifico che dove i cristiani sono autenticamente cristiani, perché capaci di esprimere i nostri valori, si impongono in senso positivo, rispetto a coloro che non li condividono. E si crea una situazione, non di tensione, ma di collaborazione. Torniamo perciò anche qui a quella che propose Leone XIII, e cioè il recupero della funzione educativa.

Io non so se il futuro della nostra società sarà un futuro che vedrà ancora una presenza prevalente del cattolicesimo. Non lo so. Istintivamente ne dubito. Ma se ci sarà una minoranza seria (una minoranza creativa, come dice Papa Benedetto XVI), una minoranza vera, capace di vivere la propria vita con dedizione a Dio, alla Chiesa e agli uomini, io credo che agirà per il bene dentro la vita sociale, che altrimenti diverrebbe una barbarie (con o senza islamici), perché quando uno ammazza la fidanzata perché non vuol più stargli assieme, o ammazza i suoi figli per reazione contro la moglie o il marito, allora siamo alla barbarie! Questo è il risultato di una società che non ha educato e che non educa. Per questo dobbiamo fare di tutto perché questo popolo sia educato.

Se questo popolo torna ad essere educato qualcosa di positivo nella società lo farà. Ecco perché è importante il ruolo di Radio Maria, anche perché vi sia una conoscenza vera della storia della Chiesa. Perché, non avere il senso della propria storia, è essere in balia di tutti! È come uno che non sapesse chi sono suo padre e sua madre, i suoi nonni, la sua stirpe. O che gli dicessero che erano soltanto delinquenti e ladri, come è l’immagine di Chiesa e di storia della Chiesa che i nostri italiani hanno imparato a scuola e imparano dalla televisione. Ecco, una serie di nefandezze!

Come fa uno che crede di avere alle spalle soltanto dei delinquenti, a sentirsi forte nella società? Io mi sono sentito forte anche quando avevo pochi anni perché appartenevo a una famiglia che, pur poverissima, era forte nella fede e quindi era capace di entrare con forza dentro la vita sociale. Si tratta di ricominciare a educare. Quando cominciavano a succedere le cose che abbiamo descritto stamattina, penso a quello che ha fatto - in una città devastata dalla industrializzazione, dove migliaia di persone arrivavano ogni giorno e non sapevano dove sarebbero andate a mangiare o dormire -, un prete come san Giovanni Bosco, che ha creato una struttura educativa che ha ancor oggi una enorme capacità di richiamo e di incidenza nella vita, non solo della Chiesa, ma anche della società.


Pellicciari – Quello che dice adesso Don Negri io lo dico sempre alla fine delle conferenze che vado facendo, sull’Unità d’Italia, e cioè che importante capire che la nazione Italia non nasce 150 anni fa. 150 anni fa nasce uno Stato anticattolico che combatte tutto quello che la nazione italiana era da centinaia d’anni. Allora io credo che noi dobbiamo fare un’operazione di verità che recuperi le radici profondissime, geniali, piene di primati, della nostra identità nazionale cattolica.


Negri – certo…


Pellicciari – Dobbiamo quindi sanare quella ferita, quel peccato originale su cui è stato costruito il nostro stato, che è la lotta alla Chiesa cattolica .


Negri – Quella che prima ho chiamato “purificazione della memoria” da parte laicista!.


Pellicciari – Lo dicevo anche in queste due ultime puntate. Su questo punto, sia Pio IX che Leone XIII sono chiarissimi. E difendono nel loro magistero l’identità nazionale italiana, carica di primati dovuti alla presenza a Roma del Papa. Papa che eredita l’universalità romana e la attualizza in senso pieno. Perché, come dice San Paolo: “Non ci sono più schiavi, barbari, uomini e donne, ma tutti sono uno in Cristo”. Allora, l’Italia cattolica, che ha come centro Roma, che eredita la cultura greco-romana, la fa sopravvivere anche per l’apporto che i monaci benedettini hanno dato negli 8 secoli in cui siamo stati invasi dalle popolazioni barbariche: lì ha retto la Chiesa! E ha creato una comunità culturale e religiosa, che è l’Europa. Un’Europa che adesso rifiuta il nome cristiano.

Leone XIII lo dice con molta chiarezza: Se noi apostatiamo la fede, noi italiani, che abbiamo avuto dalla fede privilegi inenarrabili, primo fra tutti la presenza del Papa a Roma, se noi apostatiamo la fede, noi non possiamo che andare verso la distruzione della nostra nazione! Ed è quello che sta succedendo. Don Negri, assieme a me, si augura che ci sia questa minoranza capace di essere con gli occhi in fronte, non sotto i piedi, per vedere le sfide, anzitutto culturali, che dobbiamo affrontare. Don Negri ha ragioni da vendere: il problema è culturale! Come possiamo riacquistare la coscienza della nostra identità culturale? Si riacquista con la fede, chiedendo a Dio il dono della fede. Solo attraverso la fede potremo mettere in atto quel meccanismo di riscatto e di verità! Perché ci è stato inculcato questo disprezzo per noi stessi, che è la causa del fato che siamo una nazione in cui si sta perdendo la virtù della speranza. E da dove si vede questo? Dal fatto che ci stiamo estinguendo: non facciamo più figli! (E ne abbiamo uccisi a milioni con ll’aiuto di una legge dello Stato. N. d. t.). E questa non è una visione pessimistica, ma realistica, della nostra società.


Altra domanda…


Pronto? Sono Raffaella e parlo da Caorle. Vi ringrazio tanto, soprattutto lei, don Negri, perché tutto quello che lei ha detto è sempre stato inciso nel mio cuore. Per un cristiano queste cose sono logiche e si sentono già nel profondo. Purtroppo, quando ho tentato di dar testimonianza di fede, sono sempre stata discriminata e considerata sottosviluppata, bigotta o deficiente, perché non mi sono inserita nei grandi filoni ideologici che mi avrebbero portata forse a guadagnare di più. Ma anche se conto meno per il mondo, in realtà sono con Gesù Cristo. Per questo dobbiamo essere ottimisti. Basta un po’ di lievito… Non siamo mai soli: c’è sempre Gesù con noi, e ci aiuta eccome! Siamo in buona compagnia!


Negri – La ringrazio di questa sua testimonianza, perché è la nostra testimonianza che vince il mondo. «Questa è la vittoria che vince il mondo: la vostra fede», ha detto il Signore. «Dio scrive dritto anche sulle righe storte», diceva il cardinale Giovanni Colombo, uno dei più grandi vescovi di Milano. Quello che mi ha accolto in seminario e ordinato. Noi dobbiamo fare tutto quello che riteniamo giusto per rispondere alla nostra vocazione cristiana e vivere questa testimonianza nel mondo, sperando che a questo succeda anche qualche capacità di incidenza. Ma noi non viviamo dominati, governati dall’esito. Noi abbiamo la certezza che qualsiasi cosa facciamo in bene, il Signore ci merita il Paradiso, come hanno detto i padri del Concilio di Trento. Che in Paradiso ci si arriva perché si accoglie la grazia di Dio e si risponde con libertà, e questo diventa merito di fronte a Dio. Gli uomini possono non accorgersi, ma come spesso dice il cardinale Biffi: “I cherubini, i serafini e gli angeli in Paradiso, insieme a Dio, vedono i nostri meriti”.


Pellicciari – Certamente! Però io mi permetto di aggiungere che Gesù ha detto: “Magari foste intelligenti come quelli del mondo! Siate astuti come i serpenti!”. Perché essere testimonianza vivente di Cristo, non vuol dire essere scemi!


Negri – La testimonianza è una presenza carica di giudizio. Perciò se una fede non giudica, non è fede. E carica di carità. Allora questa è la testimonianza: la testimonianza è investire il mondo di una novità di vita che ha ragioni di sé, che dà ragioni di questa Novità. «Siate pronti a dare in ogni momento ragioni della speranza che è in voi», dice san Pietro nella sua seconda lettera. Quindi, se noi siamo già così, incidiamo già sulla storia, anche se magari non si vede il livello di incidenza. Ma questo lo dimostrerà Dio nell’ultimo giorno.



e ancora...


Pronto? Sono Brigitte, della provincia di Bolzano. Mi è venuto il desiderio di porle una domanda quando lei ha accennato all’argomento del lavoro minorile a cui sono contrarissima. La domanda è: Qual è il miglior modo di onorare il lavoro, soprattutto il lavoro non pagato?


Negri – Io ho citato quello che il Papa diceva nel 1891. Lui non approvava il lavoro minorile. C’era un lavoro minorile che era una cosa orrenda! Credo che la evoluzione politica e sociale del nostro mondo metta oggi in guardia rispetto a quello che sta succedendo ancora in tante aree del mondo, in Africa, in America Latina, in Asia, eccetera. Il lavoro minorile è un immenso delitto, che è poi perpetrato dai paesi più industrializzati del mondo, come la Cina. Noi da più di 100 anni abbiamo detto di no al lavoro minorile, che diventa sfruttamento selvaggio e quindi sostanzialmente strage.

Sappiamo quanto Giovanni Paolo II ha difeso i diritti dell’uomo in tutti i suoi viaggi per il mondo, contro ogni tipo di sfruttamento e contro ogni guerra ingiusta, anche se patrocinata da una potenza democratica.


Pellicciari – Grazie, Don Negri!

Monsignor Negri – Vi ringrazio e vi chiedo una preghiera per la mia diocesi, perché il 19 giugno il Santo Padre Benedetto XVI verrà in visita pastorale alla mia diocesi. Preghiamo la Madonna perché ci sappiamo, in questo incontro, convertire, per essere più forti testimoni di Cristo nel mondo!

Pellicciari – Desidero spendere un’ultimissima parola in riferimento alle celebrazioni per i 150 anni di unità italiana. Penso che tutti gli ascoltatori di questa radio si sentano italiani. Ma, per trovare l’orgoglio sacrosanto di esserlo, è necessario conoscere la nostra storia! Buona giornata!


Diamo voce a chi sceglie la vita di Andrea Tornielli, 24-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Ci sono storie che vanno dritte al cuore, che ci regalano una boccata d’aria fresca, che ci stupiscono facendoci percepire la profondità del mistero della vita e il dono dell’amore. Ci sono storie che non hanno raggiunto il palcoscenico di «Vieni via con me», le affabulazioni e le narrazioni di Roberto Saviano. Qualcuno le chiamerà «pro life», pensando di usare questa espressione in senso negativo.

Eppure, leggendo il racconto dell’esperienza di Mariagrazia Corno che oggi pubblichiamo su La Bussola, non si può fare a meno di constatare come proprio di queste esperienze abbiamo bisogno. Non si tratta di casi rari. La croce di una malattia invalidante, che sconvolge la vita familiare, è portata dalle spalle di tante persone nel nostro Paese. Da tante donne e da tanti uomini. Da tanti giovani. Abbiamo bisogno di sentire le loro voci, perché sulla vita e sulla morte non si decide a cuor leggero, sulla base degli slogan, dei videomessaggi, della caramellosa atmosfera creata da chi sceglie di raccontare soltanto una parte della realtà.

Ha affermato Piergiorgio Corno, ex calciatore e marito di Mariagrazia, che vive tracheostomizzato e immobile in un letto, comunicando grazie a un pannello trasparente dove sono segnate lettere e simboli: «Nella primavera ’99 avevo deciso che non valeva la pena di continuare a lottare, anche se, nel mio intimo non ne ero convinto. Avevo i polmoni vuoti che cercavano disperatamente aria che non arrivava, ma in casa respiravo tanta aria speciale fatta di presenza di affetto e tanto amore dei tre figli e di mia moglie Mariagrazia, anche dei tanti amici, che mi hanno fatto rivedere i miei programmi. Le suppliche accorate dei miei cari: “Rimani con noi”, mi hanno commosso. In un attimo ho rivisto la vita passata assieme, con le tante gioie che Dio ci ha donato e ho deciso di continuare a vivere sottoponendomi alla tracheotomia, consapevole di aver rubato la libertà a mia moglie e ai miei figli. Non è stato facile accettare di vedere spegnersi progressivamente la vita nei miei muscoli.  Ma come sono riuscito a distaccarmi dal mio corpo, ormai inutile, ho avuto il conforto di una inaspettata e pacata serenità, che pian piano si è impadronita, senza che me ne rendessi  conto, di tutto il mio essere. Da quel momento è iniziata per me una vita nuova».

Racconti come questo dovrebbero farci guardare in modo diverso al dibattito sulla legge per il fine vita, che in molti vorrebbero affossare perché vieta eutanasia e suicidio assistito, oltre a stabilire che idratazione e alimentazione non sono cure e non possono essere interrotte. Racconti come questo, insieme all’altro articolo che pubblichiamo oggi e che spiega come (non) funzionano le DAT, dichiarazioni anticipate di trattamento, negli Stati Uniti, dove sono presenti da circa quarant’anni.

Uno studio scientifico mostra che il 30-40% di pazienti colpiti da grave patologia cambia idea rispetto alle cure a cui vorrebbe o non vorrebbe essere sottoposto nell’arco temporale che parte dal momento in cui è insorta la malattia fino a 7 anni dopo. I sostenitori delle DAT rispondono che questo non è un problema, perché le possono essere cambiate con il mutare delle decisioni dell’estensore. Purtroppo però nell’80% dei casi i pazienti non si rendono conto che ciò che loro pensano è diverso da ciò che è stato scritto nelle DAT: cioè non si rendono conto di aver cambiato idea.

Insomma, si tratta di una materia delicatissima, ben più complessa di quanto vorrebbero far credere i sostenitori dell’autodeterminazione. Anche le più recenti statistiche del Belgio dimostrano che in un caso su tre a decidere della vita o della morte sono stati i medici, non i pazienti.


"Desidera morire soltanto chi non si sente amato" di Raffaella Frullone, 24-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

“Chi chiede di morire, in fondo, non si sente amato, si sente un peso, non vede affetto attorno a sé. Lo capisco stando accanto a mio marito, basta un giorno in cui mi percepisce un po’ più stanca, leggermente distante e lui diventa triste. L’amore si trasforma in vita per queste persone”.


Riusciamo a parlare con Mariagrazia Corno solo in tarda serata, dopo averla cercata un giorno intero al cellulare “Sono stata in fiera ad aiutare mio figlio – racconta – poi sono tornata a casa per accudire mio marito e solo ora sono riuscita a rispondere”. Dalla voce si percepisce la stanchezza di una vita spesa per gli altri, ma insieme l’entusiasmo di chi non potrebbe o non saprebbe fare altro. Madre di 3 figli, nonna di 5 nipoti, Mariagrazia è soprattutto la moglie di Piergiorgio Corno, 67 anni, da 17 malato di sclerosi laterale amiotrofica. Ex giocatore di calcio, Piergiorgio vive con la moglie nel comasco. La chiamiamo per farci raccontare la loro vita, la lotta che ogni giorno conducono insieme, per sapere cosa pensano delle parole di chi, come Roberto Saviano e una certa parte politica, vorrebbe introdurre in Italia una legislatura di tipo eutanasico per giungere, infine, alla legalizzazione dell’ eutanasia. Ma parlare di scelte di morte con Mariagrazia ci risulta quasi impossibile perché veniamo travolti dalla sua vitalità che ci fa percepire quando le sue giornate, insieme a quelle di suo marito, siano straordinariamente intense.                                  

Eppure stiamo parlando di sclerosi laterale amiotrofica, malattia neurodegenerativa progressiva che colpisce i motoneuroni, cioè le cellule nervose cerebrali e del midollo spinale che permettono i movimenti della muscolatura volontaria. Una malattia invalidante, che nella sua forma più avanzata costringe il paziente a stare allettato, con gravi difficoltà di movimento, impossibilità all’uso della parola oltre che a deglutire.
“I primi sintomi – racconta Mariagrazia – sono stati legati alla parola. Mio marito faceva il rappresentante per la nostra attività vinicola e cominciava a non articolare bene i vocaboli, una cosa per lui decisamente inusuale. Quando abbiamo accertato che non si trattava di un fastidio passeggero è iniziata la trafila dei controlli, da un medico ad un altro da uno specialista all’altro fino alla diagnosi: sclerosi laterale amiotrofica. Un termine che a noi non diceva nulla, che al momento non ci ha spaventato poiché nessuno ci aveva spiegato il decorso della malattia e soprattutto, anche se lo avessero fatto non ci avremmo creduto”.

Mariagrazia e Piergiorgio decidono di consultare un cugino medico ed è allora che cominciano a intravedere il cammino lungo e difficile che avrebbero percorso: “Quando ho visto l’espressione nei suoi occhi ho intuito che la nostra vita sarebbe cambiata”. E in effetti è stato così. Mariagrazia e Piergiorgio fanno avanti e indietro dai più importanti ospedali italiani, consultano medici, scrivono a specialisti, si recano a convegni, divorano libri e navigano sul web in cerca di una cura che, inevitabilmente, non arriva. Ma non si arrendono e non escludono nemmeno la medicina alternativa, la riflessologia, nessuna strada rimane intentata ma ogni speranza – racconta oggi Mariagrazia – si trasformava inevitabilmente nell’ennesima, terribile, delusione.

Quando Piergiorgio si ammala la più giovane dei loro tre figli ha solo 15 anni, va alle scuole superiori mentre i due fratelli maschi sono universitari. Accanto alle cure, si rendeva quindi necessario continuare a provvedere alle esigenze della famiglia ed ecco che Mariagrazia decide di affiancare il marito nell’attività lavorativa “Piergiorgio aveva difficoltà a camminare quindi io, piano piano, a braccetto lo accompagnavo dai clienti che nel frattempo cominciavo a conoscere”. Sarà stato un periodo molto duro, osserviamo, e Mariagrazia ci sorprende “L’anno più bello della mia vita. Stavamo sempre insieme, incontravamo clienti, andavamo a trovare gli amici. Era una cosa inusuale perché la nostra vita era stata del tutto diversa fino ad allora. Piergiorgio era fuori tutto il giorno per lavoro, il week end era impegnato con il calcio ed io sempre presa con la casa e tre figli da crescere. L’anno della malattia è stato difficile ma al contempo meraviglioso perché ci siamo presi un anno tutto per noi e lo abbiamo vissuto a pieno”.

Non sono mancati i momenti difficili. La malattia comincia presto il suo decorso, arriva la sedia a rotelle, poi la tracheotomia, il sondino naso-gastrico e con essi la necessità di strutturare meglio la casa, di rivedere le priorità della vita quotidiana, di familiarizzare con la malattia, di iniziare a comunicare in maniera diversa. Come era prevedibile Piergiorgio si scoraggia. Riesce a comunicare grazie ad un pannello trasparente sul quale sono fissati simboli, lettere o numeri e grazie a questo scrive numerose lettere. In una di queste si legge: “Nella primavera ’99 avevo deciso che non valeva la pena di continuare a lottare, anche se, nel mio intimo non ne ero convinto. Avevo i polmoni vuoti che cercavano disperatamente aria che non arrivava, ma in casa respiravo tanta aria speciale fatta di presenza di affetto e tanto amore dei tre figli e di mia moglie Mariagrazia, anche dei tanti amici, che mi hanno fatto rivedere i miei programmi. Le suppliche accorate dei miei cari: “Rimani con noi”, mi hanno commosso. In un attimo ho rivisto la vita passata assieme, con le tante gioie che Dio ci ha donato e ho deciso di continuare a vivere sottoponendomi alla tracheotomia, consapevole di aver rubato la libertà a mia moglie e ai miei figli. Non è stato facile accettare di vedere spegnersi progressivamente la vita nei miei muscoli.  Ma come sono riuscito a distaccarmi dal mio corpo, ormai inutile, ho avuto il conforto di una inaspettata e pacata serenità, che pian piano si è impadronita, senza che me ne rendessi  conto, di tutto il mio essere. Da quel momento è iniziata per me una vita nuova”.

Anche per Mariagrazia è iniziata una vita nuova, ma in un altro momento. “Ho cominciato a stare bene quando ho smesso di sperare nella guarigione. Quando ho smesso di cercare disperatamente di riportare mio marito in piedi. Ecco, allora ho cominciato a vedere quello che ancora avevo, e a gustarmelo. In questi anni è vero abbiamo lottato molto insieme, ma abbiamo anche continuato a vivere la vita di tutti i giorni insieme. Abbiamo visto i nostro 3 figli laurearsi, sposarsi, abbiamo visto i nostri cinque nipoti nascere e crescere, abbiamo lavorato insieme perché, nonostante tutto, in casa è mio marito che comanda”. Si commuove a tratti Mariagrazia, ma non perde la voglia di scherzare “Non ho mai visto una persona che non parla, chiacchierare quanto mio marito. Commenta la politica, il calcio, esterna le sue opinioni, ci chiama, si arrabbia, reclama attenzione, racconta, descrive, a volte sono io quella esausta”.

Siete credenti? Chiediamo a Mariagrazia. Lei tentenna. “Mio marito più di me… io sì, ma meno, non come lui. Io sono un po’ come Marta, che nel Vangelo si occupa di rassettare la casa e sistemare”.  “Che non è certo un ruolo di poco conto” obiettiamo. Ma percepiamo che la generosità di questa moglie è così grande da essersi trasformata in umiltà. “Io credo sia insita nel cuore di ogni donna. Quando avevo 20 anni mi sentivo molto vicina al femminismo, rivendicavo la mia libertà, la mia indipendenza come donna, lavoratrice e madre, non volevo un ruolo secondario rispetto a quello di mio marito, la Sla mi ha condotto pian piano alla riscoperta del mio essere donna, essere madre. Credo che il prendersi cura non sia solo un atteggiamento naturale della donna, ma anche una predisposizione dell’animo. Non che l’uomo non ne sia capace, tutt’altro, però in questi anni ho visto e sperimentato come si riscopre e si trasforma l’istinto materno”.

Prima di congedarci da Mariagrazia torniamo sul tema eutanasia. “Per me non esiste e non è mai esistita un’altra scelta. Non le posso raccontare lo strazio di chi è combattuto tra voler vivere o voler morire, perché se mio marito l’ha provata, io, per lui, mai. Sono sposata con lui da una vita, tutto quello che ho affrontato e che affronto, per difficile che sia, è frutto dall’amore che provo, nient’altro. La malattia da sola non conduce al desiderio di morte, ma la mancanza d’amore sì”.


La lezione degli Usa: DAT inefficaci di Tommaso Scandroglio, 24-02-2011, da http://labussolaquotidiana.it

Ma queste Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (DAT) di cui tanto si parla, se un giorno entrassero di uso comune anche nel nostro Paese funzionerebbero? Oppure sono uno strumento pericoloso che contraddice il tanto amato principio di autodeterminazione?

Una risposta indiretta a queste domande può venire dall'esperienza degli Stati Uniti, dove le DAT fecero la loro prima comparsa nel lontano 1967. Quindi la competenza dei medici statunitensi in questo settore può vantare più di 40 anni di esperienza. Un pool di esperti – Puccetti, Del Poggetto, Castigliola, Di Pietro – ha pensato bene di verificare se le DAT made in Usa, che da loro si chiamano living will, siano efficaci oppure no. Per far ciò i nostri esperti sono andati a spulciarsi ben 690 articoli scientifici che parlano di DAT.

Prima di illustrare gli esiti di questa ricerca ricordiamo cosa sono queste dichiarazioni anticipate. Si tratta di un documento in cui un soggetto indica i trattamenti sanitari a cui vuole o non vuole essere sottoposto nel caso in cui insorgesse una grave patologia e non fosse più capace di esprimere un consenso valido, cioè non fosse più capace di intendere e volere. Nelle DAT si può altresì indicare il nome del fiduciario che darà concreta attuazione alle volontà espresse. Ma ora andiamo a scoprire se queste DAT sono utili o dannose per il paziente che non è più cosciente.

Le DAT non esprimono un consenso attuale.
La domanda di fondo che ci dobbiamo porre è la seguente: le volontà espresse nelle DAT sono quelle che il paziente esprimerebbe se fosse cosciente oppure c’è il fondato sospetto che potrebbe aver cambiato idea? La risposta giusta è la seconda. Il 30-40% di pazienti colpiti da grave patologia cambia idea rispetto alle cure a cui vorrebbe o non vorrebbe essere sottoposto nell’arco temporale che parte dal momento in cui è insorta la malattia fino a 7 anni dopo. I sostenitori delle DAT rispondono che ciò non fa difficoltà perché le DAT possono anch’esse mutare contenuto con il mutare delle decisioni dell’estensore. Purtroppo c’è un problema. Nell’80% dei casi i pazienti non si rendono conto che ciò che loro pensano è diverso da ciò che è scritto nelle DAT: cioè non si rendono conto di aver cambiato idea. Ma se non ti sei accorto di aver cambiato idea mai deciderai di cambiare il contenuto delle DAT.

Oltre a ciò i ricercatori evidenziano che la pigrizia nel mettere mano alle DAT gioco un ruolo significativo. A tutto ciò si aggiunge il fatto che c’è un intuibile disagio psicologico nel voler riscrivere un documento che può determinare la nostra morte. E quindi si preferisce rimandare a domani e domani ancora. Ma forse domani sarò in coma e non potrò più modificare le mie DAT. In buona sostanza queste dichiarazioni congelano le volontà del paziente nel passato, non riuscendo ad attualizzarle. In un passato poi in cui nella maggior parte dei casi si era in salute. E qui c’è un altro inciampo: una cosa è decidere della propria sorte quando si è sani, un’altra quando sai che stai per morire, frangente in cui nella maggior parte dei casi ci si aggrappa con tutte le proprie forze alla vita. L’eutanasia viene chiesta dai sani, non dai moribondi.


La sfera di cristallo.
Con le dichiarazioni anticipate decido oggi per il domani, quindi io estensore devo aver un grande capacità predittiva in ordine a tutte le patologie serie o letali possibili e immaginabili e a tutte le relative cure a cui verrò sottoposto nel futuro. Un’impresa davvero impossibile. Oltre a ciò alcuni trattamenti che si vogliono rifiutare perché considerati inefficaci nell’oggi, in futuro con il progresso della tecnica potrebbero diventare efficaci. Si obietta: che si preveda l’estensione delle DAT solo a patologia in corso. Controbiezione: se decidi quando sei malato (es. tumore, Aids) la tua libertà è fortemente condizionata dal dolore e dalla paura, sei schiavo della sofferenza e non puoi decidere lucidamente sul tuo miglior bene. Sotto tortura non si è liberi.


I tecnicismi.
C’è poi il problema della difficoltà di comprendere esattamente i termini tecnici da parte degli estensori delle DAT. In un’indagine inglese è emerso che il 50% delle persone intervistate non conosce la differenza tra arresto cardiaco e infarto. Più del 97% ha idee erronee sull’efficacia della rianimazione cardiopolmonare (in genere è sovrastimata). Nel 50% dei casi in buona sostanza il paziente ha preso Roma per Toma, cioè non ha compreso esattamente tutti i termini tecnici e le conseguenze cliniche del rifiuto di certi trattamenti. Senza dimenticare che le conseguenze dell’interruzione di certe terapie vengono discusse con il medico solo in un caso su tre. I ricercatori poi hanno notato un dato curioso e insieme preoccupante: le percentuali di coloro i quali ritengono che la rianimazione sia miracolosa è molto simile alla percentuale dei successi di tali pratiche nelle serie televisive quali ER.


L’intervento del medico non aiuta.
Si risolve tutto redigendo le DAT con l’assistenza di un medico? Pare di no. Innanzitutto si è scoperto che il tempo medio di colloquio con il medico è di 5 minuti e 40 secondi: eh sì, meno di sei minuti per decidere della propria vita. Poi l’intervento del medico in realtà complica la situazione e di certo non la semplifica. Infatti è stato messo in evidenza che le modalità di informazione influiscono moltissimo sul contenuto delle DAT: in buona sostanza si corre il rischio che sia il medico a scrivere le Dat e non il diretto interessato. Quasi nell’80% dei casi infatti i pazienti cambiano idea a seconda di come ricevono le informazioni: stesse informazioni producono diverse decisioni se comunicate in modalità differenti. Senza poi contare che se le DAT vengono redatte in uno stato depressivo, tipico di chi ha una prognosi infausta, le volontà eutanasiche schizzano verso l’alto. Insomma è comprensibile che siamo tutti molto suggestionabili dagli altri e dell’ambiente se c’è di mezzo la nostra salute.

Il fiduciario da sfiduciare.
Di fronte a tutti questi ostacoli ci si appella alla figura del fiduciario, credendo che grazie a lui si possa superare ogni difficoltà. Ma anche in questo caso le cose non stanno così. A detta degli stessi estensori delle DAT il fiduciario, quasi in un caso su tre, ha la tendenza ad interpretare in modo erroneo le volontà espresse nelle DAT. Questa percentuale di azzeccare gli intenti dell’estensore è pari a quella che abbiamo tirando a sorte. Così il ricercatore Luois Collins: “La comprensione da parte del fiduciario delle preferenze del paziente è risultata solo lievemente migliore del tirare a caso”.

Il fiduciario poi tende a dare l’assenso a staccare la spina con più facilità quanto più il paziente è grave, al di là di ciò che c’è scritto nelle DAT. Inoltre si è visto che il fiduciario in merito ai trattamenti di sostentamento vitale più che rispettare le volontà del paziente tende a proiettare su di lui i suoi desideri, insomma inconsapevolmente è portato a sostituirsi a lui. Inoltre la pressione psicologica dei parenti e amici del paziente gioca un ruolo determinante nelle decisioni del fiduciario. Senza poi contare che se c’è di mezzo un’eredità la tentazione di veder accorciate le sofferenze del moribondo grazie a pratiche eutanasiche è molto alta.


Pollice verso da parte dei medici.
I medici si fidano delle DAT? No per nulla. Infatti nella ultra liberale Danimarca i registri delle DAT vengono consultati “sempre” solo nel 1% dei casi e “spesso” nell’11%. Perché tanta diffidenza? Per i seguenti motivi. Primo: difficoltà ad applicare alla reale situazione clinica del paziente i contenuti inevitabilmente vaghi delle DAT.  In una ricerca si è messo in evidenza ad esempio che solo nel 3,9% dei casi le istruzioni presenti nelle DAT risultarono appropriate alla situazione reale del malato. Secondo: la tendenza dei sanitari ad escludere che non si possa più tentare niente per salvare il paziente, nonostante le indicazioni di segno contrario delle DAT. Terzo: la grande difficoltà di trovare tempestivamente i fiduciari.


Non ci credono nemmeno i pazienti.
Se poi chiediamo agli estensori delle DAT: ma vuoi davvero che le tue volontà siano rispettate letteralmente oppure preferisci che ci sia una certa libertà di manovra da parte di familiari e medici? Tra il 60 e quasi il 90% dei casi nelle DAT è previsto che medici e familiari non siano ammanettati a ciò che c’è scritto in questo documento, preferendo che tali soggetti agiscano liberamente, senza molti vincoli e secondo coscienza. Segno evidente questo che gli stessi diretti interessati hanno poca fiducia nelle dichiarazioni anticipate.


Verso l’abbandono terapeutico.
Le DAT soprattutto per i pazienti anziani incentivano poi una diminuzione dell’ospedalizzazione. In buona sostanza se hai redatto le DAT è più probabile che ti ricovereranno nemmeno. Se invece hai fortuna e vieni ricoverato, ad esempio per infarto o ictus, e nel caso in cui il medico decidesse di seguire le DAT il risultato è quasi l’abbandono terapeutico portando a morte chi si sarebbero potuto salvare, senza tra l’altro riportare conseguenze gravi sul piano della propria salute.


Concludendo.
Chiudiamo cedendo la parola prima ad una task force dell’American Academy of Neurology che ha steso le linee guida per la terapia dei pazienti con SLA, sindrome da cui era affetto Pier Giorgio Welby: “Non sono state identificate prove che le DAT migliorino la qualità di vita in alcuna malattia”. Ed infine al ricercatore James Tulsky: “Dobbiamo superare le direttive anticipate per soddisfare veramente i bisogni dei pazienti assumendo decisioni difficili”.


Capire la rivolta araba di Roberto Fontolan, giovedì 24 febbraio 2011, il sussidiario.net

Per molto tempo avremo a che fare con la rivolta araba e per molto tempo dovremo spingere la ragione a conoscere e comprendere una situazione la cui complessità è troppo alta. Alcuni elementi appaiono comunque chiari, e tra questi il primo e più importante è che le singole vicende nazionali sono molto differenti l’una dall’altra.

In Bahrein e in altri Paesi del Golfo conta la frattura sempre più grave tra sunniti e sciiti rilanciata da quella specie di guerra civile in atto in Iraq e potenziale in Libano. In Tunisia hanno contato l’insofferenza delle generazioni istruite e la presa soffocante sull’intero Paese della famiglia (e cioè di alcune centinaia di persone) della moglie del presidente Ben Ali. In Egitto le condizioni di povertà estrema di quasi metà della popolazione e la mancanza di prospettive sul futuro. In Libia è certamente forte la componente islamista assieme alla massiccia ripulsa della figura del Colonnello e del suo clan.

L’Algeria si colloca a metà strada tra Egitto e Libia e così lo Yemen. In Iran, di cui si sta parlando troppo poco, si tratta della vecchia e pura insopportabilità del dispotismo islamico degli ayatollah. Perciò ci saranno sviluppi diversificati ed è probabile che prima o poi arriveranno anche gli altri: la cupa Siria o le monarchie “illuminate” di Giordania e Marocco o addirittura l’Arabia Saudita. Ma non è certo, dipenderà da come i rispettivi governanti sapranno sopravvivere al tramonto dei loro vicini.

Ma se sono così diverse le situazioni, come è potuto propagarsi l’incendio scoppiato all’inizio nella piccola e poco influente Tunisia? Perché è evidente che ci sono dei fattori comuni e uno di questi è proprio l’“arabità”, il sentimento di far parte di uno stesso “mondo” al di là di tutti i particolarismi nazionali, a volte ferocemente incentivati dai leader (ancora voglio citare un illuminante libretto: L’infelicità degli arabi del giornalista libanese assassinato nel 2005 Samir Kassir).
In tempi moderni uno dei collanti di questo sentimento profondo è l’ostilità contro Israele, in uno spettro che va dalla critica alla politica dello Stato di Israele, diffusa negli ambienti cristiani, all’antisemitismo vero e proprio. È un elemento tra i tanti, ma tra i più contundenti: basti pensare al comizio-predica di Youssouf Qaradawi nella piazza del Cairo di qualche giorno fa.

Un secondo fattore è l’esplosione contagiosa del desiderio di una nuova vita: la libertà, soprattutto, nelle sue espressioni civili economiche sociali individuali, e poi il bisogno di maggior benessere, conoscenza, autenticità.

Un terzo è la cancrena terminale del modello dei regimi autoritari “laici” o a basso tasso di islamismo, quelli nati dal baathismo, dal nasserismo, dai colpi di Stato; un modello che in campo religioso era impostato sullo scambio “preghiera nelle moschee e poteri al rais”, includendo in esso una certa libertà religiosa per le minoranze cristiane - e da qui dipendono gli odierni timori delle gerarchie delle chiese.
Oggi tutti, in Oriente e Occidente, ci domandiamo ansiosamente cosa succederà. Alcuni sono già iscritti al partito del “si stava meglio quando si stava peggio”, altri a quello del tardivo recupero della già fallita “Freedom Agenda” di Bush, altri ancora sono dilaniati dal dilemma democrazia-stabilità. Di fatto sono tutte posizione anacronistiche, cioè fuori tempo, fuori da una realtà che straripa come i fiumi d’autunno e che porta con sé il facile e il difficile, il chiaro e l’incomprensibile, il fondamentalismo islamico e la mossa imperiosa della libertà, i sussulti di un vecchio mondo e i germogli di una nuova comprensione tra cristiani e musulmani, il mistero stesso di una serie di eventi così sconvolgenti (il mistero è connaturato alla realtà).

Questa realtà non verrà ingabbiata dagli schemi, né fermata dalle paure, ma continuerà a sfidare gli uni e le altre. E a provocarci con il suo richiamo: costruire, costruire, costruire.


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SCUOLA/ Cari letterati, ecco chi vincerà la sfida tra l’analisi e il "cuore" di Feliciana Cicardi, giovedì 24 febbraio 2011, il sussidiario.net

Ho un amico, docente di ingegneria meccanica al Politecnico e di formazione scientifica, che divora libri di alta letteratura e saggi di filosofia. Ho un altro amico, studi umanistici, che va di libreria in libreria a cercare come un rabdomante testi che illustrino teorie ed analisi del modus vivendi passato e attuale. Ho un figlio che ha poca dimestichezza con i libri in cartaceo ma che legge molto da internet come fonte di informazioni e di conoscenze che gli facciano amare di più il suo lavoro ma anche che lo facciano andare oltre la pura informazione funzionale hic et nunc. Per quanto riguarda me, devo confessare di essere un’onnivora della pagina scritta. Golosa e senza freni, sostenuta dalla speranza di saper distinguere il grano dal loglio.

Eppure è giudizio diffuso che gli italiani leggono poco e che questo fenomeno sia da imputare in buona parte alla scuola. Chi ha a che fare con figli, nipotini, alunni, sperimenta la grande curiosità e l’interesse che un bambino già a tre anni manifesta per il libro, da cui si aspetta una “storia”. Una storia che deve essere ripetuta compulsivamente identica, senza cambiamenti di parole. Dopo aver ascoltato le parole lette dall’adulto “…e diventarono amici” Matteo, tre anni, ha esclamato estasiato “Amici!! Sono amici!!!” (i punti esclamativi sostituiscono malamente il tono di stupore e di gioia che ha accompagnato le parole). Il bimbetto, che ha iniziato a prendere familiarità con l’esperienza dell’amicizia (del rapporto con altri bimbi), ha potuto dare un senso alla parola amici. Non ne chiede il significato, glielo attribuisce a partire dal suo vissuto.

Questo esempio dal vero per dire che la questione del piacere della lettura, che va scemando mano a mano che si innalza l’età e la scolarizzazione, sta proprio nella distinzione tra significato e senso. Il significato è ciò che viene trasmesso e universalmente dalle parole che appartengono ad un codice linguistico condiviso. Il senso è il significato fatto proprio e commisurato con la propria persona che ha esperienze cognitive e di vita proprie. Il senso nasce da un paragone tra un testo e la propria esperienza. È l’io che si mette in relazione. Già. Perché l’atto del leggere è un incontro, a volte appagante, confermante, a volte, anche, faticoso ed estraneo a sé.
Nella scuola si privilegia l’educazione alla comprensione del significato, e ciò di per sé non è male, è solo un po’ limitante. Molta analisi testuale ha rischiato di uccidere l’avventura di un incontro. Leggere è paragonare il proprio io con la realtà, la realtà tutta. Si dimentica a volte che nella scuola non si legge solo narrativa. Si legge per godere delle parole che narrano e disegnano storie, personaggi, eventi, ma si legge anche per “conoscere” fenomeni, leggi della natura (si pensi ai testi scientifici).

In ogni caso la lettura va vista come un incontro. Nella narrativa si fa un incontro con esperienze, con caratteri umani, con delle vite. Nei testi di studio si incontra la realtà nelle sue manifestazioni fisiche e temporali. Nei saggi e testi argomentativi ci si paragona con teorie e pensiero. Ciò che ammazza il piacere (direi quasi il bisogno) della lettura è la sua riduzione ad abilità puramente scolastica, finalizzando l’atto del leggere ad un’utilità altra. Devo capire un testo per poterne fare il riassunto, per poter rispondere alle domande dell’apparato didattico, per poter sostenere un’interrogazione o una verifica. È vero, c’è anche questo scopo secondario e funzionale. Ma leggere deve avere valore per sé, come atto stesso del leggere. Perché ciò non si riduca a pura e incontrollata emozionalità o assunzione incondizionata di narrazione e conoscenze occorre educare la persona alla conoscenza di sé e all’assunzione di criteri e di pensiero. Qui sta il compito delicato e irrinunciabile della scuola, che può andare in parallelo con l’offerta di tecniche strumentali ed efficaci per la padronanza dell’abilità di lettura.

Senza  bamboleggiamenti o precocismi che blocchino o sconcertino i lettori. Un testo può suscitare curiosità, emozioni, attrattiva o repulsione a seconda dell’età che si abita, delle stagioni della vita, dei luoghi e delle persone che hanno proposto e/o consigliato il testo stesso. Credo che tutti abbiano fatto l’esperienza di rileggere a distanza di anni un romanzo, un racconto, e rigiudicarlo, a seconda della vita esperita, banale o suscitatore di riflessioni e di paragoni con sé. E ciò non dipende solo dalle caratteristiche linguistiche del testo, dai suoi contenuti, dalle difficoltà sintattiche e lessicali. Alcuni libri per bambini sono scritti a partire da un pensiero e da una sensibilità adulti.
In quest’ottica la scuola può cancellare il piacere della lettura o può suscitarlo e sostenerlo. Annulla il piacere di leggere quando rende tale abilità uno strumento utile solo per le attività scolastiche. Promuove il piacere della lettura sostenendo, valorizzando e facendo crescere l’io dello studente che pone un sé consapevole nel paragone con la pagina scritta. Mantenendo aperta la curiosità sull’altro da sé (altro umano e culturale) che suscita domande alla realtà e a sé. Strutturando le occasioni di lettura come “incontri” di umanità e di pensiero.

È un lungo cammino che ciascuno intraprende e prosegue con le scarpe da trekking ai piedi, passo dopo passo, concedendosi delle soste quando si incontra una difficoltà o un particolare che attrae, o accelerando l’andatura se si intravvede in lontananza una meta intermedia che si anela conoscere. Se sono, leggo, se leggo imparo a conoscermi meglio. A scuola e per tutta la vita.
Amici libri!
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Il biotestamento in discussione al Parlamento: una serie di articoli, da http://www.portaledibioetica.it

BIOTESTAMENTO: GIOVANARDI, DOPO CASO ELUANA E' CHIARO CHE SERVE LEGGE

(ASCA) - Roma, 23 feb - E' necessario varare la legge sul testamento biologico perche' ''non si puo' lasciare la decisione al singolo magistrato'' con il rischio che ''si ripeta una vicenda come quella di Eluna Englaro''. Lo ha sottolineato il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega al contrasto delle tossicodipendenze, Carlo Giovanardi, a margine della presentazione, oggi a Palazzo Chigi, della campagna antidroga del Governo, intervenendo sulle polemiche in corso in merito al ddl sul biotestamento che si appresta ad approdare in aula della Camera a marzo, e commentando la posizione espressa dal ministro della Cultura, Sandro Bondi, che, in una lettera al ''Foglio'', si e' schierato contro il provvedimento invitando a ''rispettare le scelte dell'individuo''.
Giovanardi spiega di aver cambiato posizione rispetto ad anni fa: ''Pensavo fosse un problema da risolvere tra medico e paziente, ma ora sono pervicacemente convinto che serva una legge''. D'altronde, prosegue il sottosegretario, ''il caso di Eluana ci ha portato a una drammatica situazione in cui un essere umano, senza una sua volonta' certificata, e' stato lasciato morire di fame e di sete, siamo stai messi di fronte a un caso di eutanasia anche molto doloroso e crudele, che fa si' che il Parlamento debba regolamentare questo tipo di situazione''. Adesso, conclude, ''trovare il confine tra accanimento terapeutico ed eutanasia non e' facile, ma non si puo' lasciare al singolo magistrato di ripetere vicende come quella di Eluana''.

map/sam/ss
23-02-11

Fonte: http://www.asca.it


Biotestamento, Ferrara contro
VATICANISTA DE LA STAMPA

«Lastricata di buone intenzioni ma sbagliata irrimediabilmente». Giuliano Ferrara boccia il ddl sul fine vita in discussione in Parlamento e invita il centrodestra a ripensare la legge. «È in sè pasticciata e contraddittoria una legge in cui si dice al cittadino: fà pure testamento, ma sappi che non sarà vincolante, e che su due punti cruciali come l'idratazione e la nutrizione artificiale di persone in stato vegetativo, la tua volontà non può essere ascoltata», scrive Ferrara, che sottolinea come la legge «tradisce le buone intenzioni di coloro che la propongono». «Non credo nell'autodeterminazione come mito moderno. Ma credo -prosegue Ferrara- nell'autonomia della persona, specie in fatto di libertà di cura, e penso che la vita indisponibile debba essere accudita dal soggetto interessato, finchè e come può, e dai suoi cari. Meglio un prete, una donna, un compagno affettuoso, gli occhi di un bambino o la barba di un filosofo al mio capezzale, piuttosto che il documento di un legislatore. Qualunque cosa sia scritta in quel documento, e peggio ancora se ci sia scritto che la mia volontà non vale o è solo una impotente funzione consultiva». «Suggerisco ai deputati del centrodestra di ripensarci. E ai vescovi italiani di non farsi intrappolare in un meccanismo che domani potrebbe travolgere anche le loro buone intenzioni. Chiedo a tutti di tenere conto dell'indivisibilità di una nozione liberale dell'esistenza, e del rispetto cristiano per la persona umana. Anche se i neopuritani del Palasharp, e il solito scrittore banale -conclude Ferrara- sono in prima linea nel combattere in questa legge la cultura con la quale mi identifico, non amo questa legge».

22/2/2011



Biotestamento/ In aula 7 marzo, ma su ddl è iniziato fuoco amico
Le riserve di Bondi e Ferrara

Non solo Saviano, non solo Stefano Rodotà, non solo il fronte laico o 'laicista' capitanato da Beppino Englaro e dal senatore-chirurgo del Pd Ignazio Marino. Mentre la conferenza dei capigruppo della Camera fissa per il sette marzo la data di avvio della discussione sul testamento biologico, prima Giuliano Ferrara, poi Sandro Bondi esprimono dubbi pesanti sul disegno di legge sinora difeso strenuamente dal centrodestra. Non che alla discussione in Senato siano mancate voci dissonanti anche nella maggioranza, a partire da quelle di Beppe Pisanu, del valdese Lucio Malan e di Giuseppe Saro, friulano come il padre di Eluana Englaro e suo amico personale. Per non parlare del fronte 'finiano', o almeno di alcuni fedelissimi del Presidente della Camera come Benedetto della Vedova, prima scettici, poi apertamente ostili al ddl sul biotestamento. Ma ora, alla stretta finale a Montecitorio, la fronda si allarga. Apre il fuoco amico il direttore del 'Foglio', quel Giuliano Ferrara che portò sul sagrato di piazza duomo a Milano le bottiglie d'acqua che simboleggiavano il sostegno vitale ad Eluana e, prima di allora, aveva guidato una liste elettorale 'pro life' e anti-l'aborto. La legge, ha scritto ieri, è "lastricata di buone intenzioni", ma "sbagliata irrimediabilmente". E' "pasticciata e contraddittoria" perché "si dice al cittadino: fa pure testamento, ma sappi che non sarà vincolante". Ancora: "Meglio un prete, una donna, un compagno affettuoso, gli occhi di un bambino o la barba di un filosofo al mio capezzale, piuttosto che il documento di un legislatore". Stoccata finale: "Suggerisco ai deputati del centrodestra di ripensarci. E ai vescovi italiani di non farsi intrappolare in un meccanismo che domani potrebbe travolgere anche le loro buone intenzioni". In serata, il quotidiano di Ferrara diffonde l'anticipazione di un intervento di Sandro Bondi, ministro del Governo Berlusconi e coordinatore del Pdl, che rincara la dose: "La mia opinione - scrive - è che quando si verificano certe condizioni, la decisione debba essere presa, con cristiana umanità e con sana ragionevolezza, rispettando la volontà espressa precedentemente da ciascuno i noi, insieme ai medici e ai familiari, come si usava non molto tempo fa, quando si interrompevano le cure ospedaliere e si permetteva che i malati potessero trascorrere gli ultimi momenti della propria vita a casa propria circondati dall'affetto dei parenti". Certo, il 'Foglio' oggi pubblica anche la replica della sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella ("Ma la politica deve impedire l'eutanasia per sentenza"). Ma c'è anche un articolo di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, firme tradizionaliste del giornale di Ferrara, che espongono il loro "punto di vista cattolico" e spiegano che "la via maestra è la contestazione delle sentenza 'creative'".



Barricata bipartisan contro il ddl sul biotestamento - Tags: Biotestamento, eugenia-roccella, Sandro-Bondi, sasso nello stagno - Un commento

Cosa ci fanno assieme Stefano Rodotà, Ignazio Marino, Beppino Englaro, Roberto Saviano, Giuliano Ferrara e il ministro Sandro Bondi? Possibile che personalità così differenti e spesso impegnate su fronti opposti, seduti poche settimane fa gli uni al Palasharp, gli altri al Teatro Del Verme, si ritrovino ora dalla stessa parte della barricata? Sì, se di mezzo c’è il ddl sul biotestamento.
Un provvedimento fermo da più di due anni in Parlamento e che continua a spaccare in due la società e la politica italiana; persino i partiti come il PdL, diviso tra laici e cattolici, tra chi sostiene sempre e comunque il primato della libertà dell’individuo e chi vede dietro la volontà del singolo di rifiutare l’accanimento terapeutico lo spettro dell’eutanasia. Perché più che la presa di posizione nei giorni scorsi dello scrittore Roberto Saviano, che ha bollato il provvedimento come illiberale, a colpire in questi giorni è il botta e risposta sul Foglio tra il ministro Sandro Bondi e il sottosegretario Eugenia Roccella.
Secondo il ministro, concordando con quanto affermato in un editoriale di Giuliano Ferrara,  «idratazione e nutrizione obbligatori e vincolanti» sono «punti deboli del testo» e bisognerebbe, invece, lasciare la decisione ai singoli, rispettando «con cristiana umanità e con sana ragionevolezza, la volontà espressa precedentemente da ciascuno». Di diverso avviso è Eugenia Roccella: occorre, anche se non la si condivide in toto, una legge per fermare «l’invasività dei magistrati» e «l’eutanasia per sentenza». Anzi. «Non credo - si legge in alcuni stralci dell’intervento - che qualcuno possa amare una legge che entra nell’intimità dell’ultimo respiro. Non amerò, dunque, questa legge più di quanto ami quella sulla procreazione assistita. Ma la realtà chiede di essere governata».
Già, troppo spesso su temi etici quali fine della vita, coppie di fatto e fecondazione assistita il vuoto legislativo dà adito alle più diverse interpretazioni dei giudici, costretti a districarsi in un ginepraio normativo che tuttavia non chiarisce ancora ciò che è concesso oppure no nel nostro paese. Quindi, a prescindere da come la si pensi (come la barricata che va da Bondi a Saviano o come il fronte cattolico rappresentato dall’ex radicale Roccella), è bene che il Parlamento faccia chiarezza in materia e che non siano i tribunali a decidere di volta in volta.
Anche se la politica, che spesso accusa la magistratura, alla fine dei conti non può lamentarsi, se  per approvare un provvedimento impiega più di due anni. Come è il caso del ddl Calabrò sul biotestamento (che in realtà ha un titolo leggermente diverso: Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento).
Un iter iniziato il 9 febbraio 2009 con la morte di Eluana Englaro e che ha tagliato subito il primo traguardo, l’approvazione al Senato, dopo meno di due mesi, il 26 marzo 2009. Ma che si è affossato alla Camera: prima 10 mesi alla commissione Affari sociali, che ha modificato alcuni punti, tra cui quello sull’idratazione e nutrizione (su cui non sarà possibile esprimersi, in quanto non considerate più terapie, ma sostegno vitale), poi il passaggio alle comissioni Bilancio, Affari costituzionali, Affari esteri e comunitari e, infine, Giustizia, che lo ha licenziato martedì, puntando però il dito contro l’altro nodo centrale del provvedimento: la non vincolatività delle dichiarazioni di trattamento anticipato. Il testo, comunque, sarà calendarizzato in aula a marzo. Salvo imprevisti. Intanto, ne siamo certi, continueranno a scorrere fiumi di inchiostro.



Avvenire.it, 23 febbraio 2011 - LA FAMIGLIA NEL MIRINO - Obama: la legge che vieta i matrimoni gay è incostituzionale

L'amministrazione di Barack Obama ha deciso di rinunciare alla difesa in sede di corte federale del Defense of Marriage Act, la legge che dà valore legale solo ai matrimoni fra uomini e donne. Lo ha annunciato il Dipartimento di Giustizia. Di fronte a due ricorsi presentati contro la legge, approvata nel 1996 per impedire che qualche Stato potesse varare norme in favore delle unioni fra persone dello stessosesso, Obama ha concluso che la legge è "incostituzionale", ha scritto in una lettera al Congressoil procuratore generale, Eric Holder.

Il presidente, dopo aver esaminato "una documentato elenco di discriminazioni" in base all'orientamento sessuale, si è convinto del fatto che il Dipartimento di Giustizia non debba procedere alla difesa della legge, che impedisce ai matrimoni fra gay di essere riconosciuti a livello federale. Obama, scrive ancora Holder, ha deciso che la legge "viola i principi del Quinto Emendamento" e che non sussistono più "basi razionali" per discriminare le coppie formate da persone dello stesso sesso.


Il congresso - Il benessere? Passa da un’etica rinnovata - Alla Pontificia Università della Santa Croce a Roma due giorni di confronto sul pensiero bioetico Sgreccia: l’aborto, immane delitto «Occorre rafforzare il legame dell’uomo con il suo Creatore» E la tecnica non può dettare l’agenda dei comportamenti di Graziella Melina, Avvenire, 24 febbraio 2011

In Italia negli ultimi 30 anni «abbiamo perduto 5 milioni di persone». Un «immane delitto» da addebitare al ricorso che si è fatto all’aborto, ma che è senza dubbio il risultato di quello che l’era secolare ha portato con sé: una «perdita di orizzonte», «un’incapacità della società a trovarsi un equilibrio». Nella lectio introduttiva all’VIII Congresso internazionale della Fibip (la Federazione internazionale dei Centri e Istituti di bioetica personalistica), martedì e ieri a Roma, alla Pontificia Università della Santa Croce, sul tema «Il pensiero bioetico contemporaneo», il cardinale Elio Sgreccia, presidente del comitato scientifico della federazione che raccoglie oltre 40 centri italiani e stranieri di bioetica, è partito proprio da dati di fatto: «Crollano i matrimoni, anche civili. Si esige la liberalizzazione di cose come aborto, eutanasia. Oppure il matrimonio tra persone dello stesso sesso». uando è comparsa «l’enciclica
QEvangelium vitae – ha ricordato – Giovanni Paolo II auspicava che ci fosse un rinnovamento forte. Sperava di vedere una ripresa». E invece ora «la situazione sul campo storico non è migliorata, in qualsiasi continente».

La causa di fondo è insomma «un affievolimento della considerazione del valore dell’uomo e della persona umana. C’è una deriva delle forze senza guida», ha rimarcato Sgreccia, ma per uscirne «bisogna rafforzare il legame dell’uomo con l’essere e l’azione del suo Creatore che pone in atto il nostro essere e continua a guidarlo».A dare manforte a questa deriva sono senz’altro le tecnoscienze. «Oggi – ha spiegato infatti Giorgio Israel dell’Università 'La Sapienza' di Roma – stiamo assistendo a qualcosa che ribalta la concezione classica della scienza. C’è l’idea che la tecnica può andare avanti da sola». Con conseguenze molto importanti sul piano dell’etica: «la tecnoscienza investe l’essere umano, considera l’uomo come un complesso biologico modificabile», «assoggettabile a un’analisi dello stesso tipo dei fenomeni inanimati e della natura».

Sta prevalendo insomma l’idea che «si possa costruire un’etica sulla base delle tecnologie», per arrivare ad accettare la «distruzione della dimensione antropologica».

«La vita umana – ha poi sottolineato Sergio Belardinelli, dell’Università di Bologna 'Alma Mater' – è sempre più sottomessa alle istanze di un potere che pretende di definirne i contorni in termini puramente funzionali, quindi senza alcun riferimento all’umanità», che invece «dovrebbe rappresentare il presupposto indisponibile di qualsiasi funzionalizzazione». Piuttosto che al 'bene umano' e al 'bene comune', «tutto viene ricondotto al più radicale individualismo, nella convinzione che ognuno debba poter realizzare come, dove e quando vuole, i propri desideri di felicità». Non solo, stiamo assistendo ad una manipolazione della verità, come ha poi ribadito Maria Luisa Di Pietro, dell’Istituto di igiene dell’Università Cattolica di Roma. «Spesso la parola è strumento di dominio per addolcire la realtà.

Dobbiamo stare in guardia – ha ammonito – dagli equivoci semantici come eutanasia, oppure ai neologismi come contraccezione di emergenza».

D’
altro canto, l’informazione su questi temi «è diventata sempre più emotiva». «Non conta più ciò che è vero – ha spiegato il giornalista di Avvenire Francesco Ognibene – ma quanto si riesce a scuotere l’opinione pubblica». Di fronte dunque alla «possibilità tecnica di distruggere l’umanità e scivolare nella disumanizzazione», ha quindi messo in guardia Gioacchino Spagnolo, dell’Istituto di bioetica dell’Università Cattolica di Roma, «c’è bisogno di una biologia e una antropologia più ricca e naturale. Di un’etica del benessere umano non solo sul piano fisico» che sappiano garantire «la dignità umana».


Se la vita diventa «disponibile» crolla il diritto - contromano - di Claudio Sartea, Avvenire, 24 febbraio 2011

Il manifesto promosso da un quartetto di insigni docenti è una curiosa mescola fra desideri e impossibili giuridici Gestire in modo soggettivo la dignità nel vivere e nel morire non è dato agli uomini e tanto meno alle leggi
Autodeterminazione: così s’intitola l’appello proposto da poco alla sottoscrizione online dei cittadini da parte di un quartetto di giuristi del rango di Gilda Ferrando, Alessandro Pace, Pietro Rescigno e, naturalmente, Stefano Rodotà. Il sottotitolo è meno serioso, più sloganistico: «No alla cancellazione del diritto fondamentale alla autodeterminazione». Vediamo di che cosa si tratta. I diritti fondamentali sono quelli su cui è costruito un ordinamento, come sulle propria fondamenta. L’autodeterminazione – termine giuridico appartenente al diritto internazionale e relativo appunto al diritto all’autodeterminazione dei popoli, che ha storicamente legittimato le richieste di indipendenza delle ex colonie del Sud del mondo, e poi è stato applicato alla disgregazione dell’ex impero sovietico e in vari altri casi, fino alle rivolte nordafricane dei giorni nostri –, viene oggi sforzata perché possa costituire un riferimento tecnico al servizio delle libertà individuali. Fin qui, niente di male davvero: la libertà costituisce uno dei valori chiave per la riflessione antropologica, è una parola ricchissima che custodisce buona parte del mistero dell’uomo e del diritto. La proposta del quartetto di giuristi è pero più ambiziosa: intende utilizzare questo termine d’importazione, come grimaldello per scassinare uno dei – pochi, tutto sommato – principi cardine di ogni ordinamento giuridico: quello
Rdell’indisponibilità della vita umana. La vita biologica di ognuno di noi è indisponibile: è cioè sottratta anzitutto alle pretese altrui (la punizione dell’omicidio così come di ogni offesa all’integrità fisica è antica quanto il diritto), ma è anche sottratta, nel suo livello radicale che riguarda le decisioni di riceverla e toglierla, anche al singolo vivente. igettare questa constatazione, che oscilla, come tutto il diritto, tra la sfera dell’essere e quella del dover essere, ma non per questo perde credibilità, implica l’abiura ad uno dei valori davvero «fondamentali»: lo scopo stesso dell’ordinamento giuridico, a cui almeno questo dovremmo poter chiedere, proteggere e promuovere primariamente la vita (per poi magari, messa al sicuro la cosa essenziale, attrezzarsi al fine di proteggere e promuovere le libertà che ne derivano e la caratterizzano ordinariamente – ma non essenzialmente: si pensi alla fase della vita nascente, a cui tutti abbiamo appartenuto, alla patologie gravi e invalidanti, a cui molti prima o poi andiamo incontro, agli handicap ed alle deficienze psichiche). Bell’affare faremmo a sottoscrivere un contratto sociale che ci assicura in modo efficientissimo i trasporti pubblici, ma non si cura della nostra sopravvivenza; o che differenzia scrupolosamente la raccolta dei rifiuti, per riciclare e rispettare la biosfera, ma non impone regole e misure di salvaguardia della vita degli umani che popolano questa biosfera, dall’obbligo delle cinture di sicurezza e del casco, fino alla normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (che non è negoziabile dietro accordo tra datore e prestatore di lavoro, e non riguarda dunque beni «disponibili»). Quella proposta dal quartetto di insigni giuristi è una curiosa mescola di bei desideri e di impossibili giuridici. A tutti piacerebbe «governare la propria vita» e gestire soggettivamente «la dignità nel vivere e nel morire»: ma non è dato agli uomini, e tanto meno al diritto umano, di poterlo fare davvero.


Il testo di legge in discussione alla Camera susciterà molte discussioni, e diverse di esse avranno probabilmente una caratura elevata, come capitò in Senato. È un testo umano, certamente perfettibile. Verrà modificato, magari dalle sentenze costituzionali. Genera varie perplessità, non c’è dubbio. È però ingeneroso affermare che esso sia «ingannevole», «ideologico», «autoritario». Non inganna, perché l’alleanza terapeutica viene per la prima volta menzionata in un testo legale e, almeno fino ad un certo punto, viene correttamente presentata. È meno ingannevole additare come chiave per la svolta giurisdizionale sul diritto di autodeterminazione una breve sentenza costituzionale sul consenso informato, che il 15 dicembre 2008 ha dichiarato una legge regionale piemontese incompatibile con l’articolo 32 perché sottraeva alla legislazione nazionale la regolazione del ricorso a sostanze psicotrope nella cura di patologie psichiatriche infantili?

Quanto all’ideologia, occorrerebbe dimostrare dove sta la verità: ma per farlo non basta riferirsi ad «ormai consolidati diritti», che per di più (come quello al rifiuto o sospensione delle cure) non mettono per forza in discussione il principio d’indisponibilità bensì riguardano specificamente la relazione clinica e il divieto, questo sì costituzionale e comprensibile, di trattamenti sanitari obbligatori. Quanto infine alla natura autoritaria del testo, potremmo osservare che l’autorità senza verità, che ci ricorda tanto Hobbes, primo grande teorico dello statalismo, è se mai quella proposta da chi sostiene che ha la prevalenza «la volontà individuale» rispetto ai «legittimi punti di vista»: che, in altri termini, in un discorso di ragione deve paradossalmente prevalere la volontà sulle buone ragioni.

Ammesso, ma non concesso, che un simile argomento possa funzionare, nel nome della tolleranza e del quieto vivere, quando parliamo di relazioni intersoggettive, ci vuole troppa «ambizione» per proporlo in sede pubblica, al momento di discutere in modo democraticamente maturo sulla fine della vita umana e su una legge da cui tutti dovrebbero potersi sentire tutelati.


«Diritto di morire», pericolo per chi è più debole - Luciano Eusebi argomenti - Nelle situazioni in cui è ormai irrecuperabile uno stato di salute piena vi sarebbe una fortissima pressione nei confronti del paziente (e della famiglia) a fare un passo indietro, liberando la società dall’onere di farsi carico di alcuni malati e disabili, di Luciano Eusebi*, Avvenire, 24 febbraio 2011

Certe attribu­zioni di di­ritti, se non tengono conto di tut­te le esigen­ze connesse alla tu­tela delle persone in­teressate, possono dar luogo a risultati opposti a quelli di­chiarati. Ed è per questo che negli Stati de­mocratici non tutto si risolve secondo la prospettiva contrattualistica: soprattutto quando sia in gioco la migliore realizza­zione sostanziale dei diritti di soggetti de­boli (si pensi, per esempio, ai rapporti di la­voro). Il fatto che nella società democratica possano darsi regole comportamentali con­divise non ha nulla a che fare con visioni conservatrici o paternalistiche.
Il cosiddetto «diritto di morire» rende an­cor più deboli i soggetti deboli e la sua i­stituzione non è affatto necessaria per e­vitare gli oltranzismi terapeutici, né per con­sentire che elementi del vissuto personale entrino nella valutazione circa l’adeguatez­za di una terapia. Il diritto di morire fa sì, infatti, che nelle situazioni di precarietà e­sistenziale, in cui è ormai irrecuperabile u­no stato di salute piena, la prosecuzione del­le terapie (pur proporzionate) in atto non costituisca più la normalità, ma dipenda da una richiesta del singolo alla società: con u­na fortissima pressione psicologica e cultu­rale nei confronti del paziente (e della fa­miglia) a fare un passo indietro, liberando la società, con una sorta di atto solidaristi­co al contrario, dell’onere che il farsi carico della sua condizione comporta. Non possiamo continuare a non vedere, in nome di teorizzazioni astratte, che dietro a­gli interrogativi concernenti la gestione del fine vita e delle cronicità patologiche gravi si celano questioni delicatissime di caratte­re economico. Questioni che è troppo faci­le eludere prospettando all’opinione pub­blica l’idea di una medicina che congiura contro il malato, dalla quale è dignitoso di­fendersi facendo valere contro il medico la propria autodeterminazione a morire: po­sizione, questa, diametralmente opposta al­la logica dell’alleanza terapeutica.
Come, del resto, non possiamo dimenti­care che situazioni invalidanti o dege­nerative, tuttavia non terminali né so­stenute attraverso terapie intensive, posso­no essere portate a una conclusione rapida – se si escludono condotte eutanasiche di­rette – solo attraverso l’interruzione dell’i­dratazione e dell’alimentazione. Attività le quali, pur quando realizzate mediante in­terventi sanitari, hanno una natura del tut­to particolare, poiché non contrastano al­cuno stato patologico, essendo necessarie allo stesso individuo sano. Per cui, non trat­tandosi di terapie, rimangono dovute an­che nelle situazioni terminali (sempre, ov­viamente, che l’organismo sia in grado di fruirne).
Non è per nulla ovvio, dunque, che il pa­ziente risulti al meglio tutelato ove una dichiarazione formalmente corretta con cui richieda (o si richieda a suo nome) di interrompere terapie già in atto rilevi a pre­scindere da qualsiasi valutazione medica circa il contesto in cui esse risultino ope­ranti: ammettendosi, in tal senso, che il me­dico possa interrompere anche presidi te­rapeutici del tutto proporzionati e, conse­guentemente, possa attivarsi in concreto per la morte del malato (il che costituirebbe u­na novità assoluta per l’ordinamento giuri­dico).


Ciò, fra l’altro, priverebbe il medico di qualsiasi ruolo proprio e lo rendereb­be, di fatto, un mero esecutore. Venen­do a delineare una realtà molto più rigida di quella in cui il medico, considerati tutti i fattori in gioco (anche quelli psicologici e personali), sia tenuto a operare un giudizio complessivo circa il persistere del carattere proporzionato di una data terapia, secon­do una modalità ben più consona, di nuo­vo, allo spirito dell’alleanza terapeutica.

Del pari, non è affatto ovvio che il miglior interesse del paziente e il miglior rapporto di quest’ultimo col medico si realizzino prevedendo che u­na dichiarazione anticipata di trattamento possa esigere da un medico operante nel fu­turo, per il caso di incapacità del malato, di non attivare te­rapie a prescindere – pure in questo caso – da qualsiasi va­lutazione sul contesto attua­le in cui quelle terapie ver­rebbero a inserirsi. Ipotesi che porrebbe il personale sanita­rio nella condizione di dover accedere alla richiesta di sta­bilire un rapporto col malato, ma escludendo a priori l’uti­lizzazione di presidi i quali, al momento in cui tale rappor­to si concretizzi, potrebbero rivelarsi del tutto proporzio­nati: dunque, di stabilire un rapporto col paziente finaliz­zato in concreto non alla sal­vaguardia della sua salute, ma alla sua morte. Laddove la stessa Convenzione europea di biomedicina («di Oviedo») vede piuttosto nelle dichiara­zioni anticipate un elemento necessario per la valutazione del medico, in un’ottica di al­leanza terapeutica. È indispensabile riprendere, su questi temi, una riflessione che ne accetti la comples­sità.

* ordinario di Diritto penale all’Università Cattolica


Fecondazione eterologa, i dubbi della Corte europea - il fatto - Ieri l’udienza a Strasburgo in vista della sentenza d’appello sulla legge austriaca che limita la provetta con donatori esterni Le ricadute sull’Italia di Pier Luigi Fornari, Avvenire, 24 febbraio 2011


E’ stato dibattuto ieri nella Grande Chambre di Strasburgo (la stessa che deve pronunciarsi sulla questione del crocifisso nei luoghi pubblici) il ricorso dell’Austria contro la sentenza di primo grado che il 1 aprile 2010 ha condannato il divieto posto da Vienna alla fecondazione eterologa. Come al solito i magistrati del capoluogo alsaziano metteranno del tempo a decidere (c’è chi prevede un anno). L’Austria ieri ha difeso con efficacia la sua posizione, ma in caso di un’inopinata conferma della prima sentenza, il pronunciamento definitivo della Corte non può comunque avere ricadute in Italia sulla legge 40 perché la nostra legge è assai diversa da quella austriaca.
LNa normativa italiana infatti vieta ogni forma di eterologa, mentre quella di Vienna proibisce solo la fecondazione eterologa in vitro, cioè con ovulo o seme (o entrambi) provenienti da donatori esterni alla coppia, consentendo invece quella in vivo, cioè la fecondazione che avviene all’interno del corpo della donna e quindi con il solo gamete maschile esterno ai due. Va poi ricordato che i magistrati del Consiglio d’Europa (47 Stati membri, invece dei 27 della Ue) sentenziano solo su casi singoli nella specificità della situazione normativa e personale dei ricorrenti. I loro pronunciamenti non possono dunque avere ripercussioni legislative in tutta Europa e si concludono semmai con la richiesta di un risarcimento da parte della Nazione chiamata in giudizio. onostante ciò è innegabile che la strategia di coinvolgere l’Italia è in atto da tempo, e anche lo svolgimento della seduta di ieri ne fornisce una qualche prova. Tant’è che la condanna della legge austriaca in prima istanza è stata presa in Italia a fondamento per il rinvio della nostra legge 40 sulla procreazione assistita alla Consulta per dubbio di costituzionalità. Ieri poi a Strasburgo l’avvocato delle due coppie che hanno impugnato il divieto di eterologa posto da Vienna, Wilfried Ludwig Weh, ha tentato di coinvolgere pretestuosamente l’Italia, quando con ampie citazioni dell’avvocato Marilisa D’Amico in favore delle due Ong, Hera e Sos Infertilità protagoniste di battaglie contro la legge 40, è arrivato ad affermare che nel nostro Paese la posizione sull’eterologa non è decisa e non è chiara sul piano giuridico. L’avvocato austriaco poi ha attaccato, dileggiandolo, «il margine d’apprezzamento» definendolo una sorta di «fantasma di Canterville». Eppure si tratta di uno dei capisaldi della giurisprudenza di Strasburgo secondo cui le materie etiche debbono essere lasciate interamente alla valutazione degli Stati membri.


A questa sapiente prassi giuridica è stata contrapposto da Weh «il diritto fondamentale ad avere un figlio» che dovrebbe essere garantito dallo Stato. In conclusione è stato chiesto un aumento dei risarcimento imposti alle nazioni ritenute colpevoli. Efficace l’intervento di Brigitte Ohms a difesa della legge austriaca. Sono stati ripresi anche argomenti contenuti nelle memorie dell’Italia e della Germania a favore di Vienna. In questi documenti è stata respinta decisamente l’idea che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che è alla base della Corte, sancisca «un diritto al figlio». Citando una sentenza di Strasburgo, la memoria presentata dal governo italiano afferma, tra l’altro, che la Convenzione «non garantisce, in quanto tale, un diritto di adottare o di integrare in una famiglia un bambino che non sia figlio di sangue della coppia in questione» e neppure impone a uno Stato membro una obbligazione positiva di mettere a disposizione delle coppie sterili tutte le tecniche possibili per avere un bambino.
Un tale obbligo positivo non vale neppure per l’autorizzazione da parte di uno Stato della procreazione medicalmente assistita. Per estendere la sfera dei diritti fondamentali rispetto a quelli sanciti dal primo testo della Convenzione – aggiunge il documento del nostro Paese – è necessario il consenso degli Stati membri. Se invece manca è doveroso che «il margine di apprezzamento» in queste materie sia «molto ampio». A favore dell’Austria hanno presentato memorie due Ong, l’austriaca Aktion Leben e lo Euopean Centre for Law and Justice (Eclj), che rappresentava 51 europarlamentari e altre 7 Ong, tra cui l’Unione mondiale delle organizzazioni delle donne cattoliche e la Federazione delle associazioni familiari cattoliche europee. Il direttore di Eclj, Grégor Puppinck, auspica un ripensamento della Corte perché la sua prima decisione è stata «pesantemente problematica in quanto mina la famiglia, e presuppone l’esistenza di un 'diritto ad avere un figlio' violando la sovranità nazionale in materia di bioetica».