Nella rassegna stampa di oggi:
1) L’attualità di don Giussani di Giorgio Chiosso, martedì 22 febbraio 2011, il sussidiario.net
2) Anniversario Giussani, un carisma che continua a fiorire, di Giorgio Paolucci, Avvenire, 22 febbraio 2011
3) «Subito un vertice dei capi di governo Ue» di Riccardo Cascioli, 21-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
4) Il primato di Dio al tempo della crisi di Massimo Introvigne, 21-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
5) Ungaretti e la ricerca di Dio - Attraverso la porta del dubbio - Pubblichiamo alcuni stralci dal primo capitolo del libro Interrogare la fede. Le domande di chi crede oggi (Torino, Lindau, 2011 pagine 99, euro 12) di LUCIO COCO (©L'Osservatore Romano - 21-22 febbraio 2011)
6) La donna che portò l’aborto legale negli USA è oggi cattolica e paladina pro-life - 21 febbraio, 2011, da http://www.uccronline.it
7) La mamma dice no al sesso a scuola: va in prigione di Marco Respinti, 22-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
8) Cristiani perseguitati, la Ue ha paura di osare di Marco Respinti, 21-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
9) Avvenire.it, 22 febbraio 2011 - Aspre e insensate polemiche sul fine vita - Il diritto più prezioso di Francesco D’Agostino
10) SCUOLA/ Rigotti: cari prof, non si insegna (e non si impara) nulla senza libertà di Eddo Rigotti, martedì 22 febbraio 2011, il sussidiario.net
11) LA REPLICA/ Binetti: l’unico "accanimento" è quello di Rodotà contro la tutela della vita di Paola Binetti, martedì 22 febbraio 2011
12) “Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona...” o no? Di Kurdakov - 22/02/2011 - il quotidiano l'Unità - http://www.libertaepersona.org
13) Dove va la Libia? Di Rassegna Stampa - 21/02/2011 - Africa – da http://www.libertaepersona.org
L’attualità di don Giussani di Giorgio Chiosso, martedì 22 febbraio 2011, il sussidiario.net
Ai crescenti dubbi che il cosiddetto “pensiero debole” sia in grado di sopportare le sfide dei cambiamenti in corso, si oppongono, sempre più numerosi, quanti pensano che ai processi decostruttivi frutto della razionalità nichilista occorra opporre il richiamo alla virtù e al bene comune esito dell’esercizio razionale capace di misurarsi con la realtà.
Il campo dell’educazione può essere assunto come caso paradigmatico dell’urgenza di un cambiamento di rotta. Troppi giovani crescono nel libertarismo e quasi dell’anarchia morale, troppi cattivi maestri vivono rinchiusi nel narcisismo quotidiano, troppe parole sono scomparse - o quasi - dal vocabolario educativo quotidiano come impegno, rigore, esempio, maestro, interiorità, bene. Per contro genitori, insegnanti, educatori chiedono aiuto e moltiplicano gli sforzi per rispondere al bisogno educativo sempre più diffuso e incalzante.
La rilettura del Rischio educativo e delle tante pagine ricche di profondità pedagogica che si trovano nelle opere di Luigi Giussani forniscono importanti apporti, utili a riproporre alcune significative riflessioni della cultura educativa cristiana del secolo scorso, svolgendosi nel solco tracciato da Maritain e Guardini, da Ricoeur e Ratzinger.
L’architrave della proposta pedagogica giussaniana sta nella concezione “piena” dell’educazione: un evento che coinvolge la persona nella sua globalità fatta di intelligenza, affettività, comunione con gli altri, apertura al trascendente e un’esperienza realizzata tra persone vive e non solo affidata a “esperti” (formatori, istruttori, operatori, terapeuti, ecc.) che di volta in volta si preoccupano dell’altro come una persona da “plasmare” o da “curare” e non da far crescere nella sua libertà. Contro ogni riduzionismo antropologico, Giussani alza forte l’avvertimento che l’uomo non è un semplice prodotto della natura o della società.
Perché l’educazione sia “piena” c’è bisogno che essa sia libera. L’introduzione nella “realtà totale” (come Giussani definisce l’educazione) si compie, infatti, attraverso la prova di sé, con l’ineluttabile “rischio” che essa comporta, perché la prova dell’umano coinvolge e talvolta sconvolge ogni nostra fibra. Ma solo attraverso questa prova si conquista la dignità di persone libere e capaci di volere.
Contro l’assurda idea della libertà che trova se stessa nella rottura di ogni legame, nel vuoto delle infinite possibilità del Nulla, Giussani ci parla invece di una libertà che per crescere ha bisogno di “qualcuno” e di “qualcosa” e cioè di una testimonianza personale e di una storia da vivere. L’educazione si compie quando si manifesta “il desiderio di rivivere l’esperienza della persona che si è fatta carico di te”, non per diventare come “quella persona nella sua concretezza piena di limiti”, ma “come quella persona per quello che ti ha amato”. Detto in altro modo, e sempre con le parole di Giussani, “educare è proporre una risposta”.
Nessuno si “fa da sé”. Oggi siamo poveri di educazione perché scarseggiano gli adulti capaci di testimoniare e di amare, di accompagnare e sostenere, adulti credibili che non dicono “fai così”, ma “fai con me”, adulti disposti a intraprendere il cammino con figli e allievi con pazienza e speranza, due parole “pedagogiche” per eccellenza. La vita ha le sue lentezze e l’uomo lentamente si libera adagio dai suoi impulsi e dalla sua naturale spontaneità. Senza la speranza si cede all’assurdo: tutto si distrugge perché nulla può essere raggiunto.
A chi pensa di migliorare le scuole aumentando i test e a chi si illude di vincere la solitudine dei giovani con gli “sportelli psicologici”, Giussani risponde che l’educazione è qualcosa di ben più profondo: è l’incontro tra persone vere che amano, aspirano al bello, soffrono e gioiscono, sono aperte al Mistero. In questo sta l’attualità del suo insegnamento: l’educazione come esperienza viva, non una tecnica.
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Anniversario Giussani, un carisma che continua a fiorire, di Giorgio Paolucci, Avvenire, 22 febbraio 2011
Il 22 febbraio di sei anni fa moriva don Luigi Giussani. L’eredità che ha lasciato lo rende ancora vivo per i molti che lo hanno conosciuto e per quanti continuano a incontrarlo in tanti modi: attraverso i volti del popolo di Comunione e liberazione, nei suoi libri, nelle opere caritative, educative e culturali nate dal suo carisma. In questi giorni in tutto il mondo vengono celebrate centinaia di Messe in sua memoria: così a New York, Montreal, Lima, Nairobi, Mosca, Madrid, Lisbona, Varsavia, Bucarest. Questa l’intenzione proposta dal movimento: «Nella luce del carisma di don Giussani, domandiamo al Signore la grazia che 'l’intelligenza della fede diventi intelligenza della realtà' (come ha ricordato Benedetto XVI) ». Si pregherà anche per i cristiani perseguitati nel mondo.
Decine gli appuntamenti in Italia, tra i quali quello del 1° marzo a Genova con il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, mentre il 28 febbraio il cardinale Dionigi Tettamanzi presiederà la celebrazione nel Duomo di Milano, che il 24 febbraio di sei anni fa ospitò un imponente funerale di popolo (50mila persone) alla presenza del cardinale Joseph Ratzinger, inviato da Giovanni Paolo II e dopo poche settimane suo successore al soglio pontificio.
È una memoria viva e vitale, quella che continua ad accompagnare la figura di Giussani. Una memoria che invita alla conversione e all’azione. E che si esprime anzitutto in una dimensione educativa, come dimostra il grande seguito che riscuote la 'scuola di comunità', probabilmente l’esperienza di catechesi popolare più partecipata in Italia. Pochi giorni fa ottomila persone hanno gremito il Palasharp di Milano per ascoltare don Julián Carrón, che dopo la morte del fondatore guida la Fraternità di Cl, mentre altre 60mila lo seguivano in teleconferenza da 180 città. In quell’occasione Carron ha rilanciato «Il senso religioso», uno dei testi fondamentali del pensiero giussaniano pubblicato per la prima volta nel 1957 e tradotto in 19 lingue, proposto quest’anno come testo di riferimento per le scuole di comunità che si tengono negli ambienti di lavoro, in scuole, università, quartieri, parrocchie e perfino in alcune carceri.
La modalità con cui Giussani ripropone il cristianesimo come avvenimento che cambia la vita e che esalta il connubio tra fede e ragione, continua ad affascinare persone di ogni età, condizione sociale e cultura, e suscita curiosità e interesse anche tra persone di differenti tradizioni religiose, come documenta Tracce , il mensile di Comunione e liberazione. Wael Farouq, intellettuale musulmano e docente all’American University del Cairo, scrive rivolgendosi al popolo di Cl: «La cosa più importante che don Giussani ha offerto a me siete voi. Voi che avete vissuto insieme a me l’esperienza dell’amore, trasformando una sublime astrattezza in realtà tangibile e vita vissuta». Il giurista ebreo americano Joseph Weyler descrive così il fascino per Giussani, nato dopo la partecipazione al Meeting di Rimini nel 2003: «Ha combattuto la posizione di tanti studenti che sostenevano che essere cattolici è solo una questione di fede, mentre la ragione è altro. Già negli anni Cinquanta, Giussani rispondeva: no, se non si può rendere ragione della propria fede con tutta l’intelligenza che si possiede, è meglio lasciar perdere. Una cosa assolutamente ammirevole».
Il sesto anniversario della morte del fondatore cade a poche settimane dalla beatificazione di Giovanni Paolo II, che ha avuto un ruolo fondamentale nella valorizzazione del carisma del movimento. Come ha scritto di recente Carrón in una lettera inviata a tutti gli aderenti al movimento, «sappiamo quanto, fin dall’inizio del pontificato, fosse stretto il legame di Giovanni Paolo II con don Giussani e Cl, fondato su una consonanza dello sguardo di fede a tutta la realtà, nella passione per Cristo centro del cosmo e della storia. Se qualcuno ha un enorme debito di riconoscenza nei confronti di Giovanni Paolo II, questi siamo proprio noi».
Sei anni fa a Milano moriva il fondatore di Cl. Centinaia di Messe in tutto il mondo per ricordarne la figura e l’opera. La scuola di comunità, esperienza di catechesi popolare che coinvolge migliaia di persone
«Subito un vertice dei capi di governo Ue» di Riccardo Cascioli, 21-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
“L’Unione Europea dovrebbe convocare immediatamente un vertice dei capi di Stato e di governo. Che in una situazione di questo genere non si pensi a una valutazione politica unitaria di quanto sta avvenendo nel Mediterraneo è assolutamente ridicolo”. A chiedere un summit d’emergenza è Mario Mauro, capogruppo del PdL al Parlamento europeo e co-presidente del Centro Meseuro, che coordina le fondazioni che operano per l’Europa-Mediterraneo, che già nei giorni scorsi aveva scritto una lettera in tal senso al presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy. Invano, sembrerebbe, malgrado nel frattempo la situazione si sia ulteriormente e improvvisamente aggravata con la rivoluzione in atto in Libia.
“Siamo davanti a una svolta epocale, paragonabile al crollo del Muro di Berlino nel 1989 – prosegue Mauro – non è pensabile che i paesi europei vadano avanti in ordine sparso e oltretutto limitandosi, come hanno fatto finora, a esprimere una generica preoccupazione. C’è bisogno di una valutazione politica di quanto sta avvenendo”. E non solo perché c’è il fondato rischio di ritrovarsi in casa in poche settimane decine di migliaia di immigrati: “La migrazione è una conseguenza – dice il capogruppo del PdL all’Europarlamento – l’emergenza vera è quella politica: siamo davanti a una svolta epocale ed è molto probabile che avremo davanti anni di instabilità nella regione. Bisogna porsi il problema”.
Il ministro degli Esteri Frattini teme per la Libia l’avvento di uno Stato islamico: “Il rischio c’è e lo dimostra la presa di posizione oggi degli ulema della Libia, che chiama alla guerra santa contro Gheddafi. Bisogna fare molta attenzione agli sviluppi, anche perché uno Stato islamico in Libia avrebbe conseguenze e potrebbe indirizzare anche le rivolte degli altri paesi”.
A rendere ancora più preoccupante la situazione in Libia è la generale non conoscenza della situazione sul campo. Fino a pochi giorni fa, il regime del colonnello Gheddafi non veniva considerato a rischio, se non altro immediato. Invece nel giro di pochi giorni è tutto crollato come un castello di carte: “Non è un problema che riguarda soltanto la Libia, se andiamo a guardare cosa è successo in questi mesi è evidente che ogni rivolta ha preso di sorpresa gli osservatori. Basti ricordare che l’ambasciatore francese in Tunisia è dovuto tornare a Parigi perché al terzo giorno di manifestazioni aveva rassicurato in Francia affermando che Ben Alì aveva la situazione sotto controllo. La verità è che di questi paesi non sappiamo proprio niente”.
Il primato di Dio al tempo della crisi di Massimo Introvigne, 21-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Il 18 febbraio Benedetto XVI ha incontrato i vescovi della Conferenza Episcopale delle Filippine, ricevuti in questi giorni, in separate udienze, in occasione della Visita «ad Limina Apostolorum», rivolgendo loro un discorso sul tema - che evidentemente non riguarda solo i filippini - del «primato di Dio». Il 19 febbraio il Papa ha proseguito queste sue giornate dedicate alle Filippine ricevendo la comunità del Pontificio Collegio Filippino in Roma in occasione del cinquantesimo anniversario della sua istituzione.
Nel discorso ai vescovi, il Papa ha parlato della buona tenuta del cattolicesimo delle Filippine e delle difficoltà che derivano dalla crisi economica internazionale. Ma queste, ha detto il Pontefice, «non sono, dobbiamo riconoscerlo, le uniche difficoltà che devono essere affrontate dalla Chiesa. La cultura filippina si trova pure di fronte alle questioni più sottili che derivano dal secolarismo, dal materialismo e dal consumismo dei nostri tempi. Quando l'auto-sufficienza e la libertà sono separate dalla loro dipendenza da Dio e dal loro coronamento in Lui, la persona umana crea per se stessa un falso destino e perde di vista la gioia eterna per cui è stata creata».
Non basta, dunque, affrontare i problemi economici. «Il cammino per la riscoperta del vero destino dell'umanità può essere trovato soltanto ristabilendo il primato di Dio nel cuore e nella mente di ogni persona».
Questi principi hanno immediate conseguenze per l'evangelizzazione. La missione deve sempre avere al centro l'annuncio «che Dio esiste, che ci ama e che in Cristo risponde alle domande più profonde della nostra vita». Questo principio del «primato di Dio», che sembrerebbe ovvio ma non lo è, non dev'essere mai perso di vista.
È il messaggio che il Papa rivolge ai vescovi con riferimento alle cosiddette «comunità ecclesiali di base». Questa espressione ha ormai una pluralità di significati. Talora, specie in America Latina, ha identificato gruppi che, sulla base di una teologia della liberazione d'impronta marxista, hanno contestato il Magistero e il Papa. Altre volte si riferisce a gruppi, come accade spesso nelle Filippine, che sono rimasti in piena comunione con il Papa e i vescovi e hanno avuto «un impatto positivo».
Questo impatto positivo si verifica, ha detto il Papa, «quando sono formate e guidate da persone la cui forza motivante è l'amore di Cristo», quando «lavorano d'intesa con le parrocchie locali» e hanno il chiaro scopo di «portare le persone al Signore».
Il Pontefice chiede a vescovi di «dedicare un'attenzione speciale alla guida di questi gruppi, così che il primato di Dio rimanga in primo piano».
Il primato di Dio, che è il criterio principale di ecclesialità di ogni progetto o gruppo, deve emergere anche - ha detto Benedetto XVI - nella pastorale giovanile, anzi è qui «di particolare importanza». Ai giovani dev'essere ricordato che «i lustrini di questo mondo non soddisfano il loro naturale desiderio di felicità. Solo la vera amicizia con Dio spezzerà le catene della solitudine» di cui molti giovani soffrono, anche nelle più chiassose compagnie. Ultimamente, da questa solitudine - ha detto Benedetto XVI - si esce con la scelta vocazionale che porta al matrimonio cristiano, che non conosce surrogati, ovvero alla vita sacerdotale o religiosa.
Come esempio del primato di Dio il Papa propone san Lorenzo Ruiz (1600-1637), padre di famiglia filippino che scelse la difficile missione in Giappone, dove finì torturato a morte per non avere voluto rinnegare la sua fede. Agli studenti del Pontificio Collegio filippino il Papa ha ricordato che, venendo a Roma, non acquistano solo una formazione intellettuale ma entrano in un diretto contatto con «la storia vivente della Chiesa di Roma e lo splendente esempio dei suoi martiri, il cui sacrificio li configura perfettamente alla persona stessa di Gesù Cristo». È agli eroi, ai santi, ai martiri che si deve guardare per non dimenticare che il primato di Dio vale per tutti.
Ungaretti e la ricerca di Dio - Attraverso la porta del dubbio - Pubblichiamo alcuni stralci dal primo capitolo del libro Interrogare la fede. Le domande di chi crede oggi (Torino, Lindau, 2011 pagine 99, euro 12) di LUCIO COCO (©L'Osservatore Romano - 21-22 febbraio 2011)
Il poeta Ungaretti è un uomo ferito (cfr. Pietà in: Giuseppe Ungaretti, Vita di un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1972, p. 168) che chiede a Dio di chinarsi sulla sua e nostra debolezza e di mostrarci una traccia: "Dio, guarda la nostra debolezza. / / Vorremmo una certezza". Ma può registrare solo il vuoto, "il gran vuoto della sua anima, la sua consapevolezza d'essere stato abbandonato a sé, la tremenda sua solitudine" (Giuseppe Ungaretti, Vita di un uomo. Saggi e interventi, Mondadori, Milano, 1974, p. 200), e riconoscere in questa vertigine del sentimento dell'assenza il terrore del vuoto e "l'orrore di un mondo privo di Dio". Egli sente, ed è un sentire che è anche testimonianza, che Dio è divenuta una parola impronunciabile oggi: "Dio, coloro che t'implorano / Non ti conoscono più che di nome" (Pietà, p. 168). La sua immagine si è frammentata sotto la furia iconoclasta del secolo e si è ritirata in una zona grigia e oscura che confina con il sogno: "E tu non saresti che un sogno, Dio?" (Pietà, p. 170).
È profondo il solco lasciato da queste domande irrisolte: "Ma Dio cos'è? / / E la creatura / atterrita / sbarra gli occhi" (Risvegli, in: Vita di un uomo. Tutte le poesie, p. 36), che consegnano l'uomo a una percezione abissale e confusa di sé: "In questo oscuro / (...) // Mi vedo abbandonato nell'infinito" (Un'altra notte, in: Vita di un uomo. Tutte le poesie, p. 72), e affidano il mondo a una dimensione enigmatica e obliqua.
Sotto la lente di un osservatore "sbigottito di non sapere" si consuma il dramma non solo conoscitivo ma anche teologico ed esistenziale dell'uomo moderno perché "dove la distruzione di Dio è compiuta, dove non è più dibattuto il problema divino, con che cosa [la mente] colmerà il vuoto lasciato in essa e che la potenza dei secoli e degli istinti mantiene spalancato?" (Vita di un uomo. Saggi e interventi, p. 230). Ma forse è anche necessario che sia così, perché possiamo imparare a conoscere e a chiamare Dio con altri nomi, che pure sono i suoi nomi, e a trovarlo con altri modi e in altre circostanze, per certi versi inusuali, come l'interrogazione, il dubbio, la domanda che non trova risposta: "La speranza d'un mucchio d'ombra / E null'altro la nostra sorte?" (Pietà, p. 170).
Il Dio di questo secolo è qui, su questo discrimine di senso e non-senso, che vuole essere cercato e trovato. Diversamente si correrebbe il rischio di coltivare una vana spiritualità che non può soddisfare le menti problematiche oppure incerte della modernità. Trovare Dio dove la scena è ormai distrutta e muta: questo è il compito che Dio dà al poeta e a noi.
Come una cifra segreta risalta nel paesaggio sconsacrato la nudità dell'anima del poeta: "Ma ben sola e nuda / senza miraggio / porto la mia anima" (Peso, in: Vita di un uomo. Tutte le poesie, p. 34) e il suo essere solo (cfr. Pietà, p. 168).
Dio ora vuole essere interrogato dalla solitudine dell'uomo, dal suo lamento che non trova senso. Troppe cose ricordano all'uomo la sua precarietà, il suo destino che non riuscirà mai a ricomporre la sua vita in un disegno chiaro. Egli vuole che si arrivi a Lui attraverso questo passaggio dell'anima stretta che dubita e medita.
Dio resta "l'eterno tormento degli uomini, sia che s'ingegnino a crearlo sia a distruggerlo" (Vita d'un uomo. Saggi e interventi, p. 230) perciò la sua dimostrazione deve essere cercata pur nell'impossibilità che ha l'uomo di dimostrarne l'esistenza. È vero.
C'è troppo dolore intorno, troppo caos, troppo sangue innocente perché si possa dire "Credo": "Nel cuore dell'uomo non c'è, come sempre, che notte, non ci sono, come sempre, che crolli" (Vita d'un uomo. Saggi e interventi, p. 782). E anche Cristo si unisce a questo silenzio. Anch'egli partecipa di questo distacco, di questa separazione, della diastasi della divinità dal mondo. Lo scenario devastato della seconda guerra lo rivela in maniera evidente e mette ancor di più in luce la solitudine dell'uomo. Come la domanda su Dio anche la domanda su Cristo sembra non trovare risposta. E se al colmo della crisi solo nel negativo della bestemmia, che viene letta come una preghiera rovesciata, è possibile farsi un'idea di Dio: "E per pensarti, Eterno, / Non ha che le bestemmie". (Pietà, p. 171), analogamente al poeta giunge a risultare "blasfemo" - "Ora che osano dire / le mie blasfeme labbra" - anche il quesito che chiede al Figlio di Dio il perché di tanto scempio al mondo: "Cristo pensoso palpito, / Perché la Tua bontà / S'è tanto allontanata?" (Mio fiume anche tu, p. 228).
Ma per quanto fragile possa essere l'uomo, "per quanto impotente nel fondo della sua notte elementare" (Vita d'un uomo. Saggi e interventi, p. 525), il semplice dubbio che "la sua vita non è pura sordità, che qualche cosa c'è da fare su questa terra" assume quasi il significato di una prova di Dio. L'uomo si è trasformato in una domanda; l'uomo della modernità non può più dare risposte. Eppure tutto ancora deve compiersi nell'orizzonte di un qualcosa ("un punto, una formula") che "esiste e dà alla vita il suo senso, il suo oriente" (Vita d'un uomo. Saggi e interventi, p. 525). La difficoltà ad affermare Dio e la facilità a negarlo sono ancora sua regione e suo territorio, provincia di Dio nella quale abitano gli uomini di oggi.
Il suo volto odierno è così, un volto incerto, che non dà certezze. Eppure anche la sua non risposta alla domanda che è l'uomo, ne connota l'essenza e introduce l'uomo nella dimensione della fede, quella più ineffabile e sfumata, quella dove il sì e il no quasi non si distinguono.
È così infatti la fede dell'uomo: una domanda continua, ininterrotta che confina sempre con il silenzio, che strappa al silenzio qualcosa, ma poi si richiude in se stessa. L'esperienza religiosa di Ungaretti è strettamente legata a questa intuizione: "Chiuso fra cose mortali / / (Anche il cielo stellato finirà) / / perché bramo Dio?" (Dannazione, in: Vita d'un uomo. Tutte le poesie, p. 35).
La domanda dell'uomo può bastare perché possa recuperare il senso della trascendenza e farsi un'immagine .dell'Assoluto, se mai ne sia possibile una in questo secolo e se non sia stato sempre così e sempre la stessa è la distanza tra l'uomo e l'Infinito. "L'essere umano, lo voglia o no, è nella sua responsabilità legato al segreto universale dell'essere, a Dio".
La donna che portò l’aborto legale negli USA è oggi cattolica e paladina pro-life - 21 febbraio, 2011, da http://www.uccronline.it
Il 23 gennaio 2011 negli USA è stato ricordato il 38° anniversario dell’introduzione dell’aborto legale. Ne approfittiamo per raccontare che il caso che spianò la strada alla legalizzazione della pratica abortiva, cioè quello di Jane Roe (pseudonimo di Norma McCorvey). Nel 1973 la Corte Suprema le concesse infatti la libertà di abortire e divenne così la bandiera del femminismo e del laicismo americano. Essendo ovviamente lesbica, per molti anni visse con la sua compagna, Connie Gonzales, a Dallas (qui una sua intervista del 28/7/1994 del New York Times). Ma nel 1995 qualcosa di incredibile accadde. Lo raccontò lei stessa nel suo libro “Won by Love” (1998): «Ero seduta in un ufficio, quando ho notata un poster con uno sviluppo fetale. La crescita del feto era così evidente, gli occhi erano così dolci. Il mio cuore mi faceva male solo a guardali. Sono corsa fuori dalla stanza e mi sono detta: “Norma, hanno ragione”. Qualcosa in quel poster mi ha fatto perdere il respiro, continuavo a vedere l’immagine di quel piccolo embrione di 10 settimane, e non ho potuto non dire: “questo è un bambino”. E’ come se un paraocchi mi fosse caduto gli occhi, ho capito subito la verità: è un bambino! Mi sentivo schiacciata sotto la verità di questa realizzazione. Ho dovuto affrontare una realtà terribile: l’aborto non si trattava di un “prodotto del concepimento” o di “periodo mancato”. Si trattava di bambini uccisi nel grembo della madre. In tutti quegli anni mi ero sbagliata. Tutto il mio lavoro nelle cliniche abortiste era sbagliato. Divenne chiaro, dolorosamente chiaro» (da www.leaderu.com). Nello stesso anno Norma si convertì al cristianesimo e venne battezzata l’8/8/1995, evento che fu ripreso dalla telecamere di una televisione nazionale. Ha espresso rimorso per il suo coinvolgimento alla decisione della Corte Suprema e, da paladina pro-life, ha iniziato a collaborare con l’ente Operation Rescue per rendere l’aborto illegale. Il 21/6/1996 Norma McCovery annunciò di non essere più lesbica e il 15/6/1998 la McCorvey rilasciò una dichiarazione nella quale rese pubblica la volontà di entrare nella Chiesa cattolica: «Dopo molti mesi di preghiera e molte notti agitate, faccio l’annuncio gioioso che oggi ho deciso di unirsi alla Chiesa Madre del cristianesimo, con questo naturalmente intendo la Chiesa cattolica romana». Anche Giovanni Paolo II venne avvertito di questo fatto. Dal 2005 Norma McCorvey sta tentando di rovesciare la famosa decisione del 1973 della Corte Suprema, che, a causa sua, permise l’introduzione dell’aborto legale negli Stati Uniti. Su Priestforlife si può trovare tutta la sua biografia, le sue interviste e le sue dichiarazioni.
La mamma dice no al sesso a scuola: va in prigione di Marco Respinti, 22-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
I cristiani vengono perseguitati. Dove? Nella libera e democratica Germania, dove chi disobbedisce ai diktat scolastici finisce in galera. Recentissimo è il caso di una mamma di dodici figli trascinata in carcere nientemeno che per sei settimane per essersi rifiutata di sottoporre tre dei suoi piccoli alle lezioni di educazione sessuale volute dall’ordinamento scolastico di Stato. E non è la prima volta.
Nel settembre 2010 una mamma di quattro figli si è fatta cinque giorni di prigione e nell’agosto precedente un papà di 12 figli ne ha scontati 40 per gli stessi motivi. Identica sorte incombe peraltro ora sul capo di un’altra mamma (di nove bimbi, il maggiore di 14 anni e il più piccolo di 10 mesi) che potrebbe farsi 21 giorni di galera, come già il marito. Accade tutto nella medesima cittadina, nella medesima scuola, per le medesime ragioni. Cioè a Salzkotten, nel land del Nord Reno-Westfalia, nella Germania centrale, dove ha sede la scuola elementare Liborius a cui sono iscritti i figli di molte famiglie di fede cristiana battista indignate di quanto viene loro ammannito. La cosa più scioccante però è che la Liborius è pure una scuola cattolica. Ma in Germania è così: nessuno può sottrarsi, nemmeno le scuole private, ai programmi scolastici decisi dallo Stato nei quali dal 1970 è contemplata anche quell’educazione sessuale che dal 1992 è divenuta insegnamento obbligatorio per tutti, oggi con tanto di “pratica”.
L’avviamento scolastico alla sessualità prevede, infatti, maratone di più giorni di cui sono parte integrante anche certi spettacolini teatrali a cui i giovanissimi studenti sono tenuti a partecipare in prima persona. Del resto la Germania è il Paese dove nel luglio 2007 scoppiò la bomba del Bundeszentrale für gesundheitliche Aufklärung (il Centro federale tedesco di educazione alla salute), ovvero una sussidiaria del ministero per gli Affari familiari che diffuse nel Paese due libriccini con cui si invitava in modo diciamo disinvolto i genitori a “giocare al dottore” con i propri bimbi (si trattava di due libretti predisposti accuratamente per altrettante fasce di età: 12-36 mesi e 4-6 anni) e su cui piovvero subito le accuse di “pedofilia di Stato”.
Ora, a Salzkotten accade che diverse famiglie battiste stiano da anni praticando un braccio di ferro con la Liborius, ma in realtà con lo Stato tedesco, giudicando contrarie al proprio credo religioso le lezioni di educazione sessuale predisposte (dal 2005) dalla scuola e quindi praticando una resistenza passiva fondata sull’obiezione di coscienza. Meglio, dicono, affrontare il delicato argomento fra le mura domestiche. E però dal 2006 la legislazione tedesca vieta senza la minima eccezione e reprime duramente ogni concetto e pratica di home-schooling, quel fenomeno invece legalissimo e diffusissimo per esempio negli Stati Uniti d’America dove a garantire sia la scolarizzazione sia l’educazione dei ragazzi sono i genitori, le associazioni di genitori e i tutor ingaggiati ad hoc.
È stato così che poche settimane fa a Salzkotten è arrivata la polizia, ha stilato il verbale per sottrazione di minore dall’obbligo scolastico ai danni di una mamma, questa non ha pagato la multa comminata e la vicenda si è conclusa con 43 giorni di sole a scacchi per la signora. Del resto le famiglie incriminate non hanno violato la legge tedesca sull’home-schooling: mai hanno avuto intenzione di togliere completamente i figli dalla scuola per educarli privatamente, semplicemente li hanno sottratti a un insegnamento della sessualità che in coscienza, come il diritto internazionale consente ai genitori di fare, hanno ritenuto moralmente inaccettabile.
Alla base di tutto vi sono peraltro due casi “madre”, risalenti al febbraio 2007. Willi e Anna Dojan sono genitori di 8 figli, Eduard ed Elisabeth Eischeidt ne hanno invece tre. Entrambe le famiglie sono cristiane battiste, entrambe le famiglie avevano al tempo una ragazza undicenne, rispettivamente Lilli e Franziska, entrambe le famiglie all’epoca avrebbero per volere della scuola dovuto sottoporle a un corso di 4 giorni di educazione sessuale comprendente pure una performance interattiva e obbligatoria nello spettacolo Mein Körper gehört mir, ossia “Il mio corpo mi appartiene”. Provare, insomma, per imparare… Mamma e papà si sono allora guardati diritti negli occhi e hanno pensato che le loro ragazze meritassero qualcosa d’altro. Mica immaginavano che sarebbe finito tutto in tribunale.
L’Alliance Defense Fund (ADF), una organizzazione statunitense nata nel 1994 per riunire associazioni e avvocati a difesa della libertà religiosa a livello internazionale, ha portato i casi dei Dojan e degli Eischeidt davanti alla Corte Europea dei diritti umani. Il legale dell’ADF che li difende, l’avvocato Roger Kiska di Bratislava, ritiene infatti essere un diritto sacrosanto delle famiglie in questo caso tedesche quello di potersi in piena coscienza opporre a un insegnamento che palesemente cozza con la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (1950), per la precisione l’art. 2 del Protocollo addizionale approvato il 20 marzo 1952 il quale sancisce: «Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di assicurare tale educazione e tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche».
Complessivamente, l’ADF sta difendendo oggi ben cinque famiglie che si trovano a dover in coscienza resistere a una situazione grave che quando, poche settimana fa, l’ha apertamente denunciata Papa Benedetto XVI tutti si sono sentiti in dovere di canzonarlo.
Torniamo a Salzkotten, con il caso dell’ultima mamma incarcerata che gira sul web oramai da qualche giorno, ma con un’avarizia di notizie che lascia a bocca spalancata. Che nel nostro mondo annegato dall’informazione una mamma che vive nel cuore del mondo civile, a un tiro di schioppo dalle nostre telecamere sempre guardone e dai nostri giornali sempre voyeur, si faccia un mese e mezzo di galera per resistenza a pubblico programma scolastico e che la cosa sia ignorata dai giornali è quantomeno sconcertante.
Cristiani perseguitati, la Ue ha paura di osare di Marco Respinti, 21-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Un’ottima occasione perduta, anzi sprecata. A Bruxelles i cristiani guadagnano una menzione di bandiera che suona un po’ premio di consolazione e il mondo è tale e quale a prima, soprattutto tristemente identica resta l’incapacità delle istituzioni comunitarie europee a farsi incisive là dove servirebbe.
Di fatto, oggi pomeriggio, al vertice dei ministri degli Esteri, il 3069esimo, svoltosi nella capitale belga senza governo nazionale da un numero record assoluto di giorni ma sede centrale delle istituzioni europee, è andata proprio così. Al termine della seduta, infatti, riaffermando il «forte impegno dell’Unione Europea a promuovere e a proteggere la libertà di religione e di credo senz’alcuna discriminazione», il Consiglio d’Europa ha semplicemente espresso «preoccupazione profonda di fronte al crescente numero di atti d’intolleranza e di discriminazione religiose, di recente ben rappresentato da violenze e gesti terroristici, in vari Paesi, contro i cristiani e i loro luoghi di culto, i pellegrini musulmani e altre comunità religiose, che esso fermamente condanna. Purtroppo, nessuna parte del mondo è esente dal flagello dell’intolleranza religiosa». Seguono un po’ di parole di circostanza, con spruzzi di retorica. Tutto il mondo, insomma, è paese, e quasi quasi sembrerebbe tra le righe spuntare pure un “mal comune mezzo gaudio”.
La specificità atroce del massacro dei cristiani vien completamente vanificata e non si capisce più chi sia la vittima e chi il carnefice. La sorte che tocca alle comunità cristiane locali, “inculturate”, in diverse regioni dell’Africa, del Medioriente e dell’Asia Centrale o Estrema perde di sapore. E per di più le conclusioni adottate non permettono a nessuno di comprendere che in molti Paesi arabi le vittime musulmane cadono per mano di altra obbedienza musulmana. In nessun luogo del mondo fedeli di altre religioni muoiono uccisi da odio cristiano. L’appello, fondamentale, alla libertà religiosa per tutti, diviene in questo caso, come del resto un po’ si temeva alla vigilia anche per certi precedenti disarmanti, un alibi per non affrontare il tema vero, per concedere tutto al politicamente corretto per negare ai cristiani perseguitati quel po’ di carità anche politica che non può che fondarsi sulla verità dei fatti, cioè degli accadimenti.
La discussione di oggi è stata del resto l’importante ricalendarizzazione di un argomento inserito nell’ordine del giorno del vertice dei ministri degli esteri della Ue del 31 gennaio per volontà del ministro italiano e rinviato da allora alla data odierna per non vanificarne l’importante significato. Franco Frattini aveva infatti espressamente chiesto e ottenuto il confronto sulla persecuzione dei cristiani in Medioriente, con l’obiettivo di imporre tra le condizioni per la cooperazione economica e politica fra le nazioni anche il tema qualificante e decisivo del rispetto della libertà religiosa. L’iniziativa nasceva dalla risoluzione riguardante la preoccupante situazione dei cristiani nel contesto della libertà religiosa approvata dal Parlamento Europeo il 20 gennaio e quindi rafforzata dalla Raccomandazione del Consiglio d’Europa sulle violenze contro i cristiani nel Medioriente, approvata il 27 gennaio.
Ma già domenica 30 gennaio aveva iniziato a circolare una versione del testo che sarebbe stato adottato dai ministri degli Esteri della Ue mutila e quindi inutile: vi si parlava infatti genericamente - in questo caso davvero genericamente, troppo genericamente - di libertà religiosa evitando accuratamente di nominare alcuna regione del mondo in particolare e meno ancora i cristiani. Surreale: si proponeva infatti di approvare una mozione la cui unica ragion d’essere era quella di invitare gli Stati membri difendere i cristiani evitando però di nominare sia i cristiani sia la loro difesa. Una pessima e assurda figura che ha dunque spinto il ministro Frattini – insieme a Francia, Polonia e Ungheria – a chiedere il rinvio della discussione piuttosto che uscire con un documento ridicolo. Su La Bussola Quotidiana l’on. Luca Volontà (Udc), relatore della Raccomandazione del Consiglio d’Europa su La violenza contro i cristiani in Medio Oriente, commentava deciso: «È la dimostrazione della drammaticità della situazione dell’Europa, incapace di affrontare i problemi reali che da fronte e incapace di confrontarsi con la propria identità».
A fine gennaio si è insomma rimandata la discussione per non approvare un testo inutile. Oggi, dopo il tira e molla, un testo poco utile lo si è voluto tranquillamente approvare.
Avvenire.it, 22 febbraio 2011 - Aspre e insensate polemiche sul fine vita - Il diritto più prezioso di Francesco D’Agostino
Si sta avvicinando il giorno in cui a Montecitorio si discuterà il disegno di legge sul "fine vita". Il tema è giuridicamente complesso ed emotivamente coinvolgente. Dovrebbe essere affrontato con pacatezza di ragionamento, sobrietà lessicale, assenza di pregiudizi, rinuncia all’uso di toni superfluamente emotivi, rispetto nei confronti opinioni diverse dalle proprie.
Purtroppo, alzando continuamente la voce, alcuni intellettuali di area libertaria stanno raccogliendo firme di adesione ad un appello esasperato, che definisce il testo che viene portato all’attenzione dei deputati ingannevole, ideologico, autoritario, anticostituzionale e, più nel dettaglio, declamatorio, superfluo, menzognero... se esso venisse approvato, dicono i suoi critici, «ciascuno di noi perderebbe il diritto fondamentale ad autodeterminarsi, verrebbe espropriato del potere di governare liberamente la propria vita».
Non è affatto così. Il disegno di legge cerca di trovare una saggia e difficile mediazione tra la tutela della vita, soprattutto quella dei malati terminali, considerata comunque un bene indisponibile, e il diritto di ogni persona a non essere sottoposta ad alcuna forma di accanimento terapeutico e soprattutto a quelle che essa consapevolmente rifiuti.
Non voglio entrare, in questa sede, in questioni di dettaglio. Il progetto di legge sul fine vita è stato faticosamente elaborato (anche a partire da un documento del Comitato nazionale per la Bioetica, che aveva riscosso a suo tempo significativi consensi bipartisan tra i cattolici come tra i laici), è stato rivisto, emendato, rielaborato, corretto: è evidente che esso è ancora migliorabile, come qualsiasi testo normativo e può ben darsi che continui a contenere norme inappropriate e forse imprecise o ambigue che meriterebbero di essere ulteriormente corrette.
La vera posta in gioco, però, non è come migliorare questo testo. Quello che è in gioco è un braccio di ferro bioetico tra "illuministi" e "realisti". Gli "illuministi" vedono la fine della vita umana posta sotto il segno di un’autodeterminazione lucida, serena, forte, coraggiosa, direi quasi "giovanile" e chiedono, in nome del rispetto per i diritti della persona, che la legge obblighi comunque i medici a rispettare l’autodeterminazione dei malati (indipendentemente dal fatto che possano essere o no malati terminali).
I "realisti" non negano, ovviamente, che l’autodeterminazione possa aver davvero rilievo in alcuni, rari casi, ma sono ben più attenti al dato di realtà, per il quale nella maggior parte dei casi la morte è evento senile, che si caratterizza per la fragilità, la debolezza, lo stato di paura e di assoluta dipendenza del morente. L’appello all’autodeterminazione, per i realisti, meriterebbe attenzione se non aprisse un varco inaccettabile all’abbandono terapeutico. I fautori della difesa ad oltranza dei diritti della persona non si rendono conto del fatto che, in buona sostanza, ne mettono a rischio il diritto più prezioso, quello alla vita. In questo consiste il loro (ingenuo?) "illuminismo".
Per convincersi di quanto sia concreto questo rischio basterebbe frequentare le corsie degli ospedali (l’hanno mai fatto i firmatari dell’appello sull’autodeterminazione?), in particolare di quelli che accolgono i malati terminali, i malati soli, gli "oldest old".
I morenti, gli anziani, gli abbandonati non sono illuministi; quello che davvero vogliono non è che si renda ossequio alla loro volontà, il più delle volte incerta, mutevole, dubbiosa; semplicemente non vogliono essere lasciati soli, vogliono essere "curati", cioè che ci si prenda cura di loro. Indurre i medici ad abbreviare la vita degli anziani, dei lungodegenti, dei malati terminali, vincolandoli a "rispettarne" lamenti, recriminazioni, richieste fatte in tempi lontani, esasperate da stati emotivi e carenti di adeguata informazione è un rischio che non possiamo correre e contro il quale il disegno di legge sul fine vita prende fermamente posizione, il che basta a renderlo apprezzabile.
Qui non è in gioco una visione religiosa o una visione laica della vita e della persona, ma, né più né meno, che la difesa dell’etica medica ippocratica, quella che, già secoli e secoli prima di Cristo, imponeva al medico di porsi sempre al servizio, e contemporaneamente, sia della persona che della vita.
SCUOLA/ Rigotti: cari prof, non si insegna (e non si impara) nulla senza libertà di Eddo Rigotti, martedì 22 febbraio 2011, il sussidiario.net
L’insegnamento è possibile se, oltre l’insegnante, c’è qualcuno che impara e qualcosa che è imparato. Anzi, chi impara e la cosa imparata sono, a ben vedere, i fattori costitutivi della vicenda dell’insegnamento. Impariamo, infatti, infinite cose senza che nessuno propriamente ce le insegni: imparare la nostra lingua (che magari è il nostro dialetto) dai genitori non è come imparare la grammatica o l’ortografia dall’insegnante. Imparare la lingua dai genitori è imparare dall’esperienza, dal rapporto diretto con la realtà umana e non umana che ci circonda, interagendo nell’esperienza mediata dalla comunicazione con i nostri genitori e gli altri adulti. È così che impariamo, talvolta a nostre spese e comunque a nostro vantaggio, che l’acqua può scottare o raggelare, che i fichi sono più dolci delle mele, che il coltello taglia e che la rosa può anche pungere (e la camelia invece no), che, se c’è un sotto, deve necessariamente esserci anche un sopra, e che la neve, prima o poi, si scioglie. L’evento che segna il successo dell’insegnamento è, in ogni caso, al di là dell’insegnante.
Mi paiono importanti due messe a fuoco:
a) Per un soggetto, imparare o, forse meglio, apprendere, è cominciare a conoscere qualcos’altro. Oggetto di conoscenza può essere solo ciò che è reale. Questo spiega il non-senso di una frase come
Giovanni sa che Luigi è arrivato, ma io so che Luigi è rimasto a casa
mentre sono possibili sia
Giovanni crede che Luigi sia arrivato, ma io so che Luigi è rimasto a casa
e
Giovanni crede che Luigi sia arrivato, ma io credo che Luigi sia rimasto a casa.
Posso parlare di conoscenza solo in rapporto alla realtà: per la sua struttura semantica e ontologica il conoscere presuppone (esige) come oggetto qualcosa di reale, ossia presuppone la verità del suo oggetto.
b) Il fatto che il nesso fondamentale sia quello fra chi impara e la cosa imparata, non significa che il ruolo dell’adulto nell’apprendimento scompaia e nemmeno che sia di poco conto. Come vedremo, l’adulto è presente, ma non è un “travasatore” di contenuti secondo programmi preconfezionati. Il suo ruolo è più delicato ed incisivo.
Approfondiamo brevemente sul primo punto. Apprendere come fare “conoscenza di” non è acquisire un’informazione, sia pure materialmente vera. L’informazione diventa conoscenza solo quando diventa rilevante per il soggetto, quando assume significato per il suo destino. Acquista interesse in quanto il rapporto del soggetto con la cosa che l’acquisizione della conoscenza porta in luce, conduce il soggetto alla consapevolezza della rilevanza che questa cosa ha per lui, della pertinenza della cosa al suo destino.
È diverso inquadrare la presenza degli umani sulla terra come un incidente increscioso di cui l’etica e l’ecologia suggeriscono di delimitare il più possibile le implicazioni perverse, o come lo sbocciare sorprendente, misterioso di un’autocoscienza capace di interrogarsi sul senso di sé, cioè capax Dei.
Ma un altro tratto essenziale contraddistingue la conoscenza rispetto alla pura informazione: la sua razionalità. Potremmo definire questo tratto in relazione ad un trascendentale della filosofia medievale, Ens et verum convertuntur che sottolinea l’intelligibilità del reale. Ma senza troppo addentrarci in pensieri filosofici, potremmo forse dire in modo molto semplice che la conoscenza non è puramente informazione in quanto è risposta ad un perché.
Sto pensando ai perché dell’infanzia con cui il bambino sfida l’adulto, quasi puntando a conquistare un suo accesso diretto alla realtà. Pare che questo dispositivo critico, che si attiva quasi naturalmente appena il bimbo ha strumentato e strutturato il suo rapporto con la realtà mediante il linguaggio, sia fondamentalmente disattivato nella vita scolastica. Tutti noi, tuttavia, speriamo che non sia del tutto vero.
Per capire la natura di questo dispositivo critico dobbiamo individuare i bisogni di conoscenza del bambino proprio distinguendo i diversi usi semantico-pragmatici di perché. Una ricerca sulle strutture argomentative nei discorsi a tavola di famiglie italiane e svizzere che viene ora condotta da Antonio Bova (un allievo del professor Galimberti), ha evidenziato che i bambini dai 4 agli 8 anni usano i loro micidiali perché per innescare scambi argomentativi e ragionamenti di diverso tipo e complessità. Ricorre con una certa frequenza il perché causale o esplanatorio, che chiede la spiegazione di un fatto (del tipo di Perché il nonno quando si addormenta russa?).
Vediamo, per esempio, quest’uso nel dialogo tra Luca, un bambino di 6 anni, e il suo papà. Guardando fuori dalla finestra Luca ha osservato che, diversamente dai giorni passati, non piove e chiede al papà: x
“Papà, perché non piove oggi?” Nella sua simpatica risposta il papà formula una spiegazione adottando la metafisica animistica del bambino: “Perché oggi le nuvole sono piene d’acqua, ma la vogliono tenere tutta per loro ancora un po’!”
Luca, attraverso il suo perché, punta a conoscere la causa, le origini di un evento. La domanda di Luca è, a ben vedere, la stessa domanda che genera la scienza (scire per causas), ma è anche la domanda con cui noi ci interroghiamo, attraverso forme linguistiche diverse, sulla nostra origine, e quindi sulla nostra appartenenza.
[Mi ricordo che, quando ero piccolo, molto piccolo, le signore anziane del paese, spesso, incontrandomi, con aria inquisitoria, quasi accusandomi di esistere, mi domandavano nel mio dialetto trentino “Popo, de chi se’t ti?” (“Bambino, di chi sei?”), quasi dovessi giustificare la mia presenza dicendo chi erano i miei genitori. In seguito, giunto al liceo, ho trovato che anche a Dante avevano rivolto, in un canto dell’Inferno, la stessa domanda “Chi fur li maggior tui?”), anche se devo ammettere che c’era un’altra solennità, tant’è vero che nel poeta la domanda suscitò semplicemente fierezza. Più recentemente, un ricercatore del progetto Argupolis di origine calabrese mi ha confidato che anche a lui le signore anziane del paese chiedevano con aria inquisitoria “A cui apparteni?”. È interessante il nesso fra origine e appartenenza].
Un altro perché, forse più frequente, è di natura argomentativa e richiede invece di dare le ragioni. Sono richieste anzitutto le ragioni delle azioni, del fine per cui un’azione è compiuta. Il fine coincide qui con l’argomento che giustifica un’azione, ossia ne mostra la ragionevolezza. Qui si possono attivare lunghissime catene, fra il giocoso ed il persecutorio: Perché esci? Vado in biblioteca. Perché vai in biblioteca? Devo leggere un libro. Perché devi leggere un libro? Devo imparare certe cose. Perché…? Attraverso queste domande il bambino sembra scoprire le gerarchie teleologiche a cui le nostre azioni, spesso solo implicitamente, rimandano. Il perché argomentativo è spesso usato per contestare un rifiuto come in questo breve dialogo dove Elisa, una bambina di 7 anni, chiede alla sua mamma:
“Mi dai questo limone per giocare, mamma?”. La mamma, impegnata a cucinare, risponde ad Elisa con un rifiuto che si giustifica con una impossibilità: “No, i limoni non te li posso dare per giocare”. Ed Elisa, a questo punto mette in discussione il rifiuto chiedendo di esplicitare le ragioni dell’impossibilità: “Perché?”. La mamma argomenta: “Perché i limoni mi servono per fare una buona insalata per papà”.
Un analogo perché chiede invece le ragioni di regole ed ingiunzioni (divieti, comandi, inviti, consigli, raccomandazioni), e quindi li mette in discussione. Sono spesso accompagnati da argomenti per giustificare la contestazione. Come nel breve dialogo tra Marco, un bambino di 5 anni, e la sua mamma. Marco osserva che il suo papà prende delle medicine per curare l’influenza. Ovviamente, ne rimane estasiato e argomenta per analogia:
“Anche io voglio le medicine che ha preso papà, mamma”. La mamma, naturalmente, non è d’accordo e formula un divieto: “Tu non puoi, Marco”. Questa risposta non soddisfa naturalmente il bambino, che sfida a dare le ragioni del divieto: “Perché no?”. La mamma replica con un argomento, molto interessante, che rimette tutti i protagonisti della vicenda al loro posto: “Perché i bambini devono prendere delle medicine particolari. Non possono prendere le medicine dei grandi, altrimenti si sentono male”.
Molto chiaro anche l’esempio in cui Chiara, una bambina di 5 anni, negozia con il suo papà la quantità di cibo che può lasciare nel piatto, aggiungendo, di striscio, un argomento: “Questo poco di pasta lo posso lasciare?” (sollevando leggermente il suo piatto per mostrarne il contenuto al papà). Qui l’espressione questo poco argomenta naturalmente per una concessione. Il papà replica con una proibizione: “No, non puoi”. A questo punto Chiara, certamente più determinata a contestare la proibizione paterna che affamata, ricarica: “Perché, papà?” Il papà confuta con l’evidenza l’argomento del questo poco: “Non ne hai mangiato per niente, Luisa”.
È chiaro come al piccolo dell’uomo non basti l’informazione e voglia l’accesso alla realtà ed al suo significato. Quegli stessi perché possono diventare di quando in quando domande che indagano il significato della nostra esistenza. Vogliono sapere la nostra origine, il nostro compito e il nostro destino. La conoscenza con la sua razionalità, la sua rilevanza esistenziale, è allora un’esigenza naturale dell’essere umano.
I perché dei bambini, anche se sembrano un gioco, e certamente spesso lo sono, rappresentano il momento centrale della dinamica della crescita, una dinamica che è umano tenere viva in noi attraverso tutta la nostra esistenza: non possiamo considerare l’adulto come qualcuno che non cresce più, anche se questo può essere vero dal punto di vista biologico. La dinamica del perché, essenziale per l’apprendimento, lo è di conseguenza anche per l’insegnamento che viene trasformato in una vera e propria interazione argomentativa, una critical discussion.
Qui forse qualcuno si aspetta e dunque teme che ora io passi a considerare la teoria dell’argomentazione introducendo qualche definizione tecnica e qualche procedimento, magari qualche analytic overview o qualche Y-structure. Preferisco raccontare un episodio.
Un’insegnante di religione in una terza elementare è fortemente contestata da un allievo: “Perché impariamo la religione se la scienza ha dimostrato che non è vera?”.Apparentemente si tratta di una domanda, in realtà (come è spesso il caso con le domande retoriche) è una tesi sostenuta da un’argomentazione a due strati dove un argomento rimanda ad un altro argomento:
tesi: È irragionevole che noi impariamo la religione
argomento 1: La religione non è vera
argomento 2: Lo ha dimostrato la scienza
In effetti l’argomento 1 è in sé stesso una buona giustificazione per la tesi: è davvero irragionevole pretendere che qualcuno impari quello che non è vero, cioè che non esiste, perché imparare è cominciare a conoscere e oggetto del conoscere può essere solo ciò che è reale, cioè vero. In questa prospettiva (se davvero la scienza avesse dimostrato la falsità della religione) avrebbe senso solo l’ateismo. Ma l’argomento 1 regge soltanto in quanto è sostenuto dall’argomento 2.
È su questo che deve incentrarsi la riflessione dell’insegnante. Il suo compito non è davvero semplice. Lei avverte naturalmente che l’apparato contestatorio dell’allievo non è farina del suo sacco e che è totalmente o in parte un discorso riportato. Avverte anche che c’è al fondo un’ideologia scientista, spesso sostenuta da una divulgazione scorretta, magari con i soliti rimandi a Keplero e Galileo.
Sarebbe tentata di rispondere per le rime e di mettere in guardia l’allievo dalle manipolazioni, ma, nella migliore delle ipotesi, la sua adesione sarebbe ex auctoritate, senza ragioni. Peraltro coglie nella provocazione dell’allievo una straordinaria opportunità: può mettere a tema una distinzione importante, favorendo un punto di crescita e un guadagno di consapevolezza di tutta la classe. Sente anche il bisogno di approfondire per conto suo il punto e di studiare un modo per dirlo che sia su misura dei suoi allievi, che rispetti la loro categorialità. Così non si impegna in una confutazione estemporanea: sa che è in scuola e non in un talk show. Loda anzitutto l’allievo per aver affrontato un problema importante che bisogna considerare approfonditamente e riconosce che nel suo ragionamento c’è un primo passaggio perfettamente corretto sottolineando che resta da vedere un secondo punto sul quale bisognerà tornare nella lezione successiva:
Hai ragione a dire che non ha senso studiare le cose false, dobbiamo, però, vedere se la scienza abbia davvero dimostrato che la religione è falsa. Bisogna che ci torniamo su la prossima volta.
Così prende tempo. Credo che questa insegnante abbia davvero trovato un modo adeguato per fare argomentazione nella scuola: non si tratta di introdurre una materia in più allestendo una piccola teoria dell’argomentazione, ma di insegnare argomentando, ossia di insegnare dando le ragioni. Il primo passo nell’argomentazione, che è una messa alla prova della propria posizione davanti alla ragione dell’altro, è il riconoscimento e la stima della ragione dell’altro. Il bisogno di verifica manifestato dall’allievo viene così incoraggiato. Al tempo stesso la disponibilità dell’insegnante fa cogliere all’allievo l’importanza e la serietà dell’impegno argomentativo.
So per certo che questa insegnante, tornata a casa, parlò del suo problema con alcune amiche e ne discusse a lungo anche con suo marito. Era importante anzitutto chiarire il punto: non si trattava di mostrare che la scienza, almeno finora, non aveva falsificato la religione, ma che non avrebbe mai potuto né potrebbe mai farlo e questo perché scienza e religione, pur contribuendo ambedue, in quanto forme di conoscenza, alla nostra comprensione della realtà, lo fanno per aspetti diversi. In altre parole, scienza e religione hanno oggetti formali diversi e non possono dunque contraddirsi. Si trattava di esprimer tutto questo attraverso la categorialità dell’allievo. Ebbene proprio il riferimento agli infiniti perché dell’argomentazione nella sua primissima fase offrì in quell’occasione all’insegnante lo strumento categoriale adeguato. Al ritorno in classe si espresse grosso modo così:
La scienza e la religione ci servono a capire noi e la realtà in cui viviamo e capire significa saper dire perché. Ci sono dei perché a cui risponde la religione (perché esistiamo, perché non si può uccidere?) e dei perché a cui risponde la scienza (perché d’inverno è più freddo? perché ci sono le maree?). Scienza e religione sono ambedue necessarie per capire la realtà e dare senso alla vita.
Naturalmente tutti in classe andarono a gara a portare esempi dei perché più svariati chiedendo se fossero perché scientifici o religiosi.
Ma veniamo ora al punto b): qual è il ruolo dell’adulto nell’apprendimento, cioè nell’acquisizione di conoscenza?
Insegnare non è un verbo causativo in senso stretto, non equivale a causare che un altro impari perché l’oggetto indiretto, cioè quest’altro, è un essere umano, dunque libero: perciò l’evento dell’apprendimento non può essere l’effetto scontato di nessun intervento dell’adulto. Inevitabilmente, quando l’insegnamento opera prescindendo dalla libertà, dall’interesse e dalla ragione dell’apprendente, esso può dare luogo solo a un addestramento, anzi, a una manipolazione.
Tutto questo, lungi dal rendere il ruolo dell’insegnante meno significativo, ne mostra tutta la grandezza. L’insegnante non causa apprendimento, non addestra, non è una catena di trasmissione di saperi costruiti e deliberati altrove, è un “cultore della materia”, ossia un soggetto appassionato a quella realtà che la sua disciplina si incarica di conoscere. Non si limita a consegnare un sapere acquisito, ma lo smonta e lo rimonta insieme al discepolo riverificandone le ragioni ed i nessi, continuamente interrogando la realtà a cui il sapere si riferisce per trarne un’esperienza più ricca. Mentre accompagno (tenendolo per mano = Handführung) il mio allievo nella realtà (totale!) anch’io rifaccio esperienza e rincontro quella realtà: non è possibile ripetere la stessa esperienza rileggendo lo stesso canto di Dante o ripercorrendo le mosse inferenziali dello stesso teorema insieme all’allievo. Il “gaudium de veritate”, legato nel primo caso alla partecipazione all’evento poetico e nel secondo alla profonda, intensa, gioia dell’inferenza, scaturisce da un nuovo avvenimento. Non sono solo io che accompagno lui nella realtà, anche lui accompagna me. La sua esperienza è una verifica della mia in quanto l’insegnamento non è esposizione di contenuti, ma sfida alla ragione e al cuore dell’allievo. In questo senso è argomentativo.
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LA REPLICA/ Binetti: l’unico "accanimento" è quello di Rodotà contro la tutela della vita di Paola Binetti, martedì 22 febbraio 2011
Mentre nell’Aula del Parlamento sta finalmente arrivando il dibattito sul cosiddetto testamento biologico si moltiplicano le riflessioni che da prospettive diverse cercano di argomentare aspetti positivi e aspetti negativi della legge in questione. Una legge, il cui nome corretto, vale la pena ricordarlo, è: Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento.
Nell’interpretazione dell’articolato della legge, com’è ormai evidente per tutti, si confrontano due culture, che stentano a trovare un punto di convergenza:
- quella laica di ispirazione cristiana, che riconosce alla vita umana valore in sé stessa, a prescindere dalle capacità del soggetto. È una concezione in cui al valore della vita si affianca il valore della libertà, considerata come una delle qualità principali dell’uomo, che esprime tutto il suo valore potenziale solo se e quando la persona vive.
- quella laico-laicista, centrata sul principio di autodeterminazione, che vede nella libertà un valore assoluto, a cui il valore della vita è strettamente subordinato. È una visione in cui è consentito il negare la vita, autorizzando la volontà di morire in varie forme: dalla sospensione dell'idratazione e della nutrizione fino alla non attivazione delle cure (eutanasia).
Anche ieri su Repubblica Stefano Rodotà ha rilanciato questo appello alla libertà, definendo “legge truffa” l’attuale disegno di legge. Le sue parole sono pesanti come pietre e vale la pena citarle per smascherane la possibile fallacia non solo sul piano linguistico, ma anche sul piano storico e, mi sia consentito come medico, sul piano della deontologia medica.
Dice infatti Rodotà: “Non siamo soltanto davanti a una legge truffa, ma all’abbandono del lungo cammino che, partito dalle esperienze tragiche delle tirannie del Novecento che si erano violentemente impadronite dei corpi delle persone, era approdato all’affermazione netta della essenzialità del consenso dell’interessato…”. Questo suo modo di esprimersi riflette uno strumentale riduzionismo delle tragiche esperienze legate alle tirannie del Novecento, proprio perché dimentica di dire che le ideologie di quel secolo, nazismo o comunismo che fossero, prima che dei corpi si erano impadronite della libertà e dei valori più profondamente umani di cui ogni uomo dispone.
Rodotà giustamente si sofferma sull’essenzialità del consenso umano, riaffermata anche nella Carta dei Diritti fondamentali dell’uomo, dove dignità umana e consenso informato sono strettamente collegati. Le ideologie del Novecento, tutte, nessuna esclusa ciò che hanno più violentemente negato è stata proprio la dignità della persona umana, privandola della libertà necessaria per dare il proprio consenso agli interventi terapeutici che tanto da vicina la toccavano.
Ma ciò che sorprende in queste culture malate è la profonda corruzione di quel rapporto di alleanza terapeutica che fin dai tempi di Ippocrate si è sempre stabilito tra medico e paziente. I medici nazisti, e non solo loro, nei campi di concentramento, non solo non chiedevano nessun tipo di consenso al malato, non solo non gli fornivano nessun tipo di informazione, ma agivano in grave ed evidente contraddizione con il bene della sua salute e della sua vita.
Quella classe di medici, ideologicamente deviati, è colpevole di crimini nei confronti di tutta l’umanità, proprio perché ha allungato l’ombra del sospetto su tutto l’agire medico, capovolgendo pesantemente il paradigma dell’arte medica. Ciò che definisce in profondità l’identità del medico, ciò che ne scolpisce in modo inequivocabile il suo profilo professionale, è la relazione di aiuto competente. È proprio del medico la capacità e la volontà di curare, di alleviare sempre dolori e sofferenze, e anche quando non riesce a guarire il paziente c’è sempre la possibilità di migliorarne la qualità di vita, di rendere più accettabile il dolore, di mitigare il senso della sofferenza, di non farlo sentire solo né tanto meno abbandonato.
La nostra Costituzione, scritta oltre 60 anni fa, proprio a ridosso della fine della guerra, quando era ben chiara nella memoria e nell’orrore di tutti di cosa si fosse macchiata la non-medicina nazista, ha voluto ribadire il valore del coinvolgimento del paziente nei processi decisionali che riguardano lui e la sua salute. Ha voluto farlo in quel comma due dell’articolo 32 della Costituzione, che segue, come è naturale il Comma uno, in cui si afferma che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
La salute di ogni uomo non è solo un diritto individuale, è anche interesse generale e per questo il nostro Sistema Sanitario Nazionale, che è tra i più avanzati al mondo, lo tutela affrontando problemi ad alta complessità sotto il profilo economico, scientifico ed organizzativo. E giustamente tutti ci scandalizziamo e ci ribelliamo davanti alle inefficienze del SSN o peggio ancora davanti agli errori sanitari che a vario titolo vengono commessi ancora con troppa frequenza.
Tutti noi siamo interessati al paradigma della cura e vorremmo che funzionasse nel miglior modo possibile, per assicurare al malato tutte le cure di cui ha bisogno fino al termine della sua vita, garantendogli che non sarà mai abbandonato, anche se la sua famiglia venisse meno o non volesse farsene carico.
Rodotà continua con la sua invettiva, perché di questo si tratta assai più che di un normale articolo, dicendo: “La riconsegna della persona e del suo corpo al potere politico e al potere medico che sarebbe l’esito vero dell’approvazione della legge, è fondata su due affermazioni: la prima essere la vita indisponibile, mentre è vero l’opposto come dimostra l’ormai consolidato rifiuto delle cure... la seconda: il divieto di rinunciare all’alimentazione e alla idratazione forzata, che le società scientifiche di tutto il mondo considerano trattamenti sanitari…”.
È facile rispondere a Rodotà che il rapporto tra politica e sanità è così stretto da impegnare oltre l’80% dei bilanci regionali e che le norme che regolano questo rapporto sono innumerevoli, a cominciare dalla 180 (legge sui manicomi) e dalla 194 (legge sull’aborto), passando per la 833 (legge che istituisce il SSN), tutte risalenti al 1978, in cui per l’appunto nell’arco di soli sei mesi potere politico e potere medico si trovarono a prendere delle decisioni che ancora oggi incidono in modo molto forte nella vita di molte persone e di molte famiglie.
Negli oltre 30 anni seguiti a queste leggi sono stati innumerevoli i punti di incontro tra politica e medicina, penso alla legge sui trapianti, nell’ambito della quale si definì il concetto di morte cerebrale e la possibilità di prelevare gli organi da impiantare su pazienti in gravi condizioni e in attesa di una donazione, ma penso anche alla legge 40 sulla fecondazione medicalmente assistita. Tante leggi che di volta in volta hanno incontrato il consenso di alcuni e il dissenso di altri, proprio perché si innestavano in questa area delicatissima in cui politica e medicina sembrano quasi scambiarsi le parti, ogni volta credendo di stare dalla parte del paziente.
Ed è per questo che appare del tutto forzata l’espressione di Rodotà quando parla del consolidato rifiuto delle cure. Il rifiuto delle cure è tutt’altro che consolidato e si innesta in un processo di confronto tra i desideri e le paure del malato con la competenza e la capacità di persuasione del medico che non può che essere collocato in un presente fortemente attualizzato: hic et nunc e non ora per allora.
Il consenso informato, rispetto al rifiuto totale delle cure da parte del malato, infatti, non può essere delegato a nessuno, neppure al fiduciario, per cui non può essere oggetto di una dichiarazione anticipata, e se mai lo fosse questa non può avere carattere vincolante.
Rodotà non ignora sicuramente che il documento del CNB sul rifiuto dei trattamenti sanitari della fine del 2008 prende in considerazione esclusivamente malati consapevoli e autonomi, ossia pazienti in grado di comprendere esattamente ciò che stavano chiedendo all’interno di una relazione con il loro medico e in grado di mettere in atto in piena autonomia le decisioni prese.
Come dire che venivano totalmente esclusi sia i pazienti che non fossero coscienti, come accade per i pazienti a cui si applica questa legge, sia i pazienti che in ogni caso avrebbero avuto bisogno di terzi per portare a termine quanto deciso. E anche in questi casi la lunga postilla di Francesco D’Agostino al documento del CNB ne rivela tutte le possibili insidie di stampo eutanasico, che si insinuano tra le affermazioni della relazione.
In ogni caso il diritto alla non attivazione o all’interruzione delle cure, quando si tratta di cure salva vita, la cui omissione non può che essere la morte, richiede necessariamente una volontà attuale, libera e consapevole e non può rientrare nella logica dell’ora per allora, tipica delle dichiarazioni anticipate di trattamento.
L’aspetto più insidioso nella posizione dei fautori del principio di autodeterminazione nella sua formulazione assoluta è quello di ribadire il diritto alla non attivazione o alla interruzione di ogni tipo di cura, anche quelle salva-vita.
Il dibattito sulla nutrizione-idratazione medicalmente assistita: se sia un trattamento di tipo medico (e come tale possa rientrare tra i desiderata del paziente) o se sia invece un sostegno vitale (e come tale vada sempre assicurato al paziente) può diventare un potente distrattore rispetto al vero punto critico della legge, che attualmente riguarda soprattutto il diritto del paziente al rifiuto-rinuncia delle cure.
La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. È quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente, evitando le sofferenze e la morte dovute a inanizione e disidratazione.
Non si può prescindere dal criterio etico generale, secondo il quale la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenta sempre un mezzo naturale di conservazione della vita e non un trattamento terapeutico. Il suo uso sarà quindi da considerarsi ordinario e proporzionato, anche quando lo “stato vegetativo” si prolunghi. D’altra parte il rifiuto della nutrizione-idratazione è perseguito con tanta ostinazione solo perché è un fattore sicuro di morte in un tempo che si presuppone ragionevolmente breve.
Dice ancora Rodotà, citando una sentenza della Corte del 1990, che sono illegittime sia le pretese del legislatore scienziato che quelle del legislatore medico, perché il valore costituzionale della inviolabilità della persona umana comprende il potere della persona di disporre del proprio corpo. Eppure è proprio dalla collaborazione del legislatore con il medico e con lo scienziato che sono nate tante leggi che solo apparentemente limitano il potere dell’uomo sul suo corpo, mentre in realtà fungono come norme di garanzia per la sua salute e la sua vita.
Basta pensare a una serie di norme che limitano la donazione del sangue, che non consentono la donazione di organi, che impongono degli obblighi di guida con relative limitazioni anche per chi viaggia accanto, oppure determinano dei criteri di sicurezza da rispettare sui luoghi di lavoro, ecc...
La libertà acquista il suo pieno significato sempre nella prospettiva della tutela della vita e della salute. In un certo senso proprio l’articolo 32 della Costituzione nel momento in cui predispone cure per tutti gli indigenti sembra invocare una sorta di diritto contestuale a curarsi e un obbligo dello Stato di provvedervi, immaginando un patto scritto proprio tra i diversi commi della nostra Costituzione.
Rodotà ha da tempo innestato, indubbiamente insieme ad altri, un processo di accanimento anti-legislativo che forza sistematicamente l’interpretazione di questa legge, come quando la definisce "legge truffa", o enfatizza i risultati di un sondaggio Eurispes secondo il quale il 77% sarebbe favorevole all’eutanasia.
Sono molte le tesi maturate in diverse Facoltà di Medicina in cui con grande serietà scientifica è stata esplorata la frequenza e la tipologia della richiesta eutanasica, ottenendo risultati ben diversi da questo 77%, che risulta decisamente forzato e pone qualche dubbio sulla confezione del campione o sulle modalità in cui erano poste le domande, o ancora sull’impatto emotivo di trascinamento legato alla vicenda Englaro.
Ci sono inoltre numerose e consolidate esperienze fatte, ad esempio, in diversi Hospice italiani, in cui le richieste eutanasiche non raggiungono neppure il 2-3 per mille. E sono stati intervistati sia i familiari che i soggetti malati. In un paese malato di sondaggite è bene che le persone si interroghino sulla metodologia del sondaggio e sulla correttezza della raccolta dati e della relativa interpretazione.
In definitiva se è vero che alcuni condividono i dubbi e le perplessità di Rodotà, bisogna riconoscere che sono molti coloro che sono sostanzialmente favorevoli alla legge, proprio per quanto riguarda la tutela della vita e il no chiaro e fermo all’eutanasia; il sì alle cure palliative e il no all’accanimento terapeutico; la necessità di acquisire il consenso informato prima di qualsiasi intervento e il no all’abbandono del malato.
Persone che si aspettano una formulazione della legge in cui il valore della vita si integri con quello della libertà del paziente e del medico; l’autonomia del paziente non si riduca all’indifferenza del medico; il valore delle cure non diventi un inutile accanimento; l’alleanza medico-pazienti non degeneri in una forma di contrattualismo. È un'opinione assai più diffusa di quanto non credono i detrattori delle legge, che tendono troppo spesso a fare di tutta un’erba un fascio, mettendo insieme il giudizio su di una cattiva legge e su dei pessimi legislatori o peggio ancora degli incauti sostenitori, finendo in questo modo col mandare al macero la tanto decantata libertà di autodeterminarsi e di pensare anche in modo alternativo al loro.
Sembra che dietro tante critiche in fondo si celi una sostanziale intenzione manipolatoria per avere una legge a misura della propria libertà, ma non di quella altrui.
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Come agisce il LEVONORGESTREL nel prevenire la gravidanza quando viene usato come contraccettivo d'emergenza (LNG ECPs)? Considerazioni sullo statement congiunto di ICEC e FIGO di Rassegna Stampa - 21/02/2011 - Bioetica di Bruno Mozzanega ed Erich Cosmi - Dipartimento di Scienze Ginecologiche e della Riproduzione Umana – Università degli Studi di Padova.
Riassunto
In questo articolo esaminiamo con attenzione lo Statement congiunto dell’International Consortium for Emergency Contraception (ICEC) e dell’ International Federation of Gynecology & Obstetrics (FIGO) relativo al meccanismo d’azione delle Pillole Contraccettive d’Emergenza a base di solo Levonorgestrel (LNG ECPs) proprio a partire dalla lettura degli articoli scientifici citati a supporto dello stesso. Le conclusioni dello Statement non sembrano corrispondere a quanto descritto negli articoli dalla Letteratura, specie in relazione alla capacità delle LNG ECPs di inibire l’ovulazione e alla loro supposta neutralità sul tessuto endometriale.
Introduzione
Gli Statements pubblicati da Società Scientifiche Mediche Internazionali sono documenti particolarmente importanti: essi servono da linee-guida per le scelte professionali di migliaia di Medici in tutto il mondo, i quali spesso si affidano completamente alle loro conclusioni. La responsabilità etica e scientifica delle Società Scientifiche è quindi particolarmente alta.
Circa un anno fa la International Federation of Gynecology & Obstetrics (FIGO) ha emesso uno Statement Congiunto con la International Consortium for Emergency Contraception (ICEC) sul meccanismo d’azione delle Pillole Contraccettive d’Emergenza a base di solo Levonorgestrel (LNG ECPs). Lo Statement è stato pubblicato in Inglese e Spagnolo e ne viene annunciata anche la traduzione in Francese (dal sito web ufficiale della FIGO).
La domanda cui rispondere era: “How do levonorgestrel-only emergency contraceptive pills (LNG ECPs) prevent pregnancy?” una domanda in cui il termine “pregnancy” convenzionalmente copre la vita dell’embrione soltanto nella sua fase successiva all’impianto, lasciando fuori la sua settimana di vita antecedente, quella che dopo il concepimento lo porta ad annidarsi, che è il centro di ogni dibattito relativo al meccanismo d’azione delle ECPs.
Naturalmente la domanda suesposta è ancora completamente aperta.
Nonostante ciò, attraverso lo Statement, ICEC e FIGO pretendono di chiudere definitivamente il dibattito presentando LNG ECPs come farmaci che “inhibit or delay ovulation”. Secondo gli Autori, “this should be the primary and possibly the only mechanism of action for LNG ECPs”.
In supporto allo Statement, gli Esperti di ICEC e FIGO citano sei lavori e concludono che l’Evidenza dimostra che le LNG ECPs interferiscono con il picco preovulatorio di LH, impedendo lo sviluppo e la maturazione dei follicoli e/o il rilascio dell’uovo stesso.
Dopo di ciò, sulla base della valutazione di ulteriore bibliografia, essi concludono che “Review of the evidence suggests that LNG ECPs cannot prevent implantation of a fertilized egg”. Infine, cercano possibili effetti delle LNG ECPs sulle funzioni degli spermatozoi, ma non riescono a raggiungere alcuna conclusione.
In questo articolo ci proponiamo di valutare le conclusioni dello Statement basando la nostra analisi sulle stesse Referenze bibliografiche dello Statement. La discussione seguirà lo stesso ordine di argomenti: Ovulazione, Impianto e, infine, funzioni degli Spermatozoi.
Naturalmente, i rapporti sessuali non protetti per cui si raccomandano le ECPs sono quelli che avvengono nel periodo fertile preovulatorio, che può durare fino a cinque giorni e termina intorno alla ovulazione. Di conseguenza l’uso di ECPs sembra appropriato soltanto dall’inizio di questo periodo fino a 72 ore dopo l’ovulazione e questo è esattamente l’intervallo temporale considerato dalla Letteratura citata nello Statement.
- LNG ECPs: impatto sulla Ovulazione
Obiettivo degli Autori era capire l’impatto delle LNG ECPs sull’ovulazione. Tre articoli si basano sul dosaggio degli ormoni urinari; gli altri associano il dosaggio degli ormoni urinari e plasmatici; tutti, tranne Hapanagama, hanno usato ultrasuoni per monitorare la crescita follicolare. Ogni studio ha dichiarato che le donne arruolate erano sane e con cicli mestruali normali
Hapanagama riferisce di 12 pazienti: quattro di esse assunsero LNG ECPs (0.75 mg x 2) a una distanza „d 3 giorni dal picco di LH e la loro ovulazione venne ritardata; una fu trattata nel giorno LHƒ{2 (2 giorni prima del picco) e non ovulò. Sette pazienti apparentemente ovularono ma mostrarono ridotti livelli luteali di LH e una fase luteale breve: gran parte di loro fu trattata nel giorno LH, una nel giorno LH, il giorno del picco.
Marions somministrò due volte LNG ECPs (0.75 mg x 2) a sei donne: la prima volta nel giorno LH; la seconda dopo l’ovulazione, nel giorno LH+2. Valutò sia i livelli ormonali urinari, sia una biopsia endometriale ottenuta nel giorno LH+(6-8).
Il trattamento pre-ovulatorio inibì il picco di LH; tuttavia, sia la lunghezza del ciclo che i livelli di estrone e pregnanediol glucuronide risultarono simili a quelli del ciclo di controllo. Il trattamento post-ovulatorio non modificò le caratteristiche del ciclo, ma l’endometrio risultò istologicamente normale soltanto in tre pazienti (50%), asincrono (out of phase) in due e insufficiente in una.
Successivamente somministrò lo stesso trattamento a sette donne nel giorno LH; e valutò sia il comportamento degli ormoni urinari sia il destino del follicolo dominante: un aumento chiaro del rapporto LH/Creatinina fu riscontrato in quattro dei sette cicli nei giorni LH+1 e LH+2 con un analogo ritardo nella salita dei livelli del progesterone. Tuttavia, I follicoli dominanti osservati con ultrasuoni evidenziarono un arresto della crescita (n = 3) o una crescita continua fino alla mestruazione successiva (n = 4), suggerendo che l’ovulazione non si era verificata.
Durand studiò quarantacinque donne; somministrò LNG ECPs (0.75 mg x 2) in diversi momenti del ciclo: nel giorno 10 (15 pazienti, Gruppo A), nel giorno LHƒ{0 (picco di LH) (11 pazienti, Gruppo B), nel giorno LH+2 (11 pazienti, Gruppo C), o nella fase follicolare avanzata LH-(3+-1) (8 pazienti, Gruppo D). Una ecografia transvaginale e il dosaggio di LH sierico vennero effettuate ogni giorno dal momento in cui LH divenne dosabile nell’urina fino alla rottura del follicolo. I livelli sierici di estradiolo e progesterone vennero dosati durante tutta la fase luteale. Una biopsia endometriale fu effettuata nel giorno LH+9.
Dodici pazienti nel Gruppo A non ovularono (8o%), le altre tre ovularono ma presentarono un significativo accorciamento della fase luteale con livelli luteali notevolmente inferiori di progesterone. Tutte le donne nei Gruppi B, C, e D mostrarono segni ultrasonografici di rottura del follicolo, e LNG non modificò il giorno del ciclo in cui si verificò l’ovulazione. Nei Gruppi B e C non si osservarono differenze significative sia nella lunghezza del ciclo sia nei livelli sierici luteali di progesterone ed estradiolo rispetto ai cicli di controllo, mentre nel Gruppo D la lunghezza del ciclo risultò normale ma i livelli sierici luteali di progesterone risultarono significativamente ridotti. Quanto alla istologia endometriale, l’Autrice conclude che essa risultò normale in tutti i cicli trattati in cui si verificò l’ovulazione. Tuttavia, riferisce anche che vennero esaminati soltanto 24 endometri su 33 prelevati nelle pazienti con cicli ovulatori, mentre nove furono esclusi. Gli esclusi furono tutti i tre dal Gruppo A e quattro dal Gruppo D (50%), che risultarono asincroni (out of phase), un ulteriore endometrio dal Gruppo D e uno dal Gruppo B, che risultarono quantitativamente insufficienti. Di conseguenza le 24 biopsie valutate e riportate come normali provenivano quasi interamente dai Gruppi B e C, quelli in cui LNG era stato assunto al momento dell’ovulazione o successivamente.
Okewole somministrò LNG (1.5 mg) in un’unica dose a quattordici donne nel periodo peri-ovulatorio per verificare i suoi effetti sui livelli sierici di gonadotropine, estradiolo e progesterone. Otto donne (Gruppo A) furono trattate nel giorno LH-3, mentre sei (Gruppo B) nel giorno LH-1.
LNG prolungò significativamente la durata del ciclo nelle otto donne del Gruppo A con un ritardo nel picco di LH di 96-120 ore. Nelle sei donne del Gruppo B, al contrario, si osservò un accorciamento nell’intera durata del ciclo (circa cinque giorni), mentre il picco di LH fu ritardato non significativamente (24 ore). L’Autore concluse che la somministrazione di LNG nella fase follicolare avanzata (Gruppo B) non interferì con il picco di gonadotropine estradiolo-mediato di metà ciclo e probabilmente con l’ovulazione, ma alterò la produzione di progesterone dal corpo luteo con una fase luteale significativamente più breve.
Infine l’articolo di Croxatto: egli somministrò alternativamente o LNG ECPs (0.75 mg x 2), o LNG ECPs (0.75 mg in unica dose), oppure placebo, a 58 donne presunte sane e con cicli normali. Le pazienti vennero randomizzate in tre gruppi: un gruppo fu trattato quando il follicolo dominante raggiunse un diametro medio di 12–14 mm (n=18); il secondo quando il diametro del follicolo era di 15–17 mm (n=22); il terzo gruppo quando il follicolo raggiunse un diametro ≥18 mm (n=18). Una ecografia transvaginale (TVU) fu effettuata per stabilire il diametro medio del follicolo dominante e successivamente per verificare la rottura del follicolo stesso. Una volta raggiunto il diametro follicolare pre-assegnato, venne effettuata una TVU giornalmente nei cinque giorni consecutivi e poi due volte alla settimana fino alla mestruazione in caso di mancata rottura del follicolo. Campioni di sangue per il dosaggio ormonale vennero prelevati giornalmente all’inizio del trattamento e nei cinque giorni successivi, e poi due volte alla settimana fino alla mestruazione.
Ciò che colpisce è che dopo trattamento con placebo solo il 59% delle donne ovularono normalmente. Esse erano state presunte sane e normo-ovulatorie, ma in esse si verificò un’incidenza piuttosto alta di mancata rottura del follicolo o di disfunzione ovulatoria anche dopo la somministrazione di innocuo placebo: fino al 62% quando ricevettero il placebo a un diametro follicolare di 12–14 mm, 45% a 15–17 mm e 13% di mancata rottura del follicolo quando il diametro follicolare era ≥18 mm.
La proporzione complessiva di cicli con mancanza di rottura follicolare o disfunzione ovulatoria era intorno all’82% dopo LNG, mentre era stata del 41% dopo somministrazione di placebo (p<0.001). Raggruppando insieme la mancanza di rottura follicolare e la disfunzione ovulatoria, l’una o l’altra era presente nel 97%, 88% e 57% dei cicli quando il LNG veniva somministrato con un follicolo di 12–14 mm, 15–17 mm or ≥18 mm, rispettivamente.
I dati di Croxatto meritano più di un commento.
Primo: le pazienti venivano presentate come donne con cicli normali, ma solo il 59% ebbe una normale ovulazione nel ciclo non trattato con LNG.
Secondo: la disfunzione ovulatoria è stata definita come rottura del follicolo non preceduta da un picco di LH, o preceduta da un picco di LH smorzato, o non seguita da una salita di Progesterone sierico oltre 12 nmol/L. Per rendere impossibile la fecondazione, essa dovrebbe essere accompagnata da un mancato distacco del complesso cumulo-ovocita; tuttavia, questo implicherebbe che la cascata collagenolitica che si attiva nel follicolo per la sua rottura venga ad essere così selettiva e limitata da non avere alcun effetto sul distacco del cumulo ooforo. Inoltre, dati sperimentali citati da Croxatto stesso riportavano che la probabilità di concepire nei cicli spontanei era correlata alle caratteristiche del picco di LH: ma era solo ridotta, non annullata quando il picco si presentava attenuato o breve. Infatti, un picco di LH basso (25–42 IU/L) e breve (1 solo giorno) era associato a un tasso di gravidanza più basso (5.6%), mentre raggiungeva il 23% con un picco di LH di due giorni e di livello superiore alle 42 IU/L.
Terzo: Croxatto stesso, citando dati propri, riportò che esiste una grande variabilità nel tempo necessario perché un follicolo di dimensione data arrivi a rottura. Per esempio (6), in un gruppo di 24 donne ci vollero da 4 a 10 giorni perché un follicolo di 12-14 mm arrivasse al giorno della rottura. Ciò significa che le 18 donne che erano state arruolate con un follicolo dominante di tali dimensioni verosimilmente non erano ancora nel periodo fertile del ciclo, e che tutt’al più solo poche di loro erano proprio al suo inizio.
Nondimeno, anche supponendo che tutte le considerazioni di Croxatto fossero corrette, non possiamo tralasciare il fatto che maggiore è il diametro del follicolo dominante, maggiore è la probabilità che l’ovulazione si verifichi e possa seguirne il concepimento, e questa possibilità non può mai essere esclusa, nemmeno quando LNG è somministrato negli stadi più precoci di sviluppo follicolare. E questa probabilità apparirebbe ancora maggiore se dallo studio fossero state escluse le pazienti che ancora non erano nel periodo fertile del ciclo.
Considerando l’insieme degli studi, solo quello di Marion (sette pazienti) supporta direttamente la tesi dello Statement. I risultati dei rimanenti studi sono perlomeno contrastanti, anche se dovessimo dare per scontati un alto numero di casi di luteinizzazione follicolare, peraltro assolutamente non dimostrati negli studi esaminati. Inoltre, le 24 pazienti in cui LNG aveva posticipato l’ovulazione erano all’inizio del loro periodo fertile (decimo giorno di ciclo o LH->_d 3) quando ricevettero LNG e così pure le 18 pazienti trattate quando il loro follicolo dominante aveva un diametro di 12-14 mm. Rapporti sessuali non protetti nei giorni precedenti erano avvenuti verosimilmente in periodo non fertile quando il rischio di concepire era praticamente nullo. Infine, il numero esiguo di pazienti valutate (solo 142, suddivise in sei diversi studi e ulteriormente in sottogruppi differenti) fa sì che il campione non sia affatto rappresentativo e ci si chiede perché gli Esperti qualificati di ICEC e FIGO abbiano voluto rilasciare lo Statement sulla base di dati insufficienti e contraddittori.
- LNG ECPs: impatto sull’Impianto
Nello Statement, oltre a concludere che l’inibizione o il ritardo dell’ovulazione è il principale meccanismo d’azione del LNG, gli Esperti di ICEC e FIGO suggeriscono anche che “Review of the evidence suggests that LNG ECPs cannot prevent implantation of a fertilized egg” e che “Language on implantation should not be included in LNG ECP product labelling”.
Vediamo quale sia l’ evidenza sugli effetti endometriali del LNG. In alcuni degli studi già valutati l’ovulazione era seguita da una fase luteale breve o inadeguata e in alcune pazienti che avevano ovulato l’endometrio luteale era asincrono (out of phase); queste osservazioni non possono essere conclusive, ma suggeriscono qualche tipo di difficoltà per l’embrione che sta impiantandosi.
La stessa Durand, alcuni anni dopo, aggiunse informazioni che appaiono ancora più importanti, e che appaiono nella bibliografia degli Esperti ICEC e FIGO. Utilizzando gli stessi materiali del suo studio precedente in modo retrospettivo, evidenziò una bassa presenza (low staining score) di glycodelina-A endometriale nelle pazienti trattate con LNG nel giorno LH-(3+-1), le stesse pazienti descritte precedentemente come Gruppo D: proprio le stesse che ovularono ma ebbero livelli luteali di progesterone significativamente minori. Questo effetto endometriale non viene identificato dalla normale istologia e può riflettere sia un effetto diretto del LNG oppure un suo effetto indiretto dovuto ad un insufficiente produzione di progesterone dal corpo luteo. Dato l’effetto inibitorio della glycodelina-A sulle cellule natural killer, abbondanti nel sito di impianto, una ridotta espressione endometriale di glycodelina-A può indicare un microambiente con immunosoppressione ridotta in corrispondenza dell’interfaccia materno-fetale proprio nel momento cruciale dell’impianto.
Per converso, due studi dalla Svezia hanno dimostrato che LNG non inibisce né l’attecchimento della blastocisti umana a un modello colturale tridimensionale di cellule endometriali in vitro, né l’espressione da parte dello steso modello dei fattori di recettività endometriali regolati dal progesterone. Nello Statement di ICEC e FIGO si pretende che questi dati dimostrino l’assenza di ogni effetto antinidatorio per le LNG ECPs.
Nel primo di questi studi Lalitkumar dimostrò che il LNG non inibiva l’impianto di blastocisti umane a un modello colturale tridimensionale di cellule endometriali in vitro. Nell’esperimento essa coltivò ed utilizzò tessuto endometriale secretivo fisiologico prelevato da 22 volontarie con cicli mestruali regolari e documentata fertilità. I campioni furono prelevati nei giorni del ciclo LH+4 to LH+5, che furono determinati attraverso l’individuazione del picco di LH in campioni di urine raccolti due volte al giorno da tutte le volontarie candidate alla biopsia. Dopo aver coltivato le cellule e organizzato il modello, valutò il tasso di impianto delle blastocisti umane quando al mezzo di coltura veniva aggiunto progesterone da solo oppure progesterone e LNG. Osservò un tasso di impianto sovrapponibile in entrambi i casi e concluse che il LNG non inibiva l’impianto.
Nel secondo studio lo stesso gruppo dimostrò che il medesimo modello tridimensionale di cellule endometriali stromali ed epiteliali coltivate insieme in vitro esprime i fattori di recettività endometriali, regolati dal progesterone, che si osservano in condizioni del tutto fisiologiche e che il trattamento con LNG non ne modificava l’espressione.
Nonostante gli sforzi degli Autori dello Statement, riteniamo che i risultati di entrambi gli studi Svedesi difficilmente possano essere utilizzati per sostenere l’ipotesi che le LNG ECPs non inbiscano l’impianto dell’embrione.
Infatti, l’endometrio luteale per entrambi gli studi era stato ottenuto da donne con ciclo mestruale normale che non avevano assunto LNG ECPs durante il loro periodo fertile. I prelievi bioptici erano stati effettuati durante la fase luteale di cicli normali non trattati, dopo un’accurata individuazione del picco di LH. Questo modello non potrà mai essere rappresentativo del tessuto endometriale di cicli in cui LNG ECPs siano state somministrate nel periodo pre- o peri-ovulatorio. I risultati di questi studi potrebbero dimostrare soltanto che le LNG ECPs somministrate 4-5 giorni dopo il concepimento non possono impedire l’impianto dell’embrione; ma non è certo questo il momento in cui si assume, per sua stessa definizione, la pillola del giorno dopo.
- LNG ECPs : impatto sul muco cervicale e sulle funzioni degli spermatozoi
Solo poche parole sulla possibiltà che le LNG ECPs alterino le funzioni degli spermatozoi. Lo Statement conclude che “Research on the effect of LNG ECPs on sperm is inconclusive”. Sarebbe meglio dire che la Ricerca nega ogni effetto del LNG, alle dosi usate nelle ECPs, sia sulle funzioni degli spermatozoi, sia sulla qualità del muco cervicale, sia infine sulla penetrazione degli spermatozoi dentro la cavità uterina; infatti spermatozoi vitali vennero rinvenuti nel tratto genitale 36–60 h dopo il coito e 24–48 h dopo l’assunzione di LNG.
In conclusione, lo Statement Congiunto dell’ICEC e della FIGO non sembra un contributo finalizzato a chiarire in quale modo le LNG ECPs evitino le gravidanze. Al contrario, il suo intento sembra quello di chiudere il dibattito attraverso una risposta autoritaria piuttosto che autorevole: un tentativo finalizzato a rendere le ECPs eticamente accettabili anche per chi non accetti di interferire con la vita del concepito. Il dibattito su una tematica così ricca di contenuti etici pregnanti esige la massima prudenza ed il più alto rigore scientifico, anche a costo di lasciare un problema irrisolto, nel doveroso rispetto della verità scientifica e della libertà di scelta sia delle pazienti sia dei medici.
Chi fosse interessato alla bibliografia del presente articolo può scrivere a info@libertaepersona.org
“Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona...” o no? Di Kurdakov - 22/02/2011 - il quotidiano l'Unità - http://www.libertaepersona.org
È istruttivo rileggere il rapporto di Enrico Berlinguer al XIV Congresso del PCI. L’intervento occupa ben sei pagine dell’Unità del 19 marzo 1975, e ne riporterò i passi a mio avviso più significativi.
Relativamente alla situazione economica, il giudizio sul declino dei paesi capitalistici è netto:
Il fatto saliente, a partire dall’autunno scorso, è costituito da una caduta o ristagno delle attività produttive che si è ormai estesa in tutta l’area dei paesi capitalistici sviluppati, mentre persistono forti spinte inflazionistiche e si accresce il disordine e si accresce il disordine nel campo monetario e nei mercati finanziari, caratterizzati da cronica instabilità e da sfrenate e incontrollate attività speculative. Particolarmente grave è la recessione in atto negli Stati Uniti (...) Anche nel Giappone si è avuta, nel 1974, una caduta sensibile delle attività produttive (con punte fino al 13%) e dell’occupazione. Nell’Europa Occidentale, anche la Repubblica Federale Tedesca – e cioè il paese la cui economia sembrava la più solida e quella meno esposta alla crisi – registra nel dicembre 1974 una diminuzione dell’indice di produzione industriale del 9,5% (...) Se si prendono i sette principali paesi capitalistici (USA, Giappone, Germania Federale, Francia, Gran Bretagna, Italia e Canada) si constata che il loro complessivo prodotto nazionale lordo è diminuito tra il 1973 e il 1974 dello 0,5%. (...) Nell’ambito dei paesi della Comunità economica europea vi è stato tra il gennaio del 1974 e il gennaio del 1975 un aumento di oltre 1 milione di disoccupati.
E fin qui si potrebbe anche condividere: sono note infatti le difficoltà economiche delle liberal-democrazie occidentali negli anni ’70, in particolare dopo la crisi del petrolio del 1973 (i più maturi ricorderanno in Italia l’austerity e le domeniche a targhe alterne).
Ma come vanno le cose nei paesi oltrecortina? ecco quanto riferisce Berlinguer:
Ben diverso, e anzi del tutto opposto, è il quadro che presentano oggi i paesi dell’area socialista (...) Il dato fondamentale è che in tutti i paesi socialisti si è registrato anche nel 1974 e si prevede anche per il futuro un forte sviluppo produttivo. Dal rapporto annuale da poco reso noto sull’andamento economico nei paesi del Comecon risulta che nel complesso di questi paesi la produzione industriale nel 1974 è aumentata dell’8,5% rispetto al 1973. Inoltre, mentre i lavoratori dei paesi capitalistici sono duramente colpiti dall’aumento della disoccupazione e del carovita, nei paesi socialisti si registrano ulteriori miglioramenti nel tenore di vita dei popoli e nel loro sviluppo civile e culturale. È un fatto dunque: nel mondo capitalistico c’è la crisi, nel mondo socialista no. Al di là dei modi e delle istituzioni politiche in cui la costruzione del socialismo si è realizzata finora e che per molti aspetti, anche essenziali, non possono essere quelli in cui si realizzerà in altri paesi e regioni del mondo, si dimostra così che il socialismo, attraverso una pianificazione e un’effettiva direzione dell’economia nazionale nell’interesse della collettività, è in grado di garantire la continuità dello sviluppo produttivo e la crescita progressiva del benessere sociale.
E qui viene davvero da mettersi le mani nei capelli. Chiunque andasse in Unione Sovietica o in un paese del Patto di Varsavia, poteva rendersi conto della diffusa povertà che toccava l’intera popolazione (salvo la élite comunista al potere, s’intende). Berlinguer aveva visitato l’Unione Sovietica diverse volte: non si era accorto di niente?
Non è finita, perché Berlinguer prosegue dicendo che:
È inoltre ormai quasi universalmente riconosciuto che in quei paesi esiste un clima morale superiore, mentre le società capitalistiche sono sempre più colpite da un decadimento di idealità e valori etici e da processi sempre più ampi di corruzione e disgregazione.
Quasi universalmente riconosciuto? È risaputo come in Unione Sovietica vi fosse una diffusione endemica della piaga dell’alcolismo. L’annullamento della libera iniziativa in ogni campo aveva spento le speranze, le menti, le ‘vite’ di tanti uomini e donne, che riuscivano a “sfuggire” a quell’inferno in terra solo con l’alcool (o con il suicidio). Un importante fattore di dissoluzione delle persone e del tessuto sociale fu sicuramente lo sfascio della famiglia, conseguenza della estrema facilità con cui era stato reso possibile divorziare (bastava inizialmente che anche uno solo dei coniugi ne facesse richiesta). Gli orfanotrofi-gulag si riempirono di bambini abbandonati o i cui genitori erano stati inghiottiti da qualche purga. La delinquenza minorile dilagava. L’aborto poi, che era stato legalizzato nel 1920, era diventato più frequente delle nascite. Nel 1975 vi furono in Russia poco più di due milioni di nascite a fronte di quattro milioni e mezzo di aborti! Statisticamente, una donna russa abortiva in media due-tre volte nel corso della sua vita. Come non pensare che gli aborti fossero così numerosi perché, in aggiunta alla legalizzazione dell’aborto, anche la vita disumana, che pure le donne dovevano soffrire, facesse loro pensare che nei confronti di un figlio fosse più caritatevole ucciderlo nel grembo che farlo nascere in un simile incubo? Solo a partire dagli anni ’90, dopo la caduta del comunismo, il numero di aborti ha cominciato lentamente a scendere, e solo dal 2007 in poi il numero di aborti, pur ancora notevole, è stato superato dal numero di nascite. Ma su vita e famiglia, il PCI perseguì in Italia la stessa politica portata avanti “con successo” dai propri compagni del PCUS, ed ancor oggi, infatti, la persegue, anche se il nome del partito (ma solo quello) è cambiato.
Non parliamo poi di altri fattori “secondari” di cui Berlinguer non fa parola, ovvero la cancellazione della libertà d’espressione, la vita in uno stato-canaglia pronto a carpire un minimo sospiro reazionario, controrivoluzionario per poi farti fuori o metterti in un gulag quale vrag naroda, nemico del popolo. Come riferisce chi ha visitato l’URSS in quegli anni senza paraocchi, quando un russo voleva interloquire liberamente con un occidentale, badava di andare in luoghi aperti, lontani da occhi ed orecchie indiscrete. Si veda ad esempio il film Le vite degli altri.
La distanza dalla realtà non diminuisce quando Berlinguer parla di politica estera:
Molti dei fatti accaduti negli ultimi mesi dimostrano che una parte dei gruppi dominanti dei paesi capitalistici tende a muoversi proprio in direzione di tentativi antidemocratici o minaccia avventure bellicistiche.
...e via a descrivere la ripresa delle forze di destra e di gruppi apertamente reazionari (parola che ricorre spesso, ora come allora, nella propaganda comunista, insieme a fascista) nella Germania Ovest, le minacce americane alla pace in Medio Oriente attraverso il tentativo di dividere i paesi arabi, e inoltre:
Assai allarmante è anche, negli USA, la pressione per un più massiccio intervento delle forze armate americane in Cambogia, e ciò si unisce al sostegno che continua ad essere dato nel Sud Vietnam alla cricca corrotta e sanguinaria di Van Thieu e alla sua azione di sistematica e vergognosa violazione degli accordi di Parigi.
Per carità, non si può dire che la politica estera degli USA sia sempre stata disinteressata, ma che dire di quella dell’URSS? Ecco che cosa pensava al riguardo Berlinguer:
La giusta considerazione di questi pericoli non deve però oscurare la constatazione delle difficoltà e resistenze con le quali deve fare i conti ogni passo verso avventure di tipo bellico. Intanto, nel mondo di oggi, vi è la grande realtà rappresentata dall’Unione Sovietica, dagli altri paesi socialisti e dalla loro ferma e tenace azione a difesa della pace.
Bisogna dire che il concetto che i comunisti hanno della pace è ben singolare, se Giorgio Napolitano poté affermare nel 1956 che “l’intervento sovietico in Ungheria... oltre che ad impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, abbia contribuito in misura decisiva, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell’Urss ma a salvare la pace nel mondo»
Ma andiamo avanti, e passiamo alla situazione dell’Indocina:
Non si lasciano certo intimorire il popolo della Cambogia e i combattenti del Vietnam del Sud. (…)
Nell’Estremo Oriente, è ora che gli Stati Uniti cessino di dare appoggio ai regimi marci di Van Thieu e di Lon Nol, affinché siano pienamente attuati gli accordi di Parigi sul Vietnam e affinché il popolo cambogiano possa sovranamente decidere del proprio futuro. Mandiamo da questo nostro Congresso il saluto più fraterno e l’impegno di operante solidarietà dei comunisti italiani agli eroici combattenti del Vietnam e della Cambogia.
Questo dunque il giudizio berlingueriano (e del PCI) sulla situazione in Indocina. Ben altra era la realtà, come ben la descriveva Eugenio Corti nel maggio di quello stesso anno:
Nel 1954, in seguito alla pace di Ginevra, che segnò l’abbandono dell’Indocina da parte dei francesi, il territorio del Viet Nam fu provvisoriamente diviso in due al diciassettesimo parallelo: erano previste per il giugno ‘56 "elezioni generali libere e democratiche" aventi come scopo la riunificazione del paese. Frattanto erano consentiti spostamenti di popolazioni tra il Nord (in mano comunista) e il Sud (in mano ai non comunisti) e viceversa. Fu appunto questo che consenti nel ’54-’55 il grande esodo di un milione e centomila non comunisti (in maggioranza cattolici) dal Nord verso il Sud. L’esodo sarebbe stato di proporzioni maggiori, se le forze armate comuniste non fossero intervenute a troncarlo con la forza. Spostamenti di popolazioni verso il Nord non se ne verificarono.
Nel 1956 le elezioni non vennero tenute, in quanto il Nord – tra l’altro più popoloso – aveva nel frattempo "scelto il socialismo", e nello stesso Sud – per dichiarazione dei suoi governanti di allora – c’erano in molti luoghi formazioni armate comuniste che le avrebbero influenzate. (…) Nel Sud Viet Nam i vietcong non erano totalmente padroni della situazione (…), ma le testimonianze concordano nel dire che, a quel tempo, essi, dove potevano giungere, uccidevano implacabilmente i capi villaggio, i maestri elementari, e insomma ogni pur piccolo funzionario fedele al governo; è da allora che le popolazioni cominciarono a essere raccolte nei cosiddetti ‘villaggi fortificati’. Non essendosi tenute le elezioni, la lotta armata riprese.
Perché i civili da anni – e tanto più ultimamente – abbandonano case, campi e ogni loro povero avere, e fuggono in massa verso le ultime zone difese dall’esercito del Sud, anziché attendere l’arrivo dei comunisti? (…)
Pietro Gheddo, direttore di una rivista missionaria milanese (è il maggior studioso italiano del mondo vietnamita, sul quale ha scritto anche dei libri molto letti nello stesso Viet Nam), riferisce: «Nel viaggio che ho fatto nel dicembre ’73 ho potuto visitare numerosi campi di profughi e ovunque ho sentito la stessa storia: gente che era scappata da villaggi e città della zona vietcong dopo uno, due, tre anni di vita sotto quel regime; tutti ripetevano che la vita era durissima, il controllo politico soffocante, l’eliminazione degli avversari politici sicura, la libertà religiosa quasi inesistente». Anche tra i militari nordvietnamiti e vietcong prigionieri, quando Thieu, in base agli accordi di Parigi «voleva consegnarli ai vietcong, molti non volevano assolutamente acconsentire». Ancora: «Un padre di sette figli fuggito dopo alcuni anni di esperienza comunista, mi diceva: ‘La vita è impossibile: controlli continui, lavoro gratuito per l’esercito nordvietnamita, tutto è proprietà dello stato, una serie di divieti che soffocano, lunghe serate di riunioni politiche in cui bisogna fare l’autocritica e accusare gli altri... Si instaura un clima di terrore, quelli che osano protestare, o anche solo fare domande indiscrete, scompaiono senza lasciare traccia. Dopo qualche mese la gente non pensa che a scappare a qualunque costo’». È il noto quadro del comunismo staliniano.
Sempre nel dicembre ’73 Gheddo ha visitato Hué, dove un sacerdote cattolico (di cui tacciamo il nome, perché ora la città è nuovamente in mano comunista) gli ha detto: «Prima del 1968 la città di Hué era la più contraria a Thieu e la più favorevole a un dialogo col F.L.N. Poi siamo rimasti una ventina di giorni ‘liberati’ dai vietcong e dai nordvietnamiti durante l’offensiva del Tet del febbraio-marzo 1968. In quell’occasione i comunisti fecero di tutto per alienarsi le simpatie della gente, fino a compiere massacri di civili – 3.000 cadaveri scoperti nelle fosse comuni – mai visti in precedenza. Dopo di allora, anche i capi dei movimenti studenteschi dell’università, che si erano pronunziati in favore d’un regime socialista, dichiararono che preferivano una dittatura nazionalista a una dittatura comunista».
Sempre a Hué un altro religioso, il gesuita padre Urrutia, direttore del centro studentesco cattolico, gli riferì che in seguito a quell’esperienza del ’68, quando nel ’72 i comunisti, durante una nuova offensiva, giunsero a circa quaranta chilometri dalla città «Hué si svuotò quasi completamente dei suoi abitanti: fuggirono tutti verso il Sud, verso Danang, e tornarono solo mesi dopo, quando ogni pericolo era scomparso. In città non era rimasto che il 10% dei suoi trecentomila abitanti... All’ospedale su trenta medici ne rimasero tre, tutti stranieri. L’università si svuotò completamente, gli uffici e le fabbriche erano deserti, di bonzi non c’era più traccia. Siamo rimasti, con l’Arcivescovo, una ventina di sacerdoti su più di cento. Sembrava una città di morti... Poi» – concluse padre Urrutia – «mesi dopo, quando tornai in Europa, lessi su riviste cattoliche che in quel tempo la popolazione di Hué aspettava con ansia l’arrivo dei liberatori...»
In realtà sta qui, a giudizio di chi scrive, la più grande vittoria comunista: nel fatto che gli uomini liberi d’Europa e d’America siano sempre meno disposti ad agire in difesa della libertà, e che molti di loro, per tranquillizzarsi, accettino ad occhi chiusi la propaganda comunista.
Ecco dunque le gesta degli «eroici combattenti del Vietnam e della Cambogia»: in Vietnam il regime comunista ha causato più di un milione e mezzo di morti (fino ad ora) e l’esodo dei “boat people” (stimato attorno al milione di persone); in Cambogia – il cui tragico destino è ben descritto nel film Le urla del silenzio – una volta caduta Phnom Penh nelle mani dei Khmer Rossi (evento salutato dall’Unità come la sua «liberazione») in soli tre anni il regime comunista sterminò un numero di persone stimato dai due ai tre milioni (su una popolazione di circa otto milioni!)
La domanda che ci si pone è: Berlinguer sapeva e mentiva o non sapeva perché non voleva sapere (i mezzi per sapere li aveva) ? Credo che la risposta sia nota solo a Dio.
Possiamo però chiederci: Enrico Berlinguer è stato, oggettivamente, un servitore della giustizia e della verità? A questa domanda l’unica risposta che possiamo darci è un secco ‘no’. È una risposta che non piacerà a quanti ritengono che, comunque, come cantava Gaber, «Berlinguer era una brava persona», ma è l’unica risposta onesta che si può dare se non si vuole offendere la memoria dei milioni di uomini e donne vessati ed uccisi in nome del sol dell’avvenire.
Dove va la Libia? Di Rassegna Stampa - 21/02/2011 - Africa – da http://www.libertaepersona.org
TRIPOLI, 21. Non si placa la rivolta in Libia, nonostante la sanguinosa repressione messa in atto dal regime guidato da Muammar Gheddafi. Fonti diverse ma concordi, parlano ormai di oltre trecento le vittime dall'inizio delle proteste, una settimana fa, e lo scenario è ormai quello di una guerra civile. La rivolta ha investito anche la capitale Tripoli, dove nei giorni scorsi c'erano state manifestazioni filogovernative, ma dove da ieri sono in atto scontri di piazza e questa mattina sono segnalati in fiamme edifici pubblici, compresi il palazzo del Governo e la sede del Parlamento.
Secondo l'emittente televisiva satellitare al Jazeera, che cita fonti mediche, in città solo oggi si sono contati oltre sessanta morti. Al Jazeera aggiunge che anche le forze dell'ordine si sono date a saccheggi di uffici e banche e che tutte la zona meridionale, Jebal Nafusa, è i mano ai ribelli. Anche Bengasi sembra ormai nelle mani degli oppositori, ai quali si sono uniti anche reparti militari, dopo che ieri altre truppe avevano aperto il fuoco contro i manifestanti, prima di essere costrette a lasciare la città.
Sempre a Bengasi, ma anche a Tripoli e in altre città, c'è preoccupazione che la rivolta possa essere infiltrata da gruppi di matrice fondamentalista islamica già protagonisti in passato di violenze contro le minoranze cristiane. In città sono rimaste numerose religiose decise a continuare la loro opera di assistenza, mentre viene segnalato che numerosi immigrati filippini hanno cercato rifugio nelle chiese. Si rincorrono voci su una fuga di Muammar Gheddafi e di un possibile colpo di Stato militare. Il figlio dello stesso leader libico, Seif al Islam, ha smentito la circostanza, dichiarando ieri sera - in un discorso televisivo di quaranta minuti durante il quale si erano udite diverse sparatorie in città - che il padre "sta guidando la lotta a Tripoli e vinceremo".
Il figlio di Gheddafi ha altresì parlato di complotto esterno, proponendo la convocazione di un'assemblea generale del popolo per fare insieme le riforme. Secondo Seif al Islam - che alcune fonti danno in contatto con esponenti dell'opposizione nel tentativo di avviare un dialogo - la Libia è vittima appunto di un complotto internazionale, corre il rischio di una guerra civile, di essere divisa in diversi emirati islamici, di perdere il petrolio che assicura unità e benessere al Paese, di tornare preda del colonialismo occidentale. Nei giorni scorsi, il Governo di Tripoli aveva comunicato all'ambasciatore d'Ungheria, Paese che ha la presidenza di turno dell'Unione europea, che se questa non avesse smesso di appoggiare le rivolte popolari in Africa settentrionale, la Libia avrebbe interrotto la cooperazione in materia di controllo dei flussi migratori.
L'alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell'Unione europea, Catherine Ashton, ha ribadito ieri che condanna la repressione contro i dimostranti pacifici e deplora la violenza e la morte di civili. In una dichiarazione diffusa dall'ufficio di Ashton, si invitano le autorità libiche "a esercitare la moderazione e la calma e ad astenersi immediatamente dall'ulteriore uso della violenza contro dimostranti pacifici. La libertà di espressione e il diritto di riunirsi, come stabilito dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, sono diritti umani e libertà di ogni essere umano, e devono essere rispettati e protetti".
La dichiarazione aggiunge che "le legittime aspirazioni e le richieste riformiste della popolazione devono essere prese in considerazione attraverso un dialogo aperto e significativo. L'Unione europea si aspetta inoltre la piena collaborazione da parte delle autorità nella protezione dei cittadini europei".
Ulteriori prese di posizione europee sono attese dal Consiglio dei ministri degli Esteri riunito oggi a Bruxelles. Anche l'amministrazione statunitense segue con preoccupazione l'evolversi della situazione in Libia, e chiede ufficialmente che sia posta fine "a ogni violenza contro i manifestanti pacifici", come ha dichiarato il portavoce del dipartimento di Stato, Philip Crowley. L'accelerazione degli avvenimenti minaccia comunque di cambiare la situazione nel giro di poche ore. Seif al Islam ha ribadito che "l'esercito ora ha il compito di riportare l'ordine con ogni mezzo".
E ha aggiunto che "non è l'esercito egiziano o tunisino. Distruggeremo la sedizione e non cederemo un pollice del territorio libico". Anche in Marocco si segnalano disordini, costati ieri la vita a cinque persone nella città di Al Hoceima. (©L'Osservatore Romano - 21-22 febbraio 2011)