Nella rassegna stampa di oggi:
1) BENEDETTO XVI: SAN GIOVANNI DELLA CROCE, IL “DOTTORE MISTICO” - Intervento in occasione dell'Udienza generale - CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 16 febbraio 2011 (ZENIT.org)
2) Quella luce nel buio di Giovanni della Croce di Massimo Introvigne, 16-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3) L’onda verde di Allah di Roberto Fontolan, giovedì 17 febbraio 2011, il sussidiario.net
4) Avvenire.it, 17 febbraio 2011 - L'etica pubblica pretende "verità" -Oggettività del bene di Francesco D'Agostino
BENEDETTO XVI: SAN GIOVANNI DELLA CROCE, IL “DOTTORE MISTICO” - Intervento in occasione dell'Udienza generale - CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 16 febbraio 2011 (ZENIT.org)
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 16 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito l'intervento pronunciato questo mercoledì da Papa Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale celebrata nell'Aula Paolo VI con i pellegrini provenienti da tutto il mondo.
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Cari fratelli e sorelle,
due settimane fa ho presentato la figura della grande mistica spagnola Teresa di Gesù. Oggi vorrei parlare di un altro importante Santo di quelle terre, amico spirituale di santa Teresa, riformatore, insieme a lei, della famiglia religiosa carmelitana: san Giovanni della Croce, proclamato Dottore della Chiesa dal Papa Pio XI, nel 1926, e soprannominato nella tradizione Doctor mysticus, "Dottore mistico".
Giovanni della Croce nacque nel 1542 nel piccolo villaggio di Fontiveros, vicino ad Avila, nella Vecchia Castiglia, da Gonzalo de Yepes e Catalina Alvarez. La famiglia era poverissima, perché il padre, di nobile origine toledana, era stato cacciato di casa e diseredato per aver sposato Catalina, un'umile tessitrice di seta. Orfano di padre in tenera età, Giovanni, a nove anni, si trasferì, con la madre e il fratello Francisco, a Medina del Campo, vicino a Valladolid, centro commerciale e culturale. Qui frequentò il Colegio de los Doctrinos, svolgendo anche alcuni umili lavori per le suore della chiesa-convento della Maddalena. Successivamente, date le sue qualità umane e i suoi risultati negli studi, venne ammesso prima come infermiere nell'Ospedale della Concezione, poi nel Collegio dei Gesuiti, appena fondato a Medina del Campo: qui Giovanni entrò diciottenne e studiò per tre anni scienze umane, retorica e lingue classiche. Alla fine della formazione, egli aveva ben chiara la propria vocazione: la vita religiosa e, tra i tanti ordini presenti a Medina, si sentì chiamato al Carmelo.
Nell’estate del 1563 iniziò il noviziato presso i Carmelitani della città, assumendo il nome religioso di Mattia. L’anno seguente venne destinato alla prestigiosa Università di Salamanca, dove studiò per un triennio arti e filosofia. Nel 1567 fu ordinato sacerdote e ritornò a Medina del Campo per celebrare la sua Prima Messa circondato dall'affetto dei famigliari. Proprio qui avvenne il primo incontro tra Giovanni e Teresa di Gesù. L’incontro fu decisivo per entrambi: Teresa gli espose il suo piano di riforma del Carmelo anche nel ramo maschile dell'Ordine e propose a Giovanni di aderirvi "per maggior gloria di Dio"; il giovane sacerdote fu affascinato dalle idee di Teresa, tanto da diventare un grande sostenitore del progetto. I due lavorarono insieme alcuni mesi, condividendo ideali e proposte per inaugurare al più presto possibile la prima casa di Carmelitani Scalzi: l’apertura avvenne il 28 dicembre 1568 a Duruelo, luogo solitario della provincia di Avila. Con Giovanni formavano questa prima comunità maschile riformata altri tre compagni. Nel rinnovare la loro professione religiosa secondo la Regola primitiva, i quattro adottarono un nuovo nome: Giovanni si chiamò allora "della Croce", come sarà poi universalmente conosciuto. Alla fine del 1572, su richiesta di santa Teresa, divenne confessore e vicario del monastero dell’Incarnazione di Avila, dove la Santa era priora. Furono anni di stretta collaborazione e amicizia spirituale, che arricchì entrambi. ! quel periodo risalgono anche le più importanti opere teresiane e i primi scritti di Giovanni.
L’adesione alla riforma carmelitana non fu facile e costò a Giovanni anche gravi sofferenze. L’episodio più traumatico fu, nel 1577, il suo rapimento e la sua incarcerazione nel convento dei Carmelitani dell'Antica Osservanza di Toledo, a seguito di una ingiusta accusa. Il Santo rimase imprigionato per mesi, sottoposto a privazioni e costrizioni fisiche e morali. Qui compose, insieme ad altre poesie, il celebre Cantico spirituale. Finalmente, nella notte tra il 16 e il 17 agosto 1578, riuscì a fuggire in modo avventuroso, riparandosi nel monastero delle Carmelitane Scalze della città. Santa Teresa e i compagni riformati celebrarono con immensa gioia la sua liberazione e, dopo un breve tempo di recupero delle forze, Giovanni fu destinato in Andalusia, dove trascorse dieci anni in vari conventi, specialmente a Granada. Assunse incarichi sempre più importanti nell'Ordine, fino a diventare Vicario Provinciale, e completò la stesura dei suoi trattati spirituali. Tornò poi nella sua terra natale, come membro del governo generale della famiglia religiosa teresiana, che godeva ormai di piena autonomia giuridica. Abitò nel Carmelo di Segovia, svolgendo l'ufficio di superiore di quella comunità. Nel 1591 fu sollevato da ogni responsabilità e destinato alla nuova Provincia religiosa del Messico. Mentre si preparava per il lungo viaggio con altri dieci compagni, si ritirò in un convento solitario vicino a Jaén, dove si ammalò gravemente. Giovanni affrontò con esemplare serenità e pazienza enormi sofferenze. Morì nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1591, mentre i confratelli recitavano l'Ufficio mattutino. Si congedò da essi dicendo: "Oggi vado a cantare l'Ufficio in cielo". I suoi resti mortali furono traslati a Segovia. Venne beatificato da Clemente X nel 1675 e canonizzato da Benedetto XIII nel 1726.
Giovanni è considerato uno dei più importanti poeti lirici della letteratura spagnola. Le opere maggiori sono quattro: Ascesa al Monte Carmelo, Notte oscura, Cantico spirituale e Fiamma d'amor viva.
Nel Cantico spirituale, san Giovanni presenta il cammino di purificazione dell’anima, e cioè il progressivo possesso gioioso di Dio, finché l’anima perviene a sentire che ama Dio con lo stesso amore con cui è amata da Lui. La Fiamma d'amor viva prosegue in questa prospettiva, descrivendo più in dettaglio lo stato di unione trasformante con Dio. Il paragone utilizzato da Giovanni è sempre quello del fuoco: come il fuoco quanto più arde e consuma il legno, tanto più si fa incandescente fino a diventare fiamma, così lo Spirito Santo, che durante la notte oscura purifica e "pulisce" l'anima, col tempo la illumina e la scalda come se fosse una fiamma. La vita dell'anima è una continua festa dello Spirito Santo, che lascia intravedere la gloria dell'unione con Dio nell'eternità.
L’Ascesa al Monte Carmelo presenta l'itinerario spirituale dal punto di vista della purificazione progressiva dell'anima, necessaria per scalare la vetta della perfezione cristiana, simboleggiata dalla cima del Monte Carmelo. Tale purificazione è proposta come un cammino che l’uomo intraprende, collaborando con l'azione divina, per liberare l'anima da ogni attaccamento o affetto contrario alla volontà di Dio. La purificazione, che per giungere all'unione d’amore con Dio dev’essere totale, inizia da quella della vita dei sensi e prosegue con quella che si ottiene per mezzo delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità, che purificano l'intenzione, la memoria e la volontà. La Notte oscura descrive l'aspetto "passivo", ossia l'intervento di Dio in questo processo di "purificazione" dell'anima. Lo sforzo umano, infatti, è incapace da solo di arrivare fino alle radici profonde delle inclinazioni e delle abitudini cattive della persona: le può solo frenare, ma non sradicarle completamente. Per farlo, è necessaria l’azione speciale di Dio che purifica radicalmente lo spirito e lo dispone all'unione d'amore con Lui. San Giovanni definisce "passiva" tale purificazione, proprio perché, pur accettata dall'anima, è realizzata dall’azione misteriosa dello Spirito Santo che, come fiamma di fuoco, consuma ogni impurità. In questo stato, l’anima è sottoposta ad ogni genere di prove, come se si trovasse in una notte oscura.
Queste indicazioni sulle opere principali del Santo ci aiutano ad avvicinarci ai punti salienti della sua vasta e profonda dottrina mistica, il cui scopo è descrivere un cammino sicuro per giungere alla santità, lo stato di perfezione cui Dio chiama tutti noi. Secondo Giovanni della Croce, tutto quello che esiste, creato da Dio, è buono. Attraverso le creature, noi possiamo pervenire alla scoperta di Colui che in esse ha lasciato una traccia di sé. La fede, comunque, è l’unica fonte donata all'uomo per conoscere Dio così come Egli è in se stesso, come Dio Uno e Trino. Tutto quello che Dio voleva comunicare all'uomo, lo ha detto in Gesù Cristo, la sua Parola fatta carne. Gesù Cristo è l’unica e definitiva via al Padre (cfr Gv 14,6). Qualsiasi cosa creata è nulla in confronto a Dio e nulla vale al di fuori di Lui: di conseguenza, per giungere all'amore perfetto di Dio, ogni altro amore deve conformarsi in Cristo all’amore divino. Da qui deriva l'insistenza di san Giovanni della Croce sulla necessità della purificazione e dello svuotamento interiore per trasformarsi in Dio, che è la meta unica della perfezione. Questa "purificazione" non consiste nella semplice mancanza fisica delle cose o del loro uso; quello che rende l'anima pura e libera, invece, è eliminare ogni dipendenza disordinata dalle cose. Tutto va collocato in Dio come centro e fine della vita. Il lungo e faticoso processo di purificazione esige certo lo sforzo personale, ma il vero protagonista è Dio: tutto quello che l'uomo può fare è "disporsi", essere aperto all'azione divina e non porle ostacoli. Vivendo le virtù teologali, l’uomo si eleva e dà valore al proprio impegno. Il ritmo di crescita della fede, della speranza e della carità va di pari passo con l’opera di purificazione e con la progressiva unione con Dio fino a trasformarsi in Lui. Quando si giunge a questa meta, l'anima si immerge nella stessa vita trinitaria, così che san Giovanni afferma che essa giunge ad amare Dio con il medesimo amore con cui Egli la ama, perché la ama nello Spirito Santo. Ecco perché il Dottore Mistico sostiene che non esiste vera unione d’amore con Dio se non culmina nell’unione trinitaria. In questo stato supremo l'anima santa conosce tutto in Dio e non deve più passare attraverso le creature per arrivare a Lui. L’anima si sente ormai inondata dall'amore divino e si rallegra completamente in esso.
Cari fratelli e sorelle, alla fine rimane la questione: questo santo con la sua alta mistica, con questo arduo cammino verso la cima della perfezione ha da dire qualcosa anche a noi, al cristiano normale che vive nelle circostanze di questa vita di oggi, o è un esempio, un modello solo per poche anime elette che possono realmente intraprendere questa via della purificazione, dell'ascesa mistica? Per trovare la risposta dobbiamo innanzitutto tenere presente che la vita di san Giovanni della Croce non è stata un "volare sulle nuvole mistiche", ma è stata una vita molto dura, molto pratica e concreta, sia da riformatore dell'ordine, dove incontrò tante opposizioni, sia da superiore provinciale, sia nel carcere dei suoi confratelli, dove era esposto a insulti incredibili e a maltrattamenti fisici. E’ stata una vita dura, ma proprio nei mesi passati in carcere egli ha scritto una delle sue opere più belle. E così possiamo capire che il cammino con Cristo, l'andare con Cristo, "la Via", non è un peso aggiunto al già sufficientemente duro fardello della nostra vita, non è qualcosa che renderebbe ancora più pesante questo fardello, ma è una cosa del tutto diversa, è una luce, una forza, che ci aiuta a portare questo fardello. Se un uomo reca in sé un grande amore, questo amore gli dà quasi ali, e sopporta più facilmente tutte le molestie della vita, perché porta in sé questa grande luce; questa è la fede: essere amato da Dio e lasciarsi amare da Dio in Cristo Gesù. Questo lasciarsi amare è la luce che ci aiuta a portare il fardello di ogni giorno. E la santità non è un'opera nostra, molto difficile, ma è proprio questa "apertura": aprire e finestre della nostra anima perché la luce di Dio possa entrare, non dimenticare Dio perché proprio nell'apertura alla sua luce si trova forza, si trova la gioia dei redenti. Preghiamo il Signore perché ci aiuti a trovare questa santità, lasciarsi amare da Dio, che è la vocazione di noi tutti e la vera redenzione. Grazie.
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Quella luce nel buio di Giovanni della Croce di Massimo Introvigne, 16-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Proseguendo nelle sue catechesi sui santi del Cinquecento, Benedetto XVI ha presentato all’udienza generale del 16 febbraio la figura di san Giovanni della Croce (1542-1591), il Doctor mysticus. Nato vicino ad Avila, in Spagna, da famiglia poverissima, ancorché di origini nobili, e rimasto orfano di padre in tenera età, Giovanni, superando ogni difficoltà, riuscì a compiere gli studi necessari per essere ammesso come novizio presso i Carmelitani, che lo mandarono a studiare alla prestigiosa Università di Salamanca. Nel 1567 fu ordinato sacerdote e incontrò santa Teresa d’Avila (1515-1582), da cui rimase subito affascinato e di cui divenne confessore, adottando per un gruppo di Carmelitani la regola riformata che Teresa aveva dato alle sue suore.
L’adesione alla riforma carmelitana di santa Teresa, nota il Papa, «non fu facile e costò a Giovanni anche gravi sofferenze. L’episodio più traumatico fu, nel 1577, il suo rapimento e la sua incarcerazione nel convento dei Carmelitani dell’Antica Osservanza di Toledo, a seguito di una ingiusta accusa. Il Santo rimase imprigionato per mesi, sottoposto a privazioni e costrizioni fisiche e morali. Qui compose, insieme ad altre poesie, il celebre Cantico spirituale. Finalmente, nella notte tra il 16 e il 17 agosto 1578, riuscì a fuggire in modo avventuroso, riparandosi nel monastero delle Carmelitane Scalze della città». Come tutte le opere benedette dal Signore, anche la riforma carmelitana di Giovanni alla fine fu accolta dalla Chiesa. Il santo assunse incarichi sempre più importanti, fino a che fu destinato alla nuova Provincia religiosa del Messico come superiore. Mentre si preparava a partire, però, si ammalò gravemente e morì nel 1591, «mentre i confratelli – come ricorda il Papa – recitavano l’Ufficio mattutino. Si congedò da essi dicendo: “Oggi vado a cantare l’Ufficio in cielo”».
Il Pontefice ha ricordato i capisaldi delle quattro opere principali di san Giovanni: Cantico spirituale, Fiamma d’amor viva, Ascesa al Monte Carmelo e Notte oscura.
Nel Cantico spirituale, san Giovanni «presenta il cammino di purificazione dell’anima, e cioè il progressivo possesso gioioso di Dio, finché l’anima perviene a sentire che ama Dio con lo stesso amore con cui è amata da Lui. La Fiamma d’amor viva prosegue in questa prospettiva, descrivendo più in dettaglio lo stato di unione trasformante con Dio. Il paragone utilizzato da Giovanni è sempre quello del fuoco: come il fuoco quanto più arde e consuma il legno, tanto più si fa incandescente fino a diventare fiamma, così lo Spirito Santo, che durante la notte oscura purifica e “pulisce” l’anima, col tempo la illumina e la scalda come se fosse una fiamma. La vita dell’anima è una continua festa dello Spirito Santo, che lascia intravedere la gloria dell’unione con Dio nell’eternità».
L’Ascesa al Monte Carmelo, che è forse l’opera più importante del santo, «presenta – ha detto il Papa – l’itinerario spirituale dal punto di vista della purificazione progressiva dell’anima, necessaria per scalare la vetta della perfezione cristiana, simboleggiata dalla cima del Monte Carmelo. Tale purificazione è proposta come un cammino che l’uomo intraprende, collaborando con l’azione divina, per liberare l’anima da ogni attaccamento o affetto contrario alla volontà di Dio. La purificazione, che per giungere all’unione d’amore con Dio dev’essere totale, inizia da quella della vita dei sensi e prosegue con quella che si ottiene per mezzo delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità, che purificano l’intenzione, la memoria e la volontà».
Al nostro tempo difficile parla però anche la quarta opera fondamentale di san Giovanni della Croce, la Notte oscura, che «descrive l’aspetto “passivo”, ossia l’intervento di Dio in questo processo di “purificazione” dell’anima. Lo sforzo umano, infatti, è incapace da solo di arrivare fino alle radici profonde delle inclinazioni e delle abitudini cattive della persona: le può solo frenare, ma non sradicarle completamente. Per farlo, è necessaria l’azione speciale di Dio che purifica radicalmente lo spirito e lo dispone all’unione d’amore con Lui. San Giovanni definisce “passiva” tale purificazione, proprio perché, pur accettata dall’anima, è realizzata dall’azione misteriosa dello Spirito Santo che, come fiamma di fuoco, consuma ogni impurità. In questo stato, l’anima è sottoposta ad ogni genere di prove, come se si trovasse in una notte oscura».
Messe insieme, le quattro opere salienti del santo spagnolo insegnano una dottrina mistica «il cui scopo è descrivere un cammino sicuro per giungere alla santità, lo stato di perfezione cui Dio chiama tutti noi». Questa chiamata è una persona, Gesù Cristo. «Tutto quello che Dio voleva comunicare all’uomo, lo ha detto in Gesù Cristo, la sua Parola fatta carne. Gesù Cristo è l’unica e definitiva via al Padre (cfr Gv 14,6). Qualsiasi cosa creata è nulla in confronto a Dio e nulla vale al di fuori di Lui: di conseguenza, per giungere all’amore perfetto di Dio, ogni altro amore deve conformarsi in Cristo all’amore divino. Da qui deriva l’insistenza di san Giovanni della Croce sulla necessità della purificazione e dello svuotamento interiore per trasformarsi in Dio, che è la meta unica della perfezione. Questa “purificazione” non consiste nella semplice mancanza fisica delle cose o del loro uso; quello che rende l’anima pura e libera, invece, è eliminare ogni dipendenza disordinata dalle cose. Tutto va collocato in Dio come centro e fine della vita».
Quando si è stati capaci di compiere questo cammino, «l’anima si immerge nella stessa vita trinitaria, così che san Giovanni afferma che essa giunge ad amare Dio con il medesimo amore con cui Egli la ama, perché la ama nello Spirito Santo. Ecco perché il Dottore Mistico sostiene che non esiste vera unione d’amore con Dio se non culmina nell’unione trinitaria. In questo stato supremo l’anima santa conosce tutto in Dio e non deve più passare attraverso le creature per arrivare a Lui. L’anima si sente ormai inondata dall’amore divino e si rallegra completamente in esso.»
Ma, nota Benedetto XVI, «alla fine rimane la questione: questo santo con la sua alta mistica, con questo arduo cammino verso la cima della perfezione ha da dire qualcosa anche a noi, al cristiano normale che vive nelle circostanze di questa vita di oggi, o è un esempio, un modello solo per poche anime elette che possono realmente intraprendere questa via della purificazione, dell’ascesa mistica? Per trovare la risposta dobbiamo innanzitutto tenere presente che la vita di san Giovanni della Croce non è stata un “volare sulle nuvole mistiche”, ma è stata una vita molto dura, molto pratica e concreta, sia da riformatore dell’ordine, dove incontrò tante opposizioni, sia da superiore provinciale, sia nel carcere dei suoi confratelli, dove era esposto a insulti incredibili e a maltrattamenti fisici. E’ stata una vita dura, ma proprio nei mesi passati in carcere egli ha scritto una delle sue opere più belle».
Studiando san Giovanni della Croce «possiamo capire che il cammino con Cristo, l’andare con Cristo, “la Via”, non è un peso aggiunto al già sufficientemente duro fardello della nostra vita, non è qualcosa che renderebbe ancora più pesante questo fardello, ma è una cosa del tutto diversa, è una luce, una forza, che ci aiuta a portare questo fardello. Se un uomo reca in sé un grande amore, questo amore gli dà quasi ali, e sopporta più facilmente tutte le molestie della vita, perché porta in sé questa grande luce; questa è la fede: essere amato da Dio e lasciarsi amare da Dio in Cristo Gesù. Questo lasciarsi amare è la luce che ci aiuta a portare il fardello di ogni giorno. E la santità non è un’opera nostra, molto difficile, ma è proprio questa “apertura”: aprire e finestre della nostra anima perché la luce di Dio possa entrare». Da questo punto di vista, l’insegnamento principale di san Giovanni della Croce è che la santità non è riservata a pochi eletti destinati agli altari, ma «è la vocazione di noi tutti».
FRANCIA: PRIMO SÌ AL PROGETTO DI REVISIONE DELLA LEGGE SULLA BIOETICA - Rimane il sistema delle deroghe al divieto della ricerca sugli embrioni di Paul De Maeyer
ROMA, mercoledì, 16 febbraio 2011 (ZENIT.org).- In Francia, l'Assemblea Nazionale ha approvato martedì 15 febbraio in prima lettura con 272 voti contro 216 il progetto di revisione della legge [1] sulla bioetica del 2004. L'esame da parte della Camera bassa si era concluso la settimana scorsa con l'approvazione di una serie di emendamenti. Secondo i commentatori, l'approvazione finale della nuova legislazione non avverrà prima di luglio.
In linea con il governo Fillon e il ministro per la Salute, Xavier Bertrand (UMP o Unione per un Movimento Popolare), secondo il quale la Francia non ha bisogno di "una rivoluzione in materia di bioetica" (Libération, 8 febbraio), i deputati hanno mantenuto nel corso dei lavori iniziati martedì 8 febbraio i grandi principi o criteri della normativa precedente.
L'Assemblée Nationale ha preferito ad esempio mantenere lo "status quo" per quanto riguarda la ricerca sugli embrioni e sulle cellule staminali prelevate da embrioni umani, lasciando in piedi il discusso sistema della proibizione con "deroghe" - secondo il ministro Bertrand è "il miglior dispositivo" (Libération, 8 febbraio) -, anche se poi in aula una trentina di deputati dell'UMP e del Nuovo Centro ha chiesto di vietare completamente e senza eccezioni la ricerca nel campo.
Il principio del divieto con deroghe, che il vice presidente dell'Assemblée, Marc Le Fur (UMP), ha definito "un anestetico per cattolici" (Agence France-Presse, 10 febbraio), è in realtà molto ambiguo. L'Agenzia di Biomedicina (ABM) ha infatti la facoltà di autorizzare "a titolo derogatorio" progetti di ricerca. E lo ha fatto, eccome. Dal 2004, l'organismo ha accettato finora 58 protocolli su 64, dei quali 47 con cellule staminali embrionali umane e 11 con embrioni (La Croix, 4 febbraio).
Il meccanismo è stato criticato fra l'altro da Jacques Testart, "padre" nel 1982 del primo bambino in provetta francese. Secondo il biologo, l'ABM è "un organismo favorevole pressoché a qualsiasi pratica e poco incline a ogni restrizione. In modo progressivo, il Parlamento si sta tirando fuori un po' vigliaccamente, delegando a quest’Agenzia l’interpretazione della nuova legge". Così ha dichiarato in un'intervista ad Avvenire (8 febbraio).
Già nel novembre scorso, il cardinale arcivescovo di Parigi e presidente della CEF, André Vingt-Trois, aveva notato "una certa incoerenza" da parte governativa. "Il governo manifesta la coscienza chiara che con la ricerca sull'embrione il rispetto per la dignità umana è in gioco. Allo stesso tempo, sembra mettere in piedi un sistema nel quale la distruzione di embrioni non è più un'eccezione", aveva detto a La Vie (30 novembre 2010).
Ci sono comunque delle novità nel sistema delle deroghe. Diventano infatti definitive, mentre prima erano inserite nel contesto di una moratoria quinquennale. Inoltre, il nuovo testo allarga le maglie dei criteri da adempiere. Non parla più dell'esigenza di "progressi terapeutici prioritari" ma di "progressi medici prioritari", una formulazione "molto meno restrittiva", come osserva Pierre-Olivier Arduin, direttore della Commissione bioetica della diocesi di Fréjus-Tolone (Décryptage, 3 febbraio).
Sempre per quanto riguardo la ricerca con gli embrioni, la proposta introduce anche la possibilità di obiezione di coscienza per ricercatori e operatori sanitari, e promuove le vie alternative all'uso di embrioni. Il testo sancisce che i protocolli ricevono il via libera solo "quando risulta impossibile, in base allo stato delle conoscenze scientifiche, condurre una ricerca simile senza ricorrere a cellule staminali embrionali o a embrioni" (Art. 23, 2). Inoltre, l'ABM dovrà presentare ogni anno un bilancio comparativo, mettendo a confronto i risultati ottenuti dalla ricerca sulle cellule embrionali con quelli della ricerca sulle cellule adulte.
Gli altri principi della legge del 2004 rimasti immutati sono l'anonimato per i donatori di gameti o cellule riproduttive (cioè seme ed ovociti), il "no" all'accesso alle tecniche della PMA (procreazione medicalmente assistita) per le coppie omosessuali e per i single, e il divieto di ricorrere alle "madri portatrici" o "madri surrogate".
In alcuni punti i deputati hanno comunque modificato il testo del progetto. Ignorando gli appelli del ministro Bertrand, l'Assemblea ha dato ad esempio il via libera - con alcune restrizioni - al trasferimento "post-mortem" di embrioni. "Per me, non è la stessa cosa nascere orfano o essere concepito orfano. Si può scientemente decidere di far nascere un bambino senza padre?", aveva dichiarato il ministro in un'intervista con La Vie (3 febbraio).
E' stato inoltre respinto un emendamento del deputato Olivier Jardé (Nuovo Centro), che per ridurre gli embrioni "soprannumerari" voleva limitare a tre il numero di ovociti fecondati. È stato approvato invece un emendamento che limita molto vagamente il numero di ovociti usati "a quello che è strettamente necessario per la riuscita dell'assistenza medica alla procreazione" (La Croix, 14 febbraio).
Nel nuovo testo ha fatto molto discutere l'art. 9, che promuove il "dépistage", cioè la ricerca sistematica di difetti genetici nell'embrione o nel feto, un provvedimento che secondo i critici prende di mira in particolare i feti con la sindrome di Down o trisomia 21. Come rivelano i dati contenuti in un rapporto del Consiglio di Stato del maggio 2009, ben il 96% degli embrioni o feti con trisomia 21 viene oggi abortito in Francia.
Secondo la deputata Véronique Besse, del Movimento per la Francia (MPF), c'è "il rischio di passare da un 'dépistage' generalizzato ad una forma di eradicazione sociale". "Non è giusto né accettabile che tutti i mezzi siano attualmente orientati verso il 'dépistage' della trisomia prima della nascita e che non sia compiuto alcuno sforzo per ricercare trattamenti in grado di accompagnare, curare, nonché guarire un giorno le persone handicappate", così ha detto in aula (Décryptage, 11 febbraio).
Proprio per questo motivo - così hanno deciso i deputati -, il governo dovrà preparare ogni anno un rapporto sui fondi destinati alla ricerca di terapie per curare la sindrome di Down. Inoltre, in caso di test positivi sulla presenza della trisomia 21 le donne avranno 7 giorni di tempo per decidere se portare avanti o meno la gravidanza.
Le pressioni da parte dell'industria della diagnosi prenatale sono però molto forti. Lo dimostra la notizia della nascita del primo "bambino medicamento" o "designer baby" francese, diffusa - guarda caso – proprio il giorno dell'inizio del dibattito parlamentare. Chiamato anche "bambino della doppia speranza", ci troviamo secondo P.-O. Arduin in realtà davanti ad una doppia scelta eugenetica: la prima consiste nello scartare gli embrioni portatori del difetto genetico, la seconda nel cercare fra gli embrioni non portatori quello compatibile come donatore per il fratellino o la sorellina da curare (Décryptage, 9 febbraio).
Sulla nascita del "bambino strumento" si è espressa anche la Conferenza Episcopale di Francia (CEF). "La legalizzazione della strumentalizzazione del nascituro è contraria al più elementare rispetto dovuto a ogni essere umano, in particolare al bambino", ha dichiarato il 9 febbraio monsignor Pierre d'Ornellas, arcivescovo di Rennes, Dol e Saint-Malo, responsabile in seno alla CEF per la bioetica. In vista del dibattito parlamentare sulla revisione della legge del 2004, la CEF ha pubblicato a dicembre un opuscolo dal titolo emblematico: "Bioéthique, un enjeu d'humanité"[2], vale a dire "Bioetica, una posta in gioco d'umanità".
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1) Il testo esaminato dall'Assemblée Nationale è scaricabile all'indirizzo web:
http://www.assemblee-nationale.fr/13/ta-commission/r3111-a0.asp
L’onda verde di Allah di Roberto Fontolan, giovedì 17 febbraio 2011, il sussidiario.net
La grande ribellione araba ha rimesso in moto l’onda verde iraniana. Non se ne avevano quasi notizie da molto tempo, ma la certezza era che l’energia del desiderio di una libertà pubblica piena e matura, anche se rischiosa, non era stata prosciugata dalla repressione dei pasdaran.
Uno dei modi con cui gli oppositori degli ayatollah hanno voluto dimostrare l’attaccamento a quel desiderio era l’appuntamento al tramonto sui tetti di Tehran: alla stessa ora di ogni giorno, favoriti dal buio incipiente per non essere identificati, tutti a gridare l’inoppugnabile verità dell’Islam: “Allah è grande!”. Puoi essere messo in galera per aver glorificato Allah? Ecco allora il senso della “trovata”: proclamare la stessa apparente verità del potere, onde non esporsi, ma comunicando un significato del tutto opposto. La stessa parola è chiamata a esprimere concezioni totalmente differenti.
Il saggio cardinale, esperto di cose islamiche, dice che l’Iran è molto diverso dal resto del mondo musulmano e incomparabilmente superiore a quello arabo. Cultura di base, livelli di istruzione, struttura del pensiero, dinamiche personali e sociali. Lui si diletta nella conversazione con i dotti chierici khomeinisti, si sente provocato ad approfondire e a incrociare le ragioni della ragione, non appena quelle della fede; mentre quando incontra i sapienti egiziani dell’università Al Azhar, che dovrebbe coagulare il massimo del sapere islamico, resta deluso per l’esilità culturale del loro argomentare.
È un modo raffinato di considerare la grande e profonda frattura che attraversa il continente musulmano: nelle situazioni più pacifiche sciiti e sunniti si tollerano a malapena, e quasi ovunque si combattono. In Iraq, ad esempio, il conflitto è aperto, nel Libano ogni giorno è buono per riaprirlo. Nei mesi scorsi ci sono state violenze persino in Bahrein e Kuwait e tensioni in Arabia Saudita.
Politicamente gli sciiti sono considerati “agenti” di Tehran ed è Tehran che fa paura all’Occidente quanto all’Oriente. Il regime degli ayatollah inaugurato nel 1979 con il trionfale ritorno di Ruollah Khomeini dall’esilio di Parigi (anche in certi ambienti cristiani si apprezzava questo “ritorno del sacro” e della Tradizione contro laicismi e modernismi) è sempre stato ultimamente inafferrabile e impenetrabile. Attorno a quegli uomini vestiti di nero si percepisce un alone di mistero, rigore, crudeltà, dottrina. Fanatismo, forse, ma custodito dalla teologia e dal sapere, dalla poesia e dalla mistica.
Però anche questo universo, più chiuso e pietrificato di quello delle gerontocrazie arabe e delle monarchie sunnite, da qualche tempo trema. Non riesce più a tenere congelata la vitalità colta e sognante delle giovani generazioni, cui non basta la libertà virtuale del web o del satellite. L’onda verde è ripartita grazie all’imprevisto esempio delle società arabe a stragrande maggioranza sunnita, dove le rivolte non hanno avuto alcun marchio religioso, e anzi hanno visto cristiani e musulmani in piazza indifferenti alle prudenze delle rispettive autorità religiose.
E ciò fa capire che l’intero Islam potrebbe entrare in una nuova fase storica, dove il fondamentalismo dovrà confrontarsi con qualcosa che ancora non conosciamo. Allah è grande per tutti, ma cosa significa?
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Avvenire.it, 17 febbraio 2011 - L'etica pubblica pretende "verità" -Oggettività del bene di Francesco D'Agostino
Le furiose polemiche sul capo del governo che stanno avvelenando l’Italia dimostrano chiaramente quanto sia fragile il paradigma del liberalismo etico (non di quello politico, che ha ben altra consistenza) che è dilagato nel nostro Paese negli ultimi anni. Nella sua formulazione più radicale (condivisa – ahimè! – anche da alcuni politici cattolici) il liberalismo potrebbe essere riassunto nella drastica distinzione tra 'peccati' e 'reati'. I primi dovrebbero essere ritenuti da tutti (o almeno da tutti i veri liberali) pubblicamente irrilevanti, almeno in una società pluralista che non solo riconosce, ma si compiace della irriducibile molteplicità e diversità dei singoli stili di vita e vuole tutti rispettarli. Altro discorso quello avente per oggetto i 'reati', atti da valutare, indipendentemente dalla moralità privata di chi li commette, come socialmente inaccettabili e meritevoli quindi di essere severamente puniti. Ebbene è rimarchevole come questo paradigma non abbia retto alla prova dal 'caso Berlusconi' e sia stato drasticamente messo da parte dai tantissimi che l’hanno per anni e anni verbosamente esaltato (al punto che i pochi che oggi continuano a difenderlo riconoscono di non essere più di quattro gatti).
La distinzione che oggi va di moda fare non è più quella tra 'reati' e 'peccati', ma tra le azioni criminali (i 'reati'), le azioni che vanno contro la moralità privata (i 'peccati') e le azioni che vanno contro l’etica pubblica. Per chi assume questa posizione, costituisce un’indubbia difficoltà il fatto che manchi la parola adatta a designare questo tertium genus: violare l’etica pubblica non è propriamente un 'peccato' e non è nemmeno un 'reato': è però qualcosa di tanto grave, da giustificare la richiesta dell’uscita dalla scena politica di chi se ne renda responsabile. Ma chi sarà chiamato ad accertare questa responsabilità, se si rinuncia a ogni riferimento al codice penale e ai precetti etici consolidati? C’è un rischio che non va minimizzato: quello che il giudizio sull’etica pubblica vada in definitiva affidato alla 'sensibilità' personale e sia di fatto ridotto a questione di mera immagine o in definitiva di 'buon gusto'. È indubbio che la sensibilità abbia il legittimo peso, ma è un peso che rileva, in un’epoca mediatica come la nostra, solo a livello di immagine (come sanno benissimo i politici, che conquistano voti anche e forse soprattutto attraverso la 'faccia' che esibiscono in televisione).
Ma se si vuole dar credito all’etica pubblica, come all’unica etica condivisibile nelle società pluraliste, bisogna fondarla oggettivamente, perché sobrietà, onestà, decoro, correttezza, senso dello Stato, interesse prioritario per il bene pubblico, o – in una parola sola – esemplarità di vita, non possono ridursi ad atteggiamenti psicologici o essere elaborati come valori ideologici: essi devono possedere una loro 'verità'. Verità: e qui la parola temutissima dal liberalismo etico torna prepotentemente in primo piano. Solo chi sia convinto che l’etica pubblica sia un’etica 'vera' può invocarne il rispetto. Altrimenti questa invocazione si trasforma in una mossa occasionale, di carattere propagandistico-politico, che non merita altro se non corrispondenti contromosse, altrettanto occasionali e propagandistiche.
Ecco perché l’appello all’etica pubblica non ci salverà, se non sarà radicato in una severa presa di coscienza dei guasti che il relativismo etico libertario ha prodotto nel nostro Paese: guasti che sono stati sintetizzati nella durissima espressione «disastro antropologico», usata dal cardinal Bagnasco e ripresa da monsignor Crociata per descrivere il momento presente che vive l’Italia. Non abbiamo solo il compito di bonificare la nostra classe politica, ricordandole i principi non negoziabili dell’etica pubblica, abbiamo soprattutto il compito di rammentare a tutti, a partire dalle scuole, che il bene non coincide con i nostri desideri, ma possiede una sua dura oggettività. L’esaltazione dell’etica senza verità indebolisce le coscienze e si è rivelata indifendibile.
Prendiamone definitivamente atto con un lodevole sforzo di onestà intellettuale: nella crisi che stiamo soffrendo, questo è l’unico, ragionevole e nuovo punto di partenza che possiamo prefiggerci.