Nella rassegna stampa di oggi:
1) La Guerra del Golfo e la voce inascoltata di Papa Wojtyla di Andrea Tornielli, 08-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
2) Il nuovo Afghanistan preso tra due fuochi di Marco Respinti, 08-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3) Nel venticinquesimo della Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo - Storia di un piccolo seme di MASSIMO CAMISASCA (©L'Osservatore Romano - 9 febbraio 2011)
4) 08/02/2011 – INDONESIA - Java Centrale: migliaia di musulmani attaccano tre chiese, un orfanotrofio e un centro cristiano di Mathias Hariyadi
5) Basta con Ruby, la gente non ne può più, pensiamo a cose serie. Le escort? Sono sfruttate, il moralismo non ci porta da nessuna parte. Si pensi alla vita e alla difesa. Vendola? Imprudente nel sussidio liturgico di Bruno Volpe, da http://www.pontifex.roma.it
6) «L'uso del proprio corpo è ormai un fattore diffuso» di Raffaella Frullone, 08-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
7) Sud Sudan: un rimedio non un successo di Anna Bono, 08-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
8) SUDAN/ Mario Mauro: dalla Sharia al referendum, un sì che non placa gli scontri di Mario Mauro - mercoledì 9 febbraio 2011 – il sussidiario.net
9) EGITTO/ Habashy (scrittore): i giovani protestano contro il fallimento spirituale di un popolo – Redazione - mercoledì 9 febbraio 2011 – il sussidiario.net
La Guerra del Golfo e la voce inascoltata di Papa Wojtyla di Andrea Tornielli, 08-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
C’è un anniversario che nei giorni scorsi è passato inosservato: il ventennale della prima guerra del Golfo, iniziata nel gennaio 1991 dopo che nell’agosto dell’anno precedente Saddam Hussein, il dittatore iracheno, aveva invaso il Kuwait, convinto da precisi segnali che gli Stati Uniti non si sarebbero opposti al suo espansionismo.
Il muro di Berlino era appena caduto, la guerra fredda definitivamente terminata, il nuovo ordine internazionale fece sì che la superpotenza americana si sentì autorizzata a intervenire, pur con l’avallo dell’Onu e senza che Unione Sovietica e Cina si opponessero. Chi si oppose a quella guerra fu Giovanni Paolo II, il quale non taceva certo le colpe di Saddam (parlò di «gravi violazioni del diritto internazionale») ma riteneva che la crisi potesse essere risolta attraverso «un dialogo costruttivo», dato che una guerra avrebbe rischiato di avere drammatiche ripercussioni in tutto il Medio Oriente.
Nel messaggio Urbi et orbi del 25 dicembre, Papa Wojtyla ricordò alle Nazioni Unite ma anche al dittatore iracheno che «la guerra è un’avventura senza ritorno», mentre il 16 gennaio, a ultimatum dell’Onu a Saddam per l’evacuazione del Kuwait ormai scaduto, il Pontefice disse: «mai più la guerra, avventura senza ritorno, mai più la guerra, spirale di lutti e di violenza; mai questa guerra nel Golfo Persico».
Giovanni Paolo II insistette perché l’Europa fosse unita di fronte a questa nuova crisi internazionale, e potesse rappresentare un bilanciamento del potere degli Stati Uniti, rimasti ormai l’unica superpotenza sulla scena mondiale. La guerra, invece, scoppiò il 17 gennaio, con il bombardamento di Baghdad, e senza che il Vaticano fosse nemmeno preavvertito dal presidente George Bush padre. A dare la notizia all’allora «ministro degli Esteri», l’arcivescovo Jean Luis Tauran, fu infatti un giornalista, mentre l’allora presidente della Repubblica italiana, Francesco Cossiga, chiamava il segretario di Stato Angelo Sodano per comunicargli l’inizio dell’attacco contro l’Iraq.
Come sempre più spesso accade nelle guerre moderne, anche quella fu «vinta» in primo luogo sul piano della manipolazione delle informazioni. Agenzie pubblicitarie internazionali confezionarono notizie false (da quella secondo cui gli iracheni avrebbero tolto elettricità alle culle termine negli ospedali di Kuwait City facendo morire i neonati a quella dell’accorato racconto di una giovane sopravvissuta che si scoprirà essere invece figlia di uno sceicco kuwaitiano da anni lontana dal suo Paese, che aveva recitato un copione scritto da professionisti della comunicazione), la stesso uso delle basi militari saudite venne ottenuto dalle truppe americane grazie a fotografie satellitari taroccate.
Il Papa, a guerra iniziata, levò sempre la sua voce in difesa di tutti: di Israele colpita dai missili iracheni, come pure dell’incolpevole popolazione dell’Iraq, che pagò il prezzo più alto. La volontà di limitare al massimo le perdite di vite dei propri soldati, aveva portato gli americani a combattere una guerra avvalendosi di strumenti elettronici, colpendo solamente obiettivi militari. In realtà, proprio questi nuovi strumenti, che si pretendevano perfetti e indolore (le bombe «intelligenti»), provocarono gravissimi danni alle popolazioni civili.
Com’è noto, la prima Guerra del Golfo si concluse senza l’entrata delle truppe americane a Baghdad e senza il rovesciamento di Saddam. Che sarebbe avvenuto, invece, al termine della seconda guerra, iniziata nei primi mesi del 2003. Un anno e mezzo prima, l’attentato alle Torri Gemelle aveva cambiato il volto del pianeta, mostrando come un terrorismo nichilista e fondamentalista fosse ormai in grado di portare attacchi terribili nel cuore dell’Occidente. Anche allora, dodici anni dopo, Giovanni Paolo II, ormai anziano e malato, tentò il tutto e per tutto chiedendo ai suoi «giovani» interlocutori che governavano il mondo, di ascoltare la voce di un vecchio testimone degli orrori della Seconda guerra mondiale.
Anche allora per giustificare l’attacco davanti all'opinione pubblica furono utilizzate informazioni di intelligence rivelatesi false, che indicavano nel regime dittatoriale iracheno una minaccia a causa delle armi di distruzione di massa che avrebbe fabbricato e nascosto. Armi che non c’erano né ci sono mai state. L’esito di questa politica è stato un caos maggiore nell’area mediorientale.
L’Iraq, Paese governato da un dittatore feroce e sanguinario ma dove non c’era terrorismo, è stato trasformato in un nuovo Vietnam, dove ora i cristiani vengono considerati un corpo estraneo e insieme ai musulmani sunniti e sciiti sono vittime di attacchi incrociati e di una catena infinita di attentati. A vent’anni dalla prima e a otto anni dalla seconda Guerra del Golfo è sotto gli occhi di tutti che la voce ragionevole e profetica del Papa meritava di essere ascoltata.
Con quelle guerre a complicarsi è stato tutto il quadro mediorientale, e la soluzione che si pensava di ottenere con gli interventi militari nel Golfo, non è stata raggiunta. Non si è stabilizzata la situazione, ma anzi si è finito per complicarla.
Il nuovo Afghanistan preso tra due fuochi di Marco Respinti, 08-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
«Per avere democrazia non bastano le elezioni». Golalei Safi Nur, parlamentare afghana eletta pe due legislature consecutive nella provincia di Balkh, nel nord del Paese, ne è convinta: «Le istituzioni democratiche sono l’esito di una processo profondo di educazione del popolo. In Afghanistan la cosa è più che evidente. L’educazione, l’educazione della popolazione alla libertà politica deve essere oggi la nostra prima priorità».
Laureata in Medicina all’Università medica statale di Crimea, a Simferopol, in Ucraina, ha esercitato per un decennio come oftalmologa prima di lasciare l’Afghanistan per poi tornarvi nel 2004. Membro della Commissione Parlamentare Sanità, in passato ha lavorato per l’organizzazione femminile “Medica Mondiale” nell’unità traumi psicologici. Colpisce una sua battuta. «In Afghanistan molto si è fatto per migliorare la condizione femminile, campo, questo, che mi vede direttamente impegnata. Molto c’è da fare, in questo e in diversi altri settori, ovvio, ma nessuno può negare i grandi progressi compiuti. La si smetta allora di preoccuparsi solo delle donne afghane come se nulla fosse avvenuto e si pensi ad altro. Per esempio alla situazione retriva in cui versano le donne in Arabia Saudita. Di ciò nessuno ha mai voglia di parlare…».
Grazie alla European Foundation Democracy di Bruxelles, Safi Nur sta girando l’Europa per spiegare la realtà del suo Paese. Assolutamente complessa. Assieme a lei raccontano il nuovo Afghanistan Afzal Nooristani, avvocato, direttore esecutivo della Legal Aid Organization of Afghanistan (34 professionisti che patrocinano gratuitamente per i più poveri) e Hayatullah Ahadyar, ex giornalista ora giudice di primo grado al Tribunale contro il narcotraffico.
«Non appartengo ad alcun partito», dice Safi Nur. «Da noi ve ne sono più di cento... Rappresento invece la provincia dove sono stata eletta da indipendente, grazie al fatto che il sistema di quote previsto dal nostro sistema elettorale riserva alle donne il 25% dei seggi ».
La parlamentare descrive una situazione socio-politica non priva di successi, ma a tratti davvero caotica. «Viviamo tra due fuochi. Da un lato ci sono le pressioni internazionali che ci giungono dalle democrazie occidentali, dall’altro c’è il popolo afghano. L’Occidente spinge l’acceleratore sul processo di democratizzazione, minacciando talvolta di sospendere gli aiuti economici se non attuiamo una riforma dopo l’altra. La base resta invece ancora saldamente ancorata a un passato tradizionale che spesso giudica con sospetto le spinte straniere. L’impasse deriva dal fatto che senza gli aiuti occidentali il nuovo Afghnistan non potrebbe fare alcunché, anzi non esisterebbe neppure. Al contempo non si può però ignorare la grande massa degli afghani, ineducata e spesso retriva…».
«La questione della libertà religiosa, per esempio, è un nodo spinoso», glossa l’avvocato Nooristani. «La nostra Costituzione la garantisce formalmente. Essa non solo consente libertà di culto alle “religioni del libro” tradizionalmente tollerate dall’islam, ma permette anche il libero esercizio di tutte le altre oltre i dettami coranici. Detto questo, esistono però problemi assai concreti». La questione delle conversioni è un problema serio anche nel nuovo Afghanistan. «Le fonti del nostro diritto sono molteplici. Ci sono riferimenti alle leggi internazionali, abbiamo preso a prestito esempi dalle legislazioni francese e tedesca, ma accanto a tutto ciò ci sono la religione, la tradizione, la dottrina giurisprudenziale, le procedure legali… Spesso le fonti rischiano di confliggere e così vengono affrontate caso per caso, nella pratica. Insomma, ogni tanto qualcuno viene trascinato in tribunale perché si è convertito, che so dall’islam al cristianesimo. Di per sé non lo impedirebbe la legge, ma la cultura ha il sopravvento e così ne nascono dei vespai».
Safi Nur interviene piccata: «Perché, del resto, concentrare l’attenzione sul singolo caso di un convertito, rischiando di mandare all’aria il lento lavorio che stiamo compiendo per radicare una nuova mentalità, dunque una nuova legalità?». Forse i diretti interessati la pensano diversamente, ma questa è la realtà dell’Afghanistan oggi, preda, non è un segreto, di mille contraddizioni, capace di anelare a un futuro diverso, ma assolutamente confuso sulla strada da seguire.
«Vede», aggiunge Safi Nur, «l’Afghanistan ha bisogno di camminare con le proprie gambe. Abbiamo necessità di trovare la nostra strada. Il supporto occidentale ci è indispensabile, ma spesso è un fardello pesante». Comprensibile. Un Paese che amministra il diritto di famiglia secondo la sharia, ma che al contempo vuole lasciarsi alle spalle un passato che nessuno rimpiange, ha più di un grattacapo.
«La legge fondamentale del nostro Paese è chiara», precisa il giudice Ahadayar, «ma le sue applicazioni sono tutt’altro argomento. Ciò di cui abbiamo bisogno è imparare il modo giusto per applicare il diritto nuovo tenendo conto di una realtà articolata, spesso legata a tribalismi contrapposti o definita da concezioni che stanno agli antipodi di quelle occidentali».
Chiarissimo. Come chiaro è il fatto che questa educazione non può essere un mero importo dall’esterno, peggio ancora se dall’alto. Esistono allora forze interne al Paese, siano esse culturali, politiche o sociali, in grado di avviare subito questo processo di educazione fondamentale per il radicamento di nuove istituzioni democratiche? Nessuno dei tre interlocutori risponde in modo negativo. Il loro imbarazzo, però, è palpabile.
Nel venticinquesimo della Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo - Storia di un piccolo seme di MASSIMO CAMISASCA (©L'Osservatore Romano - 9 febbraio 2011)
Nel settembre 1985 nasce la Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo. Nessuno di noi sei che firmammo l'atto costitutivo poteva sapere quale sarebbe stato il futuro di quel piccolo seme, così come oggi nessuno di noi - poco più che cento preti e quaranta seminaristi - può conoscere quale sarà lo sviluppo della nostra vita. Possiamo perciò soltanto lodare Dio per il passato, ringraziarlo per il presente e confidare in lui per il futuro.
In quel tempo Karol Wojtyla era Papa da quasi sette anni. La nostra nascita si iscrive in due cerchi concentrici: quello del movimento di Comunione e liberazione (Cl) e quello della Chiesa universale. Cl stava vivendo un periodo importante della sua storia. Nel 1976 don Giussani, riconosciuto da tutti come responsabile del movimento dopo i turbolenti anni Sessanta, attraverso il suo insegnamento all'Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano e guidando in prima persona la comunità degli universitari, iniziava e continuava un'opera di riforma della vita di Cl che intendeva radicare il popolo da lui nato in un'adesione profonda e personale al mistero di Cristo.
Sono anni ricchi di opere, segnati dalla nascita del Meeting di Rimini e dal sorgere del Movimento popolare. Vengono lanciati strumenti giornalistici che apriranno a molti giovani la strada di una nuova missione: dopo le vocazioni all'insegnamento, questa attenzione alla comunicazione fu un invito profetico di don Giussani a tutto il movimento.
Siamo all'inizio del pontificato di Giovanni Paolo II. Anni che vedono attorno alla figura del Papa polacco un'attenzione e un consenso progressivamente crescenti, ma anche voci dissenzienti. Giovanni Paolo II ha chiamato attorno a sé un consistente gruppo di prefetti e segretari di congregazioni che sostengono la sua opera in tutta la Chiesa. Penso al cardinale Ratzinger, a monsignor Cordes, a monsignor Moreira Neves, a monsignor Tomko, per citare soltanto alcuni tra quelli che più mi impressionavano.
In questo tempo, così luminoso e drammatico, è nata la Fraternità San Carlo. Se, nell'immediato essa sorse per un'intuizione di don Giussani e per le vicende personali di alcuni sacerdoti, in realtà poté crescere per la fecondità di grazie, di stimoli e di speranze propria di quel momento particolare che furono per la Chiesa e per Cl gli anni Ottanta. Alla fine di quel decennio, esattamente nel 1989, il nostro istituto fu riconosciuto come società di vita apostolica di diritto diocesano dal cardinale Ugo Poletti, allora vicario del Papa per la diocesi di Roma. Nel 1999 sarà riconosciuto come società di diritto pontificio dallo stesso Giovanni Paolo II. Nei dieci anni intercorsi tra i due riconoscimenti si sono poste le fondamenta della Fraternità. Si è consolidata la tradizione educativa della casa di formazione, sono nate le prime case nel mondo, si è confermata in noi la scelta della vita comune come via fondamentale dell'educazione e della missione. Solo nella comunione con i fratelli, segno sacramentale della comunione di Cristo, la nostra persona viene continuamente corretta e guidata verso Dio. Tale comunione è la pietra preziosa che possiamo offrire agli uomini. Essa è luminosa proprio perché non viene da noi, non dipende dai nostri sforzi e porta in sé anche le nostre debolezze e perfino i nostri peccati.
Poi nel primo decennio del nuovo secolo abbiamo vissuto gli anni della malattia di don Giussani e di Giovanni Paolo II, esperienze di grande insegnamento per tutti noi. Si è andata approfondendo in coloro che hanno guidato la Fraternità la coscienza dell'importanza del silenzio, della preghiera, dello studio: strade decisive affinché ciascuno entri, per quanto possibile, nel segreto della volontà di Dio e della sua visione sull'uomo e sul mondo. Abbiamo scoperto ogni giorno di più l'importanza del fatto che i sacerdoti siano seguiti costantemente e capillarmente nella loro crescita e nel loro ministero. La Fraternità ha ora dei delegati del superiore generale che vivono nei vari continenti e seguono da vicino i membri e le case dell'istituto, integrando i viaggi del superiore e dei suoi consiglieri.
Nel 2005 a Giovanni Paolo II succede Papa Benedetto. A don Giussani succede, come presidente della Fraternità di Cl, don Julián Carrón. Nello stesso anno un fiore improvviso è nato fra di noi. Non l'avevamo preventivato, ma subito al suo apparire ne abbiamo capito l'importanza. Attraverso la vocazione di una ragazza, Rachele Paiusco, sono nate le missionarie di San Carlo, religiose che intendono costituire delle case in missione, così come i loro fratelli missionari di San Carlo, dedicandosi all'evangelizzazione. La nostra Fraternità si è dunque allargata: una famiglia in due istituti.
L'elezione di Joseph Ratzinger ha enormemente rallegrato tutti noi. Le due udienze private che mi ha concesso in questi anni e la prossima udienza generale a tutta la Fraternità sono ragione di gioia e gratitudine per l'affetto con cui il Papa ci segue e per la considerazione che mostra per il carisma che ci ha generati. Quando penso a Benedetto XVI, mi vengono alla mente soprattutto Leone e Gregorio Magno, due Papi che hanno segnato con il loro magistero l'età tardoantica. Nelle parole del Pontefice, soprattutto in quelle a commento della liturgia nelle feste principali dell'anno, non c'è soltanto la profondità di una riflessione sul mistero di Cristo che vive nella liturgia della Chiesa, ma anche l'indicazione di un metodo che sentiamo particolarmente significativo per la nostra missione: la concentrazione sull'essenziale, la fiducia in Dio e non nei poteri mondani.
Nella prossima udienza, come un pellegrino desidero deporre ai piedi del Papa, successore di Pietro, il lavoro compiuto e le grazie ricevute in questi nostri primi venticinque anni di storia, umile contributo alla vita della Chiesa nella quale riconosciamo la madre che ci ha partorito. Gesto di ringraziamento a Dio da cui tutto abbiamo ricevuto.
08/02/2011 – INDONESIA - Java Centrale: migliaia di musulmani attaccano tre chiese, un orfanotrofio e un centro cristiano di Mathias Hariyadi
Picchiato a sangue il parroco della chiesa cattolica. Incendiata anche una camionetta della polizia e distrutto il tribunale di Temanggung. L’ira della folla scatenata da una sentenza di blasfemia troppo leggera ( 5 anni di prigione al posto della pena di morte).
Jakarta (AsiaNews) – Migliaia di fedeli musulmani inferociti hanno attaccato tre chiese, un orfanotrofio cristiano e un centro sanitario anch’esso cristiano. Le violenze sono avvenute stamane alle 10 (ora locale) e si sono concluse solo con l’intervento della polizia in tenuta antisommossa e camionette. Una delle camionette è stata bruciata dalla folla.
La rivolta è avvenuta nella reggenza di Temanggung (Java Centrale), e iniziata proprio di fronte alla sede del municipio: la folla ha assalito anzitutto il tribunale dove si è tenuto un processo contro Antonius Richmond Bawengan, un cristiano nativo di Manado (North Sulawesi), accusato di proselitismo e blasfemia.
Bawengan era stato arrestato nell’ottobre 2010 perché durante una sua visita a Temanggung aveva distribuito materiale missionario stampato, in cui fra l’altro si prendevano in giro alcuni simboli islamici. Il blasfemo è stato condannato a cinque anni di prigione, ma la folla esigeva la condanna a morte. A causa dell’insoddisfazione verso il verdetto, sono cominciate le violenze.
Invece di lasciare la corte, la folla ha cominciato a spingere, a gridare slogan provocatori e ha distrutto l’edificio. Centinaia di poliziotti sono accorsi ma non sono riusciti a calmare le migliaia di fedeli musulmani che hanno cominciato a marciare in massa per colpire “obbiettivi cristiani” sulla strada principale della città.
È stata attaccata anzitutto la chiesa cattolica di san Pietro e Paolo nel boulevard Sudirman; secondo fonti di AsiaNews, il suo parroco, p. Saldhana, un missionario della Sacra Famiglia, è stato picchiato con violenza mentre cercava di proteggere il tabernacolo e l’eucarestia contro i profanatori.
La folla ha poi attaccato anche una chiesa pentecostale. Secondo il pastore Darmanto – un altro leader cristiano di Temanggung – l’obbiettivo principale era proprio la chiesa pentecostale, che è stata bruciata. Il gruppo di scalmanati non si è però calmato e ha distrutto in seguito anche un orfanotrofio cattolico e un centro sanitario delle Suore della Provvidenza.
Un’altra chiesa protestante, della Shekinah, è stata bruciata.
Basta con Ruby, la gente non ne può più, pensiamo a cose serie. Le escort? Sono sfruttate, il moralismo non ci porta da nessuna parte. Si pensi alla vita e alla difesa. Vendola? Imprudente nel sussidio liturgico di Bruno Volpe, da http://www.pontifex.roma.it
"Senta, io faccio il parroco, in Sicilia e dedico la mia vita alla difesa della gente in difficoltà, ho problemi di incolumità personale, ma questo non mi impedisce di gridare: basta con il moralismo, non ci porta da nessuna parte": don Fortunato Di Noto, il coraggioso parroco anti pedofili parla chiaro. " Questo caso Ruby ci ha stancati, come se gli italiani non avessero cose più importanti. Il moralismo non serve, certo, non é una pagina esaltante, ma alla gente importa fare la spesa, pagare le bollette. Noi nelle parrocchie e nelle mense dobbiamo dare da mangiare sempre più a gente in difficoltà e non possiamo permettere che il dibatitto sia incentrato su Ruby, e se la vuol sentire tutta...". Dica: " la prostituzione é una cosa cattiva, certo, ma lei crede che quelle ragazze siano felici? Sono delle vittime, inserite in un meccanismo più grande di loro e da prete anche a loro va la mia solidarietà, ho compassione di loro, vorrei tanto capire che cosa passa nelle loro teste, sono esseri fragili ed hanno bisogno di amore oggi e non di linciaggio mediatico, a conti fatti possono essere figlie di tanti che oggi svolgono il ruolo di censori, ma sanno come vivono le loro figlie, vi hanno mai parlato? La vita riserva sempre sorprese e dunque vale la massima di non giudicare con troppa severità".
Dunque le escort sono sfruttate: " certo che lo sono, non fatevi ingannare dai regali, dai viaggi. Se non economicamente, nell' animo lo sono e probabilmente molte vorrrebbero cambiare vita. Se fossimo davvero cattolici, le aiuteremmo in questo invece che cercare colpi ad effetto".
Domenica la chiesa intanto celebra la giornata per la difesa della vita: " una bella e saggia decisione dei nostri vescovi, la vita va sempre difesa in ogni momento, é sacra, dal concepimento sino alla fine naturale e non vale alcuna scelta pietosa o finta generosa per avallare culture di morte. Certo, diciamo no all' aborto, ma il nostro no va anche allo sfruttamento indegno dei minori nella pubblicità e nei programmi televisivi, alla scarsezza di alimentazione e di istruzione, e tante altre cose nefande. La vita é sacra, ma sia anche degna, in condizioni lecite".
Cristiani sale della terra e luce del mondo: " belle espressioni, ma guai ad esagerare col sale o con la luce. Il nostro sale deve essere al punto giusto, dobbiamo dare il buon esempio, ma con misura, senza ogni sorta di moralismo e la luce sia la nostra condotta nella verità, sempre".
Infine, nel sussidio dei paolini per la quaresima tra i testimonial ci sta Vendola: " io non sono un bacchettone e non mi scandalizza Vendola come tale, ma sono perplesso, vi erano testimonial migliori, chi ogni giorno anonimamente fa del volontariato, chi lavora in silenzio e altri casi. Vendola ha idee sue, rispettabili, ma contrarie alla etica cattolica, può creare sconcerto nei fedeli, sono perplesso".
«L'uso del proprio corpo è ormai un fattore diffuso» di Raffaella Frullone, 08-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
“Al giorno d’oggi è caduto ogni tipo di riprovazione per qualunque forma di uso del proprio corpo. Non è che non siano mai esistite donne che per ottenere favori sfruttavano l’avvenenza, è che prima erano circondate da riprovazione, oggi non è più così”. E’ l’opinione di Lucetta Scaraffia, docente di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma e editorialista dell’ Osservatore Romano in merito allo scenario sociale e culturale che fa da sfondo alle vicende legate alle giovani donne pronte a tutto pur di ottenere ricchezza e successo. Una voce che fa eco alle parole di Antonio Polito, che sul Corriere della Sera riflette su quelle che chiama “le invereconde notti di Arcore” tracciando un legame con la cultura progressista cui imputa “una timidezza nel contrastare questa presunta modernizzazione. Per farlo, avrebbe dovuto riconoscere che c’erano aspetti della tradizione che sarebbe stato meglio conservare, avrebbe dovuto sforzarsi di comprendere la morale sessuale della Chiesa, avrebbe dovuto ammettere la necessità di un’etica privata, dopo essere diventata la paladina dell’etica pubblica”.
Lucetta Scaraffia, quali sono le occasioni che la cultura femminile ha perduto?
La grande occasione perduta è quella di pensare alla maternità come un valore positivo. Le donne purtroppo si sono lasciate coinvolgere da un filone di femminismo che richiedeva e promuoveva l’uguaglianza totale con gli uomini fino a far scomparire le differenze e la differenza più grande è la maternità. Ecco perché oggi viviamo in una società in cui per una donna è decisamente più facile fare carriera che fare un figlio, sia dal punto di vista professionale sia dal punto di vista della libertà personale dove un bambino è considerato un ostacolo. Non si fa altro che parlare del diritto a non avere figli, di liberare la vita delle donne dal condizionamento biologico, eppure alle donne piace avere figli, certo è una fatica, ma tutto al mondo è una fatica.
Non per tutti, ci sono ragazze che preferiscono non fare fatica e scelgono delle scorciatoie. Emancipazione che trova le basi nella cultura progressista?
Certo la cultura progressista non diceva “vendete il vostro corpo per ottenere ciò che volete”, però apriva alla possibilità di “utilizzare” il proprio corpo per essere felici, ma essere felici è un concetto ampio, che comprende tante cose, per qualcuno anche affermarsi nel campo dello spettacolo. A questo si aggiunge il fatto che al giorno d’oggi è caduto ogni tipo di riprovazione per qualunque forma di uso del proprio corpo. Non è che non siano mai esistite donne che per ottenere favori sfruttavano l’avvenenza, è che prima erano circondate da riprovazione, oggi purtroppo non è più così.
Le voci di chi dice “che ognuno nel proprio letto fa quel che vuole” sembrano però le stesse di chi oggi punta il dito…
E’ la cultura del “tutto è lecito”, ossia qualunque cosa una persona faccia all’interno di una scelta individuale non si può discutere. Esistono forme di politicamente corretto per cui non si osa neanche più dire nulla su forme estreme di trasgressione, per esempio l’atteggiamento nei confronti della transessualità. Dal caso Marrazzo in poi va trattata con i guanti mentre nei confronti di Berlusconi troviamo quest’ondata di moralismo, che non convince.
Non siamo quindi in presenza di un cambio di rotta…
Certo che no. Tutto quello che è stato fatto è contro Berlusconi, la riprovazione che si rispolvera nei confronti del premier non è certamente indice di un cambiamento della cultura, non è un atteggiamento di critica, di cambiamento della società, è solo e soltanto una manifestazione politica.
E chi scende in piazza in difesa della dignità delle donne?
Quale dignità stiamo difendendo? Queste ragazze sono libere. Non siamo alla tratta delle bianche, ma in presenza di una libera scelta. Sarebbe interessante capire con chi altro queste donne siano andate a letto prima di arrivare a Berlusconi, ma per quei casi sarebbe sicuramente invocato il diritto alla privacy…
Sud Sudan: un rimedio non un successo di Anna Bono, 08-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Il Sudan sarà diviso in due. Il 98,83% dei sud sudanesi ha scelto la secessione da Khartoum: è questo l’esito, ampiamente previsto, del referendum svoltosi dal 9 al 15 gennaio.
La consultazione costituiva uno dei punti fondamentali dell’accordo di pace del 2005 con cui si è conclusa la guerra che per decenni ha contrapposto le etnie cristiane e animiste del sud e quelle islamiche del nord provocando al sud più di due milioni di morti tra i civili e oltre quattro milioni di profughi. Il conflitto, iniziato all’indomani dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, nel 1956, si era intensificato nel 1983, con l’imposizione della legge coranica a tutto il paese, e ancora nel 1989, con il colpo di stato dell’attuale presidente Omar Hassan al Bashir che aveva avviato un processo di arabizzazione di cui stanno facendo le spese anche le popolazioni islamiche, ma di origine africana del Darfur. La scoperta dei giacimenti di petrolio in gran parte concentrati nelle regioni centrali e meridionali aveva poi aggiunto un ulteriore motivo di scontro tra il governo centrale e i leader del sud.
Il presidente al Bashir ha preso la parola il 7 febbraio, subito dopo l’annuncio dei risultati, confermando di accettare la volontà popolare e impegnandosi a favorire buoni rapporti e collaborazione tra i due nuovi stati. Intanto Salva Kiir Mayardit, finora vice di el Bashir e presidente del sud semiautonomo in qualità di capo dello storico movimento indipendentista Spla, decideva la costituzione di un comitato incaricato di organizzare le celebrazioni per l’indipendenza che verrà ufficialmente proclamata il prossimo 9 luglio.
Il sollievo del sud finalmente liberato dalla minaccia di un governo spietato non può far dimenticare che la secessione, più che una conquista di cui compiacersi, è da considerarsi un rimedio, deciso prendendo atto di una situazione purtroppo insostenibile. Non c’è da rallegrarsi infatti se appartenenza etnica e fede religiosa diverse esasperano i rapporti al punto da rendere impossibile la convivenza di popolazioni accomunate dall’urgenza di sconfiggere la povertà e che potrebbero riuscirci approfittando delle immense risorse naturali a disposizione.
Ora il nord perde una parte cospicua dei propri introiti e già se ne avvertono le ripercussioni. Il governo di Khartoum ha varato un piano di austerità che include tagli ai sussidi statali in seguito ai quali si sono avuti rialzi dei prezzi dei generi alimentari di largo consumo. Dal 27 gennaio nelle principali città del nord si tengono manifestazioni antigovernative quasi quotidiane, il 31 si sono verificati i primi scontri tra dimostranti e polizia, il 2 febbraio sono scesi per le strade gli studenti universitari di Khartoum.
Il Sud a sua volta dovrà fare i conti con la propria dipendenza dagli oleodotti che portano i greggio al nord, alle raffinerie e a Port Said, per essere esportato. Inoltre la guerra lo ha ridotto in macerie e manca di tutto: strade, ferrovie, scuole, ospedali. In queste condizioni deve far fronte alle necessità di centinaia di migliaia di profughi deportati o emigrati al nord nei decenni passati e che tornano a casa temendo di rimanere intrappolati in un territorio ostile e ormai straniero, dal momento che non verrà concessa a nessuno la doppia cittadinanza. Già sono arrivati a Juba, la capitale del Sud, 4.000 studenti universitari, ma il nuovo stato dispone al momento soltanto di tre atenei.
Nei prossimi mesi dovrà poi essere decisa l’attribuzione a uno dei due stati della regione centrale di Abyei: un problema non da poco e difatti per ora rimandato, mentre avrebbe dovuto essere risolto con un secondo referendum, inizialmente previsto in concomitanza con quello sulla secessione. Le difficoltà nascono dal fatto che Abyei è anch’essa molto ricca di petrolio, e quindi ambita. Per di più, come il Darfur, è abitata da etnie sia arabe che africane, dedite alla pastorizia e in conflitto per il controllo dei pascoli e delle sorgenti, soprattutto al sopraggiungere della stagione secca. Mentre a pochi chilometri di distanza i loro connazionali facevano la fila ai seggi, in attesa di votare, gruppi di Massiriya e di Dinka combattevano per assicurare cibo e acqua al loro bestiame, malgrado gli accordi appena stipulati.
Ritorna l'olandese di Lorenzo Albacete - mercoledì 9 febbraio 2011 – il sussidiario.net
Per un po’ di tempo, al primo posto nelle discussioni tra politici, osservatori e media della scorsa settimana non vi sono stati l’Egitto, la crisi economica o la disoccupazione (anche questi temi sono stati ovviamente discussi): l’argomento principe è stato Ronald Reagan.
Come ha scritto Edmund Morris su The New York Times di domenica scorsa, “Ritorna l’olandese”. Quando Reagan nacque nel 1911, suo padre, Jack Reagan, nel vedere il neonato scoppiò a ridere, dicendo che sembrava “un piccolo olandese grasso.” Da allora, “l’olandese” è stato il suo soprannome.
Improvvisamente, in questo centenario dalla sua nascita, Reagan è apparso dappertutto. Una delle ragioni dell’intensità del dibattito è stata la scoperta che il presidente Barack Obama, malgrado le differenze radicali tra le loro ideologie politiche, conservatrice verso progressista, è un ammiratore di Reagan.
Qual è la ragione dell’interesse di Obama in Reagan? Si tratta di tattica politica indipendente dai contenuti? Obama sta cercando di imparare come abbia potuto Reagan cambiare l’atteggiamento di così tanti americani da trasformare il profilo politico del Paese, instaurando “un’epoca conservatrice” che dimostra tuttora forza nel contrastare “l’epoca progressista” cui Obama ancora spera di dare inizio?
Ora tutti cercano di scoprire il “segreto di Ronald Reagan”. Suo figlio Ron, anticipando (e credo condividendo) questo interesse, ha appena pubblicato un libro intitolato Mio padre ai 100, dopo aver rifiutato per sette anni di trarre vantaggio dalla sua vicinanza con il padre (Io stesso sto leggendo il libro e l’ho trovato finora interessante e stimolante).
Visto che così tanti hanno raccontato la storia dei loro rapporti con Reagan, vorrei anch’io dire qualcosa sul mio unico incontro con lui, che potrebbe obiettivamente aiutare Obama a capire il suo “segreto”.
Incontrai il presidente Reagan nel 1987. A quel tempo vivevo a Boston, cercando di fondarvi un centro per lo studio di fede e cultura, ma la mia casa era ancora Washington, dove avevo vissuto per più di trent’anni. Fui divertito da questo invito a partecipare a una riunione con il presidente nella Stanza Ovale alla Casa Bianca, pensando che avevo dovuto lasciare Washington per poter avere questa opportunità (alla fine della riunione, Reagan mi suggerì di restare qualche giorno in più per visitare Washington e, quando gli dissi che avevo iniziato a viverci quando lui ancora girava film a Hollywood, mi disse di restare per fargli vedere la città! Scherzando, gli risposi che dovevo tornare a Boston per un’importante riunione e, mentre lui rideva, ci salutammo).
La riunione nella Stanza Ovale aveva per oggetto i violenti conflitti in atto in Nicaragua e ne El Salvador, dove sembrava che la Chiesa fosse più favorevole alla causa dei ribelli che alla politica anticomunista degli Stati Uniti. L’Arcivescovo allora a capo della Conferenza Episcopale della America Latina era venuto per spiegare a Reagan le preoccupazioni della Chiesa cattolica nella regione e a me era stato chiesto di fare da suo interprete. Anche Reagan aveva il suo interprete, ma appena prima dell’inizio dell’incontro, il presidente mi chiese di tradurre anche per lui, così mi sedetti tra Reagan e l’Arcivescovo.
Non c’è bisogno di dire che è stata un’esperienza affascinante. Seduti attorno vi erano il vicepresidente Bush e appartenenti allo staff del presidente, che gli avevano fornito tutte le indicazioni su cosa chiedere e dire all’Arcivescovo circa le preoccupazioni dell’Amministrazione. Era stato preparato tutto molto accuratamente e, credo, tutto andò come programmato.
Durante l’incontro, continuai a osservare attentamente Reagan e dal modo in cui guardava e ascoltava, mi sembrò che vi fosse qualcosa che proveniva dal suo intimo. Per così dire, qualcosa al di là degli argomenti oggetto delle domande e risposte preparate. Di che si trattava?
Da quell’incontro, ogni volta che l’ho rivisto in tv ho ripensato a questo. Rimasi sorpreso dalle pubbliche dimostrazioni di affetto quando morì nel 2004. Qual’era il segreto di Ronald Wilson Reagan, dell’uomo, della persona, del non attore? L’attuale interesse di Obama per lui mi ha aiutato a capire un po’ meglio la mia esperienza nella Stanza Ovale. Obama è un politico e le tattiche politiche sono certamente parte del suo interesse per Reagan. Ma c’è anche qualcosa d’altro.
Credo che Obama cerchi di essere soddisfatto dalla sua ricerca di un “terreno comune” nel conflitto tra ideologie, ma che il suo cuore quanto meno sospetti che un simile terreno comune richiede una riduzione dei desideri cui il cuore tenta di resistere.
Credo che in Reagan intraveda un uomo che non ha accettato questa riduzione, ed è questa l’attrattiva che io sentii in Reagan durante il nostro incontro. Era un uomo che credeva nella Verità e non era preparato a sacrificare questa convinzione in favore di vittorie ideologiche. Questa convinzione gli ha aperto il cuore a una visione più ampia della realtà e a un senso più profondo della possibilità di cambiare le cose senza rinunciare alla serenità che viene dal sapere che la Verità esiste.
Reagan ora ha incontrato quell’Uno che è la Verità. Prego che Obama scopra che Questi è quell’Uno di cui ha parlato così eloquentemente la settimana scorsa al National Prayer Breakfast: quell’Uno che ha chiamato pubblicamente il suo Salvatore.
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SUDAN/ Mario Mauro: dalla Sharia al referendum, un sì che non placa gli scontri di Mario Mauro - mercoledì 9 febbraio 2011 – il sussidiario.net
Ha vinto il Sì: con il referendum per l’autodeterminazione del Sud Sudan è stato portato a termine un percorso a ostacoli che pareva interminabile. Cerchiamo di capire come si è arrivati a questo punto e cosa dobbiamo aspettarci per il futuro prossimo del più esteso paese del “continente nero”.
Innanzitutto, è utile sottolineare come il Sudan, sebbene sia il Paese africano più vasto e con un territorio ricchissimo di materie prime, si trovi soltanto al 150° posto (su un totale di 177 paesi) negli indicatori di sviluppo. Instabile sin dall’indipendenza nel 1956, qui la legge militare ha sempre avuto il sopravvento.
Una combinazione distorta di fattori etnici, religiosi ed economici, qualche anno più tardi, ha fatto sì che il Sudan conoscesse un periodo di guerra civile durato circa 20 anni, fino al 2005. La guerra più lunga dell’ultimo secolo, dove le persone nate dopo l’indipendenza hanno conosciuto ben pochi intervalli di tregua.
Il Presidente Al Bashir guida la nazione dal colpo di Stato del 1989. Da subito ha dichiarato lo stato d’emergenza, mettendo al bando tutti i partiti d’opposizione, negando la libertà di espressione e obbligando tutti quanti al rispetto della Sharia.
Il conflitto è terminato con la firma di un “Comprehensive Peace Agreement” (Cpa), tra il Governo di Karthoum e il Movimento/esercito di liberazione del popolo sudanese. Il Cpa include disposizioni sulla condivisione delle ricchezze e del potere: una road map verso le elezioni democratiche e l’autodeterminazione del Sud.
In generale, però, l’implementazione del Cpa si sta rivelando molto difficile. La sfiducia tra le due parti in causa non si è mai sopita, inoltre la mancata inclusione di alcuni importanti attori e il conflitto in Darfur hanno intralciato non poco il processo in corso. Riguardo all’organizzazione dell’autodeterminazione del Sud Sudan, alcuni aspetti chiave restano irrisolti.
Per quanto riguarda la demarcazione dei confini tra i due territori, la corte permanente di arbitrato per i confini della regione di Abeyi, ricca di petrolio, è stata risolta in favore di Karthoum: questo significa che le rimostranze del sud non si faranno attendere a lungo. A ciò si lega il secondo punto di sicura collisione, vale a dire la ricerca di accordi sulla gestione di petrolio e acqua.
Siamo di fronte al più significativo cambiamento di confini in Africa dai tempi della decolonizzazione: questo potrebbe a breve avere un’importante influenza su altri movimenti secessionisti che hanno già minacciato in passato la stabilità del continente africano. Proprio in Sudan la popolazione del Darfur diventerà un terzo del totale e acquisterà relativa importanza.
Altri nodi difficili da sciogliere per il sud indipendente sono i gravi problemi di bilancio, l’enorme corruzione, ufficialmente riconosciuta come un peso ormai insopportabile e i numerosi scontri interetnici, fomentati da personalismi e tentativi di destabilizzazione, che hanno provocato migliaia di vittime negli ultimi anni.
Il nuovo Governo dovrà costruire una nuova amministrazione, infrastrutture e servizi essenziali. Ma dovrà soprattutto fare i conti con il grandissimo numero di persone che si sono rifugiate in Uganda negli ultimi decenni e che certamente sono incoraggiati a un ritorno in patria.
La fine di un conflitto che ha provocato milioni di morti è una notizia positiva, così come la prospettiva della nascita di una democrazia. Visto quanto ho cercato di raccontare, la strada è ancora molto lunga. Molto dipenderà dalla qualità delle relazioni tra Nord e Sud, che dovranno innanzitutto mettere da parte la diffidenza reciproca.
In questo conterà molto il ruolo della comunità internazionale, con in testa Europa, Stati Uniti e Cina (che sfrutta in grandissime quantità le materie prime sudanesi). Anch’essi però dovranno saper collaborare serenamente e senza pregiudizi di tipo ideologico.
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EGITTO/ Habashy (scrittore): i giovani protestano contro il fallimento spirituale di un popolo – Redazione - mercoledì 9 febbraio 2011 – il sussidiario.net
«La rivoluzione di piazza Tahrir è una sorpresa totale, spiegabile solo con un profondo senso di frustrazione spirituale, prima che politica, dei nostri giovani. In 5mila anni di storia, dal Faraone in poi, il popolo egiziano non è mai stato capace di fare altro che obbedire». A rivelarlo è lo scrittore egiziano Osama Habashy, intervistato da IlSussidiario.net nel giorno in cui migliaia di persone sono tornate a protestare di fronte alla sede del Parlamento e della tv di Stato. Musulmano, sposato con una donna italiana, Habashy è autore del romanzo «La stagione triste della farfalla», che descrive il conflitto israeliano-palestinese a partire dalla vita quotidiana delle persone comuni, ebree e arabe, che finiscono travolte dagli eventi politici.
Habashy, la rivolta di piazza Tahrir era stata anticipata da un dissenso manifestato attraverso l’arte e la cultura?
Non è esattamente così, perché nessuno si aspettava la rivoluzione che è stata una sorpresa totale. E’ difficile riuscire a trovare anche solo una riga dei romanzieri egiziani in cui si anticipano gli eventi di questi giorni. Nessuno dei nostri scrittori è riuscito a leggere la direzione in cui stava andando la società.
La protesta di questi giorni è solo politica, o nasce da un malcontento più profondo?
Sicuramente nasce da un fallimento politico del regime di Mubarak, ma esistono motivazioni più profonde. Quanto sta accadendo in questi giorni è una cosa strana. Se guardiamo allo spirito del popolo egiziano, non ha mai avuto l’energia per compiere una rivoluzione del genere. Per 5mila anni non ha mai fatto altro che obbedire, prima ai Faraoni, poi al re, quindi al presidente, fino ai nostri giorni.
Eppure questa volta ha trovato le energie per ribellarsi…
E’ ancora tutto da vedere come andrà a finire, perché finora il regime ha vinto al 70%. Da sempre nella società egiziana le cose funzionano in questo modo. Per secoli, anzi millenni, non è mai riuscita a fare nulla di sua spontanea iniziativa, e questo da un punto di vista spirituale rappresenta un fallimento totale. Ed è a questo che, innanzitutto, si sono ribellati i ragazzi che sono scesi in piazza e nelle strade. Anche se ovviamente ci sono diversi fattori contingenti che hanno giocato un ruolo, dalla diffusione di Internet e di Facebook alla rivolta del pane in Tunisia.
Ma fino a che punto la mentalità aperta di studenti, magistrati e professori che protestano è rispecchiata dalle masse popolari?
Per il momento non è rispecchiata affatto, glielo dico in tutta sincerità. Se guardiamo al numero delle persone che hanno partecipato alle manifestazioni, dal 25 gennaio a oggi, in tutto saranno stati otto milioni. In Egitto ci sono 78 milioni di abitanti, e almeno la metà di loro in questo momento starà pensando: «Mubarak deve restare al potere, quelli che protestano sono dei violenti, disoccupati finanziati da potenze straniere».
Quindi anche da un punto di vista religioso, la maggioranza degli egiziani non è aperta al dialogo come i giovani di piazza Tahrir?
No, la maggior parte delle persone nel nostro Paese si sentono innanzitutto egiziane, a prescindere dalle distinzioni religiose. Penso quindi che il futuro che ci aspetta dopo le proteste sarà più tollerante, basta vedere quanto è accaduto in questi giorni in piazza, con i cristiani che proteggevano i musulmani mentre pregavano e viceversa. La maggioranza degli egiziani è disponibile al dialogo religioso, sia chi ha manifestato sia chi ha deciso di non farlo.
E da dove nasce questa apertura?
Dal fatto che i cristiani sono presenti nel nostro Paese da molti secoli prima della nascita di Maometto. Il dialogo deve partire innanzitutto da questo fatto. E per fare sì che possa proseguire, occorre che tutti i partiti di opposizione entrino a fare parte del governo, ciascuno con il ruolo che gli si addice. Evitando per esempio che ai Fratelli musulmani vada il presidente o il capo del governo, ma offrendo loro un ministero adatto alle loro caratteristiche.
Intanto però le proteste non accennano a placarsi…
Penso che la rivoluzione ci riserverà molte altre sorprese. Il sistema militare su cui era basato il regime continuerà a proteggere il suo potere militare attraverso la politica. E dopo la transizione, che durerà per sei-sette mesi, Omar Suleiman punterà a succedere a Mubarak restando in carica per due mandati.
Lei però ha parlato di altre possibili sorprese. A che cosa si riferiva?
Potrebbero esserci due scenari. Il primo è che, a un certo punto, l’esercito decide di appoggiare la rivoluzione e caccia il regime. E’ un’ipotesi un po’ lontana, ma che può accadere. L’altra ipotesi è che le manifestazioni di piazza continuino, mentre le opposizioni dialogando con il governo perdono tutta la loro credibilità. Fino a che l’esercito si stancherà e deciderà di riportare l’ordine. Questa è un’ipotesi molto pericolosa, perché se si mobilita l’esercito si innesca un caos totale.
E quindi l’esercito a questo punto potrebbe fermare la rivoluzione…
Sì, se le manifestazioni proseguono troppo a lungo è quello che temo possa avvenire. Nel frattempo, il governo ha fatto una mossa molto astuta: riaprendo uffici e banche, ha calmato il Cairo. Basta allontanarsi due passi da piazza Tahrir, per accorgersi che la vita ha ripreso a scorrere normalissima. Per esempio in questo momento mi trovo in metropolitana, e sta funzionando regolarmente. Per questo ritengo che il tempo giochi a favore del governo.
Tornando alla letteratura, in ottobre lo scrittore egiziano al-Aswani si è detto contrario alla traduzione in ebraico della sua opera principale. Condivide sua la posizione?
La questione è complessa, in quel caso la traduzione era stata fatta senza chiederglielo. Ma tutti noi scrittori egiziani ci siano chiesti se consentire che le nostre opere fossero tradotte in ebraico oppure no. Comunque, la questione è che Mubarak ha fatto tantissimo per aiutare gli israeliani, ma in questo modo ha bloccato il dialogo con i palestinesi, fingendo di farlo andare avanti. E così non ha aiutato i palestinesi come avrebbe dovuto.
(Pietro Vernizzi)
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