Nella rassegna stampa di oggi:
1) Europa, se ci sei batti un colpo di Andrea Tornielli, 28-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
2) Yara, la difficile scoperta che il male è tra noi di Raffaella Frullone, 28-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
3) Staminali dal cordone: il Papa fa scienza di Carlo Bellieni, 28-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
4) "L'aborto non risolve nulla e distrugge la donna" di Massimo Introvigne, 28-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
5) Lezioni nordafricane di Pigi Colognesi, lunedì 28 febbraio 2011, da http://www.ilsussidiario.net
6) PAPA/ Così anche anche la scienza dimostra che l'aborto uccide la famiglia, INT. Carlo Bellieni, lunedì 28 febbraio 2011, il sussidiario.net
7) CON LE STAMINALI DEL CORDONE OMBELICALE NUOVE SPERANZE PER IL DIABETE di Paolo De Lillo*
8) La prossima Quaresima è sulla via per Damasco - Nel messaggio per i quaranta giorni di preparazione alla Pasqua, Benedetto XVI chiama tutti a conversione e a vita nuova. Come per un nuovo Battesimo. E scrive le istruzioni di Sandro Magister
Europa, se ci sei batti un colpo di Andrea Tornielli, 28-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Il presidente dei vescovi italiani, in un’intervista al Giornale ha risposto a una domanda sulla crisi libica e sulle conseguenze per l’Italia con queste parole: «Quando i diritti delle persone vengono conculcati, prima o poi il popolo trova la strada per ritrovare la sua libertà. Quel che dà a pensare in questo caso è l’enorme tributo di sangue. Ma proprio questo chiama in causa, a maggior ragione, la politica internazionale perché stia attenta e non si distragga dietro questioni secondarie. La drammaticità del Medio Oriente e della regione nordafricana è un appello a tutto l’Occidente e, nel caso della Libia, al nostro Paese per la vicinanza geografica. L’ondata migratoria va collocata dentro quest’assunzione di responsabilità. Quindi bisognerà vigilare perché non abbia un impatto devastante sui fragili equilibri interni, e all’ospitalità doverosa faccia da contrappeso la necessaria legalità. L’Italia è la porta dell’Europa e l’Europa deve essere presente in modo adeguato, tempestivo ed efficace».
L’Europa, ha detto il cardinale, deve esserci in modo adeguato, tempestivo ed efficace. Sapete invece che fino ad oggi i Paesi nostri confratelli nell’Unione, hanno offerto soldi ma non la disponibilità a condividere concretamente il peso dell’eventuale migrazione, ospitando rifugiati. Che strana questa europa, così distante, a volte, dallo spirito dei suoi grandi fondatori cristiani. Abbiamo un supergoverno centrale dell’economia e della finanza europea, un esercito di burocrati ed esperti, parametri, leggi e leggine da rispettare. Abbiamo persino istituzioni di garanzia europee alle quali ci si può appellare, che emettono sentenze sulla vita di casa nostra, come nel caso del divieto di esporre il crocifisso nelle scuole.
Ma di fronte a un problema come quello esploso in Nord Africa, e alla possibilità che un’ondata migratoria imprevista raggiunga le nostre coste, ecco che l’Europa gioca a scaricabarile. Gli altri Paesi si rammaricano, stanziano dei fondi per aiutarci, ma per carità, che non si pensi di distruibuire concretamente le presenze degli immigrati. Il cardinale, con realismo e senza indulgere in alcun modo alla demagogia e al politicamente corretto, chiede accoglienza ma al tempo stesso vigilanza perché l’ondata – se ci sarà nelle temute dimensioni – non abbia «un impatto devastante» sugli equilibri interni già «fragili» del nostro Paese. Chiede doverosa ospitalità e insieme attenzione alla legalità. L’Europa, se c’è, dovrebbe battere un colpo.
Yara, la difficile scoperta che il male è tra noi di Raffaella Frullone, 28-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Se possibile, oggi per Brembate Sopra è il giorno più difficile. Se sabato è stato il giorno dello choc, e ieri quello del silenzio, oggi la comunità di Yara Gambirasio è chiamata a ricominciare. Oggi non si apre soltanto una nuova settimana ma è il primo giorno in cui ricomporre la realtà con la certezza che la giovane ginnasta scomparsa il 26 novembre scorso non ne fará più parte.
Le flebili speranze di chi ancora fortemente sperava di riportarla a casa viva si sono spente nel pomeriggio di sabato, quando il cadavere della tredicenne è stato rinvenuto da un uomo che stava provando un aeromobile nei pressi di Chignolo d’Isola. Una scoperta scioccante, una chiamata agli inquirenti e in pochi minuti il nulla che aveva inghiottito Yara l’ha restituita come nessuno avrebbe voluto e come tutti, almeno una volta, abbiamo temuto.
A pochi chilometri da casa e dal luogo della scomparsa, a soli 300 metri da quello che era uno dei centri di coordinamento delle ricerche, giaceva il corpo di Yara, con addosso i suoi vestiti e accanto ai suoi effetti personali, intatto. Spetta agli inquirenti ora chiarire se il corpo si trovava in quel luogo da diversi mesi, come propendono gli investigatori considerata la fragilità del cadavere giá in avanzato stato di decomposizione, oppure è stato portato lì in un secondo momento, come sostengono le persone che vivono nelle vicinanze, gli uomini della Protezione Civile e i volontari che hanno partecipato alle ricerche e che più volte hanno battuto la zona.
Ma questa è solo la prima delle domande che aspettano una risposta. E se una parte di verità potrebbe arrivare in giornata con l’autopsia, gli interrogativi più pesanti potrebbero rimanere senza risposta ancora a lungo. «Dentro di noi c’è smarrimento e angoscia e non riusciamo a
capire se tutto questo ha un senso - ha detto ieri Don Corinno durante la messa domenicale - Eravamo abituati a sentir parlare dell’orco nelle favole – ha continuato - adesso sappiamo cosa è l’orco. Un orco è tra noi, abbiamo visto fino a che punto è in grado di arrivare l’uomo, e siamo preoccupati’.
Nella cittadina in provincia di Bergamo, dove tutti fino ad oggi avevano manifestato solidarietà alla famiglia Gambirasio, l’incubo non sembra affatto finito ma paradossalmente sembra cominciare; scartata la pista camorristica, quelle che portavano in Svizzera, quella del regolamento di conti, sembra farsi sempre più strada, come ha ricordato Don Corinno nell’omelia, l’ipotesi dell’orco, il killer omicida che si nasconde potenzialmente in casa di chiunque. Secondo i criminologi l’ipotesi più accreditata potrebbe essere legata ad un movente sessuale: Yara non avrebbe ceduto alle avance di un bruto e avrebbe pagato il suo rifiuto con la vita. A Brembate la paura è palpabile, ma ancor più lo è il desiderio di scoprire i colpevoli di tanta violenza e di assicurarli finalmente alla giustizia.
Il vescovo Francesco Beschi si è rivolto proprio al colpevole del crimine: «Mi appello alla coscienza di questa persona - ha detto - Questo fatto è inaccettabile non solo per la comunità, ma anche per chi lo ha compiuto. Non vogliamo sottrarci al dolore con parole di consolazione che non sono capaci di consolare nessuno – ha proseguito monsignor Beschi - ma vogliamo stare dentro a questo dolore». Dal vescovo di Bergamo, pur in un momento che egli stesso ha definito oscuro, sono giunte tuttavia anche parole di speranza: «Yara che abbiamo ritrovato nella sua morte non l'abbiamo però perduta». Poche ore prima di nuovo Don Corinno, nell’omelia aveva ribadito «la morte non è l’ultima parola».
Una frase che ci riporta a quella pronunciata da Lidia Macchi, una ragazza scomparsa e barbaramente uccisa nel 1987 in provincia di Varese. Come Yara anche Lidia era giovanissima, come Yara è scomparsa nel nulla, come per Yara la stessa, inaccettabile violenza. Ricordiamo Lidia non solo per la tragica analogia del crimine, ma anche perché per entrambe le vicende si sono trasformate in solidarietà: i genitori di Lidia dopo la sua morte hanno dato vita ad una fondazione che porta il suo nome e che promuove, progetta e sostiene finanziariamente una serie di iniziative per lo sviluppo delle popolazioni africane, in particolare ugandesi; per Yara invece la solidarietà ha preso la forma di una comunità che si è stretta in preghiera e che oggi non smette di pregare: «Questa ragazza è segno di una comunità», aveva detto ancora il vescovo di Bergamo che poi, parlando dell’omicidio, aveva ribadito: «Questi gesti non sono frutto del destino ma frutto dell’uomo». O forse del diavolo, che come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare.
Staminali dal cordone: il Papa fa scienza di Carlo Bellieni, 28-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Un Papa che mette in dubbio quello che viene strombazzato dalla pubblicità è un Papa coraggioso: non solo nel discorso alla Pontificia Accademia pro Vita del 26 febbraio si oppone alla burrasca morale dell’aborto, ed è l’unico al mondo che vuole che ci si curi integralmente delle donne, senza abbandonarle con le spalle al muro quando sono nei guai e dar loro solo l’opzione di uccidere il figlio come unica scappatoia, spesso causa di danni psichiatrici.
Ma alza anche la voce per difendere la giustizia, cioè l’accesso di tutti all’utile sangue preso dal cordone ombelicale (SdCO) del bambino, ricco di cellule staminali; e spiega da scienziato, che tenerlo per sé è forse una futuribile speranza, ma allo stato attuale non mostra nessun vantaggio e una pallida utilità. Mentre vanno favorite e incrementate le raccolte pubbliche, per far arrivare questo materiale a tutti, ricchi e poveri.
Sarà aggredito dal pregiudizio, che vuole l’egoismo come unico metro di scelta, dal guadagno o dalle urla di chi pensa che se una cosa si può fare è per forza utile. Il Papa ciononostante inneggia all’altruismo, alla giustizia; e alla scienza. Già: perché tutte le società scientifiche mondiali (a differenza da quanto compare su tanti giornali italiani) sconsigliano la conservazione “per se stessi” del sangue preso dal cordone ombelicale, o ne mostrano la scarsa utilità: non ci si può curare con le proprie cellule che evidentemente saranno già malate alla nascita se uno ha una malattia genetica.
L'American College of Obstetricians and Gynecologists afferma che le possibilità di usare il proprio sangue vengono calcolate approssimativamente in 1 caso su 2.700, e la Società Americana per il trapianto del Midollo Osseo alla domanda "Posso conservare il SdCO per il mio bimbo?" pubblicata nel suo sito web risponde: "Certo, ma la possibilità di usare il proprio SdCO è molto bassa. Molti pazienti che necessitano trapianto di SdCO hanno bisogno di cellule da un donatore, non le proprie che possono contenere le stesse cellule che hanno prodotto la malattia. Spesso i fratelli e le sorelle sono i migliori donatori. D'altronde nei registri pubblici si possono trovare donatori compatibili".
Su basi simili si esprime il recente rapporto della senatrice Hermange a nome della Commissione Affari Sociali del Senato Francese e l'American Academy of Pediatrics spiega: "La donazione di SdCO dovrebbe essere scoraggiata quando diretta ad uso personale o familiare per la possibilità che nel sangue stesso ci siano cellule che causano la patologia che si vuole curare". "La donazione al pubblico deve essere incoraggiata" e al momento "la conservazione privata come assicurazione biologica deve essere scoraggiata".
Anche un recente articolo del Comitato di Medicina materno-fetale dei Ginecologi Canadesi riporta che "la donazione altruistica di sangue di cordone ombelicale per un uso pubblico deve essere incoraggiata", ma "la conservazione per donazione autologa non è raccomandata date le limitate indicazioni e mancanza di evidenza scientifica per supportare detta pratica"; e il Comitato Nazionale di Etica francese (CCNE), nel 2002 riportava che "la conservazione di SdCO per il bimbo stesso sembra una destinazione solitaria e restrittiva rispetto alla pratica solidale del dono. Si tratta di una capitalizzazione biologica preventiva, di un'assicurazione biologica di cui l'utilità effettiva appare ben modesta. La posizione del CCNE non è di considerarla moralmente condannabile in sé. Potrebbe essere proposta, in via eccezionale e non sistematica, in caso di gruppo HLA raro conosciuto".
Il commento, infine, del Groupe européen d'éthique des sciences et des nouvelles technologies, un Comitato di Bioetica della Unione Europea, conclude che "Bisogna interrogarsi sulla legittimità delle banche commerciali del SdCO a uso autologo, nella misura in cui offrano un servizio che, ad oggi, non presenta alcuna utilità reale in termini di possibilità terapeutiche". Il documento caldeggia inoltre che la pubblicità delle stesse banche debba chiaramente offrire informazioni sulle scarse possibilità per motivi clinici di usufruire del sangue conservato. E' un documento che merita, almeno nelle sue conclusioni, di essere letto integralmente.
La Società Americana per la Donazione del Midollo Osseo, così riassume (febbraio 2008):
1. La donazione pubblica di SdCO deve essere incoraggiata
2. La probabilità di usare il proprio SdCO è molto piccola - difficile da quantificare ma probabilmente tra lo 0.04% (1:2500) e lo 0.0005% (1:200,000) nei primi 20 anni di vita, e perciò non deve essere raccomandata.
3. La raccolta per un membro della famiglia è raccomandata quando ci sia un fratello con una malattia che può essere trattata con successo con trapianto allogenico.
Tanti dati, tutti univoci e chiari; e il Papa da qui parte.
Insomma, il Papa incoraggia all’altruismo, mostra i limiti di una mentalità che per paura tende a tenere “tutto per sé”, e ha dalla sua parte tutta la comunità scientifica. Dall’altra parte, dalla parte opposta alla scienza, staranno i soliti giornali, i VIP ricchissimi e i soliti politici nostrani, pronti a parlare senza sapere. Ma gli conviene?
"L'aborto non risolve nulla e distrugge la donna" di Massimo Introvigne, 28-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Il 26 febbraio Benedetto XVI ha ricevuto i partecipanti all’Assemblea annuale della Pontificia Accademia per la Vita. Pur senza far mancare un cenno alla tematica, anch'essa affrontata nell'assemblea, della conservazione e dell'utilizzo delle cellule staminali provenienti dal cordone ombelicale - di cui riferiamo a parte - il discorso si è concentrato sulla sindrome post-abortiva, definita dal Pontefice come «il grave disagio psichico sperimentato frequentemente dalle donne che hanno fatto ricorso all’aborto volontario».
Questa sindrome, ha affermato Benedetto XVI, «rivela la voce insopprimibile della coscienza morale, e la ferita gravissima che essa subisce ogniqualvolta l’azione umana tradisce l’innata vocazione al bene dell’essere umano, che essa testimonia». Certo, si dovrebbe parlare anche della «coscienza, talvolta offuscata, dei padri dei bambini, che spesso lasciano sole le donne incinte». Ma la sindrome colpisce comunque, e dolorosamente, le donne.
Il fenomeno della sindrome post-abortiva smentisce clamorosamente quanti cercano di negare il ruolo della coscienza. «La coscienza morale - insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica - è quel "giudizio della ragione, mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto che sta per porre, sta compiendo o ha compiuto" (n. 1778). È infatti compito della coscienza morale discernere il bene dal male nelle diverse situazioni dell’esistenza, affinché, sulla base di questo giudizio, l’essere umano possa liberamente orientarsi al bene. A quanti vorrebbero negare l’esistenza della coscienza morale nell’uomo, riducendo la sua voce al risultato di condizionamenti esterni o ad un fenomeno puramente emotivo, è importante ribadire che la qualità morale dell’agire umano non è un valore estrinseco oppure opzionale e non è neppure una prerogativa dei cristiani o dei credenti, ma accomuna ogni essere umano. Nella coscienza morale Dio parla a ciascuno e invita a difendere la vita umana in ogni momento. In questo legame personale con il Creatore sta la dignità profonda della coscienza morale e la ragione della sua inviolabilità».
Si può tentare d'ignorare la voce della coscienza. Ma fenomeni come la sindrome post-abortiva mostrano come essa torni sempre ad affiorare. «Nella coscienza - ricorda il Papa - l’uomo tutto intero - intelligenza, emotività, volontà - realizza la propria vocazione al bene, cosicché la scelta del bene o del male nelle situazioni concrete dell’esistenza finisce per segnare profondamente la persona umana in ogni espressione del suo essere. Tutto l’uomo, infatti, rimane ferito quando il suo agire si svolge contrariamente al dettame della propria coscienza».
La sindrome post-abortiva non è un semplice fenomeno psicologico. In essa si manifesta infatti la voce stessa di Dio: «Anche quando l’uomo rifiuta la verità e il bene che il Creatore gli propone, Dio non lo abbandona, ma, proprio attraverso la voce della coscienza, continua a cercarlo e a parlargli, affinché riconosca l’errore e si apra alla Misericordia divina, capace di sanare qualsiasi ferita».
E tuttavia la sindrome post-abortiva va prevenuta, evitando l'aborto, e gli studi su questa sindrome richiamano il grave dovere di dire la verità alle donne tentate di abortire, senza prospettare loro l'aborto in modo banalizzante come una scelta facile e priva di conseguenze. «I medici, in particolare - ha detto il Papa -, non possono venire meno al grave compito di difendere dall’inganno la coscienza di molte donne che pensano di trovare nell’aborto la soluzione a difficoltà familiari, economiche, sociali, o a problemi di salute del loro bambino. Specialmente in quest’ultima situazione, la donna viene spesso convinta, a volte dagli stessi medici, che l’aborto rappresenta non solo una scelta moralmente lecita, ma persino un doveroso atto "terapeutico" per evitare sofferenze al bambino e alla sua famiglia, e un "ingiusto" peso alla società. Su uno sfondo culturale caratterizzato dall’eclissi del senso della vita, in cui si è molto attenuata la comune percezione della gravità morale dell’aborto e di altre forme di attentati contro la vita umana, si richiede ai medici una speciale fortezza per continuare ad affermare che l’aborto non risolve nulla, ma uccide il bambino, distrugge la donna e acceca la coscienza del padre del bambino, rovinando, spesso, la vita famigliare».
Ma il compito di evitare l'aborto e le sue conseguenze non può essere affidato solo ai medici. Al contrario, «è necessario che la società tutta si ponga a difesa del diritto alla vita del concepito e del vero bene della donna, che mai, in nessuna circostanza, potrà trovare realizzazione nella scelta dell’aborto».
Quando poi la sindrome post-abortiva si manifesta, una volta che la scelta sempre sbagliata dell'aborto è stata fatta, sarà importante «non far mancare gli aiuti necessari alle donne che, avendo purtroppo già fatto ricorso all’aborto, ne stanno ora sperimentando tutto il dramma morale ed esistenziale». Benedetto XVI ha voluto ricordare «a tale proposito l’invito rivolto dal Venerabile Giovanni Paolo II [1920-2005] alle donne che hanno fatto ricorso all’aborto: "La Chiesa sa quanti condizionamenti possono aver influito sulla vostra decisione, e non dubita che in molti casi s’è trattato d’una decisione sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel vostro animo non s’è ancor rimarginata. In realtà, quanto è avvenuto è stato e rimane profondamente ingiusto. Non lasciatevi prendere, però, dallo scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere, piuttosto, ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua verità. Se ancora non l’avete fatto, apritevi con umiltà e fiducia al pentimento: il Padre di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdono e la sua pace nel sacramento della Riconciliazione. Allo stesso Padre e alla sua misericordia potete affidare con speranza il vostro bambino. Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita" (Enc. Evangelium vitae, 99)».
Lezioni nordafricane di Pigi Colognesi, lunedì 28 febbraio 2011, da http://www.ilsussidiario.net
Certamente tutti noi abbiamo avuto modo di discutere di quello che sta succedendo sull’altra sponda del Mediterraneo. A cena, in famiglia o tra amici, davanti alla macchinetta del caffè coi colleghi abbiamo cercato di capire, di formulare un parere, di esprimere una preoccupazione.
Ho notato che questa discussione arrivava in fretta al silenzio; non si sapeva più cosa dire. La ragione più immediata è che si tratta di avvenimenti che capitano a popoli di cui in fondo sappiamo poco o niente del tutto. E quanto vediamo alla tivù o via Internet oppure leggiamo sui giornali non ci aiuta più di tanto; c’è l’immediatezza del fatto eclatante che cattura per un poco l’attenzione, ma i termini reali di quello che succede ci sfuggono.
Così non se ne parla nemmeno più. Com’è la situazione, ad esempio, in Algeria o Tunisia, i primi paesi in cui è scoppiata la crisi? E in Egitto, dopo le oceaniche manifestazioni e la fine del regime di Mubarak, come stanno andando le cose?
È normale che sia così; siamo di fronte a sommovimenti molto complessi, nella cui evoluzione entrano in gioco un’enorme quantità di fattori - storici, politici, culturali, economici, religiosi - che costituiscono una matassa difficile da sbrogliare.
C’è poi l’elemento sorpresa. Ancora una volta il corso della storia ha preso una direzione che nessuno aveva immaginato e di fronte alla quale si sono trovate spaesate le diplomazie internazionali; figuriamoci il semplice cittadino. È facile a questo punto reagire con una semplice alzata di spalle oppure preoccuparsi solo della conservazione dei propri interessi, che in questo caso sarebbero minacciati se, come sembra probabile, una delle conseguenze di quello che sta succedendo sarà l’impennata dell’ondata migratoria nel nostro Paese.
Forse, però, qualche insegnamento di più ampio respiro lo si può tratte comunque. Non si tratta di diventare esperti di politica mediorientale o di cultura nordafricana, ma semplicemente di non fare gli struzzi quando gli avvenimenti ci sbattono in faccia qualcosa di imponente. E basterebbero le centinaia o forse migliaia di morti a convincerci che l’attuale crisi di parte del mondo arabo è uno di questi casi.
Il primo insegnamento è che la storia - dei popoli, ma anche quella personale - non procede mai solo sui binari del prevedibile. L’inatteso è sempre dietro l’angolo. Non è una minaccia oscura, da cui conseguirebbe un’ansia continua rispetto al futuro. È la realistica constatazione che del futuro non siamo padroni. E se è sacrosanto programmare e prevedere, è ancora più saggio conquistare una posizione così salda per cui l’imprevisto non scuota definitivamente le nostre fondamenta. Il che può accadere solamente se l’imprevisto è tale dal nostro punto di vista, ma non da quello di Chi ha in mano il corso della storia.
Il secondo insegnamento mi è parso evidente pensando a quale grande desiderio - di pane, di libertà, di cambiamento - ha mobilitato tutta quella gente che è scesa in piazza. Non mi illudo che sia un desiderio completamente limpido, privo di scorie, non strumentalizzabile; ma certo ha qualcosa di potente, se rischiano la pelle per affermarlo. Il recente rapporto del Censis ha detto che, invece, ciò che ci manca in Italia è esattamente il desiderio.
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PAPA/ Così anche anche la scienza dimostra che l'aborto uccide la famiglia, INT. Carlo Bellieni, lunedì 28 febbraio 2011, il sussidiario.net
L’aborto, libera scelta e aiuto alla salute femminile? E’ il “mantra” della società postmoderna, la parola d’ordine che risuona nella maggior parte dei media: obbligatoria e indiscutibile. E’ il “mantra” di una società occidentale che alle donne non dà alternative, che non fa prevenzione, che non aiuta economicamente, ma che deve far osannare l’unica scelta che propone (impone) alle ragazze e alle donne che aspettano un figlio ed hanno problemi. E sarebbe libertà? E avete mai provato a controllare cosa dice la scienza sulle conseguenze dell’aborto sulla mente della donna?
Il Papa ha seguito questo ragionamento il 26 febbraio, a conclusione dell’Assemblea annuale della Pontificia Accademia Pro Vita, che ha trattato di questo argomento, spiegando che “l’aborto non risolve nulla, ma uccide il bambino, distrugge la donna e acceca la coscienza del padre del bambino, rovinando, spesso, la vita famigliare”, e parlando diffusamente del trauma da aborto cui soggiacciono tante donne, che la Chiesa vuole abbracciare e non abbandonare.
Questo non farà piacere agli araldi dell’egoismo postmoderno, che sanno solo indicare “come fuggire” dai problemi gravi, e non vogliono riconoscere che vari studi mostrano che l'aborto comporta dei seri rischi per la salute psicologica femminile, proprio quella che a parole vorrebbero difendere. In primo luogo, abortire non è un bel segno di serenità mentale: le donne che abortiscono più volte hanno avuto più esperienze negative, in età infantile, delle altre, secondo uno studio pubblicato in febbraio sull’American Journal of Obstetrics and Gynecology. E sarebbe libertà?
Ma provoca anche conseguenze, abortire? Sullo stesso giornale nell’agosto 2009, veniva mostrato stress postraumatico e depressione nel 40% e 28% delle donne dopo 4 mesi, che si dimezzavano dopo 16 mesi, ma solo poche mostravano segni di dispiacere, indice del fatto che non si trattasse di un generico senso di colpa o magari della difficoltà ad ammetterlo, ma di segni psichiatrici gravi. Simili valori di depressione postaborto sono mostrati nel giugno 2010 da un’équipe Turca; il che, non considerando una popolazione cattolica, ha mostrato come infondata l’idea che le conseguenze mentali siano dovute al supposto “senso di colpa cattolico”.
Sugli Archives of Women Mental Health dell’agosto 2009, gli studiosi hanno messo a confronto donne che hanno abortito, con donne che hanno dato alla luce un bambino prematuramente (con tutti i rischi conseguenti) e donne che hanno partorito normalmente: i tassi di disturbi psichiatrici nei 3 gruppi sono rispettivamente del 22% (aborto), 18% (prematuri) e del 6% (normali).
Un recente studio danese è stato pubblicizzato per aver mostrato che abortire fa andare meno dallo psichiatra che partorire. Ma vi invito a leggere lo studio per vedere quante contraddizioni metodologiche contenga e come, alla fine, non possa non riconoscere che anche in quel gruppo di donne c’è un aumento dei disturbi della personalità di 1,5 volte dopo aver abortito.
E tutto questo sarebbe “terapeutico”? Certo non è terapeutico per il bambino che viene ucciso, e questi rischi non mostrano alcun effetto curativo per la donna. Sul fatto poi che certi medici indichino alle donne incerte l’aborto come “terapia”, anche questa non è un’invenzione del Papa: basta leggere cosa scriveva nel 1996 il prof Maroteaux, sugli aborti fatti per la previsione che il bambino sarebbe stato di bassa statura, su Archives de Pédiatrie. Parole forti, scritte da chi ha dedicato tutta la vita a curare il nanismo e ora vede che tutti i futuri “nani” non vengono lasciati nascere, sono indesiderabili, hanno perso, come scrive, “diritto di cittadinanza”.
Le conseguenze poi dell’aborto sugli altri figli della donna sono state ben spiegate dallo psichiatra francese Benoit Bayle, che parla di sindrome del sopravvissuto, con sensi di colpa e di onnipotenza in chi si rende conto che un suo fratello è stato ucciso prima di nascere, forse “per far nascere lui”. Insomma, anche in questo caso il Papa ha visto oltre quello che vogliono vedere gli altri e per questo sarà attaccato da chi si fida più della propria ideologia (in barba alle donne) che dei dati scientifici.
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CON LE STAMINALI DEL CORDONE OMBELICALE NUOVE SPERANZE PER IL DIABETE di Paolo De Lillo*
ROMA, domenica, 27 febbraio 2011 (ZENIT.org).- La possibilità del trapianto autologo con cellule staminali del cordone ombelicale ha trovato un'applicazione, soprattutto immunomodulatrice, anche nel trattamento del diabete tipo 1, patologia che colpisce una persona ogni 200 e che risulta in continuo aumento1. Questa malattia autoimmune comporta la distruzione delle cellule beta, che producono insulina da parte dei linfociti T. L'insulino-deficienza, che ne deriva, comporta la dipendenza dalla somministrazione di forme esogene di insulina per tutta la vita.
Nonostante tutti i progressi scientifici, che hanno portato questa patologia a diventare più di frequente una malattia cronica e non sempre direttamente letale, come in passato, la sua incidenza continua ad essere estremamente alta.
Nel lungo termine, inoltre, permangono gravissime le conseguenze per il sistema nervoso, per i grandi vasi sanguini e, soprattutto, per il microcircolo, con danni alla retina, al rene, alle coronarie, come ai vasi cerebrali, o con il “piede diabetico”. Fra le nuove strategie per il trattamento di malattie autoimmuni come questa, già nel recente passato si è fatto strada anche l'utilizzo autologo del sangue cordonale; questo risulta possibile data la potenzialità delle cellule staminali del cordone di differenziarsi in tessuti non solo ematologici, ma anche di diversa natura. In questa direzione si muove lo studio pilota, condotto dal gruppo del dottor J. Michael Haller2 del Dipartimento di Pediatria della University of Florida di Gainesville, iniziato alla fine del 2005.
Le ipotesi che sono all'origine di questo studio si basano sulla possibilità che il trapianto autologo di cellule staminali derivanti dal cordone ombelicale possa attenuare il processo autoimmune all'origine della patologia, seguendo diversi meccanismi: le cellule staminali migrano nel pancreas danneggiato, dove possono differenziarsi in cellule beta che producono insulina; possono agire per fare aumentare la proliferazione delle isole pancreatiche da parte del tessuto sano; alcune cellule del cordone ombelicale sono in grado di mediare il recupero della immuno-tolleranza. Infatti si era notata durante la gravidanza la capacità delle cellule cordonali di evitare il rigetto GVHD da parte della madre contro la placenta e gli altri tessuti embrionali.
Nel giugno del 2007 sono stati presentati i dati preliminari riferiti a otto pazienti sei mesi dopo l'infusione di sangue cordonale autologo per il trattamento del diabete di tipo 1; questi hanno descritto risultati molto incoraggianti, come la mancanza di significativi eventi avversi associati a questo studio e i benefici ottenuti in seguito al trattamento collegati ad una maggiore immuno-tolleranza. In questo studio, ad oggi, i soggetti sottoposti ad infusione di cellule staminali cordonali per uso autologo sono quindici. Nonostante gli interessanti esiti parziali di questo trial clinico, ulteriori dati e conclusione sono stati pubblicati in seguito3.
Secondo il Dr. Haller e i suoi collaboratori, il sangue del cordone ombelicale può preservare senza rischi la produzione di insulina nei bambini a cui è stato diagnosticato da poco tempo il diabete tipo 1: è il risultato di un piccolo studio pilota presentato alla 67ª Sessione Scientifica della American Diabetes Association a Chicago.
I ricercatori della University of Florida hanno cercato di determinare se sia fattibile usare le cellule staminali isolate dal sangue del cordone ombelicale del paziente per neutralizzare l’attacco autoimmune al pancreas e per aiutare l’organismo a ripristinare l’abilità di produrre insulina, ormone che regola l’impiego degli zuccheri e di altre sostanze nutrienti con cui il corpo produce energia.
“Questo è il primo tentativo di usare il sangue del cordone ombelicale come potenziale terapia per il diabete tipo 1. Speriamo che queste cellule possano ridurre l’attacco del sistema immunitario al pancreas o possibilmente introdurre cellule staminali, che riescano a differenziarsi in cellule produttrici di insulina”, ha detto il Dr. Haller.
“Benché questo sia uno studio relativamente piccolo, possiamo affermare con certezza la sua attendibilità: abbiamo osservato cambiamenti metabolici ed immunologici, che suggeriscono la possibilità di trarre benefici”, ha aggiunto il pediatra americano. “Non è una cura per il diabete, ma è il primo passo per aiutarci ad imparare e a muoverci nella giusta direzione”.
I ricercatori hanno avuto l’idea per questo studio in parte grazie al padre di un paziente, il quale aveva letto che alcuni scienziati erano stati in grado di curare il diabete nei topi, prendendo il midollo osseo da un animale ed iniettandolo nei suoi fratelli, senza usare chemioterapia o radioterapia. E nel laboratorio gli scienziati erano riusciti a far produrre insulina alle cellule staminali isolate dal sangue del cordone ombelicale. Quest’uomo ha chiesto ai ricercatori della UF (University of Florida) se l’iniezione ad un paziente del sangue isolato dal proprio cordone ombelicale avrebbe potuto avere un simile effetto positivo.
“Abbiamo pensato che fosse una domanda molto ragionevole e che sarebbe stato un approccio sicuro finché non si fosse usata la chemioterapia, la radioterapia o manipolato le cellule. Poiché ci sono molte più persone là fuori che depositano il sangue del cordone ombelicale rispetto a 5 anni fa, abbiamo avuto la sensazione che questo approccio sarebbe diventato sempre più allettante”.
Dieci anni fa meno dell’1% degli americani depositava il sangue del cordone ombelicale; oggi questa cifra è cresciuta fino al 4% circa e sta aumentando, dice Haller. Il sangue del cordone ombelicale è ricco di cellule che aiutano la regolazione del sistema immunitario, ma finora è stato tipicamente usato per risanare il sistema immunitario in pazienti che erano stati sottoposti a trattamenti per la leucemia o per il linfoma.
I ricercatori della UF hanno identificato i bambini a cui è stato recentemente diagnosticato il diabete tipo 1 le cui famiglie avevano depositato il sangue del loro cordone ombelicale alla nascita. La maggior parte produceva ancora una piccola parte di insulina. A 7 pazienti di età compresa fra i 2 e i 7 anni sono state fatte delle iniezioni endovenose di cellule staminali isolate dal sangue del loro cordone ombelicale (da allora i ricercatori hanno trattato altri 4 bambini). Nei successivi due anni è stata misurata la quantità di insulina che i pazienti producevano da sé e sono stati accertati i livelli di glicemia e il funzionamento dei linfociti T.
Nei primi 6 mesi i bambini avevano bisogno di una quantità significativamente minore di insulina – in media 0.45 contro le 0.69 unità di insulina per chilogrammo al giorno - e mantenevano un migliore controllo dei livelli di glicemia rispetto ai loro coetanei affetti da diabete tipo 1 scelti casualmente tra la popolazione. I ricercatori hanno anche notato che i bambini che erano stati sottoposti alle iniezioni avevano livelli più alti di linfociti T nel sangue sei mesi dopo l’iniezione, in media il 9% del volume totale di cellule rispetto al 7.21% al momento dell’iniezione.
“Questa non è una panacea. Pensiamo che somministrare queste cellule sia essenziale per fornire una immunoterapia e diminuire l’autoimmunità di questi pazienti”, dice Haller.
“Realisticamente speriamo di proteggere ciò che è rimasto della loro produzione di insulina per un vasto periodo di tempo. Pensiamo che l’ipotesi della regolazione immunitaria sia più verosimile rispetto all’ipotesi in base, alla quale le cellule staminali possano formare insulina producendo cellule da sé”.
L’idea sarebbe intervenire e riparare ogni danno iniziale durante il periodo “luna di miele” gradito da molti pazienti – periodo che può durare diversi mesi dopo la diagnosi, durante il quale il bisogno di insulina è minimo, aggiunge.
“L’idea del nostro gruppo è che non saremo in grado di curare il diabete senza un approccio di terapia combinata”, sottolinea Haller. “È ingenuo pensare che con un solo agente troveremo una cura definitiva per una malattia molto complicata come il diabete tipo 1. Probabilmente dovremo agire usando diverse medicine, per attaccare i vari aspetti della malattia. Curare il diabete potrebbe richiedere un approccio simile a quello usato per il trattamento di AIDS o cancro. La cura di pazienti affetti da queste complesse malattie non è migliorata notevolmente, finché non sono state somministrate terapie combinate. Sospetto che sarà lo stesso con il diabete”.
Lo studio è finanziato dalla Juvenile Diabetes Research Foundation e dal National Institutes of Health, con il supporto del UF’s Clinical Research Center. Il prossimo progetto dei ricercatori della UF è quello di reclutare un massimo di 23 pazienti che verranno sottoposti ad iniezioni di sangue del cordone ombelicale. Cercheranno anche di migliorare i piccoli vantaggi metabolici ed immunologici che hanno notato finora, possibilmente testando l’aggiunta di una delle molte medicine usate attualmente in altri esperimenti sul diabete tipo 1.
“Abbiamo bisogno di decidere quale agente funzionerà bene se combinato con il sangue del cordone ombelicale”, spiega Haller. Al momento non stiamo manipolando le cellule. Stiamo semplicemente iniettando il sangue del cordone ombelicale. Oltre all’aggiunta di altre medicine, potremmo aver bisogno di verificare la possibilità di prendere le cellule T dal sangue del cordone ombelicale e manipolarle senza rischi per migliorare le nostre scoperte”.
L’applicazione di sangue del cordone ombelicale umano nel trattamento del diabete tipo 1 è di estrema importanza, dice Colin P.McGuckin, professore di medicina rigenerativa alla Britain’s University of Newcastle presso la Tyne Medical School.
“Il lavoro condotto presso la University of Florida è stato il primo a mostrare che il sangue del cordone ombelicale contiene cellule che possono placare l’attacco del sistema immunitario al pancreas dei pazienti”, dice McGuckin. “Sappiamo che il sangue del cordone ombelicale contiene cellule molto specializzate il cui compito è evitare il rigetto della placenta del bambino alla madre durante la gravidanza, e queste sono probabilmente le uniche utili per il trattamento del diabete tipo 1. Con il nostro lavoro, che mostra come le cellule beta produttrici di insulina possano essere formate usando il sangue del cordone ombelicale, siamo sulla strada giusta per aiutare pazienti diabetici in futuro. Il primo passo, tuttavia, deve essere frenare l’attacco del sistema immunitario, ed è per questo che lo studio a Gainesville è così importante4 .
Il numero di Marzo 2005 della rivista Diabetes ha pubblicato un importante articolo su
una strada più “tradizionale” per la lotta contro il diabete. Essa utilizza sempre le staminali cordonali, ed è stata ideata dal Diabetes Research Istitute di Hollywood in Florida. I suoi ricercatori hanno cercato di indirizzare la differenziazione di queste staminali immature verso le cellule beta produttrici di insulina delle isole di Langherans. Ad esse sono stati forniti gli stessi segnali ricevuti dal pancreas durante il normale sviluppo embrionale. Gli scienziati dell'Università della Florida di Miami sono riusciti ad inserire questi messaggi critici nella cellula tramite la “terapia della proteina”, una nuova tecnica in rapida evoluzione, che è stata sviluppata per fornire peptidi e proteine all'interno di tessuti e cellule. Questi segnali sono stati inviati in una sequenza tale da indurre la trasformazione delle staminali cordonali trapiantate in cellule insulari.
Lungo questo percorso sono stati premuti in sequenza una serie di “interruttori”, che attivano geni necessari per sviluppare le cellule beta produttrici di insulina, come: 1) Pdx1, che attiva il primo programma del pancreas, 2) Neurogenina 3 , la cui espressione trasforma le staminali del pancreas in cellule endocrine, 3) Pax4, Isl1 e Nkx6.1, geni coinvolti nella caratterizzazione delle cellule beta.
Il processo di trasformazione delle staminali è stato, in parte, reso possibile da una innovazione DRI, chiamata il “sandwich d'ossigeno”. Il loro sviluppo richiede una grande quantità di ossigeno per crescere, cosa che non poteva accadere nelle normali colture di Petri. Come alternativa, gli scienziati DRI hanno sviluppato un dispositivo a sandwich, che fa moltiplicare le staminali tra due fonti d' ossigeno, sia dall'alto tramite il mezzo di cultura, sia dal basso attraverso una membrana di silicone, che incorpora un legante di ossigeno. Ciò può portare alla rapida produzione di una scorta quasi illimitata di cellule delle isole di Langherans 5.
1 Department of Pediatrics – University of Florida – www.peds ufl.edu
2 Il Dr. J. Michael Haller è attualmente assistente alla cattedra di Pediatria presso l'Università della Florida. Dopo aver completato i suoi studi universitari presso la Duke University, è tornato al suo luogo di nascita, Gainesville, in Florida, dove ha completato la scuola di specializzazione medica in pediatria e la formazione in endocrinologia pediatrica. Il Dr. Haller ha iniziato a lavorare in ricerca sul diabete di tipo 1 durante il suo primo anno di scuola medica e da allora ha indirizzato la sua carriera accademica nello sviluppo di terapie sicure ed efficaci per la prevenzione e la cura del diabete di tipo 1. Ha pubblicato più di 30 ricerche e capitoli di libri in materia di diabete di tipo 1. E' un ricercatore attivo nel TrialNet Diabete di tipo 1 finanziato dal NIH, lavora come principal investigator (PI) dell'Università della Florida per gli studi anti-CD20 e ha la carica di presidente del Comitato di studio di Implementazione Clinica dei Determinanti Ambientali del Diabete Giovanile (TEDDY). E' anche il PI di un nuovo studio che consente l' utilizzazione delle cellule staminali autologhe del sangue del cordone ombelicale come potenziale terapia per il diabete tipo 1. In questo studio, i bambini con recente diabete di tipo 1 ricevono un'infusione di un quarto delle cellule staminale del proprio sangue del cordone ombelicale, al fine di determinare se queste cellule siano in grado di fornire una immunomodulazione sicura e significativa, che possa tutelare le rimanenti cellule beta. Haller è inoltre il PI di uno studio pilota che mira a determinare il potenziale del fattore stimolante le colonie di granulociti (GCSF), per aumentare la distruzione autoimmune delle isole nei pazienti con recente insorgenza di diabete tipo I. Gli studi hanno già dimostrato che GCSF può prevenire il diabete in modelli animali e questi risultati sono ora in fase di sperimentazione sugli esseri umani. Al Dr. Haller sono stati assegnati il premio Lawson Wilkins Clinical Scholar, un assegno per ricerche innovative JDRF, due premi NIH R21, e un JDRF Early Career Clinical Oriented award, per sostenere il suo lavoro di ricerca di terapie combinate, in via di sviluppo per il diabete di tipo 1. Nel 2008, il Dr. Haller e i suoi colleghi Desmond Schatz e Mark Atkinson hanno ricevuto il più alto riconoscimento per la ricerca clinica JDRF, la Mary Tyler Moore e Robert S. Levine Excellence Award , per il loro approccio di gruppo allo sviluppo di terapie per il diabete di tipo I.
3 Il Giornale - 28/09/2010
4 Medical News Today – University of Florida - 16/07/2007
5 Diabetes Research Istitute – www.diabetesresearch.org - 2010
* Paolo De Lillo è dottore in Farmacia.
La prossima Quaresima è sulla via per Damasco - Nel messaggio per i quaranta giorni di preparazione alla Pasqua, Benedetto XVI chiama tutti a conversione e a vita nuova. Come per un nuovo Battesimo. E scrive le istruzioni di Sandro Magister
ROMA, 27 febbraio 2011 – Come ogni anno, Benedetto XVI ha rivolto ai fedeli un messaggio per la vicina Quaresima, il periodo di quaranta giorni che prepara i cristiani alla Pasqua.
L'ha scritto con vari mesi d'anticipo, l'ha firmato il 4 novembre scorso, l'ha diffuso il 22 febbraio.
Il 22 febbraio è stato anche il giorno nel quale, nella cattedrale di Dublino, la Chiesa d'Irlanda ha celebrato una liturgia penitenziale senza precedenti, assieme a vittime di abusi sessuali commessi da preti. Ad alcune di queste vittime i vescovi hanno simbolicamente lavato i piedi, come Gesù prima dell'ultima cena.
Era stato il papa in persona a mettere la Chiesa d'Irlanda in stato penitenziale, la scorsa primavera, in una lettera rivolta in realtà alla Chiesa intera.
È un punto sul quale egli ha insistito anche nel libro-intervista "Luce del mondo":
"Si potrebbe dire che il Signore abbia voluto metterci alla prova, chiamarci a una più profonda purificazione, [...] a ricominciare daccapo nello spirito della penitenza".
La parola "purificazione" si ritrova infatti già nel primo paragrafo del messaggio per la prossima Quaresima. Una purificazione finalizzata alla "vita nuova in Cristo Signore".
E alla penitenza è dedicata la parte finale del messaggio, con un forte invito alla pratica del digiuno.
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Ma il cuore del messaggio papale per la Quaresima di quest'anno è il Battesimo.
"Da sempre, infatti – scrive il papa –, la Chiesa associa la Veglia Pasquale alla celebrazione del Battesimo". E da sempre "la Quaresima ci offre un percorso analogo al catecumenato".
Anche il Concilio Vaticano II – egli ricorda – ha invitato a valorizzare "gli elementi battesimali propri della liturgia quaresimale".
E allora – prosegue – dobbiamo di nuovo impegnarci tutti in questa "scuola insostituibile di fede e di vita cristiana" che è la Quaresima, guidati dai testi del Vangelo letti di domenica in domenica.
Nel paragrafo centrale del messaggio, riprodotto più sotto, Benedetto XVI fa da guida a questo percorso, tappa dopo tappa, dalla prima domenica di Quaresima fino alla Veglia di Pasqua. Come del resto aveva già fatto più volte in sue precedenti omelie.
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Viene quindi da chiedersi: perché papa Joseph Ratzinger ha sentito oggi l'esigenza di ravvivare questo significato battesimale della Quaresima?
Una prima risposta è legata a una scelta capitale di questo papa: la "nuova evangelizzazione" di quelle regioni del mondo dove il Battesimo quasi non si amministra più – come in alcune aree della sua stessa Germania – o dove i battezzati sono ancora numerosi ma la fede cristiana rischia di spegnersi.
Una seconda risposta rimanda alla finalità essenziale che il "Credo" assegna al Battesimo: "per il perdono dei peccati".
In un tempo come l'attuale, nel quale la percezione del peccato è largamente offuscata, Benedetto XVI instancabilmente richiama alla realtà del male e all'unico Signore che libera dalla sua schiavitù, con il Battesimo e l'altro sacramento del perdono, la Penitenza.
Anche ai molti che sono già battezzati, dunque, Benedetto XVI propone di fare della prossima Quaresima un periodo di nuovo catecumenato, culminante nella Veglia di Pasqua con il rinnovo delle promesse battesimali.
Un nuovo catecumenato che sia per tutti, su quella strada maestra che è la liturgia della Quaresima e della Settimana Santa. E che è altra cosa rispetto al "Cammino" molto particolare del movimento che si avvale di questo nome.
Questo è il messaggio di papa Benedetto per la Quaresima di quest'anno.
L'incognita è quanto lo capiranno e lo metteranno in pratica i pastori e i fedeli.
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DAL MESSAGGIO DI BENEDETTO XVI PER LA QUARESIMA DEL 2011
Cari fratelli e sorelle, [...] per intraprendere seriamente il cammino verso la Pasqua e prepararci a celebrare la Risurrezione del Signore – la festa più gioiosa e solenne di tutto l’anno liturgico – che cosa può esserci di più adatto che lasciarci condurre dalla Parola di Dio? Per questo la Chiesa, nei testi evangelici delle domeniche di Quaresima, ci guida ad un incontro particolarmente intenso con il Signore, facendoci ripercorrere le tappe del cammino dell’iniziazione cristiana: per i catecumeni nella prospettiva di ricevere il sacramento della rinascita, per chi è battezzato in vista di nuovi e decisivi passi nella sequela di Cristo e nel dono più pieno a lui.
La prima domenica dell’itinerario quaresimale evidenzia la nostra condizione dell’uomo su questa terra. Il combattimento vittorioso contro le tentazioni, che dà inizio alla missione di Gesù, è un invito a prendere consapevolezza della propria fragilità per accogliere la Grazia che libera dal peccato e infonde nuova forza in Cristo, via, verità e vita (cfr. Ordo Initiationis Christianae Adultorum, n. 25). È un deciso richiamo a ricordare come la fede cristiana implichi, sull’esempio di Gesù e in unione con lui, una lotta “contro i dominatori di questo mondo tenebroso” (Efesini 6, 12), nel quale il diavolo è all’opera e non si stanca, neppure oggi, di tentare l’uomo che vuole avvicinarsi al Signore: Cristo ne esce vittorioso, per aprire anche il nostro cuore alla speranza e guidarci a vincere le seduzioni del male.
Il Vangelo della Trasfigurazione del Signore pone davanti ai nostri occhi la gloria di Cristo, che anticipa la risurrezione e che annuncia la divinizzazione dell’uomo. La comunità cristiana prende coscienza di essere condotta, come gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, “in disparte, su un alto monte” (Matteo 17, 1), per accogliere nuovamente in Cristo, quali figli nel Figlio, il dono della Grazia di Dio: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo” (v. 5). È l’invito a prendere le distanze dal rumore del quotidiano per immergersi nella presenza di Dio: Egli vuole trasmetterci, ogni giorno, una Parola che penetra nelle profondità del nostro spirito, dove discerne il bene e il male (cfr. Ebrei 4, 12) e rafforza la volontà di seguire il Signore.
La domanda di Gesù alla Samaritana: “Dammi da bere” (Giovanni 4, 7), che viene proposta nella liturgia della terza domenica, esprime la passione di Dio per ogni uomo e vuole suscitare nel nostro cuore il desiderio del dono dell’“acqua che zampilla per la vita eterna” (v. 14): è il dono dello Spirito Santo, che fa dei cristiani “veri adoratori” in grado di pregare il Padre “in spirito e verità” (v. 23). Solo quest’acqua può estinguere la nostra sete di bene, di verità e di bellezza! Solo quest’acqua, donataci dal Figlio, irriga i deserti dell’anima inquieta e insoddisfatta, “finché non riposa in Dio”, secondo le celebri parole di sant’Agostino.
La domenica del cieco nato presenta Cristo come luce del mondo. Il Vangelo interpella ciascuno di noi: “Tu, credi nel Figlio dell’uomo?”. “Credo, Signore!” (Giovanni 9, 35.38), afferma con gioia il cieco nato, facendosi voce di ogni credente. Il miracolo della guarigione è il segno che Cristo, insieme alla vista, vuole aprire il nostro sguardo interiore, perché la nostra fede diventi sempre più profonda e possiamo riconoscere in lui l’unico nostro Salvatore. Egli illumina tutte le oscurità della vita e porta l’uomo a vivere da “figlio della luce”.
Quando, nella quinta domenica, ci viene proclamata la risurrezione di Lazzaro, siamo messi di fronte al mistero ultimo della nostra esistenza: “Io sono la risurrezione e la vita. Credi questo?” (Giovanni 11, 25-26). Per la comunità cristiana è il momento di riporre con sincerità, insieme a Marta, tutta la speranza in Gesù di Nazareth: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo” (v. 27). La comunione con Cristo in questa vita ci prepara a superare il confine della morte, per vivere senza fine in lui. La fede nella risurrezione dei morti e la speranza della vita eterna aprono il nostro sguardo al senso ultimo della nostra esistenza: Dio ha creato l’uomo per la risurrezione e per la vita, e questa verità dona la dimensione autentica e definitiva alla storia degli uomini, alla loro esistenza personale e al loro vivere sociale, alla cultura, alla politica, all’economia. Privo della luce della fede l’universo intero finisce rinchiuso dentro un sepolcro senza futuro, senza speranza.
Il percorso quaresimale trova il suo compimento nel triduo pasquale, particolarmente nella Grande Veglia nella Notte Santa: rinnovando le promesse battesimali, riaffermiamo che Cristo è il Signore della nostra vita, quella vita che Dio ci ha comunicato quando siamo rinati “dall’acqua e dallo Spirito Santo”, e riconfermiamo il nostro fermo impegno di corrispondere all’azione della Grazia per essere suoi discepoli. [...]
In sintesi, l’itinerario quaresimale, nel quale siamo invitati a contemplare il mistero della Croce, è “farsi conformi alla morte di Cristo” (Filippesi 3, 10), per attuare una conversione profonda della nostra vita: lasciarci trasformare dall’azione dello Spirito Santo, come san Paolo sulla via di Damasco; orientare con decisione la nostra esistenza secondo la volontà di Dio; liberarci dal nostro egoismo, superando l’istinto di dominio sugli altri e aprendoci alla carità di Cristo. Il periodo quaresimale è momento favorevole per riconoscere la nostra debolezza, accogliere, con una sincera revisione di vita, la grazia rinnovatrice del sacramento della Penitenza e camminare con decisione verso Cristo.
Cari fratelli e sorelle, mediante l’incontro personale col nostro Redentore e attraverso il digiuno, l’elemosina e la preghiera, il cammino di conversione verso la Pasqua ci conduce a riscoprire il nostro Battesimo. Rinnoviamo in questa Quaresima l’accoglienza della grazia che Dio ci ha donato in quel momento, perché illumini e guidi tutte le nostre azioni. Quanto il sacramento significa e realizza, siamo chiamati a viverlo ogni giorno in una sequela di Cristo sempre più generosa e autentica. In questo nostro itinerario, ci affidiamo alla Vergine Maria, che ha generato il Verbo di Dio nella fede e nella carne, per immergerci come Lei nella morte e risurrezione del suo Figlio Gesù ed avere la vita eterna.
Dal Vaticano, 4 novembre 2010
BENEDICTUS PP. XV