martedì 8 febbraio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    La protesta dei 143 teologi e la fede nell'Occidente secolarizzato di Andrea Tornielli, 07-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
2)    I cinque volti dell'islam e la chiave per il futuro dell'Egitto di Massimo Introvigne, 07-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3)    L’ISLAM E I DIRITTI DELL’UOMO di padre Piero Gheddo ROMA, lunedì, 7 febbraio 2011 (ZENIT.org)
4)    07/02/2011 – EGITTO - La rivoluzione in Egitto è fatta dai giovani e non dai Fratelli Musulmani di H. Boulad - S. Chafik - I veri protagonisti del cambiamento sono giovani cristiani e musulmani. I Fratelli Musulmani cercano di impossessarsi della transizione. I timori e l'omertà delle autorità ecclesiastiche. La testimonianza di una vera "unità nazionale". Il commento del direttore del Centro culturale gesuita di Alessandria e di un noto analista politico. - Il Cairo (AsiaNews)
5)    IL PAPA ALLA PLENARIA DELLA CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 7 febbraio 2011 (ZENIT.org)
6)    Radio Vaticana, notizia del 07/02/2011 - Benedetto XVI: educare, atto di amore in un mondo in cui si considera pericoloso parlare di verità
7)    La spiritualità del laicato secondo John Henry Newman - L'uomo più pericoloso di tutta l'Inghilterra - Pubblichiamo ampi stralci di una delle relazioni pronunciate al simposio internazionale "Il primato di Dio nella vita e negli scritti del beato John Henry Newman" che si è tenuto alla Pontificia Università Gregoriana per iniziativa dell'International Centre of Newman Friends. - di DONNA ORSUTO, Pontificia Università Gregoriana (©L'Osservatore Romano - 7-8 febbraio 2011)
8)    EGITTO/ Frattini: il laicismo esasperato dell’Ue fa il gioco degli islamisti radicali - INT. Franco Frattini - martedì 8 febbraio 2011 – il sussidiario.net
9)    IL CASO/ La bella Dominika, uccisa dal labirinto di una vita virtuale di Luca Doninelli, lunedì 7 febbraio 2011, il sussidiario.net
10)                      Festa regionale di San Francesco di Sales, Patrono dei giornalisti - Lectio magistralis «J.H. Newman: una proposta educativa per la comunicazione oggi» - Istituto Veritatis Splendor, 21 gennaio 2011 – da http://www.caffarra.it/
11)                      LETTURE/ La lezione di von Balthasar: così la Chiesa rinasce dai santi di Danilo Zardin - martedì 8 febbraio 2011 – il sussidiario.net

La protesta dei 143 teologi e la fede nell'Occidente secolarizzato di Andrea Tornielli, 07-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Era dal tempo della dichiarazione di Colonia, cioè da più di vent’anni, che un cartello così numeroso di teologi non si mettevano insieme per produrre un documento contro il centralismo romano chiedendo riforme per la Chiesa.

Centoquarantatrè professori delle facoltà teologiche tedesche, svizzere e austriache hanno reso noto nei giorni scorsi un testo intitolato «Chiesa 2011 – una svolta necessaria». Che cosa chiedono? Ovviamente «profonde riforme», come ad esempio l’abolizione celibato obbligatorio per i preti di rito latino e dunque l’apertura all’ordinazione di uomini sposati, l’adozione di «strutture più sinodali a tutti i livelli della Chiesa», il coinvolgimento dei fedeli processo selezione dei parroci e dei vescovi, l’apertura alle donne «nel ministero della Chiesa», l’accoglienza delle coppie gay e dei divorziati risposati.

I firmatari ritengono che solo aprendosi a queste riforme, per l’appunto «una svolta necessaria», la Chiesa potrà riprendere vigore e tornare a parlare agli uomini e alle donne del ventunesimo secolo. L’elenco non appare affatto sorprendente. Quelle che i teologi firmatari dell’appello ritengono essere svolte necessarie sono infatti proposte arcinote e dibattute da decenni.

Alcune di queste appaiono molto autoreferenziali e clericali. È vero, ad esempio, che il calo delle vocazioni comincia a essere un problema anche in Occidente, ed è vero che proprio in Germania e Austria ci sono molti casi di preti che convivono con donne e non lo nascondono, ma davvero l’abolizione della regola del celibato è la risposta a questa situazione? Ancora, davvero la risposta alla crisi della fede è l’apertura alle donne nel ministero della Chiesa? Davvero pensiamo che un cambiamento nella dottrina sull’omosessualità porterebbe a riempire nuovamente le chiese semivuote?

Basta guardare a ciò che è avvenuto nella Chiesa anglicana per rendersi conto che la risposta alla secolarizzazione non può essere un’altra secolarizzazione, come dimostra la costante emorragia di fedeli nonostante le svolte sempre più liberal (dal sacerdozio fino all’episcopato femminile e all’apertura ai preti gay conviventi). Ciò che colpisce nell’iniziativa dei 143 teologi è il fatto che ciclicamente si riaprano questioni senza prendere in considerazione il fatto che su queste questioni il magistero ha riflettuto ed è intervenuto più volte.

Eppure, nonostante pronunciamenti, encicliche, lettere pastorali, interventi papali, è come se ogni volta si ripartisse da zero. Dei temi proposti nel documento c’è uno soltanto che ha a davvero a che fare con l’esperienza di un numero purtroppo sempre maggiore di persone, ed è quello riguardante l’atteggiamento nei confronti dei divorziati risposati e il problema dell’accesso al sacramento dell’eucaristia.

Benedetto XVI, nell’omelia pronunciata sabato per l’ordinazione di cinque nuovi vescovi, ha detto: «Il pastore non deve essere una canna di palude che si piega secondo il soffio del vento, un servo dello spirito del tempo. L’essere intrepido, il coraggio di opporsi alle correnti del momento appartiene in modo essenziale al compito del pastore. Non deve essere una canna di palude, bensì — secondo l’immagine del Salmo primo — deve essere come un albero che ha radici profonde nelle quali sta saldo e ben fondato. Ciò non ha niente a che fare con la rigidità o l’inflessibilità. Solo dove c’è stabilità c’è anche crescita».

Certo, il Papa parlava dei vescovi, non dei teologi. Ma queste parole offrono uno spunto di riflessione per tutti. Siamo davvero sicuri che la «svolta necessaria» per rinvigorire la fede nella società secolarizzata e scristianizzata debba avere a che fare con ministeri ecclesiali, disciplina del celibato, etc.?

L’11 maggio 2010, a Lisbona, il Papa disse: «Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e di funzioni; ma che cosa accadrà se il sale diventa insipido?».

Due giorni dopo, a Fatima, aggiunse: «Quando, nel sentire di molti, la fede cattolica non è più patrimonio comune della società e, spesso, si vede come un seme insidiato e offuscato da “divinità” e signori di questo mondo, molto difficilmente essa potrà toccare i cuori mediante semplici discorsi o richiami morali, e meno ancora attraverso generici richiami ai valori cristiani… Ciò che affascina è soprattutto l’incontro con persone credenti che, mediante la loro fede, attirano verso la grazia di Cristo, rendendo testimonianza di Lui».


I cinque volti dell'islam e la chiave per il futuro dell'Egitto di Massimo Introvigne, 07-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Negli Stati Uniti, dove mi trovo, il presidente Barack Obama - in questi giorni bersaglio preferito della satira per l'impreparazione che nostra di fronte a una vicenda complessa come quella egiziana, e che si traduce in repentini cambi di opinione - si è augurato che alla fine prevalgano i "musulmani moderati".

Vorrei rispondere con un'affermazione che potrà apparire paradossale, ma che passerò subito a spiegare: a rigore, i musulmani moderati non esistono. Percorrendo in lungo e in largo i paesi a maggioranza islamica, dal Marocco alla Malaysia, non ne ho mai incontrato uno. Viceversa, in Italia ho avuto molte difficoltà a incontrare un musulmano che non si dichiarasse “moderato”, tanto che quando m’imbatto in qualcuno che nega apertamente di esserlo mi viene quasi da prenderlo in simpatia. I musulmani che vivono in Italia hanno capito che per vivere tranquilli da noi e farsi invitare ai talk show televisivi bisogna presentarsi comunque come “moderati”, salvo quei rari casi (spesso pagati, però, con un decreto di espulsione) di personaggi disposti a fare audience esibendo al contrario il loro estremismo in TV. Per esempio, un esponente dei Fratelli Musulmani, il movimento da cui trae origine gran parte del fondamentalismo islamico, si presenterà come “moderato” alla televisione in Italia mentre non userebbe mai questo aggettivo in Egitto o in Giordania.

La colpa non è solo dei musulmani. Buona parte della stampa divide i seguaci dell’islam in due sole categorie: “terroristi” e “moderati”. Non senza una certa logica, molti musulmani ne concludono che se non ci si auto-definisce “moderati” si sarà etichettati come “terroristi”, con tutte le conseguenze del caso. Così, decodificando il suo discorso, un esponente dei Fratelli Musulmani potrebbe stare cercando semplicemente d’ingannare l’interlocutore italiano presentandosi come “moderato”. Ma se vuole dire di non essere un terrorista e non avere simpatie per Bin Laden - anche se ne ha per Hamas - non sta, a rigore, mentendo.

Decodificare è la parola chiave, perché “musulmano moderato” è usato alla rinfusa per un buon numero di categorie, creando una notevole confusione. Il fenomeno potenzialmente più fuorviante è la presentazione come “musulmani moderati” d’intellettuali che sono moderati ma non sono musulmani. Qualche volta si citano pensatori e politici rigorosamente marxisti o seguaci convinti della massoneria anti-religiosa di matrice francese, molto affezionati ai loro grembiulini, come "musulmani moderati" solo perché sono nati da genitori musulmani. Sarebbe come presentare Marco Pannella o Emma Bonino al Cairo o ad Algeri come “cattolici moderati” solo perché sono nati in Italia: un errore, detto per inciso, in cui cadono talora musulmani dei Paesi arabi, dove per esempio la Bonino è piuttosto conosciuta.

Certamente ingannarsi è più facile a proposito dell'islam che – almeno nel mondo sunnita – non ha un’organizzazione gerarchica o una “Chiesa” che definisca in modo autorevole chi è dentro o chi è fuori.

Ma qualunque autorevole pensatore musulmano ci direbbe che per essere musulmani bisogna credere obbligatoriamente che Allah sia l’unico Dio, il che presuppone – è una banalità, ma non è poco – essere anzitutto certi che Dio esista, e che Muhammad sia il suo profeta, dunque che il Corano sia “il” Libro - non solo “uno dei libri” - che contiene la pienezza della rivelazione divina.
Poiché l’islam è una religione che comporta un certo formalismo, la maggioranza delle scuole teologiche e giuridiche negherebbe che sia musulmano chi non rispetta almeno i doveri della preghiera quotidiana e del digiuno del Ramadan, e s’insospettirebbe di fronte a chi mangia carne di maiale o beve alcolici, mentre sarebbe più tollerante sulla mancata frequentazione delle moschee, che per la maggioranza dei musulmani – a differenza di quanto accade per i cattolici, che hanno l’obbligo di andare a Messa – non rientra fra i doveri fondamentali del culto.

In America e anche in Italia si cita così fra i “musulmani moderati” Ayaan Hirshi Ali, la compagna del regista assassinato olandese Theo Van Gogh (1957-2004). Avendo pubblicamente dibattuto qualche anno fa a Toronto con la signora Ali – cui non nego, beninteso, tutta la mia solidarietà quando i terroristi cercano di ucciderla –, mi sento di escludere che sia musulmana, dal momento che sostiene senza tatticismi che Dio non esiste e che tutte le religioni – islam, ebraismo, cristianesimo, induismo – sono nocive all’uomo e ancor di più alla donna e al gay, giacché perpetuano un pericoloso sistema patriarcale e una morale sessuale arcaica. La posizione di Ayaan Hirshi Ali, ancorché più diffusa di quanto si creda fra certe élite nate in tre islamiche, è estrema. Molti altri intellettuali nati da genitori islamici non rispettano il digiuno del Ramadan, mangiano carne di maiale, bevono alcolici, non credono che il Corano sia il Libro rivelato da Dio ma nello stesso tempo rivendicano il valore dell’islam come “eredità culturale” vantando magari lo splendore dell’arte islamica o la grandezza dei filosofi musulmani del Medioevo.

Alcuni di questi intellettuali, che incontriamo spesso nei congressi, potranno essere intelligentissimi osservatori della realtà musulmana nazionale e internazionale, bravi giornalisti, consulenti preziosi: ma non sono “musulmani moderati” perché non raggiungono il livello di ortodossia e di ortoprassi minimo per essere definiti “musulmani”.

Alcuni di loro probabilmente risponderebbero – dal momento che sono nati da genitori sunniti (il discorso sarebbe parzialmente diverso per gli sciiti) –  che non esiste nessuna autorità che possa negare loro il carattere di musulmani. Obiezione impeccabile dal punto di vista formale. Tuttavia, dal punto di vista sostanziale, il fatto che l’islam (sunnita) sia una religione “orizzontale” (come l’induismo), senza una gerarchia in grado di stabilire in modo autorevole chi è musulmano e chi no, non significa che la parola “musulmano” sia diventata completamente priva di senso. Anche se un talebano dell’ateismo come il filosofo torinese Carlo Augusto Viano ha definito "cripto-cattolici" anche Eugenio Scalfari ed Emma Bonino perché talora parlano del mondo cattolico con un rispetto per lui improprio e inopportuno, non abbiamo bisogno di un pronunciamento del Papa per affermare che né Scalfari né la Bonino sono cattolici. Bastano il buon senso e l’uso normale delle parole.

Così – anche se l’islam non ha un Papa per certificarlo (ma neanche per certificare il contrario) – non sono musulmani coloro che non credono nel carattere divino del Corano e non praticano i doveri fondamentali della fede, che in una religione senza gerarchia e senza teologia condivisa sono più normativi che nel cattolicesimo: mentre ci sono “cattolici non praticanti” è difficile concepire “musulmani non praticanti”, nel senso che non pregano e non digiunano. Certo, ci sono “musulmani che non vanno in moschea” i quali sono musulmani a tutti gli effetti, e spesso sono pure tutt’altro che “moderati”. Ma andare in moschea, come spiegato, non è obbligatorio nell'islam.

Sgombrato il campo dai “musulmani moderati” che non sono musulmani, possiamo occuparci di quelli che sono musulmani ma non sono moderati. La moderazione è, per la verità, una caratteristica difficile da definire se non "per relationem". Se è difficile dire che cos’è un moderato, è relativamente facile dire che qualcuno è più moderato di qualcun altro. Possiamo dire, per esempio, che – se utilizziamo parametri come il rapporto con il terrorismo, con gli Stati Uniti o con Israele – il re dell’Arabia Saudita è più “moderato” dei dirigenti egiziani dei Fratelli Musulmani, e che questi ultimi sono più moderati di Bin Laden.

Tuttavia, se utilizziamo i tre criteri proposti nei suoi viaggi in Turchia e Terrasanta da Benedetto XVI come condizione per il dialogo con l’islam – rifiuto incondizionato del terrorismo (il che implica la condanna di Hamas e non solo quella di Al Qa’ida), rispetto dei diritti umani in genere, compresi quelli delle donne,  libertà delle minoranze religiose intesa non solo come libertà di culto ma anche di missione, con conseguente diritto del musulmano che aderisce a questa predicazione di convertirai al cristianesimo –, e chiamiamo “moderato” chi si conforma a questi criteri, non sono “moderati” né il re dell’Arabia Saudita, né i Fratelli Musulmani, né Bin Laden. Ma, mentre giungiamo a questa doverosa conclusione, ci accorgiamo che la griglia che divide un miliardo e mezzo di musulmani in “moderati” e “terroristi” è clamorosamente inadeguata, perché mette dalla stessa parte tagliagole di professione e nemici giurati di Al Qa’ida come il sovrano saudita Abdullah, nonché filo-americani e anti-americani, una distinzione in Medio Oriente e altrove non proprio irrilevante.

Emerge allora l’opportunità di abbandonare la comoda ma ultimamente ingannevole etichetta “moderati”, che in alcuni Paesi a maggioranza islamica del resto molti rifiutano, e di seguire piuttosto i criteri più complessi elaborati dagli studiosi accademici. Anche se talora non aiutano i politici adottando una pletora di terminologie diverse, questi dividono il miliardo e mezzo di musulmani in almeno cinque categorie che chi scrive, con altri, preferisce chiamare ultraprogressisti, progressisti, conservatori, fondamentalisti e ultrafondamentalisti.

Le parole scelte per designare ciascuna categoria variano, ma la sostanza – pure fra studiosi di tendenze diverse – è spesso simile in modo perfino sorprendente. Se il tema è quello del rapporto con la modernità – e con la nozione moderna dei diritti umani – i progressisti sono quei musulmani che accettano la modernità come inevitabile, e gli ultraprogressisti quelli che la abbracciano con entusiasmo, così lentamente corrodendo l’integrità tradizionale della dottrina, pur rimanendo ancora all’interno dell’islam. Diversamente, non sarebbero musulmani, neppure ultraprogressisti, ma intellettuali non credenti di origine islamica.

Queste posizioni non sono inesistenti né nei paesi islamici né nell’emigrazione: ma sono ultra-minoritarie. Quando si presentano alle elezioni – dove ci sono le elezioni – raramente raggiungono percentuali a due cifre. Non si può neppure affermare con certezza che i progressisti siano in aumento. Li si trova soprattutto fra gl’intellettuali, e radunati in due luoghi: nei paesi islamici, nei cimiteri – perché è facile che i governi o gli ultrafondamentalisti facciano loro la pelle –, e in Occidente nelle università e nelle redazioni dei grandi giornali.

La buona notizia è che le idee della maggioranza dei musulmani nel mondo non sono neppure fondamentaliste o ultrafondamentaliste. Si definisce in genere fondamentalista un musulmano che giudica in modo globalmente negativo la modernità e l’accostamento occidentale ai diritti umani - anche se si serve dei suoi prodotti, dalle armi moderne a Internet: chi diffida anche dei prodotti è chiamato, più che fondamentalista, tradizionalista - e ultrafondamentalista chi non esclude la violenza e il terrorismo dalla gamma di strumenti attraverso cui manifesta tale rifiuto. I fondamentalisti non sono, come spesso si dice, una piccola minoranza. Lo sono i terroristi ultra-fondamentalisti e i loro fiancheggiatori diretti - da 50mila a 100mila musulmani: la maggiore massa d’urto nella storia del terrorismo mondiale ma lo 0,01% dell’islam nel suo complesso -, mentre le organizzazioni fondamentaliste possono contare all’incirca su 50 milioni di adepti e simpatizzanti nel mondo (meno del 5% dei musulmani), cui si aggiungono almeno altrettanti “tradizionalisti” che sono vicini ai fondamentalisti per teologia, ma che si occupano più di morale individuale e meno di politica.

Il personaggio che si trova alle origini del movimento fondamentalista è l’egiziano Hassan al-Banna (1906-1949), fondatore nel 1928 dei Fratelli Musulmani, tuttora la maggiore organizzazione fondamentalista mondiale. Negli anni 1940 al-Banna vede nella questione della Palestina  possibilità di indicare ai suoi seguaci la dimensione sopranazionale della comunità islamica, la umma, trasformando un movimento dal limitato orizzonte egiziano in una realtà musulmana globale. La propaganda in favore della causa palestinese è alla base stessa del successo internazionale del movimento negli anni 1935-1945. Per questo i Fratelli Musulmani concentrano i loro sforzi in Palestina, ed è dalla branca palestinese dei Fratelli Musulmani che, dopo alterne vicende, nascerà nel 1987 Hamas, una realtà che si definisce all’articolo 2 del suo Statuto “una delle branche dei Fratelli Musulmani in Palestina”.

Nel 1954 il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser (1918-1970), che pure era stato affiliato in gioventù ai Fratelli Musulmani, li mette fuorilegge, nel quadro del più classico degli scontri fra nazionalisti laicisti e fondamentalisti. A seguito di questo avvenimento si determinano all’interno del movimento fondamentalista due linee: una “neo-tradizionalista”, che propone una via non violenta di “islamizzazione dal basso” della società prima di puntare al potere; e una “radicale”, che punta alla “islamizzazione dall’alto” dopo la conquista del potere tramite mezzi, ove necessario, violenti e non esclude l’opzione terroristica.

In Egitto la via "radicale" è rappresentata dal ricchissimo intellettuale Ayman al-Zawahiri, numero due di Al Qa'ida, quella "neo-tradizionalista" dall'attuale dirigenza dei Fratelli Musulmani, che ha concrete possibilità di prendere il potere nel dopo-Mubarak in quanto rappresenta la forza politica più capillarmente diffusa in Egitto anche attraverso una miriade di organizzazioni professionali e culturali. Questi dirigenti non vanno confusi con i terroristi alla al-Zawahiri. Ma certamente sono fondamentalisti e non sono, in nessun senso del termine, "moderati".

La grande maggioranza dei musulmani però, non è né progressista né fondamentalista. Si situa al centro fra progressisti e fondamentalisti e la parola più adatta per definirla è conservatori: anche se neppure i “conservatori” sono tutti uguali e andrebbero introdotte ulteriori e più complesse distinzioni. I conservatori non sono progressisti: rimangono assai perplessi sulle dichiarazioni occidentali dei diritti umani perché pensano che i diritti dell’uomo mettano in pericolo i diritti sovrani di Dio, non vogliono neanche sentir parlare di accostamento moderno – cioè storico-critico – al Corano, perché temono che faccia la fine della Bibbia nelle mani dell’esegesi universitaria occidentale degli ultimi due secoli, vogliono che alle donne sia permesso - non imposto, ma almeno caldamente consigliato - di portare ovunque il velo.

Su questioni che stanno a cuore agli europei e agli americani come la libertà religiosa delle minoranze nei paesi islamici, i diritti delle donne, la poligamia, l’esistenza dello Stato di Israele non sono pronti ad abbracciare immediatamente il punto di vista occidentale, ma sono disposti a discuterne, il che li differenzia dai fondamentalisti.

Come molti di loro – alcuni dei quali dirigono movimenti che contano milioni, e anche decine di milioni di membri anche se si tratta di gruppi i cui nomi rimangono sconosciuti in Occidente a differenza di realtà più piccole come i Fratelli Musulmani o Al Qa’ida – hanno scritto al Papa dopo il discorso di Ratisbona del 2006, non sono d’accordo con lui quando afferma che le nozioni di Dio e del rapporto ragione-fede che sono prevalse nell’islam lasciano di per sé una porta aperta alla violenza, ma sono disposti a dialogare sul fatto che la violenza e il terrorismo siano effettivamente una piaga aperta nell’islam contemporaneo, non possano essere liquidati semplicemente come non islamici, e chiamino in causa la responsabilità almeno per omissione (come mancata condanna) di élite islamiche che non hanno approfondito per tempo il problema.

I musulmani conservatori non sono come Ayaan Hirshi Ali. Né “come noi”, da nessun punto di vista. Non sono “musulmani moderati” come forse li immagina Obama. Sono anche diversi dai Fratelli Musulmani. Ma sono la grande maggioranza dei musulmani: un miliardo e più di persone verso le quali – come ha mostrato nelle parole e nei fatti Benedetto XVI  – la Chiesa cattolica è disponibile ad aprire un dialogo. Precisando, però, che la chiave della porta del dialogo è nelle mani di questi musulmani. Dibattano pure sui loro problemi. Ma il dialogo è possibile solo con chi rispetta i diritti umani, condanna la violenza e il terrorismo – sì, anche contro Israele – e concede nei Paesi musulmani quei diritti delle minoranze religiose che reclama per sé in Occidente.


L’ISLAM E I DIRITTI DELL’UOMO di padre Piero Gheddo ROMA, lunedì, 7 febbraio 2011 (ZENIT.org)

ROMA, lunedì, 7 febbraio 2011 (ZENIT.org).- L’islam è di nuovo alla ribalta dell’attenzione mondiale, con le manifestazioni per una maggior democrazia in Tunisia, Egitto, Algeria, Giordania, Yemen, mentre in Libano sta prendendo piede un governo che si prevede dominato dagli Hezbollah. Dove sboccheranno questi movimenti popolari? Verso governi democratici o guidati dagli estremisti islamici come in Iran? L’Egitto, con i suoi 80 milioni di abitanti, è il più importante paese arabo-islamico del Medio Oriente; se andasse nella direzione dei Fratelli Musulmani, per Israele e l’Europa sarebbe un disastro di proporzioni inimmaginabili. Impossibile fare previsioni, ma le guide dei popoli islamici, culturali, religiose e politiche, dovrebbero rispondere a questo interrogativo: i popoli dell’islam, che si avvicinano al miliardo e mezzo di fedeli, vogliono entrare nel mondo moderno, portando il contributo dei loro valori umani e religiosi, o allontanarsene per creare una società alternativa?
Ecco in sintesi alcuni aspetti della situazione attuale, che dovrebbe preoccupare specialmente i capi e le guide spirituali dell’islam:
    -  Nel mondo islamico si assiste quasi ovunque ad una crescita del fondamentalismo, visto come soluzione ai disagi dei popoli del Corano.
    -  Nei paesi in cui i musulmani sono la maggioranza non esiste vera democrazia e i fedeli di altre religioni non godono di piena libertà religiosa.
     -  Dove i musulmani sono una consistente minoranza religiosa (Filippine, Thailandia, Cina, Costa d’Avorio, Nigeria), chiedono con la violenza e la guerriglia la secessione dallo Stato.
     - I paesi islamici, quasi tutti benedetti da Dio con grandi risorse naturali (petrolio), sono molto in basso nella graduatoria monitorata dall’Onu per misurare lo “sviluppo umano” dei popoli (istruzione, libertà, giustizia sociale, democrazia, diritti dell’uomo e della donna, benessere, sanità, ecc).
     - L’uso della violenza, del denaro e del ricatto (se entri in questo commercio, in questa azienda devi convertirti all’islam) per portare nuovi fedeli nella comunità islamica o per impedire l’uscita di un fedele dall’islam è molto comune in quasi tutto il mondo islamico.
Superfluo continuare con gli esempi. Perchè i capi islamici non discutono pubblicamente di questi problemi, coinvolgendo i loro popoli? In Occidente si parla spesso di “islam moderato” e certamente la grande maggioranza dei musulmani è formata da persone di preghiera e di virtù umane, oneste e di buon senso: l’ho sentito dire dai cristiani in ogni parte del mondo islamico e ho avuto diverse esperienze probatorie. Ma perché poi, nella comunità di fede (la “umma”) questo islam moderato non viene mai fuori, ad esempio nelle frequenti e assurde condanne a morte di cristiani per la “Legge contro la bestemmia” in Pakistan?  Possibile che prevalgano sempre i gruppi estremisti e i “moderati” non facciano mai sentire la loro voce, non in Occidente dove c’è libertà,  ma proprio nei paesi dell’islam, per educare il popolo ad un diverso modo di sentire e di agire?  
E’ noto che la “Carta dei Diritti dell’Uomo”, approvata dall’Onu nel 1948, sia di chiara ispirazione cristiana, perché a quel tempo gli Stati membri delle Nazioni Unite erano quasi tutti cristiani. I paesi islamici non firmarono quella Carta e quelli che poi hanno firmato, nel 1990 al Cairo, hanno promulgato la “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo nell’Islam”, che afferma: “L’islam è la religione della natura dell’uomo” (art. 10); e concede libertà religiosa, ma “fino a che rimane nel quadro dei limiti generali che la Legge islamica prevede a questo proposito”. Discorso ambiguo e inconsistente.
Il problema fondamentale dell’islam è il rispetto dei diritti dell’uomo e della donna, che alla radice è un problema teologico: cioè come leggere e interpretare il Corano. Nel 2006 a Ratisbona Benedetto XVI segnalava una differenza essenziale fra islam e cristianesimo: “La fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia”, cioè una somiglianza nel modo di ragionare . E il Papa concludeva: “Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”. In altre parole, la violenza per Dio non esiste, non può esistere, la ragione la condanna. Il Papa ha denunciato l'assurdità della violenza esistente nel mondo islamico, per dare uno scossone anzitutto all'Islam stesso. Perché l'islam moderato capisca che è arrivato il momento di reagire e di far sentire le proprie ragioni e la propria voglia di vivere in pace. Cosa c’è di errato nell’islam per non arrivare a capire questo? Se i capi e i teologi islamici non affrontano e non  risolvono questo assurdo, i popoli islamici, dei quali ammiriamo il profondo senso religioso e l’amore alla preghiera, non si capisce come e quando possano entrare nel mondo moderno.
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*Padre Piero Gheddo (www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1973) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l'Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milano.


07/02/2011 – EGITTO - La rivoluzione in Egitto è fatta dai giovani e non dai Fratelli Musulmani di H. Boulad - S. Chafik - I veri protagonisti del cambiamento sono giovani cristiani e musulmani. I Fratelli Musulmani cercano di impossessarsi della transizione. I timori e l'omertà delle autorità ecclesiastiche. La testimonianza di una vera "unità nazionale". Il commento del direttore del Centro culturale gesuita di Alessandria e di un noto analista politico. - Il Cairo (AsiaNews)

Il Cairo (AsiaNews) – P. Henry Boulad, Direttore del Centro culturale gesuita di Alessandria, e Soliman Chafik, giornalista e analista politico, ci hanno inviato questa lettura dei fatti di questi giorni in Egitto.

Prevista, preparata, pianificata, annunciata questa rivoluzione è il risultato di un lungo cammino, di una lunga gestazione. Prima domanda da porsi: chi c’è dietro questa sollevazione? Quali sono i veri attori? I Fratelli musulmani? Il Mossad? L’Iran? L’America? L’Occidente ? Questo o quell’altro agente straniero ? Oppure semplicemente il popolo egiziano stesso – un popolo che aveva troppo sopportato, troppo sofferto, troppo subito – che non ne poteva più di essere schiacciato, sfruttato, calpestato, e che all’improvviso è esploso?

Il popolo…ma quale popolo ? Non il piccolo popolo che è vissuto sempre nella paura e nella sottomissione…ma una certa categoria molto precisa: i giovani, e più precisamente quelli fra 25 e 35 anni, appena diplomati, e tuttavia disoccupati, frustrati, senza impiego, senza alloggio, senza prospettive di un avvenire.

Questi giovani, al di là di un insegnamento scolastico abbrutente, degli slogan religiosi vuoti e senza sostanza, delle costrizioni sociali e morali alienanti cercano la loro strada e un senso alla loro vita attraverso Internet, Youtube, Facebook e Twitter.

Questi giovani, con occhi e orecchie bene aperti assorbono, consumano, assimilano tutto il giorno e tutta la notte tutto ciò che il mondo d’oggi propone loro sul net…il meglio e il peggio. Questi giovani, di cui alcuni frequentano scuole straniere o l’università americana, sognano aperture e modernità.

Sono questi giovani – aperti, emancipati, capaci di riflessione e di critica – che hanno covato, organizzato e messa al mondo questa rivoluzione. Ma, una volta messa al mondo, questa rivoluzione non ha tardato a essere agganciata dai Fratelli musulmani, che hanno cercato di recuperarla, a farne una cosa loro, a rubarla ai giovani che l’avevano creata e inventata.

Dunque da un lato i giovani veri attori e autori di questa rivoluzione; dall’altra i Fratelli musulmani che cercano di appropriarsene…Ma chi ancora? Ci sono altri protagonisti negli eventi che si svolgono ora in Egitto? Certamente ci sono gli uomini del potere, in primo luogo il Presidente, che non vogliono mollare, lasciare il loro posto, e si aggrappano, becco e unghie alla poltrona che occupano da lustri. Questa cricca spesso corrotta, gonfia di privilegi, ricca di miliardi alle spese del popolo minuto, sente oggi che tutto le sta sfuggendo e cerca di reagire e di fare fronte. E’ lei senza dubbio dietro l’attacco brutale di mercoledì 5 febbraio, quando energumeni muniti di lame e armi da fuoco, a cavallo o su cammelli, hanno caricato ciecamente una folla inerme che aveva scelto una rivoluzione pacifica basata sul dialogo e il negoziato.

Nei fatti, questi bruti scatenati sembrano essere al soldo non solamente della vecchia cricca al potere ma di tutti i magnati dell’industria, del commercio e della finanza che approfittavano del “sistema”. Questa banda soffre nel dover lasciare, e senza dubbio è lei che ha mobilitato questi briganti senza legge né fede per intimidire la gente e spezzare la sua determinazione.

Ci sono altri protagonisti? Probabilmente alcuni elementi stranieri che cercano di approfittare della situazione per pescare nel torbido. Ma non sono che una minoranza minuscola. Ci sono infine i teppisti, banditi e ladri, che hanno saccheggiato i negozi, svaligiato gli appartamenti, rapinato i passanti…e che hanno interesse a che il disordine continui.

Chi c’è ancora?

L’esercito, certamente! Solo garante dell’ordine, neutrale fino ad ora, vicino alla gente, nemico dei Fratelli musulmani, che si opporrà fermamente nel caso che questi tentino di impadronirsi del potere. Avremo una nuova dittatura militare, che ci riporterebbe alla casella di partenza, vale a dire al colpo di stato del 1952? E’ possibile? Non ci sarebbero altri scenari?

E la Chiesa in tutto questo? I cattolici – gerarchia, clero, religiosi e religiose, fedeli – tengono un prudente silenzio e si rifugiano nelle loro chiese, a messa, o in riunioni di  preghiera. Il patriarca copto-cattolico rompe il silenzio con una dichiarazione in cui si assicura Mubarak del nostro sostegno e delle nostre preghiere.

Quanto ai copti ortodossi, che rappresentano la schiacciante maggioranza dei cristiani d’Egitto, sono più divisi che mai. A livello della gerarchia, è la corsa alla successione in un’atmosfera di fine regno. Quanto a Shenouda, fa anche lui l’elogio del Presidente assicurandolo delle sue preghiere, a dispetto di tutta una corrente laica che lo sconfessa e trova che si compromette gravemente prendendo posizione. Pensano che dovrebbe adottare un atteggiamento molto più neutrale per non vedersi accusare più tardi di collaborazione con l'"ancien régime".

La maggioranza dei cristiani, a parte alcuni attivisti o intellettuali impegnati, si tiene a una certa distanza da questi conflitti politici e avrebbe, sembra, ricevuto consegne in questo senso da parte della gerarchia. In realtà vivono nella paura e prevedono il peggio nel caso in cui i Fratelli musulmani prendano il potere. Per il momento, grazie a Dio, non si è verificato nessun incidente confessionale, anche se chiese e conventi non sono più protetti dalla polizia.

Torniamo all’ultimo, e primo, protagonista di questi eventi: il popolo stesso. Preso di sorpresa dalla scomparsa improvvisa delle forze di sicurezza e la sorprendente liberazione dei prigionieri, è stato all’inizio preso dal panico di fronte alle bande di delinquenti che si sono rovesciate sulla città. Ma si è presto ripreso e organizzato per resistere e fare fronte all’attacco. Comitati di difesa civile sono nati spontaneamente ovunque prendendo posizione davanti ai palazzi, agli angoli delle strade, per difendersi, proteggere le famiglie e i beni, organizzare la circolazione e la raccolta dei rifiuti.

Questa assunzione di responsabilità da parte del popolo è veramente notevole e tutto accade in questo momento con una serenità, cortesia ed efficacia sorprendenti. In segno di gratitudine e riconoscenza, le donne del quartiere distribuiscono a tutti questi volontari dei pasti che preparano esse stesse con  amore. Una di queste, volendo pagare al macellaio la carne che comprava a questo scopo, si è sentita rispondere: “Signora, come posso accettare del denaro per questo servizio che lei compie gratuitamente per questi giovani volontari?”. Avevo le lacrime agli occhi ascoltando questa signora che mi raccontava l’episodio.

Questa “onda anomala” di solidarietà a livello di base ha generato in tutti gli strati della società una fratellanza straordinaria che ha rivelato la bontà di fondo del popolo egiziano. La signora di cui parlavo mi diceva a questo proposito: “Questo è l’Egitto, questi sono gli egiziani! Non sono quelli rubano, svaligiano, saccheggiano, ma tutte queste persone semplici dal cuore d’oro che non aspirano che alla pace e alla fraternità”.

Auguriamoci che il nuovo regime ci aiuti a costruire, lontano da ogni lotta partigiana e confessionale, questa “unione nazionale” che a molti sembra pura utopia. Credo però che l’utopia di oggi possa divenire la realtà di domani se ci crediamo davvero e se, per costruirla, ci investiamo con tutto il nostro cuore, la nostra intelligenza e la nostra energia. Un segno profetico di questa armonia futura ci è stato dato questa mattina sulla grande piazza Tahrir del Cairo da una moltitudine di persone radunate che si davano la mano e scandivano, all’unisono: “Siamo tutti uno!”.


IL PAPA ALLA PLENARIA DELLA CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 7 febbraio 2011 (ZENIT.org)

CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 7 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo del discorso pronunciato questo lunedì mattina da Papa Benedetto XVI ricevendo in udienza i partecipanti alla Plenaria della Congregazione per l’Educazione Cattolica (dei Seminari e degli Istituti di Studi).

* * *
 
Signori Cardinali,
Venerati fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle.
Rivolgo a ciascuno di voi il mio cordiale saluto per questa visita in occasione della riunione plenaria della Congregazione per l'Educazione Cattolica. Saluto il Cardinale Zenon Grocholewski, Prefetto del Dicastero, ringraziandolo per le sue cortesi parole, come pure il Segretario, il Sottosegretario, gli Officiali e i Collaboratori.
Le tematiche che affrontate in questi giorni hanno come denominatore comune l'educazione e la formazione, che costituiscono oggi una delle sfide più urgenti che la Chiesa e le sue istituzioni sono chiamate ad affrontare. L'opera educativa sembra diventata sempre più ardua perché, in una cultura che troppo spesso fa del relativismo il proprio credo, viene a mancare la luce della verità, anzi si considera pericoloso parlare di verità, instillando così il dubbio sui valori di base dell'esistenza personale e comunitaria. Per questo è importante il servizio che svolgono nel mondo le numerose istituzioni formative che si ispirano alla visione cristiana dell'uomo e della realtà: educare è un atto d'amore, esercizio della "carità intellettuale", che richiede responsabilità, dedizione, coerenza di vita. Il lavoro della vostra Congregazione e le scelte che farete in questi giorni di riflessione e di studio contribuiranno certamente a rispondere all’attuale "emergenza educativa".
La vostra Congregazione, creata nel 1915 da Benedetto XV, da quasi cento anni svolge la sua opera preziosa a servizio delle varie Istituzioni cattoliche di formazione. Tra di esse, senza dubbio, il seminario è una delle più importanti per la vita della Chiesa ed esige pertanto un progetto formativo che tenga conto del contesto sopra accennato. Varie volte ho sottolineato come il seminario sia una tappa preziosa della vita, in cui il candidato al sacerdozio fa l’esperienza di essere "un discepolo di Gesù". Per questo tempo destinato alla formazione, è richiesto un certo distacco, un certo "deserto", perché il Signore parla al cuore con una voce che si sente se c'è il silenzio (cfr 1Re 19,12); ma è richiesta anche la disponibilità a vivere insieme, ad amare la "vita di famiglia" e la dimensione comunitaria che anticipano quella "fraternità sacramentale" che deve caratterizzare ogni presbiterio diocesano (cfr Presbyterorum ordinis, 8) e che ho voluto richiamare anche nella mia recente Lettera ai seminaristi: «sacerdoti non si diventa da soli. Occorre la "comunità dei discepoli", l'insieme di coloro che vogliono servire la comune Chiesa».
In questi giorni studiate anche la bozza del documento su Internet e la formazione nei seminari. Internet, per la sua capacità di superare le distanze e di mettere in contatto reciproco le persone, presenta grandi possibilità anche per la Chiesa e la sua missione. Con il necessario discernimento per un suo uso intelligente e prudente, è uno strumento che può servire non solo per gli studi, ma anche per l'azione pastorale dei futuri presbiteri nei vari campi ecclesiali, quali l'evangelizzazione, l'azione missionaria, la catechesi, i progetti educativi, la gestione delle istituzioni. Anche in questo campo è di estrema importanza poter contare su formatori adeguatamente preparati perché siano guide fedeli e sempre aggiornate, al fine di accompagnare i candidati al sacerdozio all'uso corretto e positivo dei mezzi informatici.
Quest'anno, poi, ricorre il LXX anniversario della Pontificia Opera per le Vocazioni Sacerdotali, istituita dal Venerabile Pio XII per favorire la collaborazione tra la Santa Sede e le Chiese locali nella preziosa opera di promozione delle vocazioni al ministero ordinato. Tale ricorrenza potrà essere l'occasione per conoscere e valorizzare le iniziative vocazionali più significative promosse nelle Chiese locali. Occorre che la pastorale vocazionale, oltre a sottolineare il valore della chiamata universale a seguire Gesù, insista più chiaramente sul profilo del sacerdozio ministeriale, caratterizzato dalla sua specifica configurazione a Cristo, che lo distingue essenzialmente dagli altri fedeli e si pone al loro servizio.
Avete avviato, inoltre, una revisione di quanto prescrive la Costituzione apostolica Sapientia christiana sugli studi ecclesiastici, riguardo al diritto canonico, agli Istituti Superiori di Scienze Religiose e, recentemente, alla filosofia. Un settore su cui riflettere particolarmente è quello della teologia. E’ importante rendere sempre più solido il legame tra la teologia e lo studio della Sacra Scrittura, in modo che questa ne sia realmente l'anima e il cuore (cfr Verbum Domini, 31). Ma il teologo non deve dimenticare di essere anche colui che parla a Dio. E’ indispensabile, quindi, tenere strettamente unite la teologia con la preghiera personale e comunitaria, specialmente liturgica. La teologia è scientia fidei e la preghiera nutre la fede. Nell’unione con Dio, il mistero è, in qualche modo, assaporato, si fa vicino, e questa prossimità è luce per l'intelligenza. Vorrei sottolineare anche la connessione della teologia con le altre discipline, considerando che essa viene insegnata nelle Università cattoliche e, in molti casi, in quelle civili. Il beato John Henry Newman parlava di "circolo del sapere", circle of knowledge, per indicare che esiste un’interdipendenza tra le varie branche del sapere; ma Dio e Lui solo ha rapporto con la totalità del reale; di conseguenza eliminare Dio significa spezzare il circolo del sapere. In questa prospettiva le Università cattoliche, con la loro identità ben precisa e la loro apertura alla "totalità" dell’essere umano, possono svolgere un’opera preziosa per promuovere l’unità del sapere, orientando studenti ed insegnanti alla Luce del mondo, la "luce vera che illumina ogni uomo" (Gv 1,9). Sono considerazioni che valgono anche per le Scuole cattoliche. Occorre, anzitutto, il coraggio di annunciare il valore "largo" dell'educazione, per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare senso alla propria vita. Oggi si parla di educazione interculturale, oggetto di studio anche nella vostra Plenaria. In questo ambito è richiesta una fedeltà coraggiosa ed innovativa, che sappia coniugare chiara coscienza della propria identità e apertura all’alterità, per le esigenze del vivere insieme nelle società multiculturali. Anche a questo fine, emerge il ruolo educativo dell’insegnamento della Religione cattolica come disciplina scolastica in dialogo interdisciplinare con le altre. Infatti, esso contribuisce largamente non solo allo sviluppo integrale dello studente, ma anche alla conoscenza dell’altro, alla comprensione e al rispetto reciproco. Per raggiungere tali obiettivi dovrà essere prestata particolare cura alla formazione dei dirigenti e dei formatori, non solo da un punto di vista professionale, ma anche religioso e spirituale, perché, con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale, la presenza dell’educatore cristiano diventi espressione di amore e testimonianza della verità.
Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per quanto fate con il vostro competente lavoro al servizio delle istituzioni educative. Tenete sempre lo sguardo rivolto a Cristo, l’unico Maestro, perché con il suo Spirito renda efficace il vostro lavoro. Vi affido alla materna protezione di Maria Santissima, Sedes Sapientiae, e di cuore imparto a tutti la Benedizione Apostolica.
[© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana]


Radio Vaticana, notizia del 07/02/2011 - Benedetto XVI: educare, atto di amore in un mondo in cui si considera pericoloso parlare di verità

L’educatore cristiano sia espressione d’amore e testimone della verità: è l’esortazione rivolta da Benedetto XVI ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per l’Educazione cattolica, ricevuti stamani in udienza in Vaticano. Il Papa ha messo l’accento sull’urgenza per la Chiesa di rispondere alla sfida dell’emergenza educativa nei seminari come nelle scuole. Quindi, ha ribadito che in un tempo segnato dal relativismo, la verità va annunciata con “fedeltà coraggiosa e innovativa”. L’indirizzo d’omaggio al Papa è stato rivolto dal cardinale prefetto del dicastero, Zenon Grocholewski. Il servizio di Alessandro Gisotti:

“Educare è un atto d’amore, esercizio della ‘carità intellettuale’ che richiede responsabilità, dedizione, coerenza di vita”: è quanto sottolineato da Benedetto XVI nel suo discorso ai membri del dicastero per l’Educazione cattolica. Il Papa ha ribadito quanto sia importante affrontare il tema, a lui particolarmente caro, dell’emergenza educativa. Una sfida, ha detto, tra le più urgenti che “la Chiesa e le sue istituzioni sono chiamate ad affrontare”:

“L'opera educativa sembra diventata sempre più ardua perché, in una cultura che troppo spesso fa del relativismo il proprio credo, viene a mancare la luce della verità, anzi si considera pericoloso parlare di verità, instillando così il dubbio sui valori di base dell'esistenza personale e comunitaria”.

Il Papa ha quindi elogiato il servizio svolto dalle istituzioni formative che “si ispirano alla visione cristiana dell’uomo e della realtà”. Ed ha messo l’accento sull’importanza della formazione negli anni di seminario. Quest’ultimo, è stato il suo auspicio, “sia una tappa preziosa della vita in cui il candidato al sacerdozio fa l’esperienza di essere ‘un discepolo’ di Gesù’”. Ha così riaffermato la necessità per i seminaristi di “vivere insieme” ed amare “la dimensione comunitaria” che anticipa la “fraternità sacramentale”. Il Pontefice ha poi rivolto il pensiero alla teologia esortando a rendere “sempre più solido il legame” tra essa e lo studio della Sacra Scrittura:

“Il teologo non deve dimenticare di essere anche colui che parla a Dio. E’ indispensabile, quindi, tenere strettamente unite la teologia con la preghiera personale e comunitaria, specialmente liturgica. La teologia è scientia fidei e la preghiera nutre la fede. Nell’unione con Dio, il mistero è, in qualche modo, assaporato, si fa vicino, e questa prossimità è luce per l'intelligenza”.

E richiamando il Beato John Henry Newman ha sottolineato la connessione della teologia con le altre discipline che formano assieme un “circolo del sapere”. Solo Dio, ha rilevato, “ha rapporto con la totalità del reale”. Di conseguenza, ha avvertito, “eliminare Dio significa spezzare il circolo del sapere”:

“In questa prospettiva le Università cattoliche, con la loro identità ben precisa e la loro apertura alla ‘totalità’ dell’essere umano, possono svolgere un’opera preziosa per promuovere l’unità del sapere, orientando studenti ed insegnanti alla Luce del mondo, la ‘luce vera che illumina ogni uomo’”

Occorre, ha detto il Papa, il “coraggio di annunciare il valore ‘largo’ dell’educazione, per formare persone solide”. Serve, ha soggiunto, “una fedeltà coraggiosa ed innovativa, che sappia coniugare chiara coscienza della propria identità” e apertura all’altro per vivere insieme nelle società della propria vita:

“Anche a questo fine, emerge il ruolo educativo dell’insegnamento della Religione cattolica come disciplina scolastica in dialogo interdisciplinare con le altre. Infatti, esso contribuisce largamente non solo allo sviluppo integrale dello studente, ma anche alla conoscenza dell’altro, alla comprensione e al rispetto reciproco”.

Il Papa ha affermato che “con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale, la presenza dell’educatore cristiano” diventa “espressione di amore e testimonianza della verità”. Infine ha offerto la sua riflessione sul contributo che Internet può dare alla formazione dei seminari, tema questo sul quale la Congregazione sta approntando un documento. La Rete, ha osservato il Papa, “per la sua capacità di superare le distanze e di mettere in contatto reciproco le persone, presenta grandi possibilità anche per la Chiesa e le sue missioni”. Il suo utilizzo, ha poi aggiunto, deve sempre essere “intelligente e prudente”:

“Anche in questo campo è di estrema importanza poter contare su formatori adeguatamente preparati perché siano guide fedeli e sempre aggiornate, al fine di accompagnare i candidati al sacerdozio all'uso corretto e positivo dei mezzi informatici”.


La spiritualità del laicato secondo John Henry Newman - L'uomo più pericoloso di tutta l'Inghilterra - Pubblichiamo ampi stralci di una delle relazioni pronunciate al simposio internazionale "Il primato di Dio nella vita e negli scritti del beato John Henry Newman" che si è tenuto alla Pontificia Università Gregoriana per iniziativa dell'International Centre of Newman Friends. - di DONNA ORSUTO, Pontificia Università Gregoriana (©L'Osservatore Romano - 7-8 febbraio 2011)

L'impegno del beato John Henry Newman per la promozione di un laicato intelligente e istruito è ben noto. Quale "grande campione del ministero profetico del laicato cristiano", Newman era convinto del fatto che soltanto un laicato ben formato sarebbe stato pronto ad andare per il mondo e a parlare in modo convincente della propria fede. Nel 1851 scriveva con passione ed eloquenza su questa tema: "Non dovete nascondere il vostro talento o tenere celate le vostre virtù. Desidero laici non irruenti nel parlare né litigiosi, ma persone che conoscano la propria religione, che la pratichino, che sappiano qual è il loro ruolo, che sappiano cosa hanno e cosa non hanno, che conoscano il loro credo tanto bene da poterlo diffondere, che conoscano così bene la storia da poterlo difendere. Desidero laici intelligenti e istruiti (...) Desidero che ampliate le vostre conoscenze, coltiviate la ragione, riflettiate sulla relazione di verità, impariate a vedere le cose così come sono, a capire in che modo la fede e la ragione sono in rapporto fra loro, quali sono le basi e i principi del cattolicesimo". Le idee di Newman sull'istruzione del laicato e, in particolare, sulla consultazione di quest'ultimo su questioni di fede, però, non erano molto popolari nella sua epoca. Uno dei suoi detrattori, monsignor George Talbot, in una lettera al cardinale Henry Edward Manning, si lamenta del fatto che il laicato "sta mettendo in pratica la dottrina insegnata dal dottor Newman", e prosegue: "Qual è il ruolo dei laici? Cacciare, sparare, intrattenere. Queste cose le padroneggiano, ma non hanno alcun diritto di intromettersi in questioni ecclesiastiche (...). Il dr. Newman è l'uomo più pericoloso d'Inghilterra".
Sia negli scritti formali sia nei rapporti con i suoi amici laici, l'impegno di Newman nel promuovere la vocazione e la missione del laicato è indubbio. Infatti, come osserva Ian Ker: "Nella sua lunga vita, dagli inizi nella Chiesa d'Inghilterra e dall'influenza che vi esercitò, in particolare a Oxford, alla fine, come cardinale della Chiesa cattolica romana, è possibile rintracciare nel pensiero di Newman sul laicato un modello costante e armonioso. In Newman rintracciamo sempre la preoccupazione di rendere il laicato una forza attiva, all'opera sia nella Chiesa sia nel mondo in generale".
Concentriamoci su una amicizia e un sermone in particolare. L'amico era James Robert Hope-Scott (1812-1873), seguace del trattarianesimo e avvocato di successo, che divenne cattolico romano nel 1851. L'amicizia fra Hope-Scott e Newman cominciò a Oxford nel 1837 e durò circa trentacinque anni. Soltanto nelle lettere e nei diari, Hope-Scott viene menzionato 481 volte. Newman e altri lo consultavano spesso e "Chiedi a Hope" divenne quasi un detto in quel circolo di amici. Quel che ci interessa è il sermone intitolato "Nel mondo, ma non del mondo", predicato da Newman alla messa esequiale di Hope-Scott celebrata nella Jesuit Church a Farm Street, a Londra nel maggio 1873.
Questo sermone, e suggerirei la spiritualità dei laici secondo Newman, si impernia sul versetto di Giovanni "e il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!" (2, 17). La spiritualità dei laici secondo Newman è opportunamente legata alle sue idee sul mondo e alla sfida perenne del relazionarsi del cristiano con quest'ultimo. In termini più semplici, ripetendo il titolo di questo sermone: come può un cristiano vivere nel mondo senza essere del mondo?
In questo sermone, Newman parla con eloquenza di vocazione come del dovere di mettere le proprie qualità al servizio degli altri. Dice: "Non siamo nati per noi stessi, ma per la nostra specie, per il nostro prossimo, per il nostro Paese". Riconosce anche che "dobbiamo molto a quanti si dedicano alla vita pubblica", ma questo servizio abnegato non è sempre facile e spesso può portare a un compromesso in cui si è "obbligati a una routine" e dove, a volte, si può operare soltanto "quel che si considera essere la seconda miglior scelta". In primo luogo Newman propone una spiritualità laica di impegno attivo nel mondo. Riferendosi all'amico scomparso Hope-Scott, suggerisce che quel che gli aveva permesso di rendere un'efficace testimonianza cristiana in mezzo alle responsabilità terrene era stato il dono della fede.
Questo tema è anche evidenziato in altri scritti di Newman, in particolare quando si concentra sui politici. Nel suo articolo Un Paese migliore: la vita pubblica secondo Newman, Edward Short propone un meraviglioso insieme di citazioni di Newman per dire che i funzionari pubblici non possono trascurare la propria religione quando entrano nella vita pubblica.
In secondo luogo, Newman propone una spiritualità laica di attaccamento a Cristo e di distacco dal mondo. In questo sermone per il suo amico scomparso, osserva che Hope-Scott "era libero dall'ambizione in modo singolare", cosa che è attribuibile alla "sua speciale religiosità della mente" e "al suo senso intimo della vanità di tutte le differenze secolari e alla sua devozione a Dio che solo è fedele e vero".
Questo attaccamento a Cristo conduce a un gioioso arrendersi a Cristo nelle vicissitudini della vita. Nel sermone per le esequie di Hope-Scott, Newman osserva che il suo amico "aveva una mente giovane, che mantenne sempre, fino all'ultimo, la sua gioiosa energia". Nel suo sermone Il cristiano apostolico, Newman afferma che una caratteristica dei primi cristiani era "la gioia in tutte le sue forme, non solo un cuore puro, non solo mani pulite, ma (...) un'espressione gaia". Newman afferma: "Io dico gioia in tutte le sue forme, perché nella gioia autentica sono incluse tutte le numerose grazie; le persone gioiose sono amorevoli, indulgenti, munifiche. La gioia, se deve essere gioia cristiana, la gioia raffinata dei mortificati e dei perseguitati, rende gli uomini pacifici, sereni, grati, gentili, affettuosi, miti, gradevoli, speranzosi. Sono pieni di grazia, dolci e vincenti".
La visione di Newman della vocazione laica ha senso soltanto nel contesto dell'eternità. La sua spiritualità di impegno attivo con il mondo bilanciato da un attaccamento a Cristo ha una dimensione escatologica. Come afferma san Paolo: "Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini" (1 Corinzi, 19).
Molti studiosi di Newman sottolineano la dimensione escatologica quale elemento essenziale dell'insegnamento spirituale di Newman. Non sorprende che essa emerga come sua idea chiave della spiritualità laica. Newman evidenzia che ciò che equilibra l'impegno per Cristo nel mondo è un senso di veglia e di attesa di Cristo. Il 13 aprile 1882, Newman scrive una lettera a Emily Bowles, commentando le Memoirs of James Hope-Scott di Ornsby in corso di pubblicazione: "Le azioni e le lettere di Hope-Scott sono tanto intense da esprimere il suo carattere meraviglioso e non hanno bisogno di alcun commento. Dico "meraviglioso" perché è difficile trovare un uomo del mondo tanto profondamente religioso, tanto santo interiormente. Un uomo può avere molti pregi, ma non avere interiorità. Hope-Scott parla da sé".
Questa interiorità tipica della spiritualità di Hope-Scott non lo teneva lontano dagli altri. In un altro sermone, Newman spiega che i cristiani sono chiamati a svolgere i propri doveri nella vita proprio come tutti gli altri, ma c'è una differenza: "Vivere in cielo con i pensieri, le motivazioni, le finalità, i desideri, i gusti, le preghiere, le intercessioni, perfino mentre si è ancora sulla terra, sembrare come gli altri, essere impegnati come gli altri, passare inosservati nella folla o persino essere disprezzati od oppressi, o forse in altre condizioni, ma avere comunque un canale segreto di comunicazione con l'Altissimo, un dono che il mondo non conosce".
Ecco uno scambio epistolare avvenuto fra i due amici: John Henry Newman e James Robert Hope-Scott. La vigilia di Natale del 1857, Newman scrisse a Hope-Scott ricordandogli come cinque anni prima aveva trascorso il Natale "su al Nord" con la famiglia Hope-Scott. Scrive: "Cinque anni, mi prende la malinconia, perché è come una campanella che passa, portando via il tempo. Spero non sia errato dire che il trascorrere del tempo per me ora è triste e orribile, perché mi ricorda quando ho dovuto fare, quanto ho fatto e quanto poco tempo ho ancora per farlo. Pensavo che sarei vissuto a lungo, ma ora non so che pensare. Comunque non sono riflessioni adatte alla vigilia di Natale".
Il 30 dicembre 1857, Hope-Scott risponde con grande maestria alla lettera un po' cupa di Newman. Leggendo tra le righe si nota l'influenza fortissima che Newman aveva su Hope-Scott, il quale riprende nella sua risposta ciò che Newman gli aveva insegnato. A questo punto Hope-Scott ha quarantasette anni, Newman ne ha dieci di più e sono amici da venti: "Caro padre Newman, (...) non mi piacciono i vostri mugugni. Avete fatto più della maggior parte delle persone, e non siete mai stato ozioso e sul modo in cui l'avete fatto con dirò nulla. Potrete anche pensare che avreste potuto farlo meglio, ma ricordo che una volta mi diceste che "non c'è nulla che non avremmo potuto fare meglio" e questo mi fu molto di conforto perché, ponendo ogni fallimento particolare, sotto la legge generale dell'infermità, mi tranquillizzò e mi rese umile. Dunque, per quanto riguarda il futuro: avrete tempo per ciò che siete incaricato di fare mentre di ciò di cui non siete incaricato non dovete preoccuparvi. Ma ho scritto un sermone! So che è piuttosto impudente da parte mia (...) Tiratevi su e cominciate a lavorare, non come se doveste fare qualcosa di particolare prima di morire, ma come se doveste fare del vostro meglio fino al momento di morire".
Questa risposta coglie un elemento essenziale della spiritualità di Newman, tanto appropriato non solo per i laici, ma anche per tutti i cristiani: l'idea di vivere secondo la divina provvidenza, afferrando l'attimo, accettando i doveri che dobbiamo compiere. Si tratta di una spiritualità pratica così adatta alle donne e agli uomini laici di oggi che sono chiamati a vivere la loro vocazione e la loro missione nel mondo.


EGITTO/ Frattini: il laicismo esasperato dell’Ue fa il gioco degli islamisti radicali - INT. Franco Frattini - martedì 8 febbraio 2011 – il sussidiario.net

Omar Suleiman, volto della fase attuale del regime egiziano, ha incontrato le parti mentre in piazza Tahrir i manifestanti non desistono e continuano a chiedere le dimissioni di Mubarak. Lavora dunque alla transizione, Suleiman, e la novità è che ora i Fratelli musulmani fanno parte del tavolo chiamato a lavorare sulle riforme. Prima tra tutte, come cambiare la Costituzione per permettere a nuove forze politiche di presentarsi alle elezioni. Oltre ad una serie di richieste ritenute inderogabili dal popolo dei manifestanti: la garanzia della libertà d’informazione e il rilascio degli oppositori.
La Farnesina, come tutti i governi occidentali, tiene gli occhi aperti, per adeguare la comprensione dello scenario al mutevole contesto non solo egiziano. «Mubarak rimarrà in carica sino alla scadenza del suo mandato e non oltre, non mi pare ci siano più dubbi su questo» dice al sussidiario Franco Frattini, ministro degli Esteri. L’Italia non appoggia nessun regime ma non può chiudere gli occhi di fronte alle esigenze della stabilità e al significato che ha avuto l’Egitto per l’intera area mediorientale. «Pesa l’indecisione dell’Europa - afferma il ministro -. Non ci si rende conto che il laicismo esasperato mina la credibilità dell’Unione».

Ministro, alcuni manifestanti egiziani hanno accusato l’Italia di essere stata tra quanti hanno appoggiato il regime di Mubarak. Che cosa risponde a questa affermazione?

Rispondo che l’Italia è profondamente amica del popolo egiziano, e che fra i due Paesi sussistono legami profondi, secolari, tradottisi in una fitta rete di relazioni molto robuste, strutturate a tutti i livelli di cooperazione economica, culturale, scientifica, sociale. Accrescere il volume dell’interscambio e degli investimenti diretti, realizzare assieme importanti progetti culturali, promuovere gli scambi giovanili, sviluppare le infrastrutture, non significa “appoggiare un regime”, significa, piuttosto, lavorare seriamente per il benessere ed il progresso dei due popoli.

Usare lo sviluppo per promuovere la pace, insomma.

Sì. E, in questo contesto, non intendo certamente tralasciare la dimensione della cooperazione politica: il ruolo decisivo ed autorevole dell’Egitto nel promuovere in questi anni il processo di pace, lo sforzo per superare le fasi di stallo, è stato riconosciuto a Mubarak non soltanto dall’Italia, ma dall’intero Occidente e dai Paesi arabi. Al di là della dimensione bilaterale italo-egiziana, tengo a ricordare che l’Egitto di Mubarak è stato un punto di riferimento fondamentale per tutto il fronte arabo moderato, così come la pace fra Israele ed Egitto è stata un perno essenziale per le dinamiche del processo di pace.

I rapporti positivi tra Italia ed Egitto sono il frutto delle posizioni dei governi in carica, o di ragioni economiche e strategiche che continueranno a sussistere anche con un cambio di regime?

Le rispondo a mia volta, se mi permette, con un’altra domanda: Lei ha forse memoria di un Governo italiano, di qualsiasi fase della nostra storia democratica e di qualsiasi colore politico, che non abbia compreso che l’Egitto è un attore regionale fondamentale, senza il quale è impensabile operare per la stabilità dell’area e lasciare viva la speranza della pace fra israeliani e palestinesi? Ancora: in una fase storica in cui lo spazio euromediterraneo non può permettersi di non sfruttare la sua centralità nelle rotte commerciali fra le potenze emergenti asiatiche e l’occidente, potremo mai prescindere dall’Egitto? Mi riferisco certamente al vitale rilievo strategico del Canale di Suez, ma sono anche convinto che l’economia egiziana, per quanto risenta pesantemente della crisi internazionale, presenta importanti potenzialità di sviluppo, come dimostrato dalla fiducia accordatale dai grandi gruppi industriali, anche italiani, che hanno scommesso sul futuro dell’Egitto con cospicui investimenti diretti.

Ritiene che, con un cambio di regime, possa diventare più difficile per l’Italia e per l’Ue intervenire in favore dei cristiani in Egitto?

Se, malauguratamente, prendesse corpo in Egitto una deriva islamista radicale, la componente copta della popolazione si troverebbe a rischio. Anche per questo motivo, l’Italia e l’Unione europea devono sostenere una transizione ordinata. In questa fase, però, al pari delle incognite sugli sviluppi in Egitto, pesa l’indecisione dell’Europa. Non ci si rende conto che il laicismo esasperato mina la credibilità dell’Unione. Non vi è una corale presa di coscienza sul fatto che le radici cristiane sono parte essenziale dell’ identità europea, e che la libertà di culto è la premessa per godere di tante altre libertà.

Fino a che punto in passato le richieste di Italia e Ue per la tutela dei cristiani in Egitto sono state ascoltate da Mubarak?

Mi lasci sgomberare il campo da un equivoco. Il tema non è la tutela dei cristiani in Egitto, il tema è la tutela dei cristiani nel mondo. Il popolo egiziano è vittima della violenza, è vittima dell’ attentato di Alessandria. Va assolutamente dato atto al Governo egiziano del suo convinto impegno nel combattere il fenomeno dell’intolleranza religiosa. Anzi, a dirla tutta, il popolo egiziano, di fronte all’eccidio di Alessandria, ha dato prova di maggiore sensibilità rispetto a qualche laicista europeo. Il punto è un altro. L’intolleranza nei confronti dei cristiani e delle minoranze religiose in generale ha assunto, su scala globale, dimensioni inaccettabili per tutti coloro i quali hanno a cuore i diritti dell’individuo. E di fronte a questo l’ Europa ha il dovere di essere più concreta ed incisiva.

Mubarak rifiuta di dimettersi perché teme il caos, ma sono stati i suoi sostenitori a usare metodi violenti. È quindi credibile quanto afferma Mubarak?

Mubarak rimarrà in carica sino alla scadenza del suo mandato e non oltre, non mi pare ci siano più dubbi su questo. L’importante è che la transizione sia pacifica, sia il più possibile rapida, e vada incontro alle richieste di democrazia e di apertura della società civile e delle opposizioni non violente e pronte al dialogo democratico. Noi non parteggiamo per questo o quel partito, né per questa o quella personalità. Quel che conta è che, avviando le necessarie riforme, vengano poste le basi per arrivare quanto prima ad elezioni democratiche che consentano al popolo egiziano di decidere liberamente sul suo futuro.

Che cosa possono fare in concreto l’Italia e l’Ue per una transizione pacifica in Egitto? Su che cosa è possibile fare leva per evitare derive da parte di uno o più dei soggetti coinvolti?

Trovo molto positivo che al Consiglio europeo sia stato preso l’impegno di “una nuova partnership” dell’Unione con Egitto e Tunisia, da perseguire attraverso tutti gli strumenti offerti dalla Politica Europea di Vicinato ed anche attraverso il rilancio dell’ Unione per il Mediterraneo. Ora, però, questo impegno va riempito di contenuti concreti. Occorre varare un pacchetto di misure efficaci che, nel breve termine, incoraggino il consolidamento dei processi democratici e favoriscano la preparazione di elezioni libere e trasparenti, e, in prospettiva, rivitalizzino la crescita economica e sociale in tutta la sponda Sud del Mediterraneo. Non dimentichiamo che all’ origine dell’ondata di proteste vi è un disagio giovanile di vaste proporzioni. Quei ragazzi stanno bussando alla nostra porta invocando democrazia e progresso. Sarebbe da irresponsabili indurli a rivolgere lo sguardo altrove o, peggio, farne facili prede degli estremismi.
(Pietro Vernizzi)
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IL CASO/ La bella Dominika, uccisa dal labirinto di una vita virtuale di Luca Doninelli, lunedì 7 febbraio 2011, il sussidiario.net

Dominika aveva diciassette anni, frequentava un istituto professionale a Monterotondo, presso Roma. Era una bella ragazza, prendeva ottimi voti. Per questo il preside della sua scuola non riesce a capacitarsi del perché questa ragazza bella e brava abbia rubato dalla palestra una corda per saltare e si sia impiccata nel bagno della scuola.

Era bella e brava, e magari anche buona. Ma adesso Dominika non esiste più, e il suo preside, giustamente, non sa darsi pace. Non la rivedrà più entrare in scuola, non rivedrà più il suo sorriso, non riascolterà più la sua voce gentile. E poi la tragedia si è consumata tutta dentro la scuola, come a suggerire che lì, proprio lì, sta in un modo o nell’altro la radice del problema.

Ho imparato a non fidarmi troppo dei biglietti che i suicidi lasciano ai posteri. Come c’è molta menzogna nell’atto in sé, così è probabile che ce ne sia anche nelle loro parole.

Due elementi tuttavia emergono da una prima osservazione del fatto. Non so se c’entrino qualcosa con la vera causa della morte della povera Dominika, però bisogna osservarli bene.
Il primo è riportato proprio sul biglietto lasciato dalla ragazza, e parla dell’amore di Dominika per un ragazzino più piccolo di lei, che però a quanto sembra le preferiva un’altra.

Il secondo elemento riguarda la mania di Dominika per le diete. Ultimamente era un po’ ingrassata, e questo le faceva terrore.

Magari allora potrei mettermi a parlare, come farebbe un qualsiasi commentatore, del disagio giovanile, della crisi di modelli, della schiavitù mediatica, della solitudine dell’adolescenza. Potrei mettere in luce il nesso tra questi due elementi osservando che il disperato attaccamento di Dominika a un ragazzo più piccolo di lei costituiva per la ragazza un tentativo di identificarsi con un modello fisico al quale temeva di non poter appartenere mai più.

In altre parole, in quel ragazzino privo nel nostro caso di qualunque importanza lei cercava sé stessa. Ma lei non sarebbe mai più rientrata in un corpo così, perché ora il tempo aveva cominciato a batterle dentro le orecchie, e le suggeriva le stesse cose che suggerisce a tutti noi: che la gioventù finisce, che diventeremo grandi e poi vecchi (forse), e saremo brutti e indesiderabili, e ci faremo rifare naso labbra tette ma non servirà a nulla.

Può darsi che questi pensieri, come spesso accade, inducessero la ragazza a studiare di più e meglio, a capire più in profondità i testi di letteratura assegnati dalla prof, e quindi a meritare bei voti. Questo per dire che un bel voto di solito non è segno di niente. Almeno io la penso così.

Ma c’è qualcosa di molto più importante, un’osservazione molto più grave, alla quale non può sottrarsi nessuno: né il preside di Dominika, né i suoi insegnanti, e nemmeno tutti noi. 

La cosa importante è che tutto quello che sappiamo del modo di pensare di Dominika ha a che fare con una parola che dovrebbe mettere paura come la morte: la parola “astrazione”. Perché è possibile gettare via tutta la vita (se ci penso mi viene la pelle d’oca!) avendo sempre e solo a che fare con modelli astratti: la bellezza fisica, la giusta alimentazione, l’amore ideale, e via via di questo passo fino allo scolaro modello, all’impiegato modello, al successo sul lavoro, alla vittoria nello sport, al potere (per quanto piccolo, quando non infinitesimale).

Diventare prigionieri di un’idea astratta di sé stessi e del mondo è facilissimo. I più riescono a vivacchiare in quel limbo per tutta la vita, qualcuno invece si perde e muore.

Allora presidi e insegnanti - dico di loro per dire di noi tutti - devono cominciare a chiedersi se insegnare significa solo conoscere e trasmettere una data materia o se, insieme a questo (ma in un certo senso prima di questo) non sia loro dovere, verso i ragazzi ma anche verso sé stessi, di insegnare che niente si conosce se il punto di partenza non è la nostra esperienza concreta, fattuale. Ma un professore si rende conto che nel suo modo d’insegnare si decidono la vita e la morte?

Un teorema matematico, un romanzo, una teoria economica sono sempre la risposta a una domanda. E la domanda è sempre una domanda concreta, legata al concreto dell’esperienza.
Cosa vuol dire essere giovani? Cosa vuol dire amare qualcuno? Le menti dei ragazzi vengono rapite dai modelli astratti di “gioventù”, “bellezza”, “amore” prima che nella loro vita concreta, prima che nel loro corpo, nel loro cuore e nella loro mente queste stesse cose si possano trasformare in domande personali. Rendiamoci conto che un ragazzino oggi sa già cos’è uno stupro quando ancora non sa cosa sia un atto sessuale.

All’inizio di ogni vita sana c’è il rapporto con la realtà. Da questo rapporto sorgono domande, spesso dubbi, interrogativi pieni di speranza ma anche angosciosi, fino alla ricerca, fino al pensiero speculativo, fino ai vertici dell’arte.

Quello che mi preoccupa è che, per le generazioni giovani (e anche per quelle non più giovanissime) la realtà, anziché essere il punto di inizio della conoscenza, sembra essere diventata qualcosa di irraggiungibile, un’isoletta lontana persa nella nebbia.

Quando sento parlare di “eccellenza” e di “merito” a proposito del futuro della scuola (e dell’università) mi viene il vomito. Ci si illude di porre rimedio alla voragine educativa continuando a farcire, a rimpinzare le povere teste dei ragazzi di contenuti su contenuti. Ma se non c’è quel punto di partenza, ben radicato e sempre richiamato, non è difficile prevedere che ad accaparrarsi l’”eccellenza” e il “merito” saranno o i più furbi - quelli cioè che sanno stare al gioco - o i più stupidi - quelli che non hanno capito che esiste un gioco.

Qualunque sia la causa della morte della povera Dominika, quello che è certo è che è stata devastata da un macigno fatto di astrazione, e che la scuola non può fare spallucce dando la colpa alla tv e alle mode fregandosene del fatto che, spesso, il suo modo di presentare i contenuti è peggio della tv e delle mode.
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Festa regionale di San Francesco di Sales, Patrono dei giornalisti - Lectio magistralis «J.H. Newman: una proposta educativa per la comunicazione oggi» - Istituto Veritatis Splendor, 21 gennaio 2011 – da http://www.caffarra.it/

Non mi è stato facile impostare la riflessione che mi avete chiesto in occasione della festa del vostro Patrono dal momento che, a mia conoscenza, il beato J. H. Newman non ha mai elaborato una trattazione sulla comunicazione sociale. Non potevo dunque esporre il suo pensiero al riguardo.

Tuttavia tutti i grandi pensatori, i pensatori essenziali - e Newman è certamente fra essi - possono essere interrogati su ogni tema seriamente attinente alla nostra vicenda umana.

Tutto ciò premesso, alla fine ho pensato di procedere nel modo seguente. Nel primo punto della mia riflessione cercherò di fare uno schizzo del profilo spirituale di Newman, o meglio, del suo itinerario interiore. Nel secondo punto cercherò di verificare quali "provocazioni" vengono da tale itinerario a chi lavora nella comunicazione sociale.

1. Schizzo del profilo spirituale

J. H. Newman scrisse l’epigrafe che doveva essere scolpita sulla sua tomba. È la seguente: Ex umbris et imaginibus in veritatem.

Se un uomo compone l’epigrafe della sua tomba, non c’è dubbio che con essa egli vuole fare la sintesi di tutta la sua vicenda umana, e darne la chiave interpretativa. Ed in realtà quell’iscrizione "è la cifra della sua intera visione del mondo, la figura secondo cui concepiva la destinazione reale della nostra intelligenza, la quale, abitando la sfera della manifestazione e della parvenza (imago, umbra), deve volere e cercare con tutta se stessa una certezza legittimata dalla verità". [P. Murray, in J. H. Newman, Scritti oratoriani, Cantagalli, Siena 2010, XIII].

L’itinerario di Newman è così delineato nella sua sostanza: è il pellegrino in cammino verso la verità che salva, oltre le apparenze e le ombre. Si noti, però, subito che non di una qualsiasi verità si tratta. È la verità che è proposta di salvezza, che è via alla salvezza definitiva, eterna. È la verità religiosa nel senso più forte. Ascoltiamo Newman: "Vi è una verità; vi è una sola verità, l’errore religioso è per sua natura immorale; (…) si deve temere l’errore; la ricerca della verità non deve essere appagamento di curiosità; l’acquisizione della verità non assomiglia in niente all’eccitazione di una scoperta; il nostro spirito è sottomesso alla verità, non le è quindi superiore ed è tenuto non tanto a dissertare su di essa, ma a venerarla" [Lo sviluppo della dottrina cristiana, Il Mulino, Bologna 1967, 377].

Prima di proseguire mi piace attirare la vostra attenzione su un fatto. Nei suoi scritti Newman non parla mai [come Agostino] del cammino verso la verità come di un’ascensione, una salita continua verso Dio dal grado inferiore al grado superiore. Egli configura il suo cammino verso la verità come un iter, un cammino, un pellegrinaggio faticoso.

L’itinerario conosce in Newman tre momenti fondamentali [ancora come Agostino]. Li richiamo molto sinteticamente.

Il primo - lo potremmo chiamare la prima conversione - è descritto nel modo seguente: "… confermandomi nella mia sfiducia nella realtà dei fenomeni materiali e facendomi riposare nel pensiero di due soli esseri assoluti e luminosamente evidenti in se stessi, me stesso e il mio Creatore" [Apologia pro vita sua, Paoline, Milano 2001, 137-138].

Newman prima di questa "scoperta" pensava che la realtà veramente consistente fosse quella in cui lo immergevano i suoi sensi. Il "reale" è ciò che è afferrabile; ciò che è misurabile e calcolabile.

Egli ci dice di aver letto alcuni saggi di Hume. Aveva copiato alcuni versi francesi di Voltaire, che negavano l’immortalità dell’anima, ed aveva pensato: "quanto è terribile, però quanto è plausibile" [cfr. ibid. pag. 136].

Nella sua prima conversione Newman riconosce che le cose stanno al contrario: le uniche realtà veramente consistenti sono Dio e l’anima, cioè il nostro essere un io spirituale. È questo il primo passaggio ex umbris et immaginibus in veritatem. Si noti bene. Non si tratta di un evento spirituale che riguarda solo e principalmente l’ambito della nostra conoscenza, ma è una nuova forma di vita che si imprime nella persona del giovane Newman. Un testo di R. Guardini può aiutarci a capire la forza di questa scoperta. "E’ l’esperienza della propria archè: la consapevolezza di provenire da Dio; di possedere le proprie radici originarie in Lui, più precisamente nella sua volontà creativa" [Etica, Morcelliana, Brescia 2001, 512]

La seconda conversione è costituita da ciò che Newman chiama il "principio dogmatico". Così egli ne parla. "Dall’età di quindici anni il dogma è stato il principio fondamentale nella mia religione: non conosco altra religione, non riesco a capire nessun’altra specie di religione; una religione ridotta ad un semplice sentimento per me è un sogno e un inganno" [Apologia pro vita mea, cit., 187]. Per tutta la vita Newman riterrà che il più grande pericolo che la fede cristiana corre oggi è la negazione del principio dogmatico negazione che Newman chiama il principio liberale, l’idea cioè e l’esperienza di un cristianesimo costruito dal singolo a prescindere dall’oggettività della Rivelazione custodita dalla Chiesa.

Il principio dogmatico quindi prende forma concreta, obiettiva, storica, nella realtà della Chiesa. "Dio e anima" non indica quindi un itinerario di vita che consiste nell’affermazione della propria soggettività. Al contrario. È un itinerario di superamento del soggettivismo, guidato dall’obbedienza alla Rivelazione trasmessa dalla Chiesa. Il cristianesimo non denota uno stato di coscienza, ma si mostra nell’obbedienza della fede. "Così tutto il compito e il lavoro di un cristiano si organizza attorno a questi due elementi: la fede e l’obbedienza. Egli "guarda a Gesù" [Eb. 2,9]… e agisce secondo la sua volontà. Mi sembra che oggi corriamo il pericolo di non dare il peso che dovremmo a nessuno dei due. Consideriamo qualsiasi vera e accurata riflessione sul contenuto della fede come sterile ortodossia, come astruseria tecnica. Di conseguenza facciamo consistere il criterio della nostra pietà nel possesso di una cosiddetta disposizione d’animo spirituale".

Dal "principio dogmatico" deriva per Newman che il problema centrale dell’esistenza è il problema della Chiesa: dove ricevere nell’obbedienza della fede la divina Rivelazione? Quale è la vera Chiesa?

La terza conversione è quella alla Chiesa Cattolica, nel momento in cui Newman ebbe la certezza che essa era la vera Chiesa. Fu un atto di obbedienza pura alla verità che la coscienza gli indicava. "Di questo sono sicuro, che soltanto una chiamata semplice, diretta del dovere è garanzia per lasciare la nostra Chiesa; non la preferenza per un’altra Chiesa, non il gusto per la sua liturgia, non la speranza di un maggior progresso spirituale; non l’indignazione, non il disgusto per le persone e per le cose tra le quali ci troviamo nella Chiesa d’Inghilterra. L’unico interrogativo è questo: posso io (la domanda è personale; non: può qualche altro, ma posso io) salvarmi nella Chiesa d’Inghilterra? Sarei io salvo, se dovessi morire stanotte? È un peccato mortale, per me, non passare a un’altra confessione?" [Apologia pro vita mea, cit., 371]. "Fu come entrare in porto dopo essere stati nel mare in tempesta" [Apologia pro vita mea, cit., 378].

L’itinerario ex umbris et imaginibus in veritatem ha raggiunto il porto: dal mondo umbratile ed inconsistente alla verità di Dio e del proprio io; dall’inconsistenza degli stati soggettivi alla verità della divina Rivelazione trasmessa dalla Chiesa; dalla comunione anglicana alla Chiesa cattolica.

Quale è stato il dinamismo interiore che ha mosso Newman in questa ricerca? la forza che dal di dentro lo spingeva a passare ex umbris et imaginibus in veritatem? la sua coscienza. Primato della verità e primato della coscienza sono in Newman come il concavo e il convesso della stessa figura. L’avere contrapposto l’uno all’altro è stato il più esiziale degli errori moderni.

Per Newman la coscienza è la capacità di riconoscere la verità e le sue esigenze negli ambiti decisivi per il destino eterno dell’uomo: la morale e la religione. La coscienza quindi è l’originaria, permanente, imprescindibile rivelazione naturale che Dio fa di se stesso all’uomo: è la sua prima [non in senso cronologico] Parola che Dio dice all’uomo. Le conversioni di Newman sono il cammino della sua coscienza, cioè dell’obbedienza alla verità che gradualmente si mostrava alla sua persona. Il contrario di un cammino della propria soggettività che afferma se stessa in totale autonomia. Il concetto che Newman ha della coscienza è esattamente l’opposto del concetto elaborato dal soggettivismo moderno.

Penso che il fascino esercitato da Newman su quanti entrano nel suo mondo spirituale sia proprio questo: l’aver legato la coscienza alla verità, a Dio; e reciprocamente: l’avere radicato la verità morale e religiosa dentro la coscienza. La verità è la soggettività, aveva scritto il suo grande contemporaneo Kierkegaard [il tema è sviluppato nella Postilla non conclusiva alle Briciole di filosofia, II p., II sez., cap. 1] . Anche Newman pensa che sia così, ma in un senso interamente più vero. Kierkegaard ha chiuso la soggettività nel "Singolo", staccandola dalla Chiesa che è il depositario della verità che salva.

Finisco con un pensiero di Newman che è perfettamente adeguato a questo incontro. Il primato della Verità venne sempre da Newman affermato con linguaggio appropriato, con un tono adeguato. Egli mira sempre a persuadere e convincere con umiltà, semplicità, gioia e pazienza. Così pregava S. Filippo Neri: "che il mio aspetto sia sempre aperto e allegro, e le mie parole gentili e piacevoli, come conviene a coloro che, qualunque sia lo stato della loro vita, godono del più grande di tutti i beni, del favore di Dio e dell’attesa dell’eterna felicità" [Meditazioni e preghiere, Jaka Book, Milano 2002, 193-194]. L’altare della sua cappella di Birmingham è sormontato dall’immagine di S. Francesco di Sales, il grande santo umanista. È da lui che prese il suo motto cardinalizio, "cor ad cor loquitur".

2. Newman e la comunicazione

Che cosa dice a voi che lavorate nei mass-media questa persona ed il suo itinerario spirituale?

Desidero partire dall’ultima considerazione. Il motto cardinalizio preso da S. Francesco di Sales denota in primo luogo un metodo di comunicazione. Newman è, nelle sue opere, un "compagno di viaggio". Egli si mette a fianco del suo lettore o uditore per condurlo con argomentazioni semplici e profonde alla scoperta della verità. La sua scrittura affascina non solo dal punto di vista della chiarezza espositiva, ma perché ti fa "sentire" la vicinanza di un maestro che ti guida.

Nel quinto sermone predicato nella chiesa universitaria di Oxford il 21 gennaio 1832, Newman si chiede come, nonostante tutte le difficoltà, la predicazione apostolica ebbe grande successo: "quale è quella qualità nascosta della verità, e come fa a prevalere da sola su numerosi e multiformi errori dai quali viene simultaneamente e incessantemente attaccata?" [J.H. Newman, Scritti filosofici, Bompiani, Milano 2005, 165].

E continua: "Rispondo che nel mondo essa è stata sostenuta non come un sistema, non da libri, né da argomentazioni, né dal potere temporale, ma dall’influenza personale di uomini (…) che ne sono nello stesso tempo i maestri e i modelli" [ibid. 191].

Trovo ancora una singolare sintonia con Kierkegaard. La forma per comunicare la verità che salva è quella di "esserci dentro", ovvero di "presentarsi in carattere".

Tutto il tema meriterebbe lunga riflessione. Non dovete essere "produttori a qualunque costo del consenso" di chi vi legge, vede, o ascolta. Non è la persuasione il vostro compito primo, ma la convinzione. E la convinzione è il risultato di una argomentazione razionale, semplice e cordiale, mite e luminosa.

Ma tutto questo non è tutto; anzi non è neppure il più importante. Come abbiamo visto, tutto l’itinerario di Newman è stato il cammino del pellegrino verso la verità. Egli ha scritto: "la verità in quanto tale deve guidare tanto la condotta politica che quella privata". Il vostro è un servizio alla coscienza perché giudichi con verità. E’ quanto insegna S. Paolo: "rifiutando le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunziando apertamente la verità, ci presentiamo davanti ad ogni coscienza, al cospetto di Dio" [2 Cor 4,2].

Si può scrivere davanti alla piazza; si può scrivere davanti al potente di turno: Newman ci insegna a scrivere e parlare "davanti ad ogni coscienza": "al cospetto di Dio".

Detto in altri termini. Si può fare un uso strumentale della propria ragione, quando si parla o si scrive. Uso strumentale significa che non intendo giudicare lo scopo che mi prefiggo; mi preme solo trovare la modalità comunicativa per raggiungerlo. Un uso strumentale della ragione comporta non raramente interloquire non con la coscienza ma con le passioni e/o gli interessi dell’interlocutore.

Certamente o molto probabilmente altri vi diranno o anche voi sarete tentati di pensare che questa posizione non la si può tenere nell’agorà della comunicazione; che chi la tenesse alla fine scomparirebbe dalla scena: "ammiriamo la vostra semplicità, ma non vi invidiamo la follia" [Tucidide, Storia della guerra del Peloponneso V, 105, 20], direbbe chi conosce il mondo.

Concludo allora con le parole di Newman "Che tutti coloro, dunque, che riconoscono la voce di Dio che parla dentro di loro e li incita verso il cielo, aspettino con pazienza la Fine, esercitandosi e operando diligentemente, in attesa di quel giorno in cui saranno aperti i libri e tutto il disordine degli affari umani riesaminato e messo in ordine (…); quando i saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre" [op. cit., 202-203].


LETTURE/ La lezione di von Balthasar: così la Chiesa rinasce dai santi di Danilo Zardin - martedì 8 febbraio 2011 – il sussidiario.net

“Questa nostra era di restaurazione non ci deve illudere sulle dimensioni della crisi nella quale, insieme con il mondo, si trova coinvolta anche la Chiesa. Quadri e forme instaurate di recente possono non avere una lunga durata: dietro di loro, a distanza ravvicinata, il ghigno di una cruda volontà di distruzione minaccia di annientarle tutte”.

Lo sguardo profetico di Hans Urs von Balthasar non aveva timore di forzare fino al paradosso estremo il suo giudizio sui rischi di un certo trionfalismo cattolico tradizionale, che poteva legare a sé le grandi masse senza riuscire a scendere nella profondità del cuore della persona. Adunate oceaniche e conformismo esteriore delle pratiche devozionali, uniti alla ricerca di un sostegno del potere, per fare della religione lo strumento di una rigenerazione morale dello spirito delle nazioni, consentivano di mantenere in piedi un'egemonia che minacciava però di ridursi a un involucro povero di sostanza.

Si pensava di governare ancora la società perché la fedeltà diffusa agli obblighi di uno stile di vita condiviso sembrava resistere agli urti delle volontà di distacco e alle rivendicazioni striscianti di autonomia. Ma nelle impalcature del grande edificio cristiano ereditato dal passato si allargavano crepe inquietanti, che erano il segnale di un sommovimento sulla via di manifestarsi in tutta la sua forza dirompente. Se i grandi numeri, le divise da parata, le bandiere e i distintivi da ostentare con orgoglio erano la punta emergente di una fede che veniva da molto lontano, altrettanto vero era che ci si trovava di fronte a un mondo che cominciava a camminare sempre di più in una direzione diversa, con la presunzione di aver trovato una strada migliore per dare felicità all’uomo e rispondere all’ampiezza di tutto il suo desiderio.

Il verdetto severo che abbiamo citato all’inizio coincide con l’esordio di un’opera tra le più note della prima maturità del grande teologo cattolico del Novecento: Abbattere i bastioni, apparsa per la prima volta in lingua tedesca nel 1952, a breve distanza dalla fine del secondo conflitto mondiale. Si era, allora, nel pieno di un ciclopico sforzo collettivo di ricostruzione, soprattutto nella metà del mondo sottratta all’avanzata del totalitarismo staliniano e consegnata al dominio delle potenze filo-occidentali. Il rilancio della vita economica e il decollo di una modernità sociale più compiuta e vigorosa coincidevano anche per la Chiesa con l’uscita da una stagione di sofferenze, di sconfitte amare e di dure limitazioni.

L’aria nuova che si respirava alimentava il desiderio di una ripresa del sentimento religioso. Incoraggiava a perseguire le strategie per una riconquista, in un ambiente che sembrava ancora facile da addomesticare, pronto a un radioso progresso in cui si pensava impossibile recidere i legami con la sua più remota matrice cristiana. Davanti ai seminari colmi di giovani desiderosi di dedicare la loro vita all’ideale del servizio religioso, con le parrocchie che funzionavano a massimo regime e reclutavano nelle reti delle associazioni cattoliche una larga porzione di tutti i ceti sociali, non era assolutamente scontato percepire i contorni della sfida che si era aperta.

Dietro lo schermo della cristianità ancorata ai suoi rigidi schemi di regole e alla impalcatura robusta delle sue strutture capillari, lo scenario che si profilava era quello del divorzio tra il guscio esterno delle traduzioni storiche in cui si era calata la fede del cristianesimo e la logica nuova di un'emancipazione dell’uomo moderno che pretendeva di costruirsi da sé, distorcendo, o annullando del tutto la sua dipendenza da un Dio respinto ai margini del recinto della vita: al punto che ci si poteva cominciare a chiedere se era la Chiesa che stava abbandonando l’umanità, o se era l’umanità che aveva voltato, irriconoscente, le spalle, preferendo andare per la propria strada.

Ma era ancora facile illudersi che per arginare le forze di opposizione bastasse puntare i piedi con tenacia e riaffermare in tutti i suoi termini l’appello che la fede cristiana tradizionale continuava a rivolgere agli uomini. Solo una minoranza capace di guardare più lontano, attaccata al nucleo più genuino di quella stessa fede di ogni tempo, prima e al di là delle forme di cui essa si rivestiva per comunicarsi al mondo, era così libera e disponibile da poter percepire tutta la radicalità della nuova situazione che si stava disegnando.

La comparsa di una modernità che voleva rendersi indipendente, sempre di più secolarizzata anche quando continuava a parlare un linguaggio esternamente amico della fede religiosa, doveva diventare una provocazione che costringeva la fede dei cristiani a un ripensamento radicale. Il mondo che cambiava chiamava la Chiesa a una conversione che non poteva non sfociare in una grande opera di “purificazione”: si doveva risalire all’essenziale, lasciar cadere il resto, e proseguire con decisione su una traiettoria lungo la quale non bastavano più le sicurezze dell’antico dominio cristiano sulla totalità della realtà sociale.

Balthasar è stato fra coloro che questa sfida di cambiamento hanno saputo accoglierla più lucidamente. Rimettersi oggi a confronto con la sua proposta di “riforma” dell’esperienza vissuta del cristianesimo, vuol dire ripercorrere dall’interno le tappe di un cammino che, nei decenni successivi, avrebbe conosciuto sviluppi ed elaborazioni fondamentali, arrivando fino a toccare noi che viviamo nella realtà del tempo presente.

Ottima idea è stata, perciò, quella dell’editrice Jaca Book, che ha voluto ripresentare il testo del 1952 unendolo con l’altro, ugualmente fortunato, pamphlet di dieci anni successivo, redatto da Balthasar in pieno svolgimento del concilio Vaticano II: cioè Solo l’amore è credibile (1963), di cui già si è avuto modo di parlare sulle pagine de Ilsussidiario.net. Ne è venuto fuori un volume che è ora una preziosa via di accesso ai contenuti fondamentali della visione dell’impatto della fede cristiana sul mondo moderno cara al grande maestro della teologia contemporanea, arricchita dalla pregevole introduzione di uno dei massimi conoscitori italiani della sua opera: Elio Guerriero (La percezione dell’amore, Jaca Book, Milano 2010).

Qui possiamo soltanto accennare al senso ultimo della proposta di cui la scrittura religiosa di Balthasar ha voluto rendersi strumento. Quando la “struttura storica” di una grande tradizione era chiamata a ridefinire se stessa, davanti a un mondo che non era più quello delle epoche che l’avevano generata, le opzioni erano soltanto due, scrive Balthasar: o cedere alla sua distruzione aggressiva, dall’esterno, per opera degli agenti corrosivi che trascinavano la storia su un crinale totalmente cambiato, oppure disporsi all’unico mezzo che poteva consentire di “riacquistare la propria vitalità per il presente e il futuro”.

Questa via era quella della rigenerazione interna, della rianimazione sostanziale del centro da cui si irradiano tutte le manifestazioni della vita cristiana. Solo questa poteva diventare la forza del vero “superamento”, della “vitalità che dà anima a tutte le tradizioni: una vitalità che conosce il passato e, tuttavia, è capace di distaccarsene nella misura in cui lo esigono il senso di responsabilità e la disponibilità al futuro”.

Per vincere l’inerzia di un cristianesimo che minacciava di staccarsi dal flusso della vita reale del mondo, l’unico rimedio era lasciare che dal suo seno si sprigionasse una rinnovata “forza vitale”. Ci voleva una nuova “giovinezza”. Ma questa non poteva che venire dal fatto di “ripartire da Cristo”: per rifare “oggi”, in modo diverso, quello che hanno fatto “i grandi della storia cristiana della salvezza”. Non per ripetere passivamente le loro soluzioni, fossero pure quelle di “Tommaso” o di “Newman”. Ma per ricreare le condizioni del dinamismo che ha permesso ai maestri della fede del passato di giungere al loro approdo esemplare: cioè ricominciando sempre e di nuovo dall’origine di tutto.

Per questo, secondo Balthasar, la strada del rinnovamento della Chiesa nel mondo moderno non poteva che passare attraverso la fioritura luminosa di una nuova “santità”. Solo l’energia della santità vissuta era capace di reimmettere la forza dello Spirito nella realtà del tempo che cambia. Per lasciarsene conquistare, la Chiesa doveva uscire dai “bastioni” della fortezza in cui si era chiusa, alla sommità della costruzione di un passato ormai destinato a finire. Doveva imparare ad andare di nuovo incontro al mondo, “scendendo”, come Cristo, nella desolazione anche più arida e ostile di un'umanità da abbracciare nello slancio di una carità totalmente libera e disponibile, totalmente gratuita e risanatrice. Ci volevano una nuova “responsabilità” e un nuovo tipo di “apostolato”, lanciati in un orizzonte risolutamente “missionario”.

Per ridiventare “luce del mondo” e riportare, così, il “lievito” della salvezza cristiana dentro la vita concreta dell’umanità sofferente, la Chiesa dei tempi moderni doveva inventare anche forme nuove per calarsi nella società che la avvolgeva da ogni lato. Era scoccata ormai “l’ora dei laici”. E per riportare nel cuore della vita del mondo il centro dell’amore di Cristo che tutto muove e tutto attira a sé, la forma suprema a cui Balthasar volle dedicare la sua intera esistenza di teologo e di cristiano cominciò a essere quella di affidare il compito di una nuova testimonianza cristiana a comunità di persone che potevano unire la “vita cristiana radicale secondo i consigli evangelici con l’esistenza in mezzo al mondo”, “sia esercitando professioni profane, sia con il sacerdozio ministeriale”, portando il contagio di una presenza carica di fascino umano dentro la realtà del lavoro, della cultura, della costruzione delle relazioni sociali. Per lui, “l’attività di scrittore rest(ò) sempre un prodotto secondario”.
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