sabato 12 febbraio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    In Africa e in Asia chi si converte muore di Anna Bono, 11-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
2)    Mubarak si è dimesso. Il potere presto all'esercito di Riccardo Cascioli, 10-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3)    11/02/2011 - EGITTO – ISLAM - In Egitto i giovani stanno cambiando l’Islam, separando religione e politica di Husani Massri
4)    Con l'unità politica l'Italia ha perso smalto di Giacomo Biffi, 12-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
5)    La "questione cattolica" di Marco Invernizzi, 12-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
6)    Avvenire.it, 12 febbraio 2011, E se provassimo a ri-umanizzare la malattia? Quando la vita resta orfana della sua stessa fragilità di Salvatore Mazza
7)    Avvenire.it, 12  febbraio 2011, Io non ci andrò, e rifletto. Quelle domande che pesano di Marina Corradi

In Africa e in Asia chi si converte muore di Anna Bono, 11-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Discriminati, perseguitati, consapevoli dell’indifferenza, o peggio ancora, delle forze di sicurezza che li dovrebbero invece proteggere e con la percezione che a nessuno al mondo importi di loro: è questa la condizione di milioni di cristiani.

In India la polizia ha definitivamente ingiunto ai familiari di Saul Pradhan, il pastore pentecostale ucciso l’11 gennaio nello stato di Orissa, di accettare la versione fornita dalle forze dell’ordine, secondo le quali l’uomo sarebbe morto di freddo oppure annegato in un lago. Molti testimoni assicurano di aver visto sul suo corpo, al momento del ritrovamento, fratture ed escoriazioni. L’identità dei suoi assassini è nota e inoltre la sua è stata una morte annunciata poiché Saul Pradhan aveva subito ripetute minacce da parte dei leader indù del suo villaggio che ne pretendevano la conversione: quelli stessi che dopo l’omicidio hanno fatto pressione sulla polizia e sul medico incaricato della perizia post mortem affinché insabbiassero il caso e si provvedesse rapidamente alla sepoltura del cadavere. In Pakistan cresce la preoccupazione per la sorte di Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte per blasfemia, mentre si intensificano le proteste dei fondamentalisti islamici contrari alla proposta di abolire o modificare la legge sulla blasfemia.

Si moltiplicano inoltre le minacce ai giudici per ottenere la liberazione di Mumtaz Qadri, l’assassino reo confesso del governatore del Punjab, Salman Taseer, che il 4 gennaio ha pagato con la vita la propria adesione al movimento nato per ottenere appunto la revisione della cosiddetta “legge nera”. Nei giorni scorsi immagini di papa Benedetto XVI e del ministro per le minoranze religiose Shabbaz Bhatti sono state bruciate in una piazza di Lahore.

A Giava, Indonesia, l’8 gennaio, migliaia di fedeli islamici hanno attaccato tre chiese e altri edifici. A scatenare la collera popolare è stata la sentenza emessa dal tribunale di Temanggung contro un giovane cristiano accusato di blasfemia e condannato “soltanto” a cinque anni di carcere mentre si attendeva un verdetto di morte.

Il primo bersaglio è stato il tribunale, distrutto dalla folla. Poi è stata la volta della chiesa di San Pietro e Paolo il cui parroco è stato picchiato mentre cercava di impedire la profanazione del tabernacolo e dell’eucarestia. Successivamente, nonostante l’intervento di centinaia di poliziotti, sono state date alle fiamme una chiesa protestante e una pentecostale, un orfanotrofio cattolico e un ambulatorio gestito dalle Suore della Provvidenza.

In quello stesso giorno, nelle Filippine, degli estremisti islamici hanno attaccato un villaggio cristiano vicino a Mindanao e ne hanno incendiato le abitazioni costringendo alla fuga gli abitanti e lasciando decine di persone senza tetto.
Le autorità attribuiscono l’aggressione, che fortunatamente finora non ha causato vittime, a un nuovo gruppo armato, nato dalla secessione dal Moro Islamic Liberation Front e guidato da Ameril Umbra Kato, il leader che rifiuta di partecipare ai colloqui con il governo filippino e si dice determinato a proseguire la lotta per creare a Mindanao uno stato islamico. In Nepal, il 29 gennaio, il responsabile del partito monarchico Kamal Thapa ha accusato i cristiani di aver ottenuto con la forza un milione di conversioni dal induismo al cristianesimo da quando nel 2006 è caduta la monarchia e il Nepal è diventato uno stato laico. In realtà i cristiani in Nepal attualmente sono 150.000 e circa 8.000 i cattolici.
In effetti le conversioni al cristianesimo sono in aumento, ma senza pressioni né tanto meno coercizione. Il fatto è che i cristiani avvicinano la gente e assistono i bisognosi di qualsiasi ceto sociale e religione. «È questo – ammette Keshav Chaulagan, della World Hindu Foundation – che porta le persone a convertirsi».

Sono forzate invece, senza dubbio, le conversioni all’islam dei cristiani di Besheno, città dell’Etiopia meridionale abitata per il 94% da musulmani. Da tempo la minoranza cristiana è vittima di aggressioni da parte di fondamentalisti islamici che mirano a costringerli a convertirsi oppure a lasciare la città. Nelle ultime settimane gli attacchi e le intimidazioni hanno preso di mira soprattutto la minuscola comunità degli evangelici. Le autorità della città rifiutano di proteggere i cristiani e recentemente hanno negato l’autorizzazione a costruire un centro di culto e un cimitero cristiani.


Mubarak si è dimesso. Il potere presto all'esercito di Riccardo Cascioli, 10-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Attorno alle 17,00, ora italiana, dopo 18 giorni di mobilitazione generale del Paese durante i quali si sono susseguiti gli scontri e numerose sono state le vittime, Hosni Mubarak si è dimesso. Il potere è ora nelle mani del numero due del regime, Omar Suleiman, ma a breve dovrebbe passare al Consiglio supremo delle forze armate, come ha annunciato lo stesso Suleiman in un discorso trasmesso in diretta dalla televisione egiziana.


L'opposizione esulta, ma resta guardinga. Israele osserva gli sviluppi con attenzione e realismo. L'egiziano Amr Moussa, leader della Lega Araba, invita la "piazza" a sapere attendere con pazienza. I corrispondenti della stampa occidentale in Egitto sottolineano come da più parti stiano giungendo moniti a mantenere la calma. Facile, dicono infatti, che la situazione possa degenerare, qualora si cedesse alle possibili provocazioni. Gli Stati Uniti stanno cercando di capire ora quale sia l'interlocutore giusto, se Suleiman o l'esercito.
Dopo la clamorosa doccia fredda piovuta sulle decine di migliaia di persone che in piazza Tahrir al Cairo si preparavano ieri sera a festeggiare le paventate dimissioni, l'ora x è dunque giunta.

Ieri sera il presidente è in effetti apparso in tv intorno alle 23 ora locale, ma solo per annunciare al popolo egiziano che non avrebbe lasciato il suo posto fino allo svolgimento delle elezioni, che sono programmate per settembre (anche se non si esclude un anticipo). In realtà, ieri Mubarak ha preso di sorpresa anche i servizi esteri, i giornalisti stranieri e anche alcuni ufficiali dell’esercito che avevano già spifferato la decisione delle dimissioni. Addirittura si era sparsa la notizia che Mubarak avesse già lasciato il Cairo, forse per Sharm el Sheikh, forse per l’estero. E invece – evidentemente dopo un lungo braccio di ferro con i militari – si è presentato in tv smentendo le previsioni di tutti e gelando le speranze di molti.

Nel suo discorso, Mubarak si era impegnato solennemente a “proteggere la Costituzione e il popolo, trasferendo il potere a chiunque sarà eletto il prossimo settembre in elezioni libere e trasparenti”. Il presidente egiziano ha cercato di toccare anche la corda nazionalista affermando con forza che ignorerà “i diktat dall’estero”, con evidente riferimento soprattutto a Unione Europea e Stati Uniti. Mubarak ha comunque detto che delegherà alcuni suoi poteri al vice-presidente Omar Suleiman, ex capo dei servizi, e altro uomo non propriamente di fiducia dei militari.

Ora, ancora più che ieri, il grosso punto interrogativo riguarda la reazione della "piazza" e delle opposizioni: quello che inizialmente era stato annunciato come “il venerdì del confronto” è diventato “il venerdì della festa” senza passare per il temuto “venerdì dello scontro” che avrebbe potuto seguire alla delusione di ieri. Peraltro non si sa ancora quale sia la reale reazione dei vertici militari che sembravano già pronti a gestire direttamente la transizione, sostituendo Mubarak con un Consiglio speciale. Una situazione, questa, già vissuta nel 1952 quando un colpo di Stato rovesciò la monarchia e diede inizio all’era di Nasser.


11/02/2011 - EGITTO – ISLAM - In Egitto i giovani stanno cambiando l’Islam, separando religione e politica di Husani Massri

Le dimostrazioni non si fermano dopo il discorso di Mubarak e la dichiarazione del Consiglio supremo dell’esercito. La comunità internazionale è guidata solo dai propri interessi, ma non capisce i bisogni del popolo egiziano. Occorre sostenere i giovani di piazza Tahrir. La transizione in Egitto è un simbolo che può cambiare il mondo arabo e il pianeta.


Il Cairo (AsiaNews) – Nella Piazza Tahrir non vi sono soltanto rivendicazioni sociali (salari, occupazione, pane, ecc..), ma si sta attuando una mutazione dell’islam. I giovani infatti rifiutano sia la dittatura militare che la repubblica islamica; vogliono uno Stato moderno che garantisca cittadinanza piena a tutti, cristiani o musulmani. Ne è una prova il fatto che dal 25 gennaio, da quando sono iniziate le manifestazioni, la polizia ha cancellato il controllo delle chiese cristiane e non è avvenuto nessun attentato. Proprio per questo, quanto avviene in questi giorni al Cairo può cambiare il mondo arabo e l’intero pianeta. Queste sono alcune delle importanti riflessioni che un’illustre personalità cristiana egiziana ha voluto condividere con AsiaNews. La firma di questo articolo è uno pseudonimo.


Piazza Tahrir trabocca ancora oggi di centinaia di migliaia di giovani e vecchi, uomini e donne, contrariati e scontenti per il discorso di Mubarak di ieri. Ieri sera, il rais, in un messaggio televisivo ha escluso in ogni modo il suo abbandono del potere, come invece continua a chiedere ancora oggi la folla. Mubarak ha solo promesso di cedere alcuni poteri al suo vice Omar Suleiman, ma ha deciso di restare al potere fino alle elezioni presidenziali del prossimo settembre.
Quest’oggi, mentre cresce il numero dei dimostranti bella capitale e in altre città dell’Egitto, il Consiglio supremo dell’esercito ha  dichiarato che toglierà lo stato di emergenza “non appena si conclude la situazione attuale”.

Alcuni suppongono che vi sia divisione fra Mubarak e l’esercito e che i soldati prima o poi sosterranno in modo esplicito la popolazione. Non si conosce tutto il gioco dietro le quinte: è come essere nella nebbia. Ma una cosa è certa: i giovani continueranno a manifestare, domandando sempre di più. È importante mantenere la pressione sul potere e non lasciarlo tranquillo e soddisfatto di parole generiche e promesse vaghe. Questi giovani non smetteranno le rivendicazioni e le manifestazioni continueranno. Sono stati così ingannati e trattati male dal regime che non vorranno abbandonare la piazza. Se smettono, la società viene ripresa ancora tutta in mano alla dittatura. Da questo punto di vista è interessante ascoltare l’intervista di uno degli attivisti più famosi (v.: http://www.youtube.com/watch?v=vL8Vi6CaCCM).

La speranza è che non si crei violenza. Mi sembra che finora da parte dei giovani e dell’esercito vi sia una specie di “gentlemen agreement” nel non ricorrere alla violenza. La violenza l’hanno usata i criminali, non i giovani.

Fa impressione la comunità internazionale. Si rincorrono voci secondo cui una portaerei americana si è portata nel Golfo persico e un’altra nel Mediterraneo orientale, forse per garantire il traffico a Suez; che Israele consiglia all’Egitto una transizione “calma”; che l’Iran augura al Cairo una repubblica islamica a sua immagine e somiglianza…. Di fronte a queste rivolte di popolo, ciascuno cerca il suo interesse. Nessuno di questi poteri stranieri cerca o è attento all’interesse del popolo egiziano. Tutti sono guidati dalla realpolitik e dai propri affari.

A breve termine questo dà frutti, ma a lungo termine è una sconfitta. Gli Stati Uniti ad esempio, hanno sempre sostenuto l’integrismo islamico (Arabia saudita, Talebani, ecc…). In tal modo essi si sono garantiti i profitti del petrolio. Ma la diffusione dell’integralismo islamico nel mondo ha messo a rischio tutta la civiltà occidentale.

Il fatto più grave è che quanto più gli integralisti alzano la voce, tanto più i moderati si zittiscono.
Siamo davanti al rischio di gettare nella spazzatura la cultura e la civiltà mondiale a causa di un gruppo violento e fanatico, che fa tacere i moderati e intimidisce gli occidentali, preoccupati solo di frasi politicamente corrette, di non apparire troppo anti-musulmani, islamofobici.

La più parte degli Stati nell’occidente cade in questo tranello. I governi di sinistra non hanno fatto altro che accogliere, dialogare, e in nome dell’umanità, della tolleranza, hanno prosciugato le casse della sicurezza sociale. Siamo ormai davanti a un fallimento sociale e di civiltà. I governi di sinistra sono stati corrotti. Da parte loro, i governi di destra hanno avuto buon gioco: hanno preso il potere dando una risposta più dura, opponendosi al mondo islamico, senza dialogare.

Quanto succede in questi giorni in Egitto, costituisce un passo importante per il mondo arabo e per il mondo. È ormai chiaro a tutti che quello che stiamo vivendo non è semplicemente un problema interno, ma una questione che abbraccia il mondo intero. Ciò che succede qui supera di molto i confini nazionali. I giovani non stanno solo domandando maggiori sicurezze sociali, ma è l’islam che sta passando attraverso una mutazione. Le richieste dei giovani implicano una precisa distinzione fra religione e politica. Essi rifiutano sia la dittatura militare, sia la rivoluzione islamica stile Iran. Essi vogliono un sistema di governo basato sulla società civile. Vogliono la libertà, uno Stato di tipo moderno. Se l’Egitto fa questo, tutto il mondo arabo potrà seguirlo, perché esso è il Paese leader del mondo arabo-musulmano. Ma se questo avviene nel mondo arabo, potrà seguirlo il mondo intero. L’Egitto è un simbolo.

Anche se la maggioranza dei giovani in piazza Tahrir sono musulmani, essi rifiutano uno Stato musulmano, a modello dei Fratelli musulmani. Questi sono sempre più marginalizzati e hanno molto meno peso e influenza di quanto si pensi. Mubarak attribuiva a loro un immenso potere. Ma il motivo è ormai chiaro: agitando lo spettro dell’integralismo islamico davanti agli Stati Uniti, riceveva grossi aiuti economici. Esagerare il pericolo dei Fratelli musulmani nei confronti di Israele, era un gioco facile per irretire gli Stati Uniti, facendo intendere che senza di lui ci sarebbe stata la guerra, la violenza, lo Stato islamico.

Vale la pena notare un fatto: dopo il 25 gennaio, la polizia ha smesso la custodia e la vigilanza davanti alle chiese. Si poteva temere che ci sarebbero stati attacchi e distruzioni – come è avvenuto il 31 dicembre nella chiesa di Alessandria -  e invece non è successo niente. Tanto che alcuni sospettano che l’attentato di Alessandria sia stato provocato da ambienti vicini al ministero egiziano degli interni.

Voglio fare un appello a voi occidentali: sostenete moralmente i giovani egiziani; fate pressione sui vostri governi e sui grandi organismi internazionali che difendono la libertà religiosa e le libertà civili, perché i Paesi musulmani accettino una visione moderna dello Stato, dove c’è uguaglianza per tutti, libertà di espressione, di pensiero, di religione e di conversione. Insomma, perché ci sia una distinzione radicale fra l’islam e la politica. Proprio come chiedono i giovani di piazza Tahrir.


Con l'unità politica l'Italia ha perso smalto di Giacomo Biffi, 12-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Anticipiamo qui sotto una riflessione del cardinale Giacomo Biffi nel libro in uscita da Cantagalli "L'Unità d'Italia. Centocinquant'anni (1861-2001)" (pp. 88, euro 8).


Il Risorgimento italiano è un fenomeno storico molto complesso, che si sviluppa tra i primi e gli ultimi decenni dell’Ottocento. In esso – sullo sfondo di rilevanti evoluzioni economiche e sociali – confluiscono e interagiscono apporti culturali e politici di varia natura, nonché precise iniziative diplomatiche e militari. L’esito del Risorgimento, indubbiamente positivo per molti aspetti, è in una nuova condizione della penisola, che passa dal frazionamento all’unità statuale, dall’egemonia straniera all’indipendenza, da una pluralità di regimi monarchici, assolutisti, a preponderanza aristocratica, a un unico regime costituzionale a prevalente indirizzo liberal-borghese. Tale processo – per quanto vari siano stati i contributi teoretici, sentimentali, operativi – si è svolto di fatto sotto la guida determinante della dinastia sabauda e ha trovato la ragione precipua della sua efficacia nella volontà e nella capacità di espansione del Regno Sardo.



UNA PERSUASIONE E UNA SPERANZA

Già nel nome stesso – suggestivo e fortunato – si può capire da quale persuasione e da quale speranza il Risorgimento sia stato mosso e ispirato.La persuasione sta in una valutazione globalmente negativa delle condizioni nelle quali in antecedenza si trovava l’Italia: “Noi siamo da secoli calpesti e derisi perché non siam popolo, perché siam divisi”.

“Perché siam divisi”, canta l’inno di Mameli (nella foto): come si vede, l’aspirazione all’unità politica dell’Italia comincia a diffondersi. Conquista anche Alessandro Manzoni, che per amore di questo ideale compie perfino il sacrificio di scrivere uno degli endecasillabi più brutti della letteratura italiana: “Liberi non sarem se non siam uni”. Ci si rende conto inoltre di qualche evidente incongruenza della situazione: per esempio, le decisioni che davvero determinavano il benessere o il malessere delle nostre popolazioni erano prese altrove, a Vienna o a Madrid; e le armi erano impugnate dagli italiani di solito in difesa degli interessi altrui. Tutto questo era senza dubbio deplorevole e poco gratificante.

Da qualche tempo inoltre serpeggiava tra i più pensosi la convinzione di un generale declino e quasi di un disfacimento inarrestabile. Nel 1790 Pietro Verri – che pure viveva in una delle regioni meglio amministrate – poteva scrivere: «Amo la mia patria, compiango i suoi mali e morirò prima che ne disperi il risorgimento»; offrendoci così, tra l’altro, una delle prime attestazioni della parola fatidica, almeno nella sua valenza politica. La speranza era che l’Italia – una volta unificata e divenuta indipendente – ritornasse con onore e autorità a primeggiare nel consesso delle nazioni. Di più, c’era il rammarico – particolarmente pungente in chi abitualmente si nutriva dei classici latini e si ricordava dell’ “elmo di Scipio” – per una terra, una volta di dominatori, che da tempo non conosceva più né fierezza guerriera né ebbrezza di vittoria: “...la gloria non vedo, non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi i nostri padri antichi”.

Certo, il termine “risorgimento” evoca più che altro un’immagine. Si tratta in fondo di una specie di “parabola” della nostra vicenda: l’Italia era “morta” e adesso ci si adopera a farla “risorgere”. Ma le immagini vanno verificate nella loro attinenza con la realtà che intendono rappresentare e le “parabole” chiedono di essere valutate nella loro oggettiva opportunità.



QUALE RESURREZIONE?
Credo sia innegabile che alla fine del secolo XVIII le condizioni sociali, politiche, economiche della penisola postulassero qualche trasformazione non superficiale, e qualche rinnovamento fosse auspicabile e necessario. E va riconosciuto che quanto è avvenuto ha provocato un mutamento profondo nelle strutture pubbliche, nella legislazione, nella vita associata, che oggettivamente va giudicato benefico.

Sotto questo profilo il Risorgimento non può ricevere, entro la lunga storia d’Italia, una valutazione negativa. Ma nella sua denominazione, oltre che nella storiografia più diffusa e, conseguentemente, nella retorica divulgata, si tende a lasciar credere che si sia trattato di una rinascita totalizzante: un passaggio degli italiani dalle tenebre alla luce, se non proprio dalla morte alla vita. Prima del 1860 – si ama supporre – tutto è degenerazione e squallore; dopo il 1860 tutto riprende a fiorire: il termine stesso “risorgimento” insinua o suppone proprio questa amplificazione che invece chiederebbe, a nostro parere, di essere attentamente verificata.

Senza disconoscere che in campo politico, sociale e anche economico (almeno per alcune regioni settentrionali) si siano dati effettivi progressi, vorremmo domandarci se si possa anche parlare – in che senso, con quale legittimità e con quale ampiezza – di un “risorgimento” culturale, morale e spirituale del nostro popolo, tale da avvantaggiarlo nella stima delle nazioni.



VITALITA' DEL SETTECENTO ITALIANO

Fino allo sconquasso napoleonico si irradia ancora dall’Italia su tutti i popoli una luce ammirata di civiltà, di genialità artistica, di scienza. Non è solo la memoria e il riverbero residuo di un magistero antico che si è estinto: è un magistero che è ancora in atto. Le nostre regioni non sono soltanto i musei degli straordinari capolavori del passato: sono laboratori attivi di varia umanità. Dal mondo non si guarda all’Italia come si guarda all’Egitto o alla Grecia: qui risuonano ancora voci che si fanno ascoltare. I segni di questa perdurante vitalità si ritrovano un po’ in tutti i campi: ne elenchiamo alcuni, così come ci viene.

A Vienna capitale dell’Impero asburgico, i “poeti cesarei” non hanno nomi tedeschi: si chiamano Apostolo Zeno e Pietro Metastasio; versificano in italiano e sono intesi da tutti, allo stesso modo che italiano è il linguaggio dell’opera lirica. A Parigi per tutto il Settecento “les italiens” hanno una presenza cospicua nella vita culturale e artistica della metropoli. Nel secolo XVIII nell’intera Europa si costruiscono chiese e palazzi sui modelli italiani, prima secondo gli stilemi barocchi e roccocò poi su quelli palladiani e neoclassici. Palladiani e neoclassici, sul gusto italiano, sono le dimore dei ricchi possidenti e dell’edilizia pubblica negli Stati nordamericani, soprattutto al Sud.

Tra il 1750 e i primi decenni dell’Ottocento la nuova capitale russa di San Pietroburgo acquista la sua tipica scenografia con i palazzi edificati da Bartolomeo Francesco Rastrelli († 1771), da Antonio Rinaldi († 1794), da Giacomo Quarenghi († 1817). La rilevanza della pittura italiana nel mondo – iniziata con Giotto nel secolo XIII e proseguita ininterrottamente per cinque secoli – arriva almeno a Giambattista Tiepolo († 1770). Nella scultura l’arte di Antonio Canova (1757-1822) ha un’influenza enorme e senza confini: artisti di ogni paese si formano alla sua scuola e ne diffondono ovunque i princìpi e i modi.

La musica sinfonica, non solo quella operistica, nasce in Italia. Ci limitiamo a citare i nomi di Arcangelo Corelli († 1713), Alessandro Scarlatti († 1725), Domenico Scarlatti († 1757), Antonio Vivaldi († 1741), Tomaso Albinoni († 1750), Giovanni Battista Sammartini († 1775). Mozart viene a studiare contrappunto a Bologna dal Padre Giambattista Martini († 1784). Del resto, come è stato detto, in quegli anni «l’Italia era ancora la patria della musica e la mecca di tutti gli studenti che aspiravano alla composizione». Gli stessi strumenti da concerto raggiungono qui la loro forma insuperata, e i liutai cremonesi non hanno rivali (basterà menzionare gli Amati, gli Stradivari, i Guarneri).

Nel mondo scientifico l’Italia è stata interlocutrice di tutto rispetto e, finché è stata divisa, ha iscritto nella storia della ricerca una serie di nomi dal prestigio universalmente riconosciuto, quali Marcello Malpighi († 1694), Giambattista Morgagni († 1771), Lazzaro Spallanzani († 1799), Luigi Galvani († 1798), Alessandro Volta († 1827): una stagione felice, che dopo l’unità non si ripeterà più. Nel campo delle matematiche è da ritenersi fondamentale e innovatore l’apporto del torinese Giuseppe Lagrange († 1813).

È la cultura italiana a dotare – molto prima di quella tedesca (dominante in questo campo nel secolo successivo, basterà ricordare i Monumenta Germaniae historica, a partire dal 1819) – l’esplorazione del passato della prima sistematica raccolta di fonti (Rerum italica rum scriptores, in venticinque volumi), per merito di Ludovico Antonio Muratori (†1750). Da Milano Cesare Beccaria († 1794), con un piccolo libro (Dei delitti e delle pene), avviò la scienza criminalistica moderna, influenzando tutte le legislazioni penali fino a quella di Caterina II di Russia. Questa rassegna casuale e quasi rapsodica di notizie dovrebbe essere sufficiente a giustificare qualche riserva nei confronti delle interpretazioni più convenzionali.



LA FINE DEL "PRIMATO"
Paradossalmente, proprio con gli autori che a vario titolo possono ben essere considerati i grandi “vati” del nostro Risorgimento – Foscolo, Leopardi, Manzoni – la letteratura italiana tocca un traguardo che poi non riesce più a oltrepassare. A Risorgimento concluso, non si leverà nessuna voce paragonabile alla loro, che risuoni degnamente e incontestabilmente tra le massime espressioni della poesia universale.

Come si vede, proprio dal momento che, con un governo “italiano”, con un parlamento “italiano”, con un esercito “italiano”, siamo stati accolti nel consesso dei popoli come un soggetto autonomo e ben individuato, parrebbe che non avessimo più niente da dire a nessuno. Naturalmente con le incontestabili eccezioni della musica lirica (basterà pensare a Verdi [† 1901] e Puccini [† 1924]), e del talento di inventore con cui si è imposto Guglielmo Marconi. Le genti italiche – che, divise, in tutti i campi avevano continuato a insegnare qualcosa a tutti – una volta raggiunta la sospirata unità e indipendenza politica, hanno solo cercato di imitare un po’ tutti, specialmente i francesi e gli inglesi, fino a rassegnarsi all’attuale condizione di colonia culturale statunitense.

A questo punto, credo si possa tranquillamente concludere che – se c’è stato un “risorgere” – è stato un “risorgere” relativo e parziale. Anzi, l’unificazione statuale è stranamente coincisa con un certo calo della nostra connaturale creatività. Sul piano dei valori più sostanziali, l’Italia con l’unità ha perso, per così dire, un po’ di smalto. Un osservatore acuto e libero come Riccardo Bacchelli rileva che il sistema politico preunitario era sì caratterizzato da «debolezza politica e militare di un insieme di Stati, in quanto tali privi di forza e anche di prestigio, ma quel prestigio non mancò mai all’Italia quale Nazione soprastatale». Sicché – osserva in un altro contesto – «alla realtà umana, politica e storica, ricca e diversa, della Nazione italiana, l’unificazione statale, a cose fatte e a tale confronto, appariva cosa dimessa, limitata, burocratica e rugosa e cipigliosa».

Di tutto ciò è difficile appurare in maniera esauriente e convincente le ragioni e le cause. Non possiamo però non raccogliere, da quel che si è detto, un invito a riesaminare con occhi disincantati ciò che è avvenuto: forse qualche attenzione in più alla natura delle spinte ideologiche che hanno mosso e guidato i “padri” che “hanno fatto l’Italia”, ci può illuminare sulla modestia e sulla opinabilità dei risultati.


La "questione cattolica" di Marco Invernizzi, 12-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Oggi, sabato 12 febbraio, nella Sala della Promoteca capitolina a Roma, con inizio alle 10,00 si svolge il convegno 1861-2011. A centocinquant'annni dall'Unità d'Italia. Quale identità?, organizzato da Alleanza Cattolica. Intervengono l'on. Gianni Alemanno, Attilio Tamburrini, Marco Invernizzi, Mauro Ronco, Francesco Pappalardo, Marina Valensise, Giovanni Formicola, mons. Luigi Negri, gli onn. Alfredo Mantovano, Alessandro Pagano e Massimo Polledri, quindi Massimo Introvigne e Giovanni Cantoni. Una omonima raccolta di saggi storici e intepretativi, curata da Oscar Sanguinetti e Francesco Pappalardo (Cantagalli, Siena) viene presentata nell'occasione così come un manifesto, sintetizzato nello slogan «Unità sì, Risorgimento no», con cui si chiede di non dimenticare il senso autentico dell'identità italiana imperniata sulla fede cattolica affinché sia possibile operare efficacemente per una "memoria condivisa" che non rinunci alla verità. Quello che segue è il testo di una delle relazioni presentate al convegno.



La questione cattolica nel Risorgimento italiano



Si è soliti sovrapporre la “questione cattolica” e la “questione romana” a proposito del Risorgimento. In realtà i due problemi hanno storie ed esiti diversi. La questione romana esplode nel 1870 e si conclude dal punto di vista giuridico e politico nel 1929, mentre la questione cattolica, che è soprattutto un problema culturale, rimane aperta durante tutti i regimi politici che si succedono in Italia, il liberale, il fascista, il repubblicano.

La Guerra delle Alpi
Mi vorrei occupare soltanto di quest’ultima e cercarne le origini in quello che ormai quasi tutti gli storici chiamano il “lungo Risorgimento”, che comincia con l’invasione francese del 1792 dando vita alla Guerra delle Alpi. Si cercano spesso motivi di identità, oggi, a sostegno di un patriottismo che stenta a crescere e ci si dimentica completamente, nelle scuole come nella letteratura, di questa lunga guerra combattuta sulle montagne del Piemonte e della Liguria, che vide tanti italiani morire per difendere il Regno di Sardegna, che tanta parte avrebbe avuto nel fare l’Italia, dall’esercito della Francia rivoluzionaria.

Durante la Guerra delle Alpi comparvero nuovi combattenti accanto alle truppe regolari: sono gli insorgenti, ossia quegli uomini e quelle donne che scelgono di combattere contro lo straniero, non per le sue diverse origini, ma per la sua visione del mondo incompatibile con quella praticata nei Paesi d’Italia dove s’insedieranno nel ventennio napoleonico, fino al Congresso di Vienna, prima le repubbliche giacobine nel Triennio 1796-1799, poi il regime propriamente napoleonico, fino alla sconfitta del 1814.

La questione cattolica comincia qui ed assume subito, con evidenza, una caratteristica esplicitamente culturale, nel senso che questi strani italiani che avevano convissuto con spagnoli e austriaci, insorgono invece di fronte ai nuovi padroni che cercano di cambiare il loro modo di vivere, mettendo in discussione i fondamenti della vita civile, introducendo la leva di massa, aumentando le imposte, vietando le processioni e il suono delle campane, e spesso chiudendo le chiese come ancora oggi si può facilmente notare leggendo le storie di molte chiese fra le innumerevoli che coprono la penisola.

La Restaurazione
Il regime francese in Italia scompare, ritornano al potere quasi tutti i sovrani spodestati, con l’eccezione di Genova e di Venezia. Ma nel periodo napoleonico è avvenuta una cosa importante, la fine del Sacro Romano Impero, nel 1806, quando Napoleone diventa imperatore dei francesi e Francesco d’Asburgo degli austriaci.

Certo, rimane l’impero austriaco, poi austro-ungarico, che riunisce tante nazioni e popoli diversi all’interno dei propri confini. Ma l’ideologia nazionalista penetra anche all’interno di quest’ultimo e lo mina dall’interno penetrando così in tutta Europa, sulla scia della Rivoluzione francese, ma anche della reazione romantica all’illuminismo che era stata, più o meno consapevolmente, una delle basi culturali della resistenza a Napoleone. Il nazionalismo infatti non scompare con la sconfitta del tiranno córso. E’ l’ideologia protagonista dell’800. Di fronte alla Restaurazione e soprattutto alla Santa Alleanza con cui gli Stati cristiani si impegnano a difendersi reciprocamente dalla Rivoluzione, il nazionalismo “entra in clandestinità” come si sarebbe detto in un’altra stagione, cioè costituisce la base ideologica principale di quelle società segrete che sulla scia della massoneria, divenuta impresentabile in Italia dopo l’appoggio fornito a Napoleone, operano nei diversi Paesi della penisola: la Carboneria, anzitutto nel Meridione, i Sublimi Maestri Perfetti di Filippo Buonarroti, il rivoluzionario di professione, i federati di Federico Confalonieri in Lomfbardia, con Silvio Pellico e Pietro Maroncelli.

Il cristianesimo è ancora la cultura dominante per la gran parte delle popolazioni, viene professato dai governanti che spesso “usano” la Chiesa in un’ottica giurisdizionalista e sostanzialmente nazionalista, così come nelle Chiese stesse si diffondono idee antiromane ostili al Pontefice, e prendono corpo il gallicanesimo in Francia, il febronianesimo in Austria, in Toscana, a Napoli, in Portogallo, mentre i cattolici francesi che guardano a Roma cominciano ad essere chiamati ultramontani. Un cattolico controrivoluzionario come Joseph de Maistre scrive un libro sul Papa che verrà adottato in molti seminari “papisti” e in qualche modo intuisce che la battaglia culturale in corso, oltre che contro le società segrete e le idee esplicitamente sovversive, si deve combattere anche all’interno dei governi della Restaurazione, dove appunto permangono tante idee rivoluzionarie sia di di impostazione illuministica sia di impostazione romantica.

La questione cattolica in Italia prima del Quarantotto
La questione cattolica durante gli anni successivi alla Restaurazione, in Italia, apparentemente non esiste. Il Magistero pontificio e l’azione diplomatica della Santa Sede sono orientati esplicitamente contro l’opera delle società segrete, contro il razionalismo illuminista e contro lo stesso nazionalismo romantico. Tuttavia i governi della Restaurazione, come accennato, non sono su questa linea e guardano con diffidenza, se non con ostilità, ai cattolici ultramontani o controrivoluzionari. L’esempio del Principe di Canosa è emblematico. L’impressione, che andrebbe verificata e approfondita, è che i cattolici in generale siano in ritardo di fronte ai mezzi che la Rivoluzione usa da tempo per penetrare nell'opinione pubblica con strumenti come libri e giornali.

Iniziative ne nascono, certamente, come i giornali controrivoluzionari di Torino, Modena e Napoli, le cui vicissitudini sono raccontate nell’antico ma prezioso libro di Sandro Fontana sulla controrivoluzione cattolica in Italia. Ma questi giornali devono guardarsi dagli stessi regimi della Restaurazione, così come l’associazione controrivoluzionaria più all’avanguardia in questo settore, l’Amicizia cristiana (Amicizia cattolica dopo il 1815) del ven. Pio Bruno Lanteri, chehh viene sacrificata, cioè condannata all’estinzione, nel 1827, dallo stesso governo piemontese. Fontana sostiene la tesi che la cultura controrivoluzionaria italiana di questo periodo è soprattutto debitrice di quella proveniente dalla Francia, dove con la fine di Napoleone si sviluppa un fiorente e fecondo ambiente di controrivoluzionari, che producono diverse opere poi tradotte nel resto d’Europa: Lamennais, De Bonald, il già ricordato de Maistre. Infatti, in Italia la cultura controrivoluzionaria non riesce a emergere, nonostante importanti figure di intellettuali e uomini di governo, fra cui Clemente Solaro della Margarita, mons. Baraldi, Monaldo Leopardi, padre Ventura, il già ricordato principe di Canosa. Insomma tira una brutta aria per i cattolici militanti, se posso esprimermi in questo modo. Qualcuno, come il beato Antonio Rosmini, tenta una strada diversa, dopo avere frequentato e condiviso gli stessi ideali delle Amicizie.

Rosmini ritiene sostanzialmente inguaribile l’Impero austriaco di cui è suddito, essendo nativo di Rovereto, perché lo ritiene malato di un giurisdizionalismo che soffoca e compromette l’azione della Chiesa, privata della sua libertà e avvolta in catene, apparentemente d’oro, ma sempre ostili alla libertas Ecclesiae. Di conseguenza crede che il desiderio di indipendenza e di libertà che muove i popoli nel corso del XIX secolo non sia necessariamente incompatibile con il cristianesimo ma che, al contrario, quest’ultimo potrebbe riempire di contenuti positivi i movimenti popolari che agitano la vita nazionale. Questa strada diversa sembra trovare una conferma con l’elezione pontificia del beato Pio IX, anche lui come Rosmini molto favorevole a che i cattolici si pongano alla testa del movimento nazionale. Nasce così il tentativo neo-guelfo, come è stato successivamente ricordato dagli storici, di mettere i cattolici e il Papa alla guida del processo di unificazione della Penisola, in una prospettiva federalista che avrebbe rispettato le peculiarità dei popoli ma anche le differenze fra gli Stati italiani.

Oltre a Rosmini, che dedica alcuni libri al tema e viene inviato nel 1848 dal governo piemontese al Papa per cercare di fare decollare l’iniziativa neo-guelfa, il principale punto di riferimento del neoguelfismo è un altro prete, seppure su posizioni dottrinalmente molto diverse e di dubbia ortodossia, Vincenzo Gioberti, che diventa per un breve periodo capo del governo piemontese e soprattutto è importante per le sue opere, in particolare Del Primato morale e civile degli italiani del 1843, che ha una straordinaria diffusione. Ma l’illusione dura meno di due anni, fino all’allocuzione del 29 aprile 1848, con la quale il Pontefice rifiuta il proprio assenso a che le truppe pontificie entrino in guerra contro l’Austria. Immediatamente le grida “viva Pio IX” che tutti i settari avevano urlato per due anni, si rivoltano contro Papa Mastai che diventa, e con lui la Chiesa, il principale nemico dell’unificazione.

L’alleanza con l’impero austriaco
Il Papa spiegherà ripetutamente che l’ostilità della Santa Sede all’unificazione non è di principio, ma nel modo in cui si sta attuando. Ricorderà pure che un potere temporale è necessario perché la Chiesa possa svolgere liberamente la sua missione spirituale, ma che l’entità del territorio è discutibile, così come si comprenderà dopo il Trattato e il Concordato con lo Stato italiano del 1929. Ma ormai, dopo il 1848, lo scontro fra la Chiesa e il movimento nazionale è nelle cose. E la Chiesa si trova di fatto alleata con l’impero guidato dal giovane imperatore Francesco Giuseppe, anch’esso diviso in almeno tre componenti culturali diverse, delle quali soltanto una favorevole a instaurare un rapporto con la Chiesa che restituisca a quest’ultima la libertà che il giurisdizionalismo le aveva sottratto.

Sono i circoli culturali e politici che si ispiravano all’opera evangelizzatrice del santo redentorista ceco san Clemente Maria Hofbauer, che morirà a Vienna (1750-1820), a influenzare positivamente una politica imperiale favorevole a una effettiva conciliazione con la Chiesa, che culmina nel Concordato del 1855, nel quale cadono molte delle restrizioni alla libertas Ecclesiae del precedente giurisdizionalismo. Ma questa politica imperiale filo cattolica non durerà e negli anni successivi Vienna ritornerà all’antico giurisdizionalismo, pur mantenendosi sempre formalmente alleata alla Santa Sede. Così i cattolici italiani dovranno entrare nell’ordine di idee di fare da soli.

E così faranno, lentamente, in modo sotterraneo fino al 1861, ancora di fronte alla difficoltà dovuta all’esistenza di Stati diversi, in parte estranei, in parte anche ostili, come accennato. Sempre più legati al Papa, al quale guarderanno come all’unico punto di riferimento destinato a sopravvivere nel clima di profondi mutamenti rivoluzionari in corso, i cattolici italiani getteranno le basi di ciò che nascerà dopo l’unificazione, la Società della gioventù cattolica italiana fondata da Mario Fani e Giovanni Acquaderni nel 1868, e quindi l’Opera dei Congressi nel 1874.


Avvenire.it, 12 febbraio 2011, E se provassimo a ri-umanizzare la malattia? Quando la vita resta orfana della sua stessa fragilità di Salvatore Mazza

C'era una volta il medico di famiglia. Quando veniva a casa gli si faceva trovare la poltroncina accanto al letto, gli si offriva il caffè, o un bicchierino – «ma proprio un goccio!» –, si parlava. Magari a casa tua c’era stato anche per guardare la levatrice far nascere qualcuno. Spesso succedeva che capitasse lì per chiudere gli occhi di qualcun altro. Ecco, quando si parla di "umanizzazione della medicina" viene naturale pensare a quel medico. Con qualche rimpianto, pensando all’asettica freddezza di una medicina moderna che, se ci ha regalato una manciata d’anni di speranza di vita in più rispetto anche a solo trent’anni fa, tanto ci ha anche tolto in termini di relazione.

Ma forse, mentre si invoca una medicina più vicina all’uomo, dovremmo, tutti quanti, pensare alla necessità – contemporanea o forse perfino precedente – di ri-umanizzare la malattia, la sofferenza, la stessa morte. Viviamo in un’epoca, infatti, in cui tutto ciò che è dolore, sofferenza, invecchiamento, morbilità, viene spinto ai margini. La cultura della vita è declinata in un culto della vita inscritto nelle coordinate di gioventù, salute e bellezza: e alla medicina è questo che per prima cosa si chiede, all’inseguimento di una "perfezione", di un’immortalità di cui mai carezzeremo neppure l’illusione. Lo sappiamo tutti. Ma è bello crederci.

È facile, in fondo, ignorare l’idea stessa della malattia, rimuoverne lo spettro, renderla estranea alla vita. Fin che dura. Fin quando la nostra fragilità si rivela. Si arriva così al paradosso che la vita, il "bene indisponibile" per eccellenza in tutti i tempi e in tutte le culture, è oggi ancora tale, sì, ma fino a un certo punto. Indisponibile finché la salute c’è – e guai a non rispettare le indicazioni per la prevenzione, in alcuni casi si può persino finire in galera – salvo poi essere rimessa prontamente nella disponibilità dei singoli quando quella comincia a zoppicare, quando tutto ciò che avevamo rimosso si fa concreto e presente. Ma a quel punto i sistemi sanitari sono già diventati come il banchiere di Mark Twain, quello che ti presta l’ombrello quando c’è il sole e te lo chiede indietro quando piove; e "qualità della vita" non definisce l’indispensabile compromesso da trovare tra cure, terapie e assistenza dovute a ogni malato, ma un concetto astratto che misura la nostra illusione prometeica. De-umanizzando la malattia, insomma, la vita resta unicamente un bene misurabile sul metro soggettivo, e la decisione sulla sua "qualità" nient’altro che un compromesso da fondare sul consenso del momento, suscettibile, domani, di spostarsi un po’ più in là.

Nessuna sorpresa, in questa situazione, se Beppino Englaro ha definito «crudeli» le suore che per tre lustri hanno assistito la figlia. Nessuna sorpresa per i ricorsi contro il divieto delle diagnosi prenatali. Nessuna sorpresa per le tentazioni eutanasiche ed eugenetiche. È quello che succede quando l’imperfezione, la malattia, sono ritenute estranee alla vita, accidente e non sostanza del nostro esistere. Non c’entra nulla, in tutto questo, la presunta contrapposizione tra cultura "cristiana" e cultura "laica". E del resto, quando nel marzo del 2006 Benedetto XVI declinò i cosiddetti valori non negoziabili, al capoverso successivo fu deciso nel precisare: attenzione, questi princìpi non sono verità di fede... sono iscritti nella stessa natura umana e quindi sono comuni a tutta l’umanità. C’entra, piuttosto, la capacità della nostra cultura di tornare a capire tutto quello che i nostri nonni sapevano benissimo.


Avvenire.it, 12  febbraio 2011, Io non ci andrò, e rifletto. Quelle domande che pesano di Marina Corradi

Alle donne che scenderanno in piazza domani, in una sorta di sollevazione contro l’immagine di donna che esce da un mese di cronache di feste e confessioni di escort, vorrei porre qualche domanda. Il “manifesto” della iniziativa parla di «baratro culturale», di «Italia ridotta a un bordello» – ci scusino i lettori, ma questo è lo “spirito del tempo”. Qualcuno, qualcuna si è accorta ora delle code davanti agli studi dove si scelgono le future vallette, o del diffuso sogno di entrare nella “scuderia” di Lele Mora, sogno per cui alcune sono disposte a tutto. «Se non ora, quando», è il grido della manifestazione di domani. E sembra l’esclamazione di chi tardivamente si sia guardato attorno, scoprendo che l’aria che tira non gli piace.

La prima domanda è dunque dove erano tante di quelle che sfileranno domani, in questi vent’anni. La maggior parte di loro proviene da quella cultura che è il lascito tardivo di femminismo e Sessantotto: la cultura del «Io sono mia», che predicava la piena autonomia di una donna finalmente liberata da condizionamenti del passato, maschilisti o – peggio – religiosi. La ricordiamo l’ebbrezza di questa liberazione, trent’anni fa: libera, si proclamava quella generazione di ventenni, di fare politica, di studiare e lavorare; libere nel rifiuto orgoglioso di essere “donne oggetto”; libere dal matrimonio come destino obbligato; libere, grazie alla pillola e all’aborto legale, dall’antico giogo di maternità non volute.
La seconda domanda allora è che cosa è stato ereditato, di queste vere o presunte libertà, dalle figlie. Qualcosa deve essersi inceppato nella trasmissione generazionale, se non poche, e soprattutto nelle classi sociali più modeste, declinano questa libertà come totale disponibilità di se stesse, anche di farsi guardare come cose, se occorre, e se ne vale la pena. È il “sistema” che sfrutta e usa le donne, si griderà in piazza – in quella piazza in cui io non andrò. Però quelle sono figlie nostre; cresciute davanti alla tv forse, ma educate da noi. Avete letto il sondaggio di Ilvo Diamanti che chiede agli italiani se considerano gli atteggiamenti di Berlusconi «offensivi contro le donne»? Solo il 37 per cento delle ragazze risponde di sì, e solo il 28 per cento delle trentenni. Insomma, la prospettiva di farsi meteorine in feste di vip, o di usare la bellezza per “arrivare” in fretta non è poi così riprovata. Plagiate da vent’anni di veline? Ma le famiglie, e le madri, dov’erano? Scoprire all’improvviso che le bambine di dodici anni, nelle famiglie più abbandonate ma non solo in quelle, sognano davanti allo specchio “quel” successo; e non sanno, ma ancora per poco, cosa si fa per agguantarlo. Ve ne accorgete oggi? Noi cattolici retrogradi eravamo dunque all’avanguardia?

Su Repubblica però una docente universitaria pone questa distinzione: «Una cosa è che uno scelga i valori del sedere, come la cosa migliore di sé e più preziosa; tutt’altra cosa è che glielo imponga un altro». Tipica declinazione di quel relativismo etico che è da anni il pensiero unico obbligatorio. Secondo il quale nulla è oggettivamente negativo; se una liberamente decide di vendersi, niente da dire. Ma allora cosa si scende in piazza a contestare domani? Le fanciulle, stelline, vallette, meteore che abbiamo visto sfilare sui giornali sono – per lo più – maggiorenni e capaci di intendere. E dunque? Forse il problema è più grande: ma davvero vendersi, o accettare di mostrarsi come un bell’oggetto – libera o no che sia la scelta – non è avvilente in sé, non è contrario alla dignità di una donna, o di un uomo? Non c’era forse qualcosa di primario, di oggettivo che si è buttato via insieme al resto trent’anni fa, quando si gridava «L’utero è mio e lo gestisco io»?. L’ultima domanda, la più importante, è: che cosa trasmettere a una figlia, perché non sogni, sotto sotto, di incontrare Lele Mora? Basterà parlare di “decenza”? (strano ritrovare in bocche laiche questo vecchio termine “bigotto”). Ciò che, crediamo, scrive su un figlio l’orgoglio di non essere in vendita mai è che si senta fin dal primo giorno unico, e amato, e non nato per caso, ma dentro un destino comune e buono; che sappia che quel destino è un compito che lo lega agli altri, e non è risolvibile nell’arbitrio del gioco più comodo o veloce. È la certezza dei cristiani autentici, e forse quella dei laici migliori – le cui speranze, però, sembrano oggi perse o sconfitte. Senza questa certezza del valore assoluto di ognuno, non stupisce che si concepisca di vendersi – e i modi poi, per donne e uomini, sono tanti. Se nessuno ti ha detto che tu non hai prezzo, e il tuo valore è infinito.