domenica 6 febbraio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Giuseppe Garrone e il dottor Oriente, due testimoni per la giornata della vita. Di Rassegna Stampa - 05/02/2011 da www.libertaepersona.org
2)    La Giornata per la vita - Per uscire dall'ideologia della solitudine di CARLO BELLIENI (©L'Osservatore Romano - 6 febbraio 2011)
3)    Eucaristia sintesi del mistero cristiano - Lì dove è scritto il destino dell'uomo di Inos Biffi (©L'Osservatore Romano - 5 febbraio 2011)
4)    LA NECESSITA’ ATTUALE DELLA RIPRESA DELL’APOLOGETICA CATTOLICA di Don Marcello Stanzione, da http://www.riscossacristiana.it
5)    I NOSTRI FIGLI NON NATI - CINQUE MILIONI DI PENSIERI di MARINA CORRADI, Avvenire, 6 febbraio 2011
6)    OLTRE IL FALLIMENTO DEL MULTICULTURALISMO - L’Europa orfana ritrovi la sua memoria di CARLO CARDIA, Avvenire, 6 febbraio 2011
7)    «Gabriele, la vita che mi ha restituito la vita» - Maria attende il suo turno per l’aborto, seduta in ospedale. Poi il lampo di un’incertezza Storia di una ragazza che si è riscoperta madre. E dei volontari del Cav che l’hanno accolta, Avvenire 6 febbraio 2011

Giuseppe Garrone e il dottor Oriente, due testimoni per la giornata della vita. Di Rassegna Stampa - 05/02/2011 - Aborto

Per la giornata della vita segnaliamo due storie molto belle:

1) la vita di Giuseppe Garrone, morto alcuni giorni fa, di Francesco Agnoli:

http://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-giuseppe-garroneuna-vita-per-la-vita-821.htm

Nella foto Ghielmi, mons. Schooyans, Garrone (dietro), Migliori e Rocchi



2) La vita del dottor Oriente, pro life molto attivo:

In principio fu Bernard Nathanson. Parliamo del famoso ginecologo statunitense che al suo attivo collezionò circa 75.000 aborti, fino a quando non si rese conto dell’“umanità” del feto e non fece un vero cammino di conversione che lo portò a scrivere il libro The hand of God (“La mano di Dio”).

Da quel momento in poi, il suo lavoro è divenuto totalmente a favore della vita nascente.

Ma “la mano di Dio” continua ad operare in ogni continente, e anche in Italia, abbiamo il nostro Nathanson: è il dottor Antonio Oriente (foto).

Anche lui, come Nathanson, viveva la sua quotidianità praticando aborti di routine. Abbiamo ascoltato la sua testimonianza nel corso di un convegno dell’AIGOC. Sì, perché lui oggi è il vicepresidente e uno dei fondatori di questa Associazione Italiana Ginecologi e Ostetrici Cattolici…

Praticamente una totale inversione di tendenza, rispetto al modo precedente di vivere la sua professione. La sua testimonianza inizia così: “Mi chiamo Antonio Oriente, sono un ginecologo e, fino a qualche anno fa, io, con queste mani, uccidevo i figli degli altri”. Gelo. Silenzio.

La frase pronunciata è secca, senza esitazione, lucida. La verità senza falsi pietismi, con la tipica netta crudezza e semplicità di chi ha capito e già pagato il conto. Di chi ha avuto il tempo di chiedere perdono. Due cose colpiscono di questa frase e sono due enormi verità: la parola “uccidevo”, che svela l’inganno del termine interruzione volontaria, e la parola “figli”.

Non embrioni, non grumi di cellule, ma figli. Semplicemente. E questa sua pratica quotidiana dell’aborto, il dottor Oriente la riteneva una forma di assistenza alle persone che avevano un “problema”. “Venivano nel mio studio – racconta – e mi dicevano: Dottore, ho avuto una scappatella con una ragazzetta… io non voglio lasciare la mia famiglia, amo mia moglie. Ma ora questa ragazza è incinta. Mi aiuti… Ed io lo aiutavo. Oppure arrivava la ragazzina: Dottore, è stato il mio primo rapporto… non è il ragazzo da sposare, è stato un rapporto occasionale. Mio padre mi ammazza: mi aiuti!”. Ed io la aiutavo. Non pensavo di sbagliare”.

 Ma la vita continuava a presentare il conto: lui, ginecologo, i bambini li faceva anche nascere. Sua moglie pediatra i bambini degli altri li curava. Ma non riuscivano ad avere figli propri.

Una sterilità immotivata ed insidiosa era la risposta alla sua vita quotidiana. “Mia moglie è sempre stata una donna di Dio. È grazie a lei e alla sua preghiera se qualcosa è cambiato. Per lei non avere figli era una sofferenza immensa, enorme. Ogni sera che tornavo la trovavo triste e depressa. Non ne potevo più. Dopo anni di questo calvario, una sera come tante, non avevo proprio il coraggio di tornare a casa. Disperato, piegai il capo sulla mia scrivania e cominciai a piangere come un bambino”.

E lì, la mano di Dio si fa presente in una coppia che il dottor Oriente segue da tempo. Vedono le luci accese nello studio, temono un malore e salgono. Trovano il dottore in quello stato che lui definisce “pietoso” e lui per la prima volta apre il suo cuore a due persone che erano solo dei pazienti, praticamente quasi degli sconosciuti.

Gli dicono: “Dottore, noi non abbiamo una soluzione al suo problema. Abbiamo però da presentarle una persona che può dargli un senso: Gesù Cristo”. E lo invitano ad un incontro di preghiera.

Che lui dribbla abilmente. Passano dei giorni ed una sera, sempre incerto se tornare a casa o meno, decide di avviarsi a piedi e, nel passare sotto un edificio, rimane attratto da una musica. Entra, si trova in una sala dove alcune persone (guarda caso il gruppo di preghiera della coppia che lo aveva invitato) stanno cantando. Nel giro di poco tempo, si ritrova in ginocchio a piangere e riceve rivelazione sulla propria vita: “Come posso io chiedere un figlio al Signore, quando uccido quelli degli altri?”.

Preso da un fervore improvviso, prende un pezzo di carta e scrive il suo testamento spirituale: “Mai più morte, fino alla morte”. Poi chiama il suo “Amico” e glielo consegna, ammonendolo di vegliare sulla sua costanza e fede.

Passano le settimane e il dottor Oriente comincia a vivere in modo diverso. Comincia anche a collezionare rogne, soprattutto tra i colleghi nel suo ambiente. In certi casi il “non fare” diventa un problema: professionale, economico, di immagine. Una sera torna a casa e trova la moglie che vomita in continuazione. Pensa a qualche indigestione ma nei giorni seguenti il malessere continua.

Invita allora la moglie a fare un test di gravidanza ma lei si rifiuta con veemenza. Troppi erano i mesi in cui lei, silenziosamente, li faceva quei test e quante coltellate nel vedere che erano sempre negativi... Ma dopo un mese di questi malesseri, lui la costringe a fare un esame del sangue, che rivela la presenza del BetaHCG: sono in attesa di un bambino! Sono passati degli anni. I due bambini che la famiglia Oriente ha ricevuto in dono, oggi sono ragazzi. La vita di questo medico è totalmente cambiata.

 È meno ricco, meno famoso, una mosca bianca in un ambiente dove l’aborto è ancora considerato “una forma di aiuto” a chi, a causa di una vita sregolata o di un inganno, vi ricorre. Ma lui si sente ricco, profondamente ricco. Della gioia familiare, dei suoi valori, dell’amore di Dio, quella mano che lo carezza ogni giorno facendolo sentire degno di essere un “Suo figlio”. da lottimista.com


La Giornata per la vita - Per uscire dall'ideologia della solitudine di CARLO BELLIENI (©L'Osservatore Romano - 6 febbraio 2011)

La Giornata per la vita che si celebra in Italia è un richiamo, come sottolinea il messaggio dei vescovi, a "educare alla pienezza della vita". Nelle scuole, ma anche sui media, dove latita una buona informazione sui temi etici: si pensi al modo in cui è stato presentato il suicidio di un celebre regista italiano e allo spot televisivo dove un anziano chiede l'eutanasia come "diritto", tessendo lodi della sua vita scandita da decisioni prese in solitudine e chiedendo di concluderla nello stesso modo. Due esempi di una mentalità generale e montante, in cui la libertà è ridotta ad assenza di legami e la solitudine è vista come condizione ideale per prendere decisioni.
Ma la solitudine non è un ideale, perché sarebbe come dire che lo sono anche l'ignoranza o la schiavitù. Solitudine e tristezza schiacciano e soffocano la libertà. Nello scorso dicembre la rivista "Lancet" ha lanciato un allarme contro l'"epidemia di solitudine che colpisce gli anziani", analizzata in profondità dal documento The forgotten Age del Centre for Social Justice, pubblicato in novembre nel Regno Unito. E un preoccupato messaggio viene dall'"Australian and New Zealand Journal of Psychiatry", che nel numero di gennaio mette in evidenza l'alto tasso di suicidi tra gli adolescenti.
Eppure, la liberalizzazione di eutanasia, aborto e droga si basa proprio sul far credere che quanto decidiamo nel dolore e nella solitudine sia libertà, e sul far passare come "indegno" quello che invece è una caratteristica strutturale dell'essere umano: il dipendere dagli altri, che a volte può essere quasi totale, mai però indegno. Si è dato il nome di libertà alla solitudine, chiamandola autonomia, cioè "essere ognuno la legge di se stesso". Da qui a far credere che la perdita dell'autonomia quotidiana (camminare, parlare) renda la vita indegna il passo è breve. Ma non è così. Dipendere da una figlia o da un padre non è indegno, ed è profondamente ingiusto diffondere questa idea. La lotta alla malattia ci sta a cuore, ma non accettiamo l'idea che la vita malata e dipendente dagli altri perda significato.
Per diffondere la cultura della solitudine, i media tacciono i tanti casi di eroismo di fronte alla malattia, dando spazio ai rari esempi di coloro che rivendicano la supposta libertà di lasciarsi morire. Su questo tema si è discusso di recente, col solo errore di pensare che questo comportamento dei media nasca da una cultura della morte, la quale presuppone un'ideologia nichilista e autoritaria. Si tratta invece più banalmente di una cultura della solitudine, in realtà forse ancor più pericolosa della prima: essa mostra infatti un volto mite, che contrasta con i suoi effetti nefasti, e dissimula l'angoscia esistenziale della mentalità che la genera. Oltretutto, c'è un dato semplice e lampante che dovrebbe far riflettere: quanti vogliono vivere sono molto più numerosi di coloro che vorrebbero morire. Questo dovrebbe in primo luogo garantire un accesso proporzionale all'informazione, e soprattutto far capire che la scelta per la morte è e resta l'eccezione, perché non è ciò che i malati vogliono se le condizioni esterne non li inducono alla disperazione. Ed è compito dello Stato assicurare loro buone condizioni, non agevolare la morte.
Chi diffonde sui media un volto nobile della morte provocata, dovrebbe almeno immaginare quanto questo sia nocivo per le persone che soffrono, in particolare chi è depresso o solo. In questo modo, curare la vita del disperato o aiutarlo a farla finita appaiono due opzioni uguali, dello stesso peso. Ma è un ragionare strano, perché solitudine e disperazione sono l'antitesi della libertà e la annullano, riducendola a una ritirata forzata. Ed è pericoloso, per i rischi di emulazione: ricordo che in Italia una ventina di anni fa ci fu un breve periodo durante il quale si suicidarono molti adolescenti, e non è stato questo l'unico caso di suicidio contagioso. Bisognerebbe poi approfondire quanto influisca il peso economico nelle richieste di liberalizzazione dell'eutanasia. Nello scorso dicembre il "British Journal of Nursing" ha paventato il rischio dell'apertura all'eutanasia non per motivi "nobili", ma molto più prosaicamente per abbattere la spesa sociale. Come scrivono i vescovi italiani, la Giornata per la vita è un impulso verso "un nuovo umanesimo", per uscire dall'ideologia della solitudine e della paura. E, come ha spiegato il Papa lo scorso 17 novembre, è una spinta a ritrovare una "giustizia sanitaria", perché l'attacco alla vita viene subito dopo l'attacco alla giustizia. E cosa c'è di più ingiusto che lasciare una persona sola, o farla considerare inutile?
La paura di dover dipendere dagli altri, quasi non fosse la nostra condizione quotidiana, e il culto orgoglioso dell'autonomia, come se ogni giorno non obbedissimo a leggi universali e naturali con nostro giovamento, concorrono ad aprire all'eutanasia, ben diversa dal diritto a sospendere l'uso di medicine se inutili e intollerabili. È una cultura questa che definisce persona solo chi è in possesso di certe condizioni di indipendenza, e nasce da una società intrisa di disabilità affettiva. Una disabilità peggiore di quella fisica o mentale, perché non educa alla solidarietà verso queste ultime, ma solo all'infantile desiderio di farle sparire per magia.


Eucaristia sintesi del mistero cristiano - Lì dove è scritto il destino dell'uomo di Inos Biffi (©L'Osservatore Romano - 5 febbraio 2011)

Nell'epoca patristica non riscontriamo discussioni sull'Eucaristia. Queste appariranno più tardi, nel secolo ix e soprattutto a partire dal secolo xi, quando si tratterà di precisare in che senso il pane e il vino sono segni del Corpo e del Sangue di Cristo e la loro conversione, sempre affermata nella Chiesa, verrà espressa col concetto e il termine di «transustanziazione».
Per i Padri era talmente pacifica la dottrina eucaristica, da rappresentare la giustificazione di altre e fondamentali verità di fede, e quindi il criterio dell'ortodossia.
Così particolarmente in Ireneo di Lione. Contro gli gnostici egli osservava l'incoerenza di credere nella mutazione -- operata da Cristo col suo rendimento di grazie e con la sua parola -- del pane «cosa creata» e del vino «prodotto di questa nostra creazione» e insieme negare la bontà del mondo materiale; oppure l'altra incoerenza di rigettare la risurrezione della carne, quando, nutrendosi nell'Eucaristia del Corpo e del Sangue di Cristo, i nostri corpi corruttibili ricevono il pegno dell'incorruttibilità.
Di fatto, il declinare della fede, la perdita della sua perspicuità, si riflettono nell'Eucaristia; così come, per converso, l'appannarsi dell'ortodossia eucaristica è un chiaro indice dell'oscurarsi di altri sostanziali contenuti del Credo.
Accenniamo qui ai misteri cristiani -- che è poi tutto il dogma -- coinvolti e professati nella celebrazione dell'Eucaristia, quando questa sia concepita in conformità alla Tradizione.
Anzitutto, in essa viene proclamato il valore, universale e assoluto, del sacrificio della Croce, che, avvenuto nella storia, prosegue gloriosamente nella sua inesausta efficacia salvifica in ogni tempo e spazio. La memoria eucaristica è un annuncio continuo della signoria del Crocifisso risuscitato e glorioso, assiso alla destra del Padre, unico redentore e fonte incessante dello Spirito. Essa è segno dell'inarrestabile carità di Gesù, che si dona al Padre e agli uomini, della sua adorazione e della sua intercessione.
Ed è segno della Chiesa che, obbediente e fedele al mandato di Gesù, si raccoglie e si ritrova intorno a lui, seduta alla sua mensa, nella consapevolezza di essere nata dal suo sacrificio pasquale e di essere continuamente nutrita dalla comunione al suo corpo immolato e al suo sangue versato per la remissione dei peccati.
Così, ogni Eucaristia, col mistero di Cristo, diffonde il mistero della Chiesa quale opera sua e sacramento della sua presenza nel mondo.
Al convito eucaristico riusciamo a scoprire la profonda identità della Chiesa. E insieme risalta l'identità dell'uomo, ideato a immagine di Cristo, predestinato a essere conforme a lui, e perciò a rivivere i suoi eventi di morte e di risurrezione.
Nell'Eucaristia è iscritto il destino dell'uomo; in essa è percepibile la ragione per la quale è stato creato, e di conseguenza lo stile di vita che è chiamato a seguire per poter raggiungere il suo fine ultimo, ossia la partecipazione alla medesima condizione di gloria di Cristo.
Per questo il cristiano, in gioiosa docilità al comando di Gesù, mangia il pane vivo che viene dal cielo, e che è la sua Carne, e beve al calice che egli gli porge, e che contiene il suo Sangue, diventando così, per usare le parole di Cirillo di Gerusalemme, «con corporeo» e «consanguineo» di Cristo.
Anche soltanto da questi brevi cenni l'Eucaristia appare la sintesi e la convergenza sacramentale del mistero cristiano. Ma la prima condizione per accorgersene è di esplorarla attentamente e in profondità, per coglierne tutti i riferimenti, o meglio tutte le dimensioni in essa obiettivamente incluse. Nell'Eucaristia c'è la cristologia e l'ecclesiologia; ci sono gli altri sacramenti; c'è l'antropologia e ci sono «le ultime cose»; c'è la pienezza della grazia e della misericordia, e il «pegno della gloria futura». D'altra parte, essa venne istituita dal Signore al compimento della sua vita e al consumarsi del suo amore (cfr. Giovanni, 13, 1) e da lui lasciata come per testamento ai suoi discepoli e alla sua Chiesa.
Come per una mutua, inscindibile, coesione, alla luce dell'ortodossia cristiana si comprende l'Eucaristia: quando questa ortodossia si annebbia, divengono precari nella Chiesa anche la sostanza e il significato del sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo; quando subentrano l'inaffezione e la trascuratezza per la «mensa del Signore», a patirne è l'intero dogma, che fatalmente perde il suo vigore, la sua credibilità, il suo «mistero».
Ma, per fermarsi sull'Eucaristia: non basta conservarne la retta intelligenza. Occorre curarne e rendere perspicua la sua celebrazione, farne diventare luminosi i segni e trasparente la liturgia ed esaltarne i simboli. I riti eucaristici, come in generale tutti i riti sacramentali, sono la verità cristiana orante. Una comunità dove ben si celebri è una comunità dove ben si crede.


LA NECESSITA’ ATTUALE DELLA RIPRESA DELL’APOLOGETICA CATTOLICA di Don Marcello Stanzione, da http://www.riscossacristiana.it

Non c’è gruppo religioso al mondo che sia stata più avversato della Chiesa Cattolica; ma è anche più certo che non ce n’è stato un altro meno capito; per cui nessuno dei dardi coi quali si è tentato di colpirlo ha raggiunto lo scopo, cioè di eliminare la Chiesa Romana dalla Storia o renderla un gruppo religioso marginale e ininfluente. L’affermazione sembra paradossale e sarebbe storicamente errata, se non fosse possibile distinguere “la Chiesa” da quanti la rappresentano, clero e fedeli laici. Tutti costoro, innegabilmente “uomini” con quanto di “umano” li caratterizza, non sono la Chiesa… Ora, con ciò si intende rivelare che essi non l’hanno concepita, non l’hanno fondata, non l’hanno costituita quanto alla sua struttura e ai poteri che esercita, non hanno ideato le verità teologiche che insegna, non hanno enunciato i principi morali in base ai quali essa legifera, approva e condanna… Ma c’è di più: gli uomini che rappresentano la Chiesa molte volte hanno tentato di disgregarne la compagine con gli scismi; decapitarla, negando le sue verità con le eresie più radicali; demolirla, opponendosi alla sua Gerarchia; screditarla con l’esempio di una vita vergognosa ed immorale… Netta dunque la distinzione tra “Chiesa” e “Gli uomini di Chiesa”. Distinzione confermata dal fatto che la Chiesa non ha mai esitato a condannare i suoi stessi uomini, quando questi hanno agito contro le sue verità teologiche, i suoi principi morali, le sue tradizioni plurisecolari, la sua origine divina. Ciò perché figli spuri, degeneri, “falsi fratelli”, “Guide cieche”, pastori inetti e indegni… Contro costoro, giustamente, gli storici hanno potuto puntare l’indice, accusandoli di prepotenza, nepotismo, ipocrisia, licenza nei costumi, mondanità, simonia, ecc. Ora, la materia di tante e tali accuse non è tratta dal senso della Chiesa, dalla luce dei suoi dogmi, dalla sublimità della sua morale, dalla sovraumana provvidenzialità dei suoi poteri, dall’eroismo dei suoi Santi…; ma unicamente dallo spirito di criteri, dalle concupiscenze, dalle abitudini, dalle opinioni, dalle condotta, dalla cultura tipica del mondo lontano o in antitesi con Dio.

Dunque, le accuse contro gli uomini di Chiesa si ritorcono contro il mondo, a cui essi ancora appartengono, di cui hanno ereditato mentalità e costumi… Mondo che – per loro colpa – si è introdotto nella Chiesa, rappresentando l’Antichiesa, perché suo nemico più insidioso e potente. Chiarita la distinzione tra Chiesa e alcuni uomini di Chiesa che con i loro comportamenti hanno tradito quella santità a cui erano chiamati, è necessario però affermare che oggi, come non mai, vengono diffuse in grande stile calunnie a non finire sulla storia del Cattolicesimo.

Numerose case editrici oggi pubblicano libri in cui i vangeli sono presentati come storie di menzogne, i papi come criminali assetati di potere, la religione cattolica come strumento oscurantista di oppressione e di intolleranza. I nemici attuali della Chiesa vanno a ripescare vecchie storie dell’orrore, alcune inventate dai carnefici della Chiesa primitiva, altre dai riformatori protestanti, dagli illuministi, dagli ideologi marxisti ed anarchici, dai massoni e dalle sette anticattoliche come i testimoni di Geova…Lo scrittore tedesco Michael Hesemann fa opportunamente notare: “ Dal momento che le menzogne sono come il vino – acquistano valore con il passare del tempo – il fatto che talune siano vecchie di centinaia di anni si trasforma in un vantaggio: rende più difficile verificarle. Si aggiungono temi nuovi, le storie di cospirazioni risalenti a secoli fa, ricostruite sulla base di scarsi indizi e falsificazioni grossolane, vengono arricchite da tanta “action”, tanto “sex” e tanto “crime” che a molti risultano insopportabili. Se questi ingredienti funzionano, è molto facile scrivere un bestseller e i presunti “oscurantisti” della Chiesa sono sempre adatti a diventare le arcicanaglie di questi drammi moderni. Se il libro viene messo in ridicolo dagli esperti in materia, per il brillante autore la stroncatura è la prova di una cospirazione nei suoi confronti. Se la Chiesa ignora l’opera, perché ha di meglio da fare, allora significa: guarda, si nasconde dietro un muro di silenzio! Se l’autore riesce a persuadere il lettore che la Chiesa ha qualcosa da nascondere può presentarsi come una mente illuminata, pretendere di avere autorità morale quale cacciatore della verità perduta: dopotutto smaschera in un sol colpo come gigantesca menzogna quello a cui credono milioni di persone, quello che fino a quel momento forniva consolazione e appiglio alla loro esistenza. Riconoscente che gli abbia aperto gli occhi, il lettore consiglierà ad altri il suo libro e aspetterà la pubblicazione del successivo, finché i diritti di autore basteranno all’autore per acquistare un castello nella campagna inglese, una villa nel New England o, per rimanere in territorio tedesco, affacciata sullo Starnberger See, il lago dei vip.

Raccontare le leggende nere della Chiesa cattolica, le storie dei suoi oscurantisti,quindi, conviene, è quasi una garanzia di altre tirature, di successo. Così, anno dopo anno ci attendono nuove rivelazioni, una vera fortuna. Con un denominatore comune: queste opere mettono in dubbio i fondamenti del cristianesimo e hanno un rapporto del tutto particolare con la verità”.  In questa situazione di menzogne contro la Chiesa è necessario per amore della verità storica una ripresa in grande stile dell’apologetica.

Fino a tempi recentissimi l’apologetica non godeva di buona fama. Sull’onda di un dialogo che spesso si riduceva ad un irenico “volemose bene”, la difesa della fede cattolica veniva vista come una forma di “fondamentalismo” inaccettabile, oppure un esagerato attaccamento a cose lontane dagli “urgenti” problemi del mondo: la pace, l’ecologia, i diritti delle minoranze e quant’altro. Cosa poteva mai risolvere immediatamente il fatto di difendere, ad esempio la dottrina della Chiesa sulla Creazione o sull’Incarnazione del Verbo? Ciò che contava era trovare soluzioni immediate ai problemi di cui sopra. Il Cristianesimo in generale, e la Chiesa in particolare, venivano presentati, in pratica, da molti cattolici di buona volontà  come progetti terreni che promuovendo amicizia e comprensione tra i popoli avrebbero risolto i problemi del mondo, in collabrazione con altri progetti. E invece si è finito per non risolvere più o meno nulla dei problemi del mondo, smarrendo spesso l’autentico contenuto della fede cattolica.

Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, fin dal primo giorno del suo pontificato, ha ricordato quello che è il vero senso della Rivelazione: Gesù è venuto per farci conoscere Dio, salvarci dal peccato, dalla morte eterna ed aprirci le porte del Paradiso. Il resto – pace, ecologia, politica ecc. – è subordinato a questo. Queste verità fondamentali sono legate a loro volta ad altre, solo apparentemente “meno importanti” o “secondarie”, come vorrebbe un certo ecumenismo d’accatto, perché la Verità con la “V” maiuscola è un tutto armonico e completo, che supera certamente la semplice ragione umana, ma che è allo stesso tempo necessario alla ragione – come afferma il Santo Padre Benedetto XVI – se questa non vuol perdersi nel baratro di una contraddizione tanto drammatica quanto assurda. Dunque, anche se un po’ timidamente, si è ripresa in mano l’Apologetica, quella scienza, cioè, che scopre i motivi di credibilità della fede cristiana, che tutti gli uomini, in quanto esseri ragionevoli, sono in grado di comprendere. Tali motivi non sono presentati solamente a chi non ha fede, ma anche ai credenti in quanto il cristiano è chiamato a rendere ragione della propria speranza. (cf 1Pt 3,15).


I NOSTRI FIGLI NON NATI - CINQUE MILIONI DI PENSIERI di MARINA CORRADI, Avvenire, 6 febbraio 2011

In questa Italia dove ogni giorno si tumultua e ci si affanna e si grida, e reciprocamente ci si rinfaccia ciò che si è fatto e ciò che si è sbagliato, può sembrare strano parlare di ciò che “non” è stato.

Ciò che non è stato mai, perché non è nato. Scorrendo le statistiche ministeriali, vedi che dal 1978 a oggi ci sono stati in Italia cinque milioni di aborti. Perfettamente legali, certo. Ma anche chi sostie­ne il diritto all’aborto potrebbe fermarsi un mo­mento, in questa domenica di quasi acerba pri­mavera, di fronte a un pensiero: cinque milioni di figli che mancano, cinque milioni, che non sono nati.

Legale l’aborto, ma quasi clandestino il pensiero di quei bambini negati. Non se ne parla, ed è giu­dicato sconveniente ricordarlo, dalle tribune me­diatiche che contano. Come fossero cinque mi­lioni di storie private, che nessun altro riguarda­no se non quelle singole donne; e al massimo le loro malinconie, tanti anni dopo; malinconie di cui però non si usa parlare. E invece per una vol­ta, oggi che i cattolici italiani celebrano la Giornata per la vita, tra tanti pubblici rumori e clamori, vor­remmo immaginare un lungo condiviso attimo di silenzio; e che si possa per un momento resta­re zitti, nel rimpianto di quei figli che avremmo, e non abbiamo.

Chi erano, e che facce avrebbero avuto? Erano i compagni che i no­stri bambini non hanno cono­sciuto; quelli con cui non hanno giocato a pallone; quelli che man­cavano, nei banchi vuoti delle au­le di paesi spopolati. Erano quel­lo di cui nostra figlia si sarebbe in­namorata; o la ragazza che un giorno ci avrebbe resi nonni. Era­no, sarebbero stati. Il principio scoccato, il tessuto in fieri, e ogni cellula programmata. Ma non previsti, o attesi, o desiderati. Tan­tissime ragioni, e spesso umana­mente comprensibili. Eppure quante di quelle madri hanno an­cora addosso quel giorno, ta­gliente come uno strappo alla propria intima natura. Non sono stati; sospinti indietro, clandesti­ni, invisibili ombre cancellate. Si può almeno averne memoria, e dare voce a un rimpianto che molte conservano gelosamente per sé? Quante, vedendo una fol­la di ragazzi all’uscita da scuola u­na mattina, sono attraversate da un sottile doloroso pensiero: a­vrebbe la stessa età, “lui”.

Ma poiché i figli non sono solo fi­gli nostri, quel rimpianto dovreb­be essere collettivo. Quei bambi­ni ci mancano. I primi di loro a­vrebbero trent’anni ormai. Li im­maginate? Oggi magari sarebbe­ro in piazza a gridare contro il go­verno, oppure a favore; oppure a immaginare un’altra Italia. Sa­rebbero energie e desideri, e voci nei nostri cortili vuoti; sarebbero nelle scuole a studiare, nelle uni­versità a far ricerca, a insegnare. Chi c’era poi, in mezzo agli altri, in quella folla di clandestini respinta? Forse il centravanti che a­vrebbe fatto impazzire gli stadi; o la splendida vo­ce che ci avrebbe incantati. E quali libri non leg­geremo mai, non scritti dai nostri figli non avuti? Fra di loro, non pochi il cui destino è stato decre­tato dalle analisi: anormali, malati. Inutili. Come Hawkings magari, il fisico in carrozzella? Che co­sa è stato buttato via per una diagnosi, e quali do­ni portavano con sé i figli scartati? Certo, come testimonia chi invece quei figli li ha avuti, la ca­pacità di insegnare ad amare. Milioni di storie diverse. Madri sole, o senza un sol­do, o padri inesistenti; o benpensanti famiglie, che non avrebbero tollerato; oppure posti di la­voro a rischio, o carriere che non potevano a­spettare. Cinque milioni di storie private si coa­gulano in questo vuoto collettivo – e anche forse in uno slancio, in un coraggio che ci mancano. Perché ha più fiato, un Paese che pensa ai suoi fi­gli; non si insterilisce nell’oggi, non trascura un fu­turo, che è il tempo di quei figli. Il silenzio che vor­remmo oggi è ammissione, oltre il ben noto e af­fermato “diritto”, di un censurato dolore: per ciò che non è stato. Un silenzio che dica a chi ha vent’anni oggi che un figlio, voluto o no, è più u­mano abbracciarlo; e non è questione di codici, ma di una legge più forte, più grande – come scrit­ta addosso.


OLTRE IL FALLIMENTO DEL MULTICULTURALISMO - L’Europa orfana ritrovi la sua memoria di CARLO CARDIA, Avvenire, 6 febbraio 2011

L’Europa torna ad interrogarsi criticamente sulla propria i­dentità e futuro, in rapporto all’immigrazione e alla multicultura­lità. Dopo Angela Merkel, che nell’ot­tobre scorso aveva dichiarato fallita l’i­deologia multiculturalista perché favo­risce la separazione tra popolazioni e culture diverse, oggi è la volta di David Cameron che, proprio incontrando la cancelliera tedesca, ha sostenu­to che bisogna cambiare strada. Per il premier inglese, «con la dottrina del multiculturalismo di Stato abbiamo incoraggiato culture differenti a vivere vite differenti, separate l’una dall’altra e da quella maggioritaria. Non siamo riusciti a fornire una visione della società in gra­do di far desiderare loro di appartenervi». Più chiara­mente, lo Stato non può «compiacere gruppi e associa­zioni islamiche che sono ambigue e passive verso gli e­stremisti, non condividono valori fondamentali come l’uguaglianza tra i sessi, la democrazia, l’integrazione».

Esistono organizzazioni che «sono inondate di denaro pubblico, ma fanno molto poco per combattere l’estre­mismo al loro interno. Giudichiamole adeguatamente.

Credono nei diritti umani universali? Anche per le don­ne e per chi crede in un’altra religione? Credono nell’e­guaglianza delle persone davanti alla legge?» La Gran Bretagna dovrà riflettere sulle parole di Came­ron, che seguono quelle recentissime dell’ex arcivesco­vo di Canterbury, lord Carey of Clifton, che ha denun­ciato la tendenza a considerare il cristianesimo una co­sa vecchia, inutile, dannosa, e mentre si accettano i simboli di altre religioni, quelli cristiani sono nascosti quasi se ne provi vergogna. Facilitata dal sistema di

common law,

ha adottato un multiculturalismo senza limiti, fino a respingere semplici e legittime espressioni della tradizione cristiana. Da tempo la sharia

si è insi­nuata nelle pieghe dell’ordinamento attraverso l’attività di tribunali islamici in materie delicate come quelle fa­miliare e personale. Domina una strisciante e maniaca­le ostilità verso i simboli cristiani, come catenine e cro­cifissi, se portati da un insegnante o da un’infermiera.

Addirittura, pochi giorni fa, la Gran Bretagna di Came­ron – che dovrebbe rendersi conto della contraddizione – si è distinta perché dal documento dell’Unione Euro­pea sulla libertà religiosa fosse eliminato il riferimento alle persecuzioni dei cristiani.

Oggi i più grandi Paesi democratici comprendono che il rischio del multiculturalismo è quello della perdita di i­dentità dell’Europa e di nuove lacerazioni sociali, e che occorre cambiare rotta. Ma come, in che modo, quale strada intraprendere, non è del tutto chiaro. Dopo l’au­tocritica, è necessaria una riflessione che coinvolga an­che un Paese come l’Italia, sul futuro dei nostri ordina­menti e delle nostre società. Nel settembre del 2010, al bureau dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, Benedetto XVI ha ricordato che nel «contesto della società attuale, nella quale si incontrano popoli e culture differenti, è imperativo sviluppare sia la validità universale di questi diritti, sia la loro inviolabilità, ina­lienabilità e indivisibilità». Questo è il primo punto car­dine di ogni politica di integrazione: far sì che gli immi­grati fruiscano effettivamente dei diritti umani e le loro comunità accettino e rispettino la libertà di religione, l’eguaglianza delle persone, il diritto di ciascuno a vive­re con gli altri, respingendo ogni forma di estremismo, comunque motivata.

Ma c’è poi l’altra faccia della medaglia. Un’Europa che nasconda se stessa, i valori cristiani che l’hanno forma­ta e che sono alla base dei diritti umani, non realizzerà mai una vera politica di accoglienza e di integrazione.

Offrirà, come dice Cameron, ospitalità materiale, ma­gari tanto «denaro pubblico», ma non una concezione dello Stato e della società rispettosi della dimensione spirituale e morale dell’uomo. Quando le comunità di immigrati sono inserite in una società anonima e pove­ra, priva di identità e princìpi nobili, si chiudono inevi­tabilmente in un’identità propria, separata, ostile, terre­no di conquista dei fondamentalismi. Se la società che le accoglie si dimostra aperta, rispettosa dei loro diritti, ma anche ricca e orgogliosa dei propri valori civili e spi­rituali, l’estremismo cede, nasce la voglia di confrontar­si, prendere il meglio di sé e degli altri.

Credere nei propri valori è una condizione pregiudizia­le perché siano rispettati e riconosciuti dagli altri.


«Gabriele, la vita che mi ha restituito la vita» - Maria attende il suo turno per l’aborto, seduta in ospedale. Poi il lampo di un’incertezza Storia di una ragazza che si è riscoperta madre. E dei volontari del Cav che l’hanno accolta, Avvenire 6 febbraio 2011

«Educare alla pienezza della vita». È il titolo della XXXIII Giornata che si celebra oggi in tutte le comunità. Un appuntamento atteso per riflettere sul valore fonda­mentale, quello sta alla base degli altri principi non negoziabili. Oggi però anche questo valore rischia di essere relativizzato, mi­nimizzato, subordinato agli schemi deteriori di una cultura do­minata da egoismo e nichilismo. Ecco perché risulta ormai irri­nunciabile educare alla pienezza della vita, facendo crescere – come scrivono i nostri vescovi nel messaggio diffuso per la Gior­nata – «una cultura della vita che la accolga e la custodisca dal con­cepimento al suo termine naturale e che la favorisca sempre, an­che quando è debole e bisognosa di aiuto». Per aiutare la rifles­sione diamo spazio a una testimonianza drammatica che ci è sta­ta offerta dagli amici del Cav1 di Napoli. Una giovane donna, che chiameremo Maria, ci racconta in prima persona la sua storia di profonda sofferenza e di gioiosa rinascita.

DA NAPOLI

« N on hai lo sguardo di una donna che vuole interrompere la gra­vidanza », disse Rossana mentre prendevamo un caffè al bar. «Lo ter­rai questo bambino, te lo dico io». Oggi ripenso a quella frase, e mi vie­ne da sorridere. Ero rimasta incinta senza volerlo, a un’età in cui persino il pensiero di un bambino fa girar la testa, figurarsi la notizia di aspettarlo davvero. Il pa­dre del piccolo era scomparso nel nulla, appena dopo aver saputo. E con tutti i miei dubbi, le mie paure, la mia confusione, adesso ero lì, da­vanti a Rossana, una bella signora gentile, con gli occhi pieni di luce, che con assoluta certezza prediceva un futuro che non vedevo mio, che non sentivo. Lei parlava di quel figlio e io intanto mi ripetevo: «Che faccio qui? Di cosa parla, questa donna?».

Il nome di Rossana mi era stato fat­to la prima volta in ospedale, il gior­no in cui dovevo abortire. Avevo già fatto tutti gli accertamenti, la data e­ra arrivata: alle otto del mattino ero già lì, seduta nel corridoio in attesa che mi chiamassero per fare l’inter­vento. C’era un’altra ragazza che a­spettava con me, in compagnia del fi­danzato. Quando arrivò l’infermiera a chiamarla, la sentii che gli diceva: «È inutile che aspetti qui, vieni a prendermi intorno a mezzogiorno, penso che per quell’ora avrò finito». «Finito, tra qualche ora sarà tutto fi­nito », pensai. L’infermiera pronun­ciò il mio cognome; feci qualche pas­so verso di lei, poi mi arrestai e per la prima volta, con una sorpresa inau­dita, sentii la mia voce che diceva: «No, io non entro... Ora non me la sento, vorrei spostare l’appunta­mento ». Lei mi guardò interdetta, poi chiamò il chirurgo. Gli spiegai che non ero sicura, lui mi rispose in ma­lo modo: «Torni quando lo sarà, non abbiamo tempo da perdere qui!». Ri­masi immobile nel corridoio per non so quanto tempo, con quella mia fra­se che girava ancora nell’aria. Presi l’ascensore e mi avviai verso l’uscita. Al piano terra incontrai un’assisten­te sociale: mi vide sconvolta, mi chie­se cosa avevo, le raccontai l’accadu­to. E per la prima volta mi venne fat­to quel nome: «Ci sono degli aiuti, per le ragazze come te, ci sono i cen­tri d’aiuto – mi disse –. Ti scrivo qui il numero del più vicino, la responsa­bile si chiama Rossana». Con quel fo­glio in mano me ne tornai a casa, e sprofondai di nuovo nella mia di­sperazione. Per me era impossibile tenere il bambino, altro che centri e aiuti e responsabili di nome Rossana: chiamai di nuovo in ospedale e fissai un altro appuntamento. Poco im­portava che i miei genitori, saputo della gravidanza, mi avesse dato tut­to il loro appoggio e implorato di non abortire. Una parte di me quel figlio lo rifiutava, lo respingeva.

Alla vigilia del mio secondo appun­tamento in ospedale, chiamò il padre del bambino. Era un mese che non lo sentivo. Voleva sapere se avevo risol­to “il problema”. Andai su tutte le fu­rie, gli dissi che avevo deciso di te­nerlo, quel figlio che lui non voleva. Riattaccai: ero sconvolta, ebbi un mancamento e cominciai a perdere sangue. Fu allora, che diventai ma­dre. Chiamai i miei genitori e dissi: «Portatemi al pronto soccorso, non voglio perdere questo bambino!». In ospedale mi dissero che avevo avu­to una minaccia d’aborto e mi cura­rono. Una volta uscita, col mio bim­bo nel grembo, chiamai Rossana e la incontrai. Una, due, cento volte. Lei e un sacerdote, padre Paulus, mi ac­compagnarono ogni giorno della gra­vidanza: fu un inferno, piena di an­gosce, incertezze... Ma loro erano lì, a ripetermi quanto questo bambino mi avrebbe resa felice, anche quan­do la madre che era in me scompa­riva di nuovo, e tornava la ragazza impaurita, che voleva farla “finita”.

Oggi Gabriele ha tre mesi e mezzo ed è la cosa più bella che abbia mai vi­sto! Lo guardo dormire e mi avvici­no per ascoltare i suoi respiri... Non vedo l’ora che apra gli occhi, che sembrano due stelle. È la stessa lu­ce che ho trovato e trovo ogni volta che ho bisogno negli occhi di Ros­sana. Ora so cos’è: è la luce della vi­ta! Lei prima, e poi il mio Gabriele, “potenza di Dio”, hanno rimesso la luce nella mia vita.