giovedì 10 febbraio 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    CATECHESI DI BENEDETTO XVI SU SAN PIETRO CANISIO - All'Udienza generale del mercoledì
2)    San Pietro Canisio, catechista per eccellenza di Massimo Introvigne, 09-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3)    Il vero federalismo fiscale di Robi Ronza, 09-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
4)    I Fratelli Musulmani: via Mubarak in una settimana di Marco Respinti, 09-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
5)    09/02/2011 - EGITTO - Egitto: le manifestazioni senza capi avvantaggiano gli estremisti islamici
6)    La mancanza di memoria condivisa di Andrea Tornielli, 10-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
7)    Foibe, la storia cancellata «La mia gente sparita nel nulla» di Antonio Giuliano, 10-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
8)    La politica coi piedi per terra di Roberto Fontolan, giovedì 10 febbraio 2011, ilsussidiario.net
9)    TUNISIA/ Mario Mauro: un record mondiale è pronto a scatenare nuove rivolte di Mario Mauro - giovedì 10 febbraio 2011, il sussidiario.net
10)                      FOIBE/ Zecchi: ecco perché abbiamo tradito la memoria del nostro popolo - INT. Stefano Zecchi - giovedì 10 febbraio 2011 – il sussidiario.net

CATECHESI DI BENEDETTO XVI SU SAN PIETRO CANISIO - All'Udienza generale del mercoledì

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 9 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la catechesi su san Pietro Canisio, Dottore della Chiesa (1521-1597), tenuta questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale nell’Aula Paolo VI.

* * *
Cari fratelli e sorelle,
Oggi vorrei parlarvi di san Pietro Kanis, Canisio nella forma latinizzata del suo cognome, una figura molto importante nel Cinquecento cattolico. Era nato l’8 maggio 1521 a Nimega, in Olanda. Suo padre era borgomastro della città. Mentre era studente all’Università di Colonia, frequentò i monaci Certosini di santa Barbara, un centro propulsivo di vita cattolica, e altri pii uomini che coltivavano la spiritualità della cosiddetta devotio moderna. Entrò nella Compagnia di Gesù l’8 maggio 1543 a Magonza (Renania – Palatinato), dopo aver seguito un corso di esercizi spirituali sotto la guida del beato Pierre Favre, Petrus Faber, uno dei primi compagni di sant’Ignazio di Loyola. Ordinato sacerdote nel giugno 1546 a Colonia, già l’anno seguente, come teologo del Vescovo di Augusta, il cardinale Otto Truchsess von Waldburg, fu presente al Concilio di Trento, dove collaborò con due confratelli, Diego Laínez e Alfonso Salmerón.
Nel 1548, sant’Ignazio gli fece completare a Roma la formazione spirituale e lo inviò poi nel Collegio di Messina a esercitarsi in umili servizi domestici. Conseguito a Bologna il dottorato in teologia il 4 ottobre 1549, fu destinato da sant'Ignazio all'apostolato in Germania. Il 2 settembre di quell'anno, il '49, visitò Papa Paolo III in Castel Gandolfo e poi si recò nella Basilica di San Pietro per pregare. Qui implorò l'aiuto dei grandi Santi Apostoli Pietro e Paolo, che dessero efficacia permanente alla Benedizione Apostolica per il suo grande destino, per la sua nuova missione. Nel suo diario annotò alcune parole di questa preghiera. Dice: "Là io ho sentito che una grande consolazione e la presenza della grazia mi erano concesse per mezzo di tali intercessori [Pietro e Paolo]. Essi confermavano la mia missione in Germania e sembravano trasmettermi, come ad apostolo della Germania, l’appoggio della loro benevolenza. Tu conosci, Signore, in quanti modi e quante volte in quello stesso giorno mi hai affidato la Germania per la quale in seguito avrei continuato ad essere sollecito, per la quale avrei desiderato vivere e morire".
Dobbiamo tenere presente che ci troviamo nel tempo della Riforma luterana, nel momento in cui la fede cattolica nei Paesi di lingua germanica, davanti al fascino della Riforma, sembrava spegnersi. Era un compito quasi impossibile quello di Canisio, incaricato di rivitalizzare, di rinnovare la fede cattolica nei Paesi germanici. Era possibile solo in forza della preghiera. Era possibile solo dal centro, cioè da una profonda amicizia personale con Gesù Cristo; amicizia con Cristo nel suo Corpo, la Chiesa, che va nutrita nell'Eucaristia, Sua presenza reale.
Seguendo la missione ricevuta da Ignazio e da Papa Paolo III, Canisio partì per la Germania e partì innanzitutto per il Ducato di Baviera, che per parecchi anni fu il luogo del suo ministero. Come decano, rettore e vicecancelliere dell’Università di Ingolstadt, curò la vita accademica dell’Istituto e la riforma religiosa e morale del popolo. A Vienna, dove per breve tempo fu amministratore della Diocesi, svolse il ministero pastorale negli ospedali e nelle carceri, sia nella città sia nelle campagne, e preparò la pubblicazione del suo Catechismo. Nel 1556 fondò il Collegio di Praga e, fino al 1569, fu il primo superiore della provincia gesuita della Germania superiore.
In questo ufficio, stabilì nei Paesi germanici una fitta rete di comunità del suo Ordine, specialmente di Collegi, che furono punti di partenza per la riforma cattolica, per il rinnovamento della fede cattolica. In quel tempo partecipò anche al colloquio di Worms con i dirigenti protestanti, tra i quali Filippo Melantone (1557); svolse la funzione di Nunzio pontificio in Polonia (1558); partecipò alle due Diete di Augusta (1559 e 1565); accompagnò il Cardinale Stanislao Hozjusz, legato del Papa Pio IV presso l’Imperatore Ferdinando (1560); intervenne alla Sessione finale del Concilio di Trento dove parlò sulla questione della Comunione sotto le due specie e dell’Indice dei libri proibiti (1562).
Nel 1580 si ritirò a Friburgo in Svizzera, tutto dedito alla predicazione e alla composizione delle sue opere, e là morì il 21 dicembre 1597. Beatificato dal beato Pio IX nel 1864, fu proclamato nel 1897 secondo Apostolo della Germania dal Papa Leone XIII, e dal Papa Pio XI canonizzato e proclamato Dottore della Chiesa nel 1925.
San Pietro Canisio trascorse buona parte della sua vita a contatto con le persone socialmente più importanti del suo tempo ed esercitò un influsso speciale con i suoi scritti. Fu editore delle opere complete di san Cirillo d’Alessandria e di san Leone Magno, delle Lettere di san Girolamo e delle Orazioni di san Nicola della Fluë. Pubblicò libri di devozione in varie lingue, le biografie di alcuni Santi svizzeri e molti testi di omiletica. Ma i suoi scritti più diffusi furono i tre Catechismi composti tra il 1555 e il 1558. Il primo Catechismo era destinato agli studenti in grado di comprendere nozioni elementari di teologia; il secondo ai ragazzi del popolo per una prima istruzione religiosa; il terzo ai ragazzi con una formazione scolastica a livello di scuole medie e superiori. La dottrina cattolica era esposta con domande e risposte, brevemente, in termini biblici, con molta chiarezza e senza accenni polemici. Solo nel tempo della sua vita sono state ben 200 le edizioni di questo Catechismo! E centinaia di edizioni si sono succedute fino al Novecento. Così in Germania, ancora nella generazione di mio padre, la gente chiamava il Catechismo semplicemente il Canisio: è realmente il catechista per secoli, ha formato la fede di persone per secoli.
È, questa, una caratteristica di san Pietro Canisio: saper comporre armoniosamente la fedeltà ai principi dogmatici con il rispetto dovuto ad ogni persona. San Canisio ha distinto l'apostasia consapevole, colpevole, dalla fede, dalla perdita della fede incolpevole, nelle circostanze. E ha dichiarato, nei confronti di Roma, che la maggior parte dei tedeschi passata al Protestantesimo era senza colpa. In un momento storico di forti contrasti confessionali, evitava - questa è una cosa straordinaria - l’asprezza e la retorica dell’ira - cosa rara come ho detto a quei tempi nelle discussioni tra cristiani, - e mirava soltanto alla presentazione delle radici spirituali e alla rivitalizzazione della fede nella Chiesa. A ciò servì la conoscenza vasta e penetrante che ebbe della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa: la stessa conoscenza che sorresse la sua personale relazione con Dio e l’austera spiritualità che gli derivava dalla devotio moderna e dalla mistica renana.
È caratteristica per la spiritualità di san Canisio una profonda amicizia personale con Gesù. Scrive, per esempio, il 4 settembre 1549 nel suo diario, parlando con il Signore: "Tu, alla fine, come se mi aprissi il cuore del Sacratissimo Corpo, che mi sembrava di vedere davanti a me, mi hai comandato di bere a quella sorgente, invitandomi per così dire ad attingere le acque della mia salvezza dalle tue fonti, o mio Salvatore". E poi vede che il Salvatore gli dà un vestito con tre parti che si chiamano pace, amore e perseveranza. E con questo vestito composto da pace, amore e perseveranza, il Canisio ha svolto la sua opera di rinnovamento del cattolicesimo. Questa sua amicizia con Gesù - che è il centro della sua personalità - nutrita dall'amore della Bibbia, dall'amore del Sacramento, dall'amore dei Padri, questa amicizia era chiaramente unita con la consapevolezza di essere nella Chiesa un continuatore della missione degli Apostoli. E questo ci ricorda che ogni autentico evangelizzatore è sempre uno strumento unito, e perciò stesso fecondo, con Gesù e con la sua Chiesa.
All’amicizia con Gesù san Pietro Canisio si era formato nell’ambiente spirituale della Certosa di Colonia, nella quale era stato a stretto contatto con due mistici certosini: Johann Lansperger, latinizzato in Lanspergius, e Nicolas van Hesche, latinizzato in Eschius. Successivamente approfondì l’esperienza di quell’amicizia, familiaritas stupenda nimis, con la contemplazione dei misteri della vita di Gesù, che occupano larga parte negli Esercizi spirituali di sant’Ignazio. La sua intensa devozione al Cuore del Signore, che culminò nella consacrazione al ministero apostolico nella Basilica Vaticana, trova qui il suo fondamento.
Nella spiritualità cristocentrica di san Pietro Canisio si radica un profondo convincimento: non si dà anima sollecita della propria perfezione che non pratichi ogni giorno la preghiera, l’orazione mentale, mezzo ordinario che permette al discepolo di Gesù di vivere l’intimità con il Maestro divino. Perciò, negli scritti destinati all’educazione spirituale del popolo, il nostro Santo insiste sull’importanza della Liturgia con i suoi commenti ai Vangeli, alle feste, al rito della santa Messa e degli altri Sacramenti, ma, nello stesso tempo, ha cura di mostrare ai fedeli la necessità e la bellezza che la preghiera personale quotidiana affianchi e permei la partecipazione al culto pubblico della Chiesa.
Si tratta di un’esortazione e di un metodo che conservano intatto il loro valore, specialmente dopo che sono stati riproposti autorevolmente dal Concilio Vaticano II nella Costituzione Sacrosanctum Concilium: la vita cristiana non cresce se non è alimentata dalla partecipazione alla Liturgia, in modo particolare alla santa Messa domenicale, e dalla preghiera personale quotidiana, dal contatto personale con Dio. In mezzo alle mille attività e ai molteplici stimoli che ci circondano, è necessario trovare ogni giorno dei momenti di raccoglimento davanti al Signore per ascoltarlo e parlare con Lui.
Allo stesso tempo, è sempre attuale e di permanente valore l’esempio che san Pietro Canisio ci ha lasciato, non solo nelle sue opere, ma soprattutto con la sua vita. Egli insegna con chiarezza che il ministero apostolico è incisivo e produce frutti di salvezza nei cuori solo se il predicatore è testimone personale di Gesù e sa essere strumento a sua disposizione, a Lui strettamente unito dalla fede nel suo Vangelo e nella sua Chiesa, da una vita moralmente coerente e da un’orazione incessante come l’amore. E questo vale per ogni cristiano che voglia vivere con impegno e fedeltà la sua adesione a Cristo. Grazie.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana. In particolare i Vescovi venuti per l’incontro promosso dal Movimento dei Focolari. Cari Fratelli nell’Episcopato, sono lieto di questa opportunità che vi è offerta per confrontare esperienze ecclesiali di diverse zone del mondo, ed auguro che queste giornate di preghiera e di riflessione possano portare frutti abbondanti per le vostre comunità. Saluto voi, membri dell’Associazione Nuovi Orizzonti e, mentre vi incoraggio a proseguire nell'attuazione di un coraggioso apostolato in favore dei fratelli in difficoltà, vi esorto a testimoniare il Vangelo della carità, diffondendo la luce, la pace e la gioia di Cristo risorto. Saluto i Pueri Cantores di Cerreto Sannita e i rappresentanti dell’Oratorio di Buccinasco. Cari amici, auguro che la sosta presso le tombe degli Apostoli rinsaldi la vostra adesione a Cristo e faccia crescere la carità nelle vostre famiglie e nelle vostre comunità.
Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Abbiamo celebrato ieri la memoria liturgica di san Girolamo Emiliani, fondatore dei Somaschi, e di santa Giuseppina Bakhita, figlia dell’Africa diventata figlia della Chiesa. Il coraggio di questi testimoni fedeli di Cristo aiuti voi, cari giovani, ad aprire il cuore all’eroismo della santità nell’esistenza di ogni giorno. Sostenga voi, cari malati, nel perseverare con pazienza ad offrire la vostra preghiera e la vostra sofferenza per tutta la Chiesa. E dia a voi, cari sposi novelli, il coraggio di rendere le vostre famiglie comunità di amore, improntate ai valori cristiani.

[© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana


San Pietro Canisio, catechista per eccellenza di Massimo Introvigne, 09-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Continuando nella sua catechesi sui santi, Benedetto XVI ha dedicato l’udienza generale del 9 febbraio a san Pietro Canisio (1521-1597), gesuita e teologo presente come perito al Concilio di Trento.Olandese di nascita, nel 1548 fu inviato dal fondatore dei Gesuiti, sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), in Germania. Il Papa ne richiama le parole annotate nel suo diario e riferite alla Basilica di San Pietro, dove il santo si era recato per pregare: «Là io ho sentito che una grande consolazione e la presenza della grazia mi erano concesse per mezzo di tali intercessori [Pietro e Paolo]. Essi confermavano la mia missione in Germania e sembravano trasmettermi, come ad apostolo della Germania, l’appoggio della loro benevolenza. Tu conosci, Signore, in quanti modi e quante volte in quello stesso giorno mi hai affidato la Germania per la quale in seguito avrei continuato ad essere sollecito, per la quale avrei desiderato vivere e morire».


I tempi per una missione in Germania non erano facili: «ci troviamo – ricorda il Papa – nel tempo della Riforma luterana, nel momento in cui la fede cattolica nei Paesi di lingua germanica, davanti al fascino della Riforma, sembrava spegnersi. Era un compito quasi impossibile quello di Canisio, incaricato di rivitalizzare, di rinnovare la fede cattolica nei Paesi germanici». Ma, nutrito della spiritualità di sant’Ignazio, san Pietro Canisio riuscì sia a rafforzare la fede cattolica là dov’era rimasta maggioritaria – in Baviera, poi a Vienna, a Praga e in Polonia, dove fu nunzio pontificio – sia a mantenerla nelle regioni tedesche a maggioranza protestante. Partecipò anche ai colloqui di Worms del 1557 con i dirigenti protestanti, fra cui Filippo Melantone (1497-1560), che sfiorarono una riconciliazione poi sfumata soprattutto per l’opposizione dei principi protestanti tedeschi. Consacrò l’ultima parte della sua vita a Friburgo, in Svizzera, dove si era ritirato nel 1580 e dove morirà nel 1597, alla predicazione e alla stesura delle sue ultime opere.


San Pietro pubblicò in effetti numerosi volumi. «Ma i suoi scritti più diffusi – nota il Pontefice – furono i tre Catechismi composti tra il 1555 e il 1558. Il primo Catechismo era destinato agli studenti in grado di comprendere nozioni elementari di teologia; il secondo ai ragazzi del popolo per una prima istruzione religiosa; il terzo ai ragazzi con una formazione scolastica a livello di scuole medie e superiori. La dottrina cattolica era esposta con domande e risposte, brevemente, in termini biblici, con molta chiarezza e senza accenni polemici. Solo nel tempo della sua vita sono state ben 200 le edizioni di questo Catechismo! E centinaia di edizioni si sono succedute fino al Novecento. Così in Germania, ancora nella generazione di mio padre, la gente chiamava il Catechismo semplicemente il Canisio: è realmente il catechista per secoli, ha formato la fede di persone per secoli».


Si può dire che la caratteristica fondamentale della missione tedesca di san Pietro Canisio sia stata, afferma Benedetto XVI, «saper comporre armoniosamente la fedeltà ai principi dogmatici con il rispetto dovuto ad ogni persona. San Canisio ha distinto l'apostasia consapevole, colpevole, dalla fede, dalla perdita della fede incolpevole, nelle circostanze. E ha dichiarato, nei confronti di Roma, che la maggior parte dei tedeschi passata al Protestantesimo era senza colpa. In un momento storico di forti contrasti confessionali, evitava – questa è una cosa straordinaria – l’asprezza e la retorica dell’ira – cosa rara come ho detto a quei tempi nelle discussioni tra cristiani, – e mirava soltanto alla presentazione delle radici spirituali e alla rivitalizzazione della fede nella Chiesa». Fermezza nella dottrina, contro ogni sincretismo e relativismo, e cordialità nelle relazioni personali, contro un certo zelo amaro, costituiscono la formula per l’ecumenismo che il Papa ha recentemente proposto, con riferimento specifico proprio ai luterani, nella recente Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.


Per mettere in pratica questa formula non serve solo un profondo sapere teologico. Serve anche la vita spirituale, che in san Pietro Canisio era alimentata fin dalla giovinezza secondo il Papa «dalla devotio moderna e dalla mistica renana», movimenti di risveglio spirituale fioriti tra la fine del XV secolo e i primi decenni del XVI. «È caratteristica per la spiritualità di san Canisio – afferma ancora il Papa – una profonda amicizia personale con Gesù. Scrive, per esempio, il 4 settembre 1549 nel suo diario, parlando con il Signore: “Tu, alla fine, come se mi aprissi il cuore del Sacratissimo Corpo, che mi sembrava di vedere davanti a me, mi hai comandato di bere a quella sorgente, invitandomi per così dire ad attingere le acque della mia salvezza dalle tue fonti, o mio Salvatore”. E poi vede che il Salvatore gli dà un vestito con tre parti che si chiamano pace, amore e perseveranza».


Il Papa identifica tre radici della spiritualità del santo: la mistica certosina, gli Esercizi spirituali  di sant’Ignazio di Loyola e la devozione al Sacro Cuore. «All’amicizia con Gesù san Pietro Canisio si era formato nell’ambiente spirituale della Certosa di Colonia, nella quale era stato a stretto contatto con due mistici certosini: Johann Lansperger, latinizzato in Lanspergius [1489-1539], e Nicolas van Hesche, latinizzato in Eschius [1507-1578]. Successivamente approfondì l’esperienza di quell’amicizia, familiaritas stupenda nimis, con la contemplazione dei misteri della vita di Gesù, che occupano larga parte negli Esercizi spirituali di sant’Ignazio. La sua intensa devozione al Cuore del Signore, che culminò nella consacrazione al ministero apostolico nella Basilica Vaticana, trova qui il suo fondamento»


Dalla frequenza personale con sant’Ignazio deriva per san Pietro Canisio il convincimento che «non si dà anima sollecita della propria perfezione che non pratichi ogni giorno la preghiera, l’orazione mentale, mezzo ordinario che permette al discepolo di Gesù di vivere l’intimità con il Maestro divino. Perciò, negli scritti destinati all’educazione spirituale del popolo, il nostro Santo insiste sull’importanza della Liturgia con i suoi commenti ai Vangeli, alle feste, al rito della santa Messa e degli altri Sacramenti, ma, nello stesso tempo, ha cura di mostrare ai fedeli la necessità e la bellezza che la preghiera personale quotidiana affianchi e permei la partecipazione al culto pubblico della Chiesa».


Questi tesori della spiritualità ignaziana, afferma il Papa, «conservano intatto il loro valore, specialmente dopo che sono stati riproposti autorevolmente dal Concilio Vaticano II nella Costituzione Sacrosanctum Concilium: la vita cristiana non cresce se non è alimentata dalla partecipazione alla Liturgia, in modo particolare alla santa Messa domenicale, e dalla preghiera personale quotidiana, dal contatto personale con Dio. In mezzo alle mille attività e ai molteplici stimoli che ci circondano, è necessario trovare ogni giorno dei momenti di raccoglimento davanti al Signore per ascoltarlo e parlare con Lui».


Questo vale per tutti i fedeli, ma vale tanto di più per chi è chiamato ad annunciare ad altri il Vangelo. La vita di san Pietro Canisio è la prova che «il ministero apostolico è incisivo e produce frutti di salvezza nei cuori solo se il predicatore è testimone personale di Gesù e sa essere strumento a sua disposizione, a Lui strettamente unito dalla fede nel suo Vangelo e nella sua Chiesa, da una vita moralmente coerente e da un’orazione incessante come l’amore. E questo vale per ogni cristiano che voglia vivere con impegno e fedeltà la sua adesione a Cristo».

Il vero federalismo fiscale di Robi Ronza, 09-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Ogni giorno che passa la questione del cosiddetto “federalismo municipale” diventa sempre meno quella che è; e sempre di più invece il possibile punto di breccia su cui le opposizioni si concentrano nel tentativo di far saltare il governo. Il tema è ben scelto poiché notoriamente il “partito” del centralismo spendaccione, baluardo della burocrazia centrale parassitaria e di tutte grandi clientele meridionali ma non solo, se da un lato è maggioritario nel campo dell’opposizione dall’altro risulta ben rappresentato anche in quello della maggioranza.

Nella misura in cui è autentico, il federalismo è l’unico mezzo per aumentare rapidamente l’efficienza della pubblica amministrazione riducendone altrettanto rapidamente il costo; e quindi la pressione fiscale. Federalismo autentico significa: coincidenza tra chi decide le imposte e chi ne spende il gettito; piena responsabilità fiscale di ogni livello di governo, da quello comunale a quello statale, e quindi pieno diritto di variare la pressione fiscale al di sotto di un “tetto” massimo stabilito per tutti per esigenze di equilibrio generale.

In altre parole: il comune fissa le imposte, le raccoglie e le spende, essendo libero di ridurre la pressione fiscale anche rispetto ai comuni limitrofi nella misura in cui è più efficiente nella spesa, ovvero nella misura in cui i suoi cittadini sono d’accordo nel non esigere alcuni servizi. Non è una favola e nemmeno un’utopia: è la realtà di ogni giorno, tanto per fare un esempio, in Svizzera. E la Svizzera non è su un altro pianeta: è un Paese confinante con il nostro; e i lombardi e piemontesi che vivono ai suoi confini, e quindi ne hanno conoscenza diretta, sono tanto numerosi quanto gli abitanti delle Marche e dell’Umbria messi insieme.

Ciò premesso, veniamo al nostro caso, ovvero al “federalismo fiscale” per cui da noi rischia di cadere il governo. Sia chiaro: siamo ancora molto lontani dal federalismo autentico. Qui si tratta semplicemente di una (eventuale) modifica dei criteri di distribuzione di un gettito fiscale definito in ogni dettaglio da leggi dello Stato e gestito dalla sua Agenzia delle Entrate.

Le novità importanti ci sono: una parte del gettito fiscale resta automaticamente sul territorio in cui si è prodotto; la distribuzione degli stanziamenti statali finalizzati a un preciso scopo (in primis il Fondo nazionale per la sanità) ha luogo in base ai cosiddetti “costi standard” e non per così dire “a piè di lista” ossia con un meccanismo che premia chi spende peggio; ai comuni viene restituita una certa autonomia impositiva.

Manca però quello che, come dicevamo, è lo strumento-chiave per spingere in su l’efficienza e in giù il prelievo fiscale: ossia la coincidenza fra chi decide le imposte e chi ne spende il gettito. Invece di giocare la carta della responsabilità si crea un meccanismo che apre così la via a un continuo mercanteggiamento tra lo Stato che tende e tenderà a dare agli enti locali risorse non proporzionate alle loro competenze, e gli enti locali che tirano e tireranno in senso inverso.

Per di più nelle ultime trattative si sta delineando il peggio del peggio: non intendendo rinunciare a un euro del proprio gettito a favore degli enti locali lo Stato getta loro la polpetta avvelenata di un’autonomia fiscale che si concretizzerebbe in nuove imposte. Dunque nell’aumento di una pressione fiscale già insopportabile. Nondimeno tanto basta perché l’opposizione trasversale al progetto rischi di far cadere il governo.

Evidentemente predominano ancora nella vita pubblica italiana delle forze le quali non hanno ancora capito che la globalizzazione non fa sconti e che senza riforme di struttura sostanziali il nostro Paese – che tra il 1945 e il 1975 era passato dalle rovine della guerra all’entrata nel G 7, il gruppo delle sette maggiori economie industriali del mondo – rischia adesso di ricadere all’indietro e di venire spinto ai margini dello sviluppo.


I Fratelli Musulmani: via Mubarak in una settimana di Marco Respinti, 09-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

In Egitto gli scontri fra manifestanti e forze governative non si placano. È di almeno otto feriti il bilancio degli scontri avvenuti nella città di al-Wadi al-Jadid, nel sudovest del Paese, che sono iniziati la scorsa notte per poi proseguire fino all’alba.

Alla terza settimana di manifestazioni, la “piazza” resta ancora fortemente inquieta. Del resto le proteste, dicono apertamente da qualche giorno i manifestanti, non cessarono fino alle complete dimissioni del raís. La soluzione a metà adottata da Hosni Muabarak, che in un primo momento sembrava avere almeno parzialmente accontentato gli oppositori, viene infatti oggi apertamente rigettata. I manifestanti chiedono l’immediata uscita di scena di Mubarak e non solo l’attuale congelamento sostanziale della situazione attraverso l’affidamento del governo al numero due del regime, Omar Suleiman, e ciò fino alle prossime elezioni, alle quali né Mubarak né i suoi figli dicono di volersi candidare. Mubarak ha intanto incaricato Suleiman di formare una commissione con «il compito di emendare la Costituzione». Attualmente la legge concentra i poteri nelle mani del presidente e la revisione nel 2007, che imponeva restrizioni notevoli per le candidature alle elezioni presidenziali, viene da sempre giudicata una mossa atta a favorire solo la rielezione dello stesso Mubarak o quella del figlio, Gamal. Ma, appunto, le opposizioni non sono paghe.

Dal canto proprio, quello che molti giudicano il “grande assente” della scena (viste le consuetudini delle crisi internazionali), cioè gli Stati Uniti, ammettono che celebrare elezioni subito, come comporterebbero le dimissioni immediate di Mubarak chieste dai manifestanti, è «un obiettivo complicato». Lo ha affermato il portavoce dei Dipartimento di Stato, Philip Crowley. In base alla costituzione egiziana, le dimissioni del governo innescherebbero le elezioni entro 60 giorni, ma nessuno sul territorio sembra essere pronto. O forse solo i soliti noti, cioè i Fratelli Musulmani, l’unica realtà dell’opposizione strutturata ed efficace, come dicono indistintamente da tempo tutti gli osservatori. Strutturata ed efficace, ma anche temuta. L’incognita sul peso che la Fratellanza avrà nell’Egitto post-Mubarak è legata alle inquietudini, poco celate e comunque emergenti anche tra i commentatori più possibilisti e “aperturisti”, sul ruolo che l’islamismo politico assumerà per suo tramite nei complessi scenari mediorientali, fra aspirazione alla democrazia, crisi sociale, “modello iraniano” e spinte jihadiste.

Soprattutto perché dal circondario c’è chi non perde occasione per gettare benzina sul fuoco. Per esempio Hassan Nasrallah, leader dello sciita e filoiraniano Hezbollah, il “Partito di Dio” libanese, che ha accusato Mubarak di essere un “servo” d’Israele e Stati Uniti. Quindi l’ayatollah Ali Khamenei, Guida Suprema del regime iraniano e “maestro” di Hezbollah, che da giorni auspica la creazione nella regione - Egitto, cioè, e non solo - di governi islamici. Ad ascoltare il ministro degli Esteri egiziano, Husam Zaki, intervistato dal quotidiano saudita al-Watan, Nasrallak e Khamenei vorrebbero in questo modo «incendiare l’intera regione», forzando mano e intenzioni delle diverse “piazze” arabe per cercarne il salto di qualità a dimensione panislamista. Dal Marocco alla Gordania, l’intera regione nordafricana e mediorientale continua del resto a essere in rivolta aperta contro i propri governi o comunque pervasa da profondi e ancora indecifrabili malumori.

Ieri i Fratelli Musulmani, per bocca del loro esponente Essam al-Aryan, hanno concesso ancora una settimana di tempo, l’ultima, a Mubarak. A chi gli rinfaccia che intanto però la Fratellanza sta trattando con il regime, Al-Aryan replica: «I vietcong negoziavano a Parigi, mentre combattevano in Vietnam». Cosa accadrà allo scadere dell’ultimatum? Oltre le intemerate di Hezbollah, le intenzioni del regime iraniano e le mosse dei Fratelli Musulmani, ciò che allarma di più sembra infatti essere al Qaeda. Silenziosa. Troppo. Nota acutamente Guido Olimpio sul Corriere della Sera di oggi che probabilmente Osama bin Laden e Ayman al Zawahiri (egiziano, esiliato da Mubarak) «vogliono capire come andrà a finire. Cercano le parole giuste, magari le troveranno presto».

Decisivo, forse, sarà quanto succederà nel resto del Medioriente e del Nordafrica.
Ad Amman ora è nel mirino delle proteste antigovernative la regina Rania, accusata d’insensibilità e di corruzione. Solo pochi giorni fa il sovrano Abdallah II, che regna dal 1999 un Paese di 6 milioni circa di abitanti più della metà dei quali di origine palestinese e il 40% di origini tribali e beduine, è stato costretto a sostituire il primo ministro Samir Rifai con Maarouf Bakhit promettendo riforme.

Dopo vari casi di suicidi con il fuoco, e dopo la rivolta nel campo saharawi di Layooune di novembre, anche il Marocco potrebbe finire per scoppiare. Il 20 febbraio si svolgerà la prima grande manifestazione di piazza, indetta via Facebook  dal "Movimento liberale per la democrazia" per «la dignità del popolo e per le riforme democratiche». Alla loro iniziativa si è subito aggiunta quella del movimento islamista “Justice et bienfaisance”, formalmente fuorilegge, ma di fatto tollerato dalle autorità. Chiede il «cambiamento fondamentale democratico urgente». Il movimento - distinto dal partito islamico "Giustizia e Sviluppo" (braccio marocchino dei Fratelli Musulmani), che è presente in Parlamento - potrebbe contare 200mila aderenti. Lo guida l’83enne Abdessalamn Yassine.


09/02/2011 - EGITTO - Egitto: le manifestazioni senza capi avvantaggiano gli estremisti islamici

Tra la popolazione si diffondono volantini del regime iraniano in arabo che inneggiano alla rivoluzione islamica. Per le strade del Cairo aumenta la presenza degli integralisti usciti di recente dalle prigioni. Fonte di AsiaNews: “La situazione non è chiara, aspettiamo giorno dopo giorno per vedere come finirà”.


Il Cairo (AsiaNews) - “Senza un leader in grado di dialogare con le istituzioni, la piazza è debole e avvantaggia i fondamentalisti islamici che hanno colto l’occasione di inserirsi nelle trattative con il governo”.  È quanto affermano fonti di AsiaNews, anonime per motivi di sicurezza.

“Ci sono più mani straniere che stanno agendo in Egitto”, aggiunge. “In questi giorni – continua - si vedono più fondamentalisti girare per le strade, molti di loro sono da poco usciti di prigione”. La fonte dice che tra la popolazione si diffondono volantini e manifesti provenienti dall’Iran, con stampato un discorso dell’ayatollah Khamenei in arabo che loda gli egiziani per il loro coraggio e li invita alla rivoluzione islamica. Oggi, il sito americano di Intelligence Site ha reso noto che anche al-Qaeda ha inviato un messaggio al popolo egiziano inneggiando alla guerra santa contro il regime filo occidentale di Mubarak e consigliando di non farsi trascinare verso “idoli pagani” come la democrazia e l’occidentalizzazione.

Nonostante le spinte fondamentaliste, giovani cristiani e musulmani, continuano a manifestare. Ieri centiniaia di migliaia di persone si sono recate in piazza Tahrir in quella che è stata la più grande protesta dall’inizio delle rivolte. Ancora in queste ore decine di migliaia i giovani presidiano la piazza in attesa di una nuova grande protesta prevista per il prossimo 11 febbraio.

 “I giovani che protestano – continua la fonte – vogliono la partenza del presidente prima di accettare le proposte del governo”. Per placare la piazza ieri, Omar Suleiman, il vice-presidente, ha accettato di incontrare le delegazioni dell’opposizione. Egli ha promesso emendamenti alla Costituzione e libere elezioni entro breve tempo, ma non le dimissioni del presidente, che  porterebbero il Paese nel Caos. Suleiman ha sottolineato che solo con il dialogo  ci potrà essere un cambiamento, l’alternativa sarebbe un colpo di Stato militare.     

Tuttavia la crisi di governo, potrebbe giovare ai cristiani. In questi giorni rappresentanti cristiani hanno approfittato del dibattito sul cambiamento della costituzione per chiedere maggiori tutele. Essi hanno inviato una domanda al vice-presidente in cui chiedono di cambiare alcuni articoli che ledono i diritti dei cristiani. Al momento la richiesta è ancora senza risposta . Secondo la fonte la pressione dei fondamentalisti potrebbe far saltare le ipotesi di miglioramento. “La situazione – aggiunge - non è chiara, aspettiamo giorno dopo giorno per vedere come finirà”. (S.C.)


La mancanza di memoria condivisa di Andrea Tornielli, 10-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Il primo piano di oggi è dedicato a una testimonianza sulle vittime delle foibe e sull’esodo giuliano-dalmata, nella Giornata del Ricordo a loro dedicata. Le foibe rappresentano uno degli episodi dolorosi e tragici sui quali per lunghi anni è stato difficile, anzi impossibile, una memoria condivisa da parte degli italiani.

Su questo, come su altri comprovati e indubitabili avvenimenti storici – si pensi ad esempio alle vittime dei partigiani rossi nell’immediato dopoguerra, molte delle quali erano incolpevoli sacerdoti – noi italiani siamo ancora divisi, anche a motivo delle immancabili strumentalizzazione politiche, purtroppo sempre presenti ed equamente distribuite tra le forze in campo. Lo stesso è accaduto e accade, oggi fortunatamente in tono minore a motivo del tempo passato, per il Risorgimento e l’unità d’Italia.

Ci si divide sull’opportunità del giorno di festa una tantum il 17 marzo, ma sotto sotto c’è chi prova allergia per l’evento stesso, per ragioni politiche legate a rivendicazioni autonomistiche o in considerazione delle ferite provocate dal processo risorgimentale, che sembrano rimanere ancora aperte. Comunque la si pensi, il dato che emerge, a differenza di altri Paesi del mondo che pure hanno attraversato nel loro passato recente fasi a dir poco turbolente, è proprio la mancanza di una memoria realmente condivisa.

Memoria condivisa, sarà meglio precisarlo, non significa mettere tutti e tutto sullo stesso piano, senza le necessarie distinzioni, senza la chiarezza di un giudizio storico e morale. Significa invece guardare al passato senza il velo del pregiudizio, delle leggende nere o rosa, senza la retorica tronfia, senza seguire le vulgate create ad arte, deponendo gli schemi e pregiudizi ideologici almeno di fronte ai morti.

Significa innanzitutto continuare a studiare il nostro passato senza usare la storia come una clava da sbattere sulla testa dell’avversario politico. Significa non avere paura della verità, qualunque essa sia. Aprendo le celebrazioni per il centocinquantenario dell’unità, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha sottolineato la necessità di ricordare la nascita dell’Italia senza indulgere ad «una visione acritica del Risorgimento, ad una rappresentazione idilliaca», ma sollecitando che come «giusto» un approccio «non sterilmente recriminatorio e sostanzialmente distruttivo, un approccio che ponga in piena luce il decisivo avanzamento storico consentito all’Italia dalla nascita dello stato nazionale».

È possibile individuare un compito specifico per i cattolici nel processo per giungere a una memoria veramente condivisa? Pensiamo di sì. Proprio a motivo dello sguardo che il credente ha – o dovrebbe avere – sulla storia e dunque sulle vicende umane. Uno sguardo che privilegia le persone, e non le ideologie di cui queste stesse persone si fanno portatrici.

L’Italia esisteva come popolo e come nazione da molti secoli. Non è un caso nei nostri euro di moneta non si trovino stemmi imperiali o volti di re, ma la faccia di Dante e l’immagine dell’uomo vitruviano di Leonardo. Un grande poeta e un grande scienziato-artista. L’Italia, come lingua, cultura e valori, innervati nella comune appartenenza cristiana, esisteva già al loro tempo, e dunque ben prima di Cavour, Garibaldi e Vittorio Emanuele.

Ma c’è stato un momento, negli ultimi centocinquant’anni di storia unitaria (sarebbe sciocco oltre che anacronistico dimenticare che l’unità d’Italia è un bene), in cui le tre anime del Paese – una elitaria, quella liberal-azionista, le altre due veramente popolari, quella cattolica e quella social-comunista – si sono finalmente ritrovate insieme nel costruire la carta fondamentale e condivisa della nostra Costituzione.

Allora, nell’Italia ridotta in macerie, fu possibile riconoscersi e riconoscere i valori dell’altro trovando un comune denominatore. Oggi servirebbe almeno un po’ di quello spirito, per guardare alla nostra storia, per pacificare gli animi, per costruire una memoria condivisa. E magari per tornare a vivere una politica che assomigli di più a un confronto dialettico tra posizioni diverse, ma che si legittimano a vicenda, e non a un reality show dove sembra vincere chi la spara più grossa, mentre continuano a perdere tutti gli italiani.


Foibe, la storia cancellata «La mia gente sparita nel nulla» di Antonio Giuliano, 10-02-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

«Si chiamava don Angelo Tarticchio, era un mio parente. La polizia comunista di Tito lo prelevò dalla canonica di Villa di Rovigno, nell’Istria, il 16 settembre del 1943. Aveva 36 anni. Fu mutilato, lapidato ancora vivo e gettato in una foiba con una corona di filo spinato in testa. La sua salma fu recuperata solo due mesi dopo. Ricordo come fosse ieri il suo funerale. In chiesa una folla immensa che piangeva. Mio padre mi teneva la mano. Non immaginava che un anno e mezzo dopo avrebbe fatto la stessa fine…».

Piero Tarticchio da Gallesano (Istria), classe 1936, scrittore e pittore, è un testimone come pochi del doppio dramma delle foibe. Non solo perché suo padre e altri parenti finirono tra le 5 mila persone (quasi tutti italiani) che la Jugoslavia comunista di Tito fece sparire nelle spaventose cavità carsiche (foibe) durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra. Ma anche perché fu tra quei 300 mila che lasciarono l’Istria e la Dalmazia quando queste regioni furono assegnate alla Jugoslavia con il trattato di Parigi del 10 febbraio 1947.

«Tutto cominciò – racconta Tarticchio - dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando nell’italiana Istria arrivarono gli emissari di Tito per conquistarla. Volevano l’Istria e non gli italiani. Così cominciarono a sparire circa 700-800 conterranei, tra cui funzionari statali e sacerdoti. 243 salme furono ritrovate solo due mesi più tardi: erano stati infoibati. Una pratica mai usata prima che consentiva di eliminare le persone senza lasciare traccia: venivano gettati in queste cavità carsiche usate dai contadini come discariche per animali morti o sterpaglia». Ma l’ondata persecutoria più massiccia ci fu al termine della guerra. «Mentre in Italia si festeggiava la Liberazione, noi cadevamo in un incubo. Ci fu una vera caccia a noi italiani considerati fascisti sfruttatori. Anche i sacerdoti finirono nel mirino. Il comunismo di Tito basato sul marxismo-leninismo chiuse le chiese dell'Istria, abolì il culto religioso… Non si poteva nemmeno morire con il conforto di un prete. Tra i religiosi martirizzati, oltre a don Angelo cugino di mio padre, ci fu anche il beato don Francesco Bonifacio».

E la furia della polizia jugoslava non risparmiò proprio nessuno: «Gli antifascisti furono i primi a essere gettati nelle foibe, perché il regime jugoslavo non voleva interlocutori. Molti partigiani italiani caddero nel tranello di Tito che li mandò a combattere sui monti al centro della Jugoslavia per annettersi senza intralci l’Istria. E anche sulla tragedia di Porzus, con l’eccidio fratricida tra i partigiani cattolici della Brigata Osoppo e quelli rossi della Brigata Garibaldi c’è la responsabilità di Togliatti che considerava fratelli i partigiani di Tito…». Di sicuro i comunisti jugoslavi non si fecero alcuno scrupolo: «In Istria la gente spariva di notte – dice Tarticchio -. Ho conosciuto persone che non hanno dormito due notti di seguito nello stesso letto. Sapevano di essere scritti nel registro della famigerata polizia segreta dell’Ozna. La psicosi era tale per cui si andava a dormire, ma l’indomani mattina non si era sicuri di svegliarsi nello stesso letto».

E i ricordi di Tarticchio, raccolti anche in un prezioso libro di Marco Girardo Sopravvissuti e dimenticati (Paoline), vanno sempre a quella notte del 3 maggio 1945: «Non avevo ancora 9 anni. Quattro uomini fecero irruzione a casa nostra alle 2 di notte. Mi svegliai e mi rifugiai subito tra le braccia di mia madre. Andarono da mio padre col mitra spianato intimandogli di seguirlo al comando. Gli legarono i polsi con il filo di ferro e lo spinsero col calcio del fucile fuori dalla porta. Mia madre piangeva e continuava a chiedere perché. L’unico dei dei quattro senza mitra che parlava italiano disse: “Non gridate o sparano”». I giorni seguenti furono pieni di angoscia: «Con mia madre andavamo tutti i giorni a portare biancheria e viveri a mio padre nel carcere di Pisino, una fortezza a strapiombo su una foiba. Ma non c’era possibilità di contatto con lui. Lo vedevamo solo attraverso le grate dalla strada. Lì l’ho visto l’ultima volta. Dopo 10 giorni, una mattina ci dissero che nella prigione non c’era più nessuno: nella notte i camion avevano portato via 800-850 persone».

Non poteva finire così. «Mia madre non si rassegnò all’idea di perdere suo marito. E con un coraggio che ancora adesso non mi spiego, si inoltrò in Jugoslavia per avere notizie. Ci avevano detto che lo avrebbero portato a Fiume per processarlo insieme con tutti i prigionieri. Ma solo dopo tanto tempo ho saputo che lì non arrivò nessuno: furono tutti infoibati». Ed era solo l’inizio di un’odissea senza fine: «Quando mia madre tornò dalla Jugoslavia un funzionario l’avvertì: “Guarda che sei nelle liste della polizia segreta, fai troppe domande, è probabile che ti arrestino e ti mandano nei campi di lavoro forzato della Jugoslavia e il bambino lo mandano in un collegio di rieducazione comunista nel nord della Slovenia”. Così scappammo di notte e attraversammo la linea di confine per sentieri di campagna passando sotto i reticolati. Prima ci rifugiammo a Pola, poi andammo via anche da lì di notte col piroscafo per Trieste insieme con il 98% della popolazione».

È l’inizio di quel triste esodo degli istriani di cui parla anche lo scrittore Diego Zandel in un bel libro uscito da poco I testimoni muti (Mursia). Una partenza sofferta ma senza alcuna alternativa: «Sei mesi prima che venisse firmato il trattato di Parigi – spiega Tarticchio - a Pola un atto terroristico di chiara matrice slava fece 110 vittime. Era l’ennesimo segnale che Tito ci costringeva ad andarcene. Partimmo il 20 gennaio 1947. Peraltro il trattato ci avrebbe comunque obbligato a scegliere: rimanere italiani e andarcene via. Oppure rimanere jugoslavi e restare sulla nostra terra». Prima a Taranto da una sorella, poi a Milano. Ma l’accoglienza dei nostri connazionali non fu delle migliori. Anzi. «Non ci fu quella solidarietà fraterna che ci aspettavamo. Eravamo un corpo estraneo in una società che non ci voleva. La gente all’indomani della guerra chiedeva pane e lavoro e noi eravamo un ulteriore peso. Poi siamo stati invisi dai comunisti italiani sin dall’inizio, ci consideravano fascisti e reazionari per aver voltato le spalle al “paradiso” comunista di Tito».

Un’ostilità che ha pesato anche sulla storiografia: «La cultura di sinistra ha negato per anni le foibe e quando ha dovuto prenderne atto le ha “giustificate” come la conseguenza delle malefatte del Fascismo aggressore della Jugoslavia. Ho fatto una ricerca: su 31 libri di storia per le scuole medie e superiori, soltanto 2 trattano le Foibe con onestà intellettuale. La maggior parte dei testi non ne parla neppure. Va bene il Giorno del ricordo: ma come si può ricordare qualcosa che non si conosce?».


La politica coi piedi per terra di Roberto Fontolan, giovedì 10 febbraio 2011, ilsussidiario.net

Quando, un paio di settimane fa, il cardinale Angelo Bagnasco lesse la parte della prolusione al Consiglio Permanente della Cei dedicata all’infernale momento politico-giudiziario del nostro Paese, fu tutto un approvare e un aderire.

Parole giuste, parole illuminanti, chiedono approfondimento e riflessione, impongono un ripensamento, sospingono a un cambiamento, è ora di mutare non solo i toni, ma anche la sostanza… Fu questo il tenore unanime dei commenti, l’uno o l’altro arricchiti degli ormai immancabili concetti di bene comune, responsabilità civile, sfida morale, guai alle strumentalizzazioni, una autorità morale che parla alla coscienza di tutti e così via.

Quel paragrafo di 35 nitide e profonde righe sembrava destinato, nelle prime reazioni, a costituire la base di una riscossa, di un rilancio. Ma poche ore dopo, il prezioso palinsesto di una Italia desiderosa di qualcosa d’altro veniva già cancellato e riscritto. Incombevano i talk show, le dichiarazioni di agenzia, le prime pagine dei giornali.

I media hanno fame di titoli e vince chi la spara più grossa. E così, quell’altro e alto punto di vista, quel giudizio foriero di un essere diversi qui e ora, veniva presto ricacciato nel limbo dei principi morali, nel ghetto degli ideali che sarebbe-bello-poterli-realizzare-ma-la-realtà-è-un’altra-cosa.

Non è colpa della stampa, sia ben chiaro. La stampa fa parte del “sistema” (parola sessantottina quant’altre mai) e il sistema è fatto così: il cielo (delle verità, della coscienza, del cuore umano) non c’entra con la terra (delle decisioni pratiche, del potere, del governo). Oppure anche: il cielo non basta, non è sufficiente, non è completo; e poiché occorre “stare coi piedi per terra” la congiunzione tra i due mondi si dissolve e si dilegua.
Non era così che veniva liquidato Giovanni Paolo II quando implorava il mondo di fermarsi davanti alla guerra irachena? Dicevano: “Il Papa è una altissima autorità morale e non può che dire così” e al di sotto di quell’esibito rispetto in verità pensavano: “I criteri che lui propone per affrontare Saddam Hussein non hanno valenza terrena”.

Un caso in cui l’ipocrisia (che c’era) si accoppiava alla sincerità più assoluta. Ma il sistema, che non è una società segreta di mascalzoni ma un prodotto, una creazione di noi uomini e per questo occorre tanta educazione, è sempre all’opera per inculcarci la sua filosofia della separazione. Ci sono mille esempi di questo, basta dare un'occhiata ai giornali.

Allo stesso modo è stato “dissolto” il giudizio del presidente della Cei. Per fare giustizia, per fare la politica “questo atteggiamento interiore che permetterà di avere quello scatto di coscienza e di responsabilità necessario per camminare e costruire insieme” (parole del cardinale) non è concretamente utilizzabile: alla giustizia come alla giustizia, alla politica come alla politica, à la guerre comme à la guerre, pensano i “realisti”.

Atteggiamento interiore? Cuore? Desiderio? Cose buone per l’aldilà, per la vita dopo la morte; si sa bene che nell’aldiquà non possono funzionare. Troncare, sopire, ridurre, separare, cancellare: ecco le cinque azioni, spesso compiute in perfetta buona fede, che garantiscono la rassicurante incomunicabilità tra cielo e terra. Ma che facciamo con quel piccolo particolare che è la vita (la giustizia, la politica, la realtà) prima della morte?
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TUNISIA/ Mario Mauro: un record mondiale è pronto a scatenare nuove rivolte di Mario Mauro - giovedì 10 febbraio 2011, il sussidiario.net

Da quando in Tunisia è caduto il governo di Ben Ali, a seguito delle rivolte scoppiate in tutto il paese, l’Unione europea sembra aver assunto un ruolo di leadership nell’accompagnare la transizione democratica del paese nordafricano.

Il Consiglio europeo, riunitosi alla fine di gennaio, aveva espressamente annunciato che “l’Unione europea è determinata a sostenere pienamente i processi di transizione verso la governance democratica, il pluralismo, migliori possibilità di prosperità economica e di inclusione sociale e una maggiore stabilità regionale”.

Lo scorso 3 febbraio, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione nella quale si conferma la volontà di perseverare nell’implementazione delle clausole in favore dei diritti umani durante la stipula degli accordi con i paesi terzi. Il documento propone altresì “alla Commissione europea e alla Banca europea degli investimenti di sostenere la Tunisia attraverso prestiti a tasso agevolato, per consentire all’economia tunisina di diversificarsi e offrire prospettive di lavoro qualificato ai giovani tunisini, nel quadro di un autentico contratto di sviluppo che favorisca gli investimenti produttivi locali ed esteri”.

Questo cambiamento in senso democratico, auspicato da tutti, dovrà essere accompagnato da azioni concrete del nuovo Governo, soprattutto per affrontare nel modo migliore ciò che ha scatenato la rivolta e che ha rovesciato il regime di Ben Ali. Dal 3 al 6 febbraio ho fatto parte della delegazione ad hoc del Parlamento europeo in Tunisia, che aveva l’obiettivo di creare le condizioni affinché i propositi espressi avessero un reale seguito.

Siamo stati ricevuti dal Primo Ministro, Mohammed Ghannouchi, dal ministro degli Esteri, Ahmed Ounais, dal ministro della Difesa, Abdlkrim Zbidi e dal ministro della Giustizia, Lazhar Karoui Chebbi. Abbiamo incontrato inoltre i leader delle principali forze politiche.
Le prime decisioni prese dal nuovo esecutivo appaiono incoraggianti: amnistia generale, legalizzazione dei partiti politici e delle Organizzazioni non governative, adesione allo statuto della corte criminale internazionale e alla convenzione Onu contro la tortura. La delegazione ha riaffermato l’impegno del Parlamento europeo per l’Unione europea di muovere tutti gli strumenti necessari, compresa la politica di vicinato (da rivedere), a supporto della popolazione tunisina, della transizione democratica, della società civile e delle riforme necessarie per raggiungere un’indipendenza giudiziaria e per una ripresa economica.

Gli incontri con alcune organizzazioni della società civile hanno permesso alla delegazione di verificare la determinazione di questi attori nel processo di rafforzamento della democrazia in Tunisia. È urgente una conferenza dei donatori dedicata alla Tunisia per scongiurare il rischio di nuove tensioni sociali, anche perché i dati sono a dir poco preoccupanti: la disoccupazione giovanile è tra il 40 e il 50%, mentre gli introiti per il turismo hanno subito recentemente un calo del 40%.

A dicembre i prezzi mondiali dei beni alimentari, misurati secondo il sistema dell’Onu, hanno fatto segnare il record da quando vengono monitorati (1990). Tali prezzi stanno continuando ad aumentare. Se non si troveranno le contromisure adeguate, il nuovo Governo avrà vita brevissima e il moltiplicarsi di moti più o meno violenti paralizzerà il paese per tanto, troppo tempo.
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FOIBE/ Zecchi: ecco perché abbiamo tradito la memoria del nostro popolo - INT. Stefano Zecchi - giovedì 10 febbraio 2011 – il sussidiario.net

«La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra». Fa un’operazione di verità storica, la legge firmata nel 2004 dal presidente Ciampi, riabilitando un popolo distrutto dall’odio etnico e politico. Nelle foibe del Carso trovarono la morte migliaia di italiani, vittime della violenza perpetrata dai partigiani comunisti di Tito tra l’autunno del ’43 e il giugno del ’45. Dopo di loro fu il dramma di quei 350mila italiani che, fino a tutti gli anni Cinquanta, dovettero fuggire dall’Istria e dalla Dalmazia per non subire le violenze, l’emarginazione, le confische dell’esperimento sociale comunista.
Sono queste le vicende che fanno da sfondo a Quando ci batteva forte il cuore, l’ultimo romanzo di Stefano Zecchi. «Il ricordo è un fatto principalmente educativo - dice Zecchi al sussidiario -. Per continuare a esistere dev’essere legato al senso di un’appartenenza, di una tradizione, al modo in cui questa prende importanza nel presente. Serve a non farci diventare degli infedeli, infedeli a ciò che di importante è stato nella nostra vita, personale e collettiva».

A suo modo il 10 febbraio è anch’esso un «giorno della memoria», che però a differenza di altre date più popolari è molto meno nelle corde dell’opinione pubblica.

Di questa vicenda tragica non si è mai voluto parlare, innanzitutto perché si sono voluti nascondere i crimini dei comunisti e poi tutta una serie di altre compromissioni di tipo politico. Non si è mai voluto riflettere sul fatto, drammatico e impressionante, che oltre 350mila italiani, senza contare quelli che sono stati trucidati, hanno rinunciato a tutto per rimanere italiani, e una volta arrivati in patria sono stati trattati come delinquenti e fascisti. Anche questa è la storia della nostra repubblica.

Ha parlato di convenienze politiche. Quali?

Quelle della realpolitik. Siamo in presenza di una tragedia legata al fascismo, che in un certo senso ne rappresenta la causa, ma la cui comprensione storica viene poi ostacolata dal patto tra comunisti e democristiani. Togliatti, in modo esplicito, da comunista qual era voleva che la Venezia Giulia, l’Istria, Fiume e la Dalmazia fossero annesse alla Jugoslavia. La Dc, con De Gasperi in testa, faceva fatica a controbattere a questa tesi e non voleva che si facesse il plebiscito, come chiedevano gli istriani, perché temeva che il Trentino-Alto Adige facesse prima o poi una richiesta analoga. Il silenzio è continuato con il trattato di Osimo e fino alla metà degli anni Settanta. Una storia su cui non si è mai voluto alzare il velo.

È questo lo sfondo del suo romanzo. Quanto c’è di autobiografico in Quando ci batteva forte il cuore?

Per quanto mi riguarda è soprattutto un romanzo, anche se come ogni romanzo risente di una serie di suggestioni, emozioni, visioni, conoscenze. Ho voluto fare la storia di un padre e di un bambino, raccontare l’importanza dell’educazione là dove la vita diviene dramma. Il tema mi stimolava: quand’ero assessore a Milano partecipavo alle iniziative della Giornata del ricordo, potevo conoscere da vicino le associazioni e la loro memoria storica, che mi appariva di una drammaticità impressionante. Mia nonna poi era triestina e ricordo bene le storie che mi raccontava. L’ultima parte del romanzo (padre e figlio scappano dall’Istria e si stabiliscono a Venezia, ndr) contiene cose che io stesso ho visto con i miei occhi... Se mette insieme tutto questo, ecco che nasce il romanzo.

La vicenda narrata nel romanzo tocca da vicino, oltre che la questione della memoria, anche quella dell’identità italiana. Cosa vuol dire per lei essere italiano?

Non è qualcosa di acquisito una volta per tutte. Ha richiesto un percorso, una maturazione. Per me essere italiani significa appartenere a una storia, a una cultura, a una tradizione. Sento di appartenere molto più ad una tradizione culturale che ad una tradizione politica. È più un fatto di sentimenti che una faccenda statuale o istituzionale.

C’è un problema che tocca la memoria dei popoli e di cui si è parlato di recente anche a proposito della Shoah. Che cos’è che a distanza di tempo «salva» il ricordo e gli permette di sopravvivere alle generazioni?

Il ricordo è un fatto principalmente educativo, e dunque culturale. Per continuare dev’essere legato al senso di un’appartenenza, di una tradizione, al modo in cui questa prende importanza nel presente. Per guardare al futuro dobbiamo pensare al passato dove abbiamo le nostre radici. Ho dedicato il romanzo a mio figlio perché ricordare serve a non farci diventare degli infedeli, infedeli a ciò che di importante è stato nella nostra vita. Per ricordare serve una trasmissione di conoscenze che avviene normalmente attraverso persone, incontri, letture. Famiglia e scuola sono determinanti, o meglio lo erano. Ora hanno abdicato.

Secondo lei l’esodo giuliano-dalmata e i drammi personali che esso ha portato con sé, è un fatto storico concluso o è una ferita ancora aperta?

È una ferita che sanguina ancora, perché non c’è una memoria pacificata, perché troppe situazioni politiche recenti sono state un po’ complici e un po’ reticenti verso tutta questa storia. E secondo me quando un giorno essa verrà fuori in tutta la sua complessità, si capirà finalmente qual è stato il martirio di questa gente. Si capirà che c’è stata una vera e propria pulizia etnica, e quante e quali colpe sono state quelle di non riconoscere apertamente la storia, il suo dramma e le sue complicazioni.

Il nazionalismo ha avuto un ruolo nell’aver enfatizzato, anche in modo distorto, queste vicende?

Mi limito ad osservare che non si può dire, come fece Cossiga, che il concetto di patria è divenuto dopo la guerra qualcosa di difficile da usare perché nel fascismo c’era un enfasi così madornale e fastidiosa che ora serviva una maggiore sobrietà. No, poteva essere usato benissimo, dal punto di vista culturale e politico, senza creare né enfasi né trionfalismi idioti. Quindi c’è una colpa, sì. Quella di storici e di politici timorosi o compromessi. Non dimentichiamo che siamo di fronte ad un popolo ch’è stato vittima di un esilio doppio, dalla sua terra e dalla sua patria, in Istria e in Italia.

Nel corso del romanzo il padre di Sergio, Flavio, passa dall’assenza alla presenza, al contrario della madre, patriota combattiva, che finisce per scomparire, andando in clandestinità. E alla fine il giudizio di Sergio è molto duro: è suo padre ad avergli donato la vera libertà. Perché questo capovolgimento?

Innanzitutto mi premeva il contesto storico. Nives, la protagonista, è una maestra, in fondo una donna intellettuale per quei tempi, con una consapevolezza sociale e politica e la volontà che quelle terre rimangano italiane. È inventata, ma un po’ si ispira a Maria Pasquinelli (uccise il comandante della guarnigione inglese di stanza a Pola il 10 febbraio 1947, giorno della firma del trattato di pace, ndr) che come personaggio storico entra nel romanzo con nome e cognome. Un gesto, il suo, di cui sono sempre stato convinto che fosse qualcosa di più di una ribellione soggettiva a quello che stava accadendo. Ma è una storia che non è nota e che è difficilissimo ricostruire, perché i documenti non ci sono. Il rovesciamento di cui lei parla è in realtà solo narrativo. Volevo una madre che avesse una sua tragicità, da contrapporre ad un padre che si assume un altro tipo di responsabilità, che non è quella di pensare alla grande storia e alla grande politica, ma alla famiglia. Un padre non assente e per questo forse poco «attuale», ma Sergio gliene sarà grato.

(Federico Ferraù)

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