martedì 1 marzo 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    DAL GIURAMENTO DI IPPOCRATE A QUELLO DEGLI IPOCRITI. Il trauma post aborto. Di Cinzia Baccaglini - 28/02/2011 - Aborto - Dopo le parole del papa sulla sindrome post aborto, è opportuno ripubblicare un vecchio articolo sul tema
2)    Il Papa e le ambivalenze del linguaggio che muta di Massimo Introvigne, 28-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
3)    IL BEATO GIOVANNI DUNS SCOTO, TEOLOGO DELL’EUCARESTIA - ROMA, lunedì, 28 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un estratto dal volumetto di Girolamo Pica, Il beato Giovanni Duns Scoto. Dottore dell'Immacolata (Elledici-Velar).
4)    IN LAOS, FAMIGLIE DI CRISTIANI COSTRETTE AI MARGINI DELLA GIUNGLA - Cacciate dal villaggio di Katin rischiano ora la sopravvivenza di Paul De Maeyer
5)    Il discorso di Benedetto XVI sull'aborto - Per difendere la comune umanità di Lucetta Scaraffia (©L'Osservatore Romano - 28 febbraio - 1 marzo 2011)
6)    Scuole paritarie, un affare per lo Stato di Marco Lepore, 01-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
7)    Gli indignati "speciali"di Paolo Preti, martedì 1 marzo 2011, il sussidiario.net
8)    Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - La lezione di Yara all’Italia: l’eroismo della purezza. Come Maria Goretti, di Antonio Socci, da “Libero”,  1 marzo 2011
9)    Cercasi padre Brown disperatamente di Andrea Tornielli, 01-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
10)                      Avvenire.it, 1 marzo 2011, Oltre il dolore, dentro le notizie - Per capire, per vivere di Davide Rondoni
11)                      Avvenire.it, 1 marzo 2011, INTERVISTA, Roccella: «Questa legge sulle Dat scioglie ogni dubbio» di Francesco Ognibene
12)                      Avvenire.it, 1 marzo 2011 - LA SCHEDA - Così si dà valore all’alleanza terapeutica di Ilaria Nava
13)                      OLTRE LA SOLITUDINE DI RIMPIANTI CENSURATI E DOLORI NASCOSTI - Lo sguardo che davvero serve sull’oscura ferita dell’aborto di MARINA CORRADI, Avvenire, 1 marzo 2011

DAL GIURAMENTO DI IPPOCRATE A QUELLO DEGLI IPOCRITI. Il trauma post aborto. Di Cinzia Baccaglini - 28/02/2011 - Aborto - Dopo le parole del papa sulla sindrome post aborto, è opportuno ripubblicare un vecchio articolo sul tema

Torino. Valentina, nome dai giornali, tredicenne, viene ‘costretta’ ad abortire. Così la stampa comincia a riverberare nel circuito massmediatico questa situazione.

Poi le altre notizie si accavallano e si confondono. Nel momento in cui scrivo si sa che è figlia adottiva di genitori che si sono poi separati, che ci sono stati interventi degli assistenti sociali e del giudice tutelare per l’aborto. Che il padre del bimbo ha 15 anni e che Valentina sta male. E’ stata ricoverata in psichiatria, poiché ha reagito con un dolore acuto, un vero e proprio scompenso, che ha queste parole: ‘voi mi avete fatta uccidere mio figlio, adesso a me non rimane che uccidere me stessa’. Parole terribili che scuotono dentro, perché dette da una bimba. Se ci fermiamo però a riflettere anche su tutti i commenti fin ad ora fatti non ho letto niente in merito al punto vero della questione: cioè che tutto questo parte da un bimbo concepito che non c’è più, che è stato ucciso sotto l’egida di una legge che lo permette per ‘libera scelta’ e anche su questo avrei qualcosa da ridire, ma anche se lo vuoi tenere e sei troppo piccola per decidere di te.

Chi come me tratta la sindrome post aborto e quella post fecondazione sa che questo dolore è profondo, è una ferita inferta al corpo e al cuore della madre, che ha riverberi spaventosi all’interno della donna ed anche a livello familiare e della stessa società. Non lo dicono i dottrinari senza cuore che difendono la vita dal concepimento alla morte naturale, non lo dicono i cattolici invasati che hanno fatto le battaglie sull’aborto.

Lo dice la scienza, lo dice l’esperienza clinica; un esempio: secondo l' Elliot institute for social sciences research : il 90% di queste donne soffre di danni psichici nella stima di sé; il 50% inizia o aumenta il consumo di bevande alcoliche e/o quello di droga; il 60% è soggetto a idee di suicidio; il 28% ammette di aver persino provato fisicamente a suicidarsi; il 20% soffre gravemente di sintomi del tipo stress post-traumatico; il 50% soffre dello stesso in modo meno grave; il 52% soffre di risentimento e persino di odio verso quelle persone che le hanno spinte a compiere l'aborto.

L’aborto, insieme alla fecondazione artificiale, sono le uniche azioni che io conosca che uccidono più del 100%. Oltre 400 lavori scientifici prodotti dal 1995 ad oggi a livello mondiale si definiscono tre quadri gnoseologici:

1. La psicosi post-aborto, che insorge subito dopo l'aborto, può perdurare per oltre sei mesi ed è un disturbo di natura prevalentemente psichiatrica;

2. Lo stress post-aborto, insorge tra i tre e i sei mesi e rappresenta il disturbo più lieve sinora osservato;

3. La sindrome post-abortiva: un insieme di disturbi che possono insorgere subito dopo l'interruzione come dopo svariati anni in quanto possono rimanere a lungo latenti e nella mia esperienza clinica anche dopo 23 anni. Il rischio aumenta a scadenza dei termini legali, in età adolescenziale (e qui bisognerebbe fare una sana riflessione su ciò che significa dare il Norlevo alle adolescenti), in età pre-climaterica quando si fa un bilancio della propria attività sessuale e del poco tempo riproduttivo rimasto, dopo un lutto, dopo un'infertilità precedente (pensate alle mamme della fecondazione artificiale), al termine di una relazione affettiva, legata ad ambivalenza decisionale (pensate a quanto questo bimbo diventa sempre più importante se c'era o non c'era fino a diventare persecutorio nel dilemma della Norlevo), in condizione di isolamento affettivo. Bisogna anche dire che la sindrome post-abortiva non concerne esclusivamente la mamma che ha abortito. Si perché è facile dire anche a livello comune che l’aborto è un dramma, che è un trauma, ma il motivo non lo si dice mai: è così perché ci scappa il morto ammazzato, il bimbo che non ha chiesto di venire al mondo al quale non è data la possibilità di venire alla luce. Ma se non posso chiedere questa consapevolezza a una tredicenne, che peraltro sembra avesse, e come la posso chiedere agli adulti, la posso chiedere agli operatori sociali, la voglio chiedere a quei medici ed infermieri che in sala operatoria sanno quello che fanno e chi, non che cosa, uccidono.

 La consapevolezza la voglio chiedere in particolare a loro che portano il camice bianco e come dentro una divisa vi si nascondono, e usano strumenti sterili nelle sale operatorie. Non c’è strumento sterile che tenga al dolore inferto da quella mano armata, anche se sotto anestesia! ... ma il bambino non è sotto anestesia e soffre terribilmente, come dimostra il filmato ‘Il grido silenzioso e come sostengono studiosi italiani ed americani. E allora basta nascondersi dietro al fatto che è un servizio fatto alla donna, in nome della legalità o della libertà di scelta? Si può avere da dire sulle leggi delle tasse, perché ingiuste e quelle che toccano la vita indifesa devono essere osannate anche se intrinsecamente gravemente ingiuste? Non voglio minimamente giudicare le donne che abortiscono, non sta a me il giudizio sulla persona, so quante volte sono costrette, anche se non così platealmente come Valentina, ma per solitudine, motivi economici e familiari, ma non posso non giudicare i fatti e li abbiamo sotto gli occhi. So però che sono stanca di raccogliere i cocci a valle, vorrei che una cultura per la vita nascente fosse la normalità, perché non ci sarà mai pace, non finirà mai la violenza se una donna può uccidere il suo piccolo bimbo in grembo.

E risuonano in me le parole di Romano Guardini del lontano 1949 (Il diritto alla vita prima della nascita. Ed Morcelliana 2005 pagg 37-38): “Come esiste una logica della scienza, esiste pure una LOGICA DELLA VITA. La prima è evidente, quando dice per esempio che una pietra attirata dalla forza di gravità al centro della terra non può muoversi verso l’alto. L’altra è più difficile da capire, ma altrettanto inesorabile come la prima: dichiara che azioni eticamente sbagliate, anche se appaiono utili, alla fine conducono alla rovina. Mentire può recare vantaggio una, dieci, cento volte; alla fine stronca ciò su cui poggia la vita: nella propria interiorità il rispetto di se stessi, nel rapporto con gli altri la fiducia; è un danno senza rimedio. Questa conseguenza è inesorabile al pari della legge di gravità.

 Una tale logica funziona pure nel caso nostro. Nell’uomo c’è qualcosa che, per sua stessa essenza, non può venire violato: L’ELEVATEZZA DELLA PERSONA VIVENTE. Possono addursi importanti ragioni per fare questo, e tali ragioni possono anzi divenire così urgenti che chi vi resista può sembrare un dottrinario senza cuore. Eppure, cedere qui è la distruzione finale-la distruzione precisamente di ciò che dovrebbe venire salvato. Ci si appella al diritto di intervento in nome della libertà e della possibilità per la vita di svolgersi: dal bilancio finale risulterà che la vita è in balia dell’egoismo del singolo e degli scopi dello Stato. E sarebbe veramente tempo che imparassimo a vedere quali siano le conseguenze. Abbiamo pur sperimentato che cosa vuol dire accondiscendere prima a una cosa, poi ad un’altra e poi ad una terza, asserendo ogni volta che non si poteva fare diversamente, cercando ogni volta di persuadere se stessi che il peggio non sarebbe venuto- finchè il peggio ce lo trovammo davanti… Ogni violazione della persona, specialmente quando s’effettua sotto l’egida della legge, prepara lo Stato totalitario. Rifiutare questo e approvare quella non denota chiarezza di pensiero né coscienza morale vigile”. Dott.ssa Cinzia Baccaglini Presidente del Movimento per la Vita di Ravenna.


Il Papa e le ambivalenze del linguaggio che muta di Massimo Introvigne, 28-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Benedetto XVI ha ricevuto il 28 febbraio i partecipanti all'Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali. A loro ha ricordato il suo importante Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali del 2011, che dedicava una vasta riflessione ai social network e di cui La Bussola Quotidiana ha a suo tempo proposto un commento.

Andando per qualche verso oltre il Messaggio, il Papa ha spiegato che la «cultura digitale» sta determinando una mutazione epocale nel linguaggio, con riflessi inevitabili anche sull'evangelizzazione, In effetti, ha detto il Pontefice, «le nuove tecnologie non solamente cambiano il modo di comunicare, ma stanno operando una vasta trasformazione culturale. Si va sviluppando un nuovo modo di apprendere e di pensare, con inedite opportunità di stabilire relazioni e costruire comunione». Se questo era il quadro delineato nel Messaggio, nel discorso il Papa aggiunge che «il pensiero e la relazione avvengono sempre nella modalità del linguaggio, inteso naturalmente in senso lato, non solo verbale. Il linguaggio non è un semplice rivestimento intercambiabile e provvisorio di concetti, ma il contesto vivente e pulsante nel quale i pensieri, le inquietudini e i progetti degli uomini nascono alla coscienza e vengono plasmati in gesti, simboli e parole. L’uomo, dunque, non solo "usa" ma, in certo senso, "abita" il linguaggio».

Senonché, con le nuove tecnologie la nozione stessa di linguaggio cambia. «I nuovi linguaggi che si sviluppano nella comunicazione digitale determinano, tra l’altro, una capacità più intuitiva ed emotiva che analitica, orientano verso una diversa organizzazione logica del pensiero e del rapporto con la realtà, privilegiano spesso l’immagine e i collegamenti ipertestuali. La tradizionale distinzione netta tra linguaggio scritto e orale, poi, sembra sfumarsi a favore di una comunicazione scritta che prende la forma e l’immediatezza dell’oralità. Le dinamiche proprie delle "reti partecipative" richiedono inoltre che la persona sia coinvolta in ciò che comunica».

Si tratta di sviluppi che non sono soltanto positivi. «I rischi che si corrono, certo, sono sotto gli occhi di tutti: la perdita dell’interiorità, la superficialità nel vivere le relazioni, la fuga nell’emotività, il prevalere dell’opinione più convincente rispetto al desiderio di verità». Il Papa contrasta però quello che i sociologi chiamano determinismo tecnologico, l'idea cioè che gli aspetti negativi derivino necessariamente e obbligatoriamente dalla tecnologia. I problemi, secondo il Pontefice, piuttosto «sono la conseguenza di un’incapacità di vivere con pienezza e in maniera autentica il senso delle innovazioni».

La mutazione del linguaggio indotta da Internet, da Facebook e da un elemento che il Papa sottolinea, l'uso continuo e dominante di telefoni cellulari sempre più sofisticati - i cosiddetti smartphone - non è di per sè né buona né cattiva. Sarà quello che gli uomini ne faranno, e sul punto la Chiesa e la teologia hanno una parola da dire. «La teologia, secondo una classica definizione, è intelligenza della fede, e sappiamo bene come l’intelligenza, intesa come conoscenza riflessa e critica, non sia estranea ai cambiamenti culturali in atto. La cultura digitale pone nuove sfide alla nostra capacità di parlare e di ascoltare un linguaggio simbolico che parli della trascendenza. Gesù stesso nell’annuncio del Regno ha saputo utilizzare elementi della cultura e dell’ambiente del suo tempo: il gregge, i campi, il banchetto, i semi e così via. Oggi siamo chiamati a scoprire, anche nella cultura digitale, simboli e metafore significative per le persone, che possano essere di aiuto nel parlare del Regno di Dio all’uomo contemporaneo».

Il Papa è voluto intervenire anche sul tema del presunto primato delle macchine che si andrebbe affermando, rilevando come la discussione non sia nuova. «Già il Papa Paolo VI [1897-1978], riferendosi ai primi progetti di automazione dell’analisi linguistica del testo biblico, indicava una pista di riflessione quando si chiedeva: "Non è cotesto sforzo di infondere in strumenti meccanici il riflesso di funzioni spirituali, che è nobilitato ed innalzato ad un servizio, che tocca il sacro? È lo spirito che è fatto prigioniero della materia, o non è forse la materia, già domata e obbligata ad eseguire leggi dello spirito, che offre allo spirito stesso un sublime ossequio?" (Discorso al Centro di Automazione dell’Aloisianum di Gallarate, 19 giugno 1964)».

Il discorso di Benedetto XVI non cede dunque al pessimismo, pur mettendo nello stesso tempo in guardia da un ottimismo ingenuo. «È proprio l’appello ai valori spirituali - afferma - che permetterà di promuovere una comunicazione veramente umana: al di là di ogni facile entusiasmo o scetticismo, sappiamo che essa è una risposta alla chiamata impressa nella nostra natura di esseri creati a immagine e somiglianza del Dio della comunione». Il cattolico deve offrire a questo nuovo linguaggio «orizzonti di senso e di valore che la cultura digitale non è capace da sola di intravedere e rappresentare».

Per questa sfida il Papa propone un patrono. È «padre Matteo Ricci [1552-1610], protagonista dell’annuncio del Vangelo in Cina nell’era moderna, del quale abbiamo celebrato il IV centenario della morte» nel 2010. Anche Ricci si trovò di fronte a un linguaggio molto diverso da quello cui era sempre stato abituato: il cinese. Seppe tradurre, senza tradirla, nella lingua e ancor più nella mentalità cinese la verità del Vangelo. Lo stesso siamo chiamati a fare noi, traducendo in un linguaggio profondamente mutato la stessa eterna verità che non muta.


IL BEATO GIOVANNI DUNS SCOTO, TEOLOGO DELL’EUCARESTIA - ROMA, lunedì, 28 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un estratto dal volumetto di Girolamo Pica, Il beato Giovanni Duns Scoto. Dottore dell'Immacolata (Elledici-Velar).

* * *
Il beato Giovanni Duns Scoto, frate minore morto nel 1308 a Colonia, non ci ha lasciato opere specifiche sul Mistero Eucaristico, come le stupende pagine che ci ha regalato san Bonaventura nel suo trattato sulla preparazione alla Messa, o san Tommaso d’Aquino, con i suoi inni eucaristici nell’ufficio del Corpus Domini. Tutto ciò che noi abbiamo del beato Giovani Duns Scoto sono le lezioni universitarie su questo sacramento, contenute nel suo ultimo Commentario alle Sentenze di Pietro Lombardo, opera meglio nota col nome di Ordinatio.
Tuttavia, quando si vede il numero di questioni affrontate nel trattare l’argomento, e soprattutto l’ampiezza delle tematiche svolte e la profondità con cui ogni punto viene analizzato, allora ci si accorge subito di trovarsi dinnanzi ad un mirabile capolavoro di dottrina. A quel punto non sorprende più che alcuni abbiano definito Duns Scoto non soltanto il “Teologo del Verbo Incarnato” e il “Dottore dell’Immacolata” ma anche, e a buon diritto, il “Teologo dell’Eucarestia”.
Scoto definisce l’Eucarestia «un segno sensibile che, per istituzione divina significa efficacemente la grazia di Dio o effetto gratuito di Dio, ordinato alla salvezza dell’uomo viatore».
Però questo non basta. L’Eucaristia si distingue dagli altri sacramenti. Mentre questi consistono in un’azione fugace per conferire la grazia divina, nell’Eucaristia quel che si consegna all’uomo è lo stesso Autore della grazia. Cristo appare nell’Eucaristia come donazione dell’amore più grande di Dio all’uomo. Non un segno che passa, ma permanente, un segno sensibile, spiega Scoto, che «dopo la consacrazione, secondo il rito, della materia appropriata, contiene veramente il corpo e sangue di Cristo».
Questo fa dell’Eucarestia il più nobile dei sacramenti, nel quale tutti gli altri sacramenti trovano la loro pienezza.
Nell’Eucarestia Cristo offre ancora un altro gesto estremo, segno del Suo immenso amore per noi. Egli cioè non solo ha sofferto e dato la Sua vita sulla croce per la nostra salvezza, ma in questo sacramento Egli vuole rimanere ancora con noi, vuole farsi nostro compagno di viaggio e fonte di forza nel cammino della nostra vita, come lui stesso ha detto nel Vangelo: «Ecco che io sono con voi fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Il Cristo eucaristico presentato da Duns Scoto, inoltre, è strettamente connesso con il Cristo centro del Creato, che abbiamo già presentato nelle pagine precedenti. Vuol dire che lui, il Cristo, Verbo Incarnato, con il Corpo e Sangue che furono causa della nostra redenzione, continuerà tra noi nel mondo, e non come un mero segno sensibile, ma nella sua realtà. In questo modo, dice Scoto, «ci sentiremo più impegnati nel mostrare a Cristo la nostra riverenza e devozione».
Vi è una stretta relazione fra Cristo e la creazione, la quale acquisisce il suo senso originale nel piano di Dio che l’ha voluta, dalla materia fino all’uomo, in relazione al Summum Opus del Suo amore. Il sommo amore che è Cristo davanti al Padre ci coinvolge tutti. L’Eucaristia costituisce in questo contesto esistenziale l’espressione più profonda, più vicina e pura dell’amore divino. In una parola, insuperabile. Un amore puro, senza condizionamenti, che Scoto propose nella sua visione originale della predestinazione di Cristo.
Dio, spiega il beato Giovanni Duns Scoto, non può ricevere né desiderare alcun vantaggio dall'amore di un altro essere. Soltanto può compiacersi della possibilità di comunicare questo amore e questa beatitudine ad altri: vuole che vi siano degli altri co-amanti. E nella sua liberalità predestina il primo e supremo amatore: Cristo, il Verbo Incarnato e Somma opera di Dio. Anche Lui vorrà altri co-amanti, perché l’amore non è chiusura, ma apertura nella comunione. E in vista di lui avrà l’esistenza tutto il Creato coinvolto in questa diffusione d’amore, della quale saranno espressione cosciente gli uomini. Questo è il mistero dell'amore nella grazia e nella carità data da Dio attraverso Cristo. E Cristo, segno visibile della divinità nel Suo Corpo umano durante la vita vuole continuare, realmente presente nell’Eucaristia: sacramento di Lui stesso e, con Lui, centro di tutto il Creato e donazione suprema dell’amore di Dio nella sua purezza e liberalità originale.
Il nostro Beato spiega che l’istituzione di questo sacramento da parte di Cristo ha per noi una molteplicità di finalità. Esso, ad esempio, ci aiuta a rendere a Dio il giusto culto di adorazione, ricordandoci sensibilmente che noi siamo in rapporto con un Dio personale.
E ancora, dal momento che per ricevere l’Eucaristia bisogna prima purificarsi dai peccati con la penitenza, è per noi anche un modo per ricordare di prenderci cura della nostra anima, tenendola libera dal peccato. Inoltre, l’Eucaristia serve per nutrire la nostra vita spirituale, per alimentare cioè quella grazia che noi abbiamo ricevuto all’inizio nel battesimo, così come fa il cibo materiale per il nostro corpo.
Alla luce di quanto sino ad ora spiegato, appare chiara allora anche un'altra verità che sta molto a cuore a Duns Scoto: la relazione tra il sacramento dell’Eucaristia e la Chiesa.
Nel punto in cui il nostro Beato parla della necessità di confessarsi prima di ricevere l’Eucaristia, egli sottolinea un motivo molto importante per cui è necessario ricevere il Corpo di Cristo degnamente e cioè, non soltanto per farsi perdonare da Dio, ma anche per «riconciliarsi con la Chiesa, e così poter ricevere il sacramento dell’unità ecclesiastica».
Così definisce Scoto l’Eucaristia: il «Sacramento dell’unità della Chiesa». Chiesa che più avanti chiama Corpo mistico di Cristo, di quel Cristo che secondo lui riassume in sé tutto il Creato «fatto in vista di Lui». La stessa “perpetuità temporale della Chiesa” nel tempo viene legata alla presenza in essa dell'Eucaristia. Il testo di san Paolo ai Corinzi 11, 26: «Tutte le volte che voi mangiate questo pane e bevete a questo calice, annunziate la morte del Signore finché Egli venga (alla fine dei tempi)». La stessa promessa di Gesù «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20) Scoto la vede adempiuta nella presenza eucaristica.
Infine, un ultimo mirabile testo di Scoto ci mostra allo stesso tempo non solo l’amore di Scoto per il mistero eucaristico, ma ancor più il suo profondo rispetto per quanto la Chiesa cattolica insegna su questo mirabile Mistero. Questo riguarda la transustanziazione del pane e del vino nel vero Corpo e il vero Sangue di Cristo durante la consacrazione.
Questo mistero, dice Scoto, non è pienamente comprensibile alla mente umana e certamente è qualcosa che solo Dio può compiere, fare cioè che la sostanza del pane e del vino diventino il Corpo e Sangue di Cristo, pur conservando visibilmente ancora gli “accidenti” di pane e vino.
Tuttavia, dice il nostro Beato, quando la Chiesa, come si vede nel Canone della Messa, prega affinché il pane e il vino diventino il Corpo e il Sangue di Cristo, non prega per l’impossibile. Dunque si deve sostenere che la sostanza del pane cessa di essere. «E questo – ribadisce Scoto – lo sostengo principalmente per l’autorità della Chiesa, che non sbaglia nelle cose di fede e costumi.
Quindi, si deve credere che il significato del Corpo di Cristo ci sia soltanto negli accidenti o specie senza la sostanza. E questo in virtù della transustanziazione».
E qui viene quel che ci rivela l’opzione più decisiva per Scoto. «E se mi domandi, perché la Chiesa volle scegliere una concezione così difficile di questo articolo [di fede], […] ti dico che la Chiesa ha formulato e spiegato questo dogma secondo lo spirito con cui è stato scritto o stabilito. E secondo questo spirito, la Chiesa cattolica lo ha trasmesso, cioè istruita dallo Spirito della Verità. E se ha scelto questo concetto di transustanziazione è perché è il vero. Non è che la Chiesa abbia la potestà di fare che una cosa sia vera o non vera, piuttosto è Dio quel che lo stabilisce. La Chiesa soltanto spiega lo stabilito da Dio, guidata in questo, come si crede, dallo Spirito della Verità». Ecco come Scoto vede il mistero dell'Eucaristia nel mistero della Chiesa e la Chiesa nel mistero dell’Eucaristia.
A questo punto dovrebbe esserci chiaro il profondo legame che, secondo Scoto, unisce intimamente il mistero del Verbo Incarnato, l’Immacolata, la Chiesa e l’Eucarestia. Tutti debbono la ragione della loro esistenza a quel più grande mistero che è l’amore di Dio per le Sue creature. E non soltanto lo manifestano visibilmente, costituendo così la via per cui Dio-Amore viene a noi; ma allo stesso tempo, nell’eterno e imperscrutabile piano di Dio, sono anche la via per la quale noi possiamo giungere a partecipare di questo Amore infinito.
«Ma la carità o l’amore di Cristo si manifesta in modo speciale non soltanto sul Calvario, ma anche nel Santissimo Sacramento dell’Eucaristia, senza il quale “scomparirebbe ogni pietà nella Chiesa, né si potrebbe – se non attraverso la venerazione del medesimo – tributare a Dio il culto di latria”.
Questo sacramento inoltre è sacramento di unità e di amore; per mezzo di esso siamo indotti ad amarci scambievolmente e ad amare Dio come bene comune e ad essere co-amato dagli altri.
E come questo amore, questa carità, fu l’inizio di ogni cosa, così anche solo nell’amore, nella carità, consisterà la nostra beatitudine: “La vita eterna, beata e perfetta, è semplicemente volizione o dilezione”.
Avendo noi, fin dall’inizio del nostro servizio, predicato soprattutto la carità, che è Dio stesso, constatiamo con gioia che la dottrina di questo Beato assegna un posto singolare a questa verità, e riteniamo che ai nostri tempi essa debba essere investigata e insegnata al massimo» (Benedetto XVI, Lettera Apostolica Laetare Colonia).

[Per richiedere delle copie del volumetto a prezzo scontato rispetto al costo di copertina di euro 3,5: e-mail: oscar@velar.it; cell. 348-5121773)]


IN LAOS, FAMIGLIE DI CRISTIANI COSTRETTE AI MARGINI DELLA GIUNGLA - Cacciate dal villaggio di Katin rischiano ora la sopravvivenza di Paul De Maeyer

ROMA, lunedì, 28 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Il Laos - il paese del sud-est asiatico governato dal 1975 dai comunisti e sul quale sono state scaricate durante la Guerra del Vietnam più bombe che nell'intera II Guerra Mondiale - ospita una piccola comunità cristiana. Secondo le stime dell'agenzia Églises d'Asie, delle Missioni Estere di Parigi (MEP), i cristiani rappresenterebbero circa l'1% della popolazione formata da 6 milioni di abitanti, di cui 43.000 cattolici.
La Costituzione della Repubblica Popolare Democratica del Laos - così si chiama ufficialmente il paese - garantisce negli articoli 6 e 30 la libertà di religione. Ma l'esercizio di questa libertà è oggetto di severe restrizioni e particolarmente malviste dalle autorità sono le conversioni al cristianesimo.
A farne drammaticamente le spese è un gruppo di una sessantina di cristiani, composte da 18 famiglie, cacciate in due momenti diversi dal villaggio di Katin, nel distretto di Ta-Oy, nella provincia meridionale di Saravan (o anche Salavan). Costrette a vivere ai margini della giungla e in rifugi di fortuna, la situazione delle famiglie in questione è divenuta "critica" a causa degli stenti e della privazione di acqua e di cibo. A lanciare l'allarme è l'organizzazione Human Rights Watch for Lao Religious Freedom (HRWLRF). "I pozzi si stanno prosciugando mentre si avvicina la stagione secca e le loro scorte di cibo sono esaurite", ha detto una fonte di HRWLRF a Compass Direct News (25 febbraio).
La vicenda dei cristiani di Katin risale al 2008, con la conversione di un primo gruppo di abitanti e la morte sospetta per asfissia di uno di loro, un uomo conosciuto solo con il nome di Pew. Già il funerale cristiano di quest'uomo fece scatenare l'ira delle autorità locali. Quando videro infatti che i familiari avevano messo una croce di legno sulla sua tomba, li accusarono di "praticare i rituali dei nemici dello Stato" e confiscarono un maiale ed un bufalo come punizione (CDN, 16 luglio 2009).
Per far rinnegare alle famiglie cristiane la loro fede, le autorità locali non hanno esitato a giocare sporco, sequestrando ad esempio capi di bestiami. Nel luglio del 2009, i capi villaggio hanno persino messo al bando il cristianesimo a Katin. L'unica forma di prassi religiosa che hanno autorizzato era il culto degli spiriti.
Ma nonostante le pressanti intimidazioni, 11 famiglie hanno resistito e non hanno abbandonato la fede. Davanti al loro rifiuto, la risposta del villaggio è stata durissima: minacciate con le armi, le famiglie in questione – 48 persone in totale, adulti e bambini - sono stata cacciate da Katin nel gennaio 2010. Inoltre, i loro beni sono stati confiscati e molte delle loro case distrutte.
"Perché credete [nella Bibbia]?", così hanno chiesto i capi villaggio, spalleggiati da un funzionario per gli Affari religiosi della provincia di Saravan e da un funzionario del distretto di Ta-Oy. "È solo un libro" (CDN, 8 febbraio 2010). "Per poter fare ritorno nel vostro villaggio, dovrete rinnegare la vostra fede cristiana", così hanno aggiunto i responsabili.
Per alleviare la precaria situazione alimentare, le famiglie avevano seminato il riso fuori stagione. Ma la speranza di poter raccogliere i frutti del loro lavoro è stata stroncata in modo cinico dai capi villaggio, che il 26 dicembre scorso hanno fatto distruggere le risaie delle famiglie. Hanno prosciugato i "paddies" (come vengono chiamati i campi di riso), bruciato le recinzioni e calpestato inoltre le giovani piantine per evitare ogni eventuale ricrescita. Solo tre giorni prima, il 23 dicembre, erano state espulse con la forza altre sette famiglie cristiane di Katin, che si sono aggiunte alle 11 cacciate in precedenza, accentuando in questo modo l'emergenza alimentare.
Anche se il Laos ha ratificato nel 2009 la Convenzione Internazionale dei Diritti Civili e Politici (ICCPR), è molto improbabile che le espulsioni siano avvenute all'insaputa o senza il previo consenso delle autorità distrettuali o provinciali. "Di norma - così ha dichiarato un portavoce di HRWLRF a Compass Direct News - i capi villaggio non fanno nulla senza aver consultato formalmente il capo distretto" (29 dicembre 2010). Anche se in varie occasioni organismi ufficiali laotiani hanno affermato che i cristiani di Katin hanno tutti i diritti a rimanere nel loro villaggio, "è difficile credere che i capi villaggio di Katin abbiano agito per propria autorità", ha aggiunto il portavoce.
A subire le restrizioni alla libertà di religione o di culto è anche la Chiesa cattolica locale. Lo dimostrano le peripezie che hanno accompagnato la prima ordinazione sacerdotale in quasi quarant'anni nel Laos del Nord, avvenuta il 29 gennaio scorso a Thakhek, il capoluogo della provincia centro-meridionale di Khammouan e sede del vicariato apostolico di Savannakhet. L'ordinazione di padre Pierre Buntha Silaphet, 34 anni, per mano di monsignor Louis Marie Ling Mangkhanekhoun, vicario apostolico di Pakse e presidente della Conferenza episcopale di Laos e Cambogia (CELAC), era infatti programmata inizialmente per il 12 dicembre scorso nei pressi di Sayaboury (o Sayabouly), nel nord del paese, ma "in extremis" - cioè solo due giorni prima, il 10 dicembre - le autorità hanno rinviato l'evento per motivi di sicurezza. Come ha rivelato l'agenzia UCA News (31 gennaio), la chiesa scelta per la cerimonia si trovava davanti ad un accampamento militare.
Mentre in modo non ufficiale è stato fatto capire che la cerimonia doveva essere discreta ed assumere la forma di una festa contadina - così ha riferito l'agenzia AsiaNews (25 gennaio) -, la grande domanda è se il nuovo sacerdote ordinato nel vicariato apostolico di Luang Prabang potrà effettivamente esercitare il suo ministero ed aiutare l'attuale vicario apostolico, monsignor Tito Banchong Thopayong. Quest'ultimo gestisce da solo il vicariato di Luang Prabang, che copre una vasta regione montagnosa nel nord del paese, da quando i comunisti decisero di cacciare nel 1975 tutti i sacerdoti stranieri dal Laos, senza possibilità di ritorno. Monsignor Banchong, classe 1947, ha passato in totale anche 9 anni in carcere.
La Chiesa cattolica del Laos è divisa oggi in quattro vicariati apostolici (Luang Prabang, Paksé, Savannakhet e Vientiane) e conta appena 15 sacerdoti ed un centinaio di suore. L'anno scorso - il 10 aprile - migliaia di cattolici hanno partecipato a Thakhek all'ordinazione del nuovo vescovo del vicariato apostolico di Savannakhet, monsignor Jean Marie Prida Inthirath, parroco di Khoksang e Keng Kasi ed inoltre rettore dell'unico Seminario maggiore del paese asiatico, quello di San Giovanni Maria Vianney, sempre a Thakhek.


Il discorso di Benedetto XVI sull'aborto - Per difendere la comune umanità di Lucetta Scaraffia (©L'Osservatore Romano - 28 febbraio - 1 marzo 2011)

Il discorso di Benedetto XVI ai membri dell'Accademia per la vita non ha la caratteristica di un ragionamento interno - rivolto cioè a una istituzione pontificia i cui membri condividono per definizione il pensiero del Papa - e neppure di una sacrosanta ma generica affermazione del valore della vita in generale, come ideale da coltivare e difendere. È invece un concreto e circostanziato appello rivolto a tutti; in particolare in occidente, dove l'aborto è considerato un diritto e un segno di modernità che dovrebbe garantire la presenza e la libertà delle donne nelle società democratiche.
Il Papa infatti parla soprattutto alle donne, in particolare a quante hanno abortito, e parla di quel disagio tanto spesso celato, di quella sofferenza segreta che costituisce la sindrome post-abortiva. E la riconosce e la interpreta non dal punto di vista psicologico - senza evocare per queste donne sofferenti l'assistenza medica, ridotta magari a qualche antidepressivo - ma con il coraggio di nominare l'innominabile in una società secolarizzata come la nostra: la voce della coscienza. Definita secondo la tradizione cattolica non come un effetto di condizionamenti esterni o emozioni interne come molti preferiscono credere, ma proprio come voce che illumina l'essere umano sul bene e sul male, e quindi prova evidente del legame di ogni creatura con Dio.
Da una parte, una società che vuole fondare il diritto di cittadinanza delle donne sulla cancellazione di un nuovo essere umano; dall'altra, un Papa che ha il coraggio semplice e chiaro di ricordare che dentro ciascuno di noi c'è una voce che parla chiaramente, e che è difficile, anzi impossibile, farla tacere. Anche, se non soprattutto, quando l'aborto viene realizzato per "ragioni mediche", che buone non sono mai se vogliono cancellare la sofferenza cancellando la persona che soffre. E il Papa lo dice con chiarezza proprio nel momento in cui ricorda che solo all'interno della Chiesa le donne che hanno abortito possono trovare il perdono, e quindi la pace interiore.
La voce della coscienza - insiste Benedetto XVI - parla a tutti, non solo ai credenti, ed è una voce insopprimibile, anche se non la si vuole ascoltare perché la legalizzazione dell'aborto è all'origine di profonde modificazioni socio-culturali, identificate positivamente e acriticamente come aspetti di modernizzazione: non solo il posto delle donne nella società, ma anche le rappresentazioni della famiglia, le relazioni fra i generi, le modalità della vita sessuale e dell'affettività.
Ma chi osserva la trasformazione che ha segnato la legalizzazione dell'aborto nelle nostre società con occhio scientifico e onesto - come il sociologo francese Luc Boltanski (La condition fatale. Une sociologie de l'engendrement et de l'avortement, Paris, Gallimard, 2004) e pochissimi altri studiosi, dato il peso ideologico che opprime questo tema - si rende conto che con la legalizzazione dell'aborto viene riaperta la questione dell'appartenenza all'umanità. Questa avrebbe dovuto essere assicurata a tutti, e una volta per tutte, dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948: scritta per impedire che si ripetessero gli orrori del nazismo, sistema che aveva negato a molte persone la dignità di appartenenza al genere umano.
Oggi, invece, siamo di nuovo a discutere sulla possibilità di escludere dei potenziali esseri umani dal diritto di vivere: secondo Boltanski, la situazione attuale somiglia infatti a quella di duemila anni fa, quando venne messo in questione dal cristianesimo nascente il carattere inevitabile e naturale della schiavitù, cioè dell'esistenza di esseri con uno statuto di umanità ineguale.
Si è così riaperta la questione antropologica a proposito dei diritti del feto - considerato un essere incerto sospeso fra esistenza e inesistenza - e questo ci costringe a riconoscere il carattere paradossale e, quindi, eminentemente fragile, della nostra idea di umanità, nella contraddizione che ci vede al tempo stesso esseri perfettamente rimpiazzabili ed esseri assolutamente singolari.
La preconferma da parte di Dio, che istituisce una parentela divina fra gli esseri umani, è l'unica condizione che accetta ogni nuovo concepito, attribuendogli uguale valore. Su questo concetto riposa l'idea, egualitaria, di comune umanità.


Scuole paritarie, un affare per lo Stato di Marco Lepore, 01-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Mentre la polemica su scuola statale e scuola paritaria continua a dividere gli schieramenti con argomentazioni spesso pregiudiziali e ideologiche, noi proviamo a fare chiarezza cercando anzitutto di spiegare di cosa stiamo parlando.

In Italia (dati statistici del MIUR, Ministero dei Istruzione, Università e Ricerca) esistono oggi poco più di 13mila scuole paritarie, in gran parte (quasi l’86%) gestite da enti non-profit, sia di origine religiosa che laica. Di queste, circa 9.500 sono scuole dell’infanzia, 1500 le primarie, poco meno di 700 le secondarie di primo grado e poco più di 1400 le secondarie di secondo grado; gli alunni che le frequentano rappresentano più o meno il 12% della popolazione scolastica totale, che ammonta a circa 8 milioni e 800 mila studenti.

A seguito della legge 62/2000, che ha riconosciuto la parità a tutte le scuole private purché in linea con determinati requisiti fissati dalla legge stessa, è stato riconosciuto alle scuole paritarie un magro contributo finanziario che nell’anno 2006 ha raggiunto il suo apice (circa 530 milioni di euro), che poi è stato sistematicamente messo in discussione dalle successive leggi finanziarie, fino a prevedere tagli pesantissimi (oltre il 45%), scongiurati (solo in parte, purtroppo) grazie alle veementi proteste di alcune associazioni di famiglie, scuole ed enti gestori.


In sostanza, allo Stato ogni alunno di scuola paritaria costa annualmente 584 euro nell’infanzia, 866 nella  primaria, 106 nella scuola secondaria di primo grado, 51 nella secondaria di secondo grado. Sono cifre ridicole, ancor più se paragonate al costo annuale di un singolo alunno di scuola statale: 6.200 euro per la scuola dell’infanzia, 7.300 per la primaria, 7.700 per la secondaria di primo grado, 8.100 per la secondaria di secondo grado (Dossier Agesc, 2007).  A conti fatti, dunque, l’esistenza delle scuole paritarie garantisce allo Stato un risparmio annuo di oltre 6 miliardi di euro (praticamente una finanziaria…), che è quanto spenderebbe se tutti gli alunni che le frequentano passassero alla scuola statale.


Molti sostengono che il governo toglie risorse alla scuola statale per darle alla scuola privata; alla luce di questi dati, bisognerebbe affermare proprio il contrario. La maggior parte delle persone (anche quelle che scendono in piazza a gridare slogan fuori dal tempo e contro ogni evidenza) non sa che le risorse destinate annualmente alla scuola statale ammontano a circa 43 miliardi di euro, e che se volessimo dare alle paritarie la cifra che ad esse spetterebbe in base alla percentuale numerica dei suoi iscritti (12%), il contributo dovrebbe ammontare a oltre 5 miliardi di euro, dieci volte in più di quanto, faticosamente, viene riconosciuto attualmente.

Insomma, sul  bilancio totale dell’istruzione, la scuola paritaria rappresenta meno dell’1%. E’ davvero sensato affermare che sottrae soldi alla statale, mettendola in difficoltà? La verità vera, purtroppo, è che la scuola statale italiana è un sistema pachidermico, poco efficiente e poco efficace: stando al documento "La scuola in cifre 2008" (Quaderno curato dalla Direzione Generale per gli Studi, la Statistica e i Sistemi informativi del MIUR), il percorso scolastico di un ragazzo che frequenti regolarmente, senza ripetere, la scuola statale italiana dall'infanzia al diploma, costa circa 129 mila euro. Dall'infanzia a tutto l'obbligo il costo è di 86 mila euro, mentre per i ripetenti il costo sale dell'8-11% . Si tratta di valori espressi ai prezzi del 2006, che considerano le spese per i docenti, per il personale amministrativo, per i servizi generali e di assistenza scolastica, nonché gli eventuali aiuti alle famiglie per il diritto allo studio, mentre non sono caricate, invece, le voci relative alla edificazione e gestione degli immobili (che sono di proprietà dei Comuni o delle Province), che le scuole paritarie devono necessariamente considerare.


Quanto costa, invece, alla famiglia, il percorso completo di un alunno di scuola paritaria?  Calcolando una media di 3mila euro l’anno (retta medio-alta), si arriva intorno ai 48-50 mila euro. Ora ci chiediamo: è davvero conveniente questa campagna denigratoria contro le scuole paritarie? Se non le si ama per adesione ideale, almeno si ammetta la loro utilità economica!

In realtà, questo è il passo che in questi ultimi tempi hanno fatto diversi politici tradizionalmente contrari ad esse, così che si è venuto a creare una sorta di consenso bipartisan nei confronti della parità (consenso, tuttavia, non ancora sufficiente per giungere a una piena parità…). Non altrettanto, purtroppo, pare accadere nella società civile, entro la quale albergano ancora ostilità e pregiudizi a non finire.


Eppure il diritto/dovere all’educazione e istruzione è riconosciuto dalla nostra Costituzione e appare come una palese ingiustizia (sia sotto il profilo del diritto, sia sotto quello del banale calcolo economico) che le famiglie debbano pagare sia la retta alla scuola paritaria, sia le tasse per l’istruzione statale di cui non si avvalgono, se in nome della libertà di scelta educativa decidono di iscrivere i propri figli ad una scuola non statale.

*CdO Opere Educative


Gli indignati "speciali"di Paolo Preti, martedì 1 marzo 2011, il sussidiario.net

L’indignazione non è l’undicesimo comandamento. Così mons. Negri, vescovo di san Marino e Montefeltro al Tg1 delle 20 di venerdì scorso. Indignarsi serve solo a guadagnare una piazza fisica o mediatica, a occupare uno spazio, a ribadire un antagonismo da contrapposizione: poi, ma anche durante, tutto resta come prima.

Maestri nell’elevarsi a baluardi contro l’inevitabile declino morale, incapaci di costruire e testimoniare una sia pur piccola alternativa. È bene prendere coscienza che nella generazione degli attuali cinquanta-sessantenni ce ne sono veramente troppi che, in un ipotetico esame di coscienza, dovranno riconoscere di avere passato l’intera vita a combattere le idee di qualcuno al potere: prima il bigottismo, o almeno ritenuto tale, di tanta Democrazia Cristiana, oggi il bunga bunga di certa Forza Italia.

Né boyscout, né yuppie. Piccolo esempio, ma per me molto significativo, una recente presa di posizione di Paolo Villaggio in cui, dopo averne sbeffeggiato per anni la presenza, lamentava la scarsa incidenza culturale nel Paese della Chiesa Cattolica, vista la difficoltà degli italiani ad accettare i problemi legati all’immigrazione.

Così, in un colpo solo si misconoscono le mille iniziative di accoglienza che il mondo cattolico ha realizzato, gli si accollano le grettezze di chi resiste a questo esodo epocale e che in molti casi non si è perso uno spettacolo del comico genovese e si nascondono le responsabilità di chi in nome di un teorico terzomondismo non si presta ad affrontare con concretezza e un minimo di razionalità il problema aprendo le porte, questi sì, alla reazione motivata del popolo. Ma tant’è.
Di indignati se ne sono visti molti in quest’ultimo periodo. Da Adriano Prosperi, ospite de L’Infedele di Gad Lerner, a Roberto Vecchioni, fresco vincitore di Sanremo, che dichiara di “parlare alla parte sana e perbene del Paese”. In particolare, per quest’ultimo è partita la caccia a identificare i suoi “bastardo al sole” e “vigliacco che nasconde il cuore”. Per evitarci troppe fatiche, lui stesso ci fornisce una traccia, almeno per il secondo: Giuliano Ferrara ci si avvicina molto. Non lui, Roberto Vecchioni, che a quasi settant’anni torna dopo una più che trentennale assenza là dove solo da perfetto sconosciuto aveva accettato di andare.

Ma la novità sembra essere un’altra: a ogni apparizione di indignati è facilmente rintracciabile una presenza alternativa. Così Vittorio Messori che a L’Infedele ricorda, citando un principe della Chiesa, che chi detesta i vizi detesta l’uomo e così Van de Sfroos con la sua simpatica e orecchiabile trasposizione lacustre delle epopee salgariane. Che Yanez sia con noi. Ora e sempre.
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Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - La lezione di Yara all’Italia: l’eroismo della purezza. Come Maria Goretti, di Antonio Socci, da “Libero”,  1 marzo 2011

Yara non è la protagonista di una storia di orrore. E’ il suo assassino che sprofonda nell’orrore. Lei invece è la protagonista eroica di una luminosa storia di dignità.

La sua è – perché non dirlo – una testimonianza di santità scritta col sangue del martirio.

Forse non la capiremo perché adesso il circo dei media darà il via alle solite polemiche sulle indagini, sugli inquirenti e alimenterà mediocri scontri mediatici.

Il fango ci impedirà di vedere la cosa più importante e preziosa: la purezza di questa fanciulla e il suo eroismo.

La cultura dominante non sa fare i conti con la purezza. Né con la santità. Non le conosce. Una parola enorme, la santità, da maneggiare con cura, ma anche giusta. E abbagliante, gloriosa.

In queste ore di strazio infatti con Yara viene in mente un altro nome, un altro volto. Del resto avevano la stessa età, 12-13 anni. Ed è la stessa vicenda.

La storia di Yara Gambirasio è accaduta cento anni dopo quella di Maria Goretti, ma non ci sono grandi differenze.

Anche Yara – se saranno confermate le ipotesi degli inquirenti – è stata selvaggiamente uccisa con un coltello per essersi opposta a un tentativo di stupro.

Maria Goretti è stata canonizzata nel 1950 da Pio XII, ma anche lei era una ragazzina normale come Yara e si è trovata in un’analoga trappola infernale. Certo, i tempi sono cambiati e anche i luoghi sono diversi. Mentre Maria viveva nella miseria delle paludi pontine dei primi anni del Novecento, Yara è nata e cresciuta nella moderna e civile Lombardia di oggi.

Ma la Lombardia è la regione più progredita e prospera d’Europa senza per questo aver perso la sua anima cattolica, le radici della sua fede, soprattutto nella bergamasca. La stessa terra e la stessa fede raccontate nell’ “Albero degli zoccoli”: Yara non solo è stata battezzata ed educata nella fede cattolica, non solo frequentava la parrocchia e una scuola cattolica, ma aveva ricevuto proprio l’anno scorso la cresima, il sacramento che ci fa soldati di Cristo, pronti a tutto per difendere la dignità di figli di Dio che il Salvatore ci ha donato.

Molti pensano che sia tutto “per modo di dire”, forse anche tanti cattolici vivono con scontata ovvietà quei misteri grandi che sono i sacramenti, che invece non sono scontati e ovvi per nulla, perché ci danno davvero una forza divina. Ci divinizzano.

Yara, nella sua semplicità di tredicenne, pulita, semplice, pura, ha difeso la sua dignità con lo stesso eroismo dei martiri.

Come Maria Goretti. Come le prime martiri, agli albori del cristianesimo, così amate e venerate dalla Chiesa: spesso erano proprio coetanee di Yara.

I santi non sono degli ufo, delle entità particolari, degli esseri superiori. Sono semplicemente i cristiani che vivono da cristiani, sono i nostri figli, i nostri amici. Uomini e donne vere.

Sono la testimonianza che l’umile quotidiano può essere vissuto con eroismo, con eroismo cristiano, anche da una ragazzina acqua e sapone.

Anzi, forse tanto più da creature come lei che – nella storia cattolica – sono visibilmente le predilette dal Cielo: non a caso nelle apparizioni mariane gran parte dei prescelti sono adolescenti e soprattutto ragazzine adolescenti.

Forse così amate dalla Madonna proprio perché così somiglianti a lei, alla giovinetta che a Nazaret ricevette l’annuncio dell’Angelo.

Del resto proprio a pochi chilometri dal paese di Yara, a Ghiaie di Bonate, nella primavera del 1944, si sono verificate le tredici apparizioni della Madonna, appunto a una fanciulla, Adelaide Roncalli (speriamo che la diocesi di Bergamo di affretti a riconoscerle ufficialmente).

E il messaggio della Madonna alle Ghiaie aveva al centro proprio l’unità e la santità della famiglia che stava per essere minacciata da tempi assai avversi.

Infatti è la famiglia che di lì a poco tutta la cultura moderna avrebbe bombardato. A questo proposito va detto che la tragedia di Yara ha messo davanti al mondo anche la silenziosa e immensa testimonianza dei suoi genitori.

La famiglia Gambirasio – nello strazio di questa terribile prova – è stata ed è un esempio limpidissimo di dignità, di unità, di fede e di amore. E poi la fede cristiana è sempre comunitaria.

Infatti tutta la parrocchia di Brembate, quella famiglia di famiglie che è la parrocchia, tutto il popolo cristiano di quel paese bergamasco ha illuminato l’Italia: si è visto a Brembate un popolo commosso e addolorato che non ha mai cessato, giorno e notte, di pregare, con il suo parroco e che non ha mai cessato di darsi da fare – con tenacia bergamasca – per ritrovare Yara.

Il suo martirio è un dolore immenso. Ma giustamente il parroco ha detto che questo angelo adesso è in Cielo, fra le braccia della Madonna.

E, voglio aggiungere, si può pensare a Yara (e parlarle) come a una Maria Goretti del XXI secolo.

Dovremmo vedere che l’eroismo è un connotato della fede cristiana. E’ eroico oggi essere cristiani. Come è eroica la purezza. E’ la cosa più anticonformista che ci sia.

I nostri figli che scelgono la purezza e la dignità scelgono una strada di eroismo e di dileggio, di umiliazione e di bellezza. Del resto Gesù disse ai suoi amici: “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi…”.

I lupi sbranano le carni. Ma più spesso viviamo in un clima dove l’aria che respiriamo sbrindella le anime, le perde.

I giovani come Yara sono i veri eroi da guardare, non i fasulli eroi creati dai media. Infatti chi oggi insegna più ai giovani la purezza, la dignità, il rispetto di sé, del proprio corpo e della propria anima?

Per questo penso che la testimonianza di Yara non sarà veramente capita. Così voglio aggiungere un’ulteriore considerazione.

La vicenda di Yara si è conclusa proprio nei giorni in cui tornano fuori, per l’ennesima volta, le polemiche sulla presenza del crocifisso nei luoghi pubblici, a cominciare dalle scuole.

Un’errata idea di laicità ancora una volta vorrebbe cancellarli perché dicono che laicità significa neutralità. E’ ovvio che lo Stato sia neutrale fra le confessioni religiose.

Ma lo Stato non è neutrale fra il Bene e il Male.

E il crocifisso – come ha scritto tanti anni fa Natalia Ginzburg – è il segno delle vittime, cioè del Bene, che dalla storia cristiana è entrato a far parte della cultura di tutti, anche dei non cristiani.

Il segno anche laico che siamo tutti con i crocifissi e non con i crocifissori.

Anche la cultura laica afferma che non si può essere neutrali fra le vittime e i carnefici. Infatti in tutte le scuole d’Italia, in questi giorni, parlando di Yara, tutti si sentiranno dalla parte della fanciulla assassinata.

Nessuno si sentirà “equidistante”. Tanto meno lo è lo Stato laico. Il crocifisso esprime questo stare dalla parte delle vittime.

La Ginzburg scriveva che fa bene guardare il crocifisso perché “di esser venduti, traditi e martoriati e ammazzati per la propria fede, nella vita può succedere a tutti. A me sembra un bene che i ragazzi, i bambini, lo sappiano fin dai banchi della scuola.

Gesù Cristo ha portato la croce. A tutti noi è accaduto o accade di portare sulle spalle il peso di una grande sventura.

A questa sventura diamo il nome di croce, anche se non siamo cattolici, perché troppo forte e da troppi secoli è impressa l’idea della croce nel nostro pensiero.

Tutti, cattolici e laici portiamo o porteremo il peso di una sventura, versando sangue e lacrime e cercando di non crollare. Questo dice il crocifisso.

Lo dice a tutti, mica solo ai cattolici.

Alcune parole di Cristo, le pensiamo sempre, e possiamo essere laici, atei o quello che si vuole, ma fluttuano sempre nel nostro pensiero ugualmente.

Ha detto ‘ama il prossimo come te stesso’. Sono il contrario di tutte le guerre. Il contrario degli aerei che gettano le bombe sulla gente indifesa.

 Il contrario degli stupri e dell’indifferenza che tanto spesso circonda le donne violentate nelle strade (…). Il crocifisso fa parte della storia del mondo”.


Cercasi padre Brown disperatamente di Andrea Tornielli, 01-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

La tragica vicenda di Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate scomparsa tre mesi fa, il cui corpo con evidenti ferite inferte da un’arma da taglio è stato ritrovato in un campo incolto a pochi chilometri da casa, ci ha rimesso ancora una volta di fronte al mistero del male, di fronte all’insicurezza, alla possibilità concreta che il conoscente della porta accanto possa nascondere un abisso di perversione tale da spingere a rapire, cercare di violentare e poi uccidere una bambina innocente.

Ma ancora una volta questo caso, come in precedenza quelli altrettanto tragici dell’uccisione di Sarah Scazzi (ad Avetrana) o di Chiara Poggi (a Garlasco) attestano l’assoluta fragilità delle modernissime tecnologie investigative. Abituati ormai da anni ai telefilm americani delle serie CSI o NCIS, ci siamo convinti che in men che non si dica, da qualche reperto o da qualche esilissima traccia, si riesca a ricostruire lo stato di famiglia del colpevole senza ombra di dubbio.

La Polizia scientifica, i Ris, gli uomini in tuta bianca con le sovrascarpe e i guanti «sterilizzano» la scena del crimine, analizzano tutto e tutti. Poi però, spesso e volentieri, come siano andate veramente le cose non lo sappiamo. E nonostante quintali di intercettazioni telefoniche e ambientali, analisi del Dna, ricostruzioni della dinamica in 3D, il colpevole o i colpevoli non vengono individuati o comunque inchiodati con prove certe e incontrovertibili. Un certo apparato tecnico-investigativo appare alla fine più adeguato per offrire il copione di avvincenti trasmissioni Tv che per assicurare gli assassini alla giustizia.

I criminologi tracciano profili, la scientifica fa i suoi accuratissimi rilievi, si ricostruiscono i movimenti del telefonino. Alla fine però manca la capacità umanissima della sintesi, quell’attitudine a scrutare l’animo delle persone, la psicologia dei protagonisti. Insomma, anche in questo campo, ci si affida totalmente alla tecnica, alle tecniche, attendendo dagli esami di laboratorio risposte certe e inequivocabili.

Talvolta però la massa di informazioni raccolte non serve a far davvero luce su un crimine. Come pure settimane di battute a tappeto sul territorio in compagnia di cani addestrati possono dare un esito inconcludente salvo poi scoprire che il corpo martoriato della vittima era in luogo frequentatissimo e dove – incredibilmente – era stato più recentemente scoperto un altro cadavere. Si sente dunque la mancanza, nell’epoca di CSI, di personaggi letterariamente fortunatissimi come il commissario Maigret, creato dalla fantasia di George Simenon, o come padre Brown, il prete detective protagonista di diversi racconti gialli dello scrittore britannico Gilbert Keith Chesterton. D’accordo, anche in quel caso stiamo parlando di finzione, proprio come per i telefilm polizieschi di ultima generazione.

Eppure Maigret e Chesterton descrivevano bene le caratteristiche e le qualità del buon investigatore, che dev’essere innanzitutto esperto di umanità, conoscitore e indagatore dell’animo umano. Una caratteristica che forse si è andata perdendo, a motivo dello sviluppo delle nuove tecnologie e delle sicurezze – in più di un caso solo apparenti – che esse ci offrono. Il computer capace di darci in pochi minuti il nome dell’assassino esiste solo nelle fiction americane.


Avvenire.it, 1 marzo 2011, Oltre il dolore, dentro le notizie - Per capire, per vivere di Davide Rondoni

Quando il mondo s’infiamma e urla di più il proprio dramma, quando piovono i colpi di dolori privati, duri come quelli che han sfregiato Yara e a sua famiglia, o pene pubbliche, generali come quelle che arrivano dal Nord Africa, ecco si vorrebbe capire, appigliarsi a qualcosa per poter sapere davvero e conoscere. Per orientarsi. E allora si sfogliano giustamente i giornali, si segue qualche notiziario in più. E però si resta confusi, addirittura più di prima. Si leggono mille articoli, ma si resta in una specie di nebbia. E il dolore sembra diventare più sordo, lontano. Non ci si capisce niente, dicono in molti. E rinunciano. Tirano avanti. Non ci pensano più, la vita non ne è più toccata.

È strano: la Libia è vicinissima. Basta una barcaccia malmessa per arrivare da lì. Eppure, in realtà, di quel che sta succedendo sappiamo davvero poco. Si raccontano molte cose, ma sono frammenti, è difficile leggere il senso dell’insieme. Così potremmo dire anche della vicenda della povera Yara. Potenti mezzi di comunicazione o mesi di indagini non riescono a fornirci spiegazioni né certezze. E allora vien da lasciar perdere. Ma così si diventa meno uomini. Se non si tenta di leggere e giudicare la storia vicina e lontana si è meno uomini. Ma come raggiungere un giudizio, come farsi una idea su tanti eventi di cui magari si discute tra colleghi, tra amici ? Da più di due secoli si è pensato che la grande risorsa per arrivare ad avere una certa conoscenza del mondo fosse l’informazione. I giornali e poi tutto il sistema dei media si è sviluppato –con enormi meriti e anche grandi ambiguità – sul presupposto che l’uomo informato riesce a giudicare meglio la realtà. I media si sono presentati sulla scena della presunta modernità come se fossero la chiave – o una delle chiavi principali – per permettere all’uomo di conoscere, di essere più se stesso, pronto ad affrontare l’esistenza. Ma subito alcuni, come Baudelaire alla metà dell’800, hano preso a ironizzare su tale pretesa dei giornali di segnar la via per raggiungere il compimento d’esser uomini.

Oggi abbiamo infinita disponibilità di notizie, ma costatiamo da un lato che spesso e su fatti importanti esse sono limitate e perciò fuorvianti. E dall’altro costatiamo che tutta questa mole non ci rende più capaci di giudicare neppure quel che accade vicinissimo a noi. In questa nube di news si è sperduti. Come mai ? Non si tratta di buttare o demonizzare i media. Casomai si tratta, come non ci stanchiamo di ripetere, di saper scegliere tra loro. Ma per conoscere il mondo ognuno deve innanzitutto chiarire quali sono i criteri personali, profondi, il cuore per così dire, con cui affronta e giudica gli avvenimenti del reale. Ci han fatto troppo a lungo pensare che non è necessario avere criteri personali forti, obiettivi, profondi, per poter comprendere il mondo. Basta essere informati, salvo poi accorgersi spesso che i criteri di giudizio, le unità di misura e valutazione ci vengono imposte più o meno subdolamente attraverso gli stessi canali che pretendono di farci vedere il mondo. Si chiama alienazione. O omologazione. Uno dei più grande poeti del ’900, T.S.Eliot, chiedeva in un verso: dov’è tutta la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione? Occorre una sapienza del cuore per giudicare. Un modo di conoscere che si fondi su buone fonti. E sui criteri del cuore, sul desiderio di giustizia, di bene e di vero che costituisce il tessuto umano di ciascuno. Quello che ci fa reagire – se non siamo morti – dinanzi a ogni vicenda umana che attraversa il nostro sguardo. Senza mettere all’opera tali criteri, ogni tentativo di giudizio sarà alienato, confuso, o condotto dai padroni del circo mediatico verso interessi particolari, non verso la conoscenza.


Avvenire.it, 1 marzo 2011, INTERVISTA, Roccella: «Questa legge sulle Dat scioglie ogni dubbio» di Francesco Ognibene

L’arrivo in aula è previsto per lunedì prossimo, ma attorno al disegno di legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) Montecitorio sta ragionando da quasi due anni. Malgrado un simile lavorìo, in questi giorni affiorano dubbi e interrogativi. Che il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella s’impegna a chiarire.

C’è chi si chiede – con un certo ritardo, per la verità – se una legge fosse proprio necessaria. Cosa risponde?
«Con le norme oggi in vigore non si è riusciti a impedire che Eluana fosse condotta alla morte per disidratazione e denutrizione. Questo è accaduto nonostante il tenace impegno di governo e maggioranza: dopo la sentenza della Corte di Cassazione, i tentativi messi in campo per salvare la vita della Englaro sono tutti falliti. È stato sollevato un conflitto di competenze con la magistratura, ma la Corte Costituzionale non l’ha accolto invitando a legiferare. Abbiamo invocato la Convenzione sui Diritti dei Disabili, che vieta di sospendere alimentazione e idratazione ai disabili: inutilmente. Il ministro del Welfare Sacconi ha emanato un atto di indirizzo, ma l’esecuzione della sentenza è stata solamente rimandata. Non è bastato neppure che un Consiglio dei ministri firmasse un decreto all’unanimità. Eluana è morta mentre il Senato discuteva d’urgenza un ddl composto da un unico articolo che impediva la sospensione di idratazione e alimentazione alle persone in stato vegetativo».

Adesso ci troviamo davanti a una legge assai articolata. Non era meglio riproporre quell’unico articolo?
«Ormai neppure quello basterebbe a fermare il tentativo di alcuni magistrati di arrivare all’eutanasia per via giudiziaria. Con la sentenza Englaro si è creato un precedente secondo il quale non serve il consenso informato ma basta aver espresso la propria volontà in qualunque forma, o anche desumerla ex post dagli "stili di vita". È a questo scopo che si sono creati i registri comunali per raccogliere testamenti biologici improvvisati. Il ddl Calabrò già approvato dal Senato invece sancisce per la prima volta la necessità per qualunque trattamento di un consenso informato, secondo il principio liberale che per deliberare bisogna conoscere. Se non si regola la materia in Parlamento, ci saranno decine di nuovi casi giudiziari e si arriverà a una normativa costruita per sentenza, come è accaduto in altri Paesi (come l’Olanda) con le leggi sull’eutanasia».

Altra obiezione ricorrente: a che serve fare le Dat se poi la legge non le rende vincolanti per il medico?
«Il medico non è mai obbligato a pratiche contro "scienza e coscienza". Se si introducesse questo criterio si violerebbe la sua libertà: non è un mero esecutore, ma deve sempre poter fornire la sua valutazione professionale in piena autonomia. Come il paziente è libero di rifiutare un trattamento che non desidera, il medico può sempre rifiutarsi di praticare una terapia che ritiene inappropriata. Ricordiamo che il medico che decida di non applicare le Dat deve riportare le motivazioni nella cartella clinica: nessun medico si esporrà a contenziosi giudiziari senza ottime ragioni. Una vincolatività stretta costringerebbe il medico a eseguire richieste che – fatte in anticipo e in modo generico – potrebbero non corrispondere alla condizione clinica del malato. Crescerebbe così il rischio di atteggiamenti difensivi che potrebbero danneggiare il paziente, come nel caso di nuove terapie o di eventualità non previste nelle Dat».

Si sente dire che trattandosi di un "testamento biologico" la volontà dev’essere rispettata alla lettera: altrimenti che "testamento" è...
«In realtà anche nel testamento in Italia la volontà della persona è soggetta a limiti. Esistono quote legittime dell’eredità che non sono nella piena disponibilità del soggetto (per i figli e il coniuge), inoltre a nessuno verrebbe in mente di applicare a un bene materiale – per esempio un immobile – la ricostruzione della volontà sulla base degli stili di vita, com’è accaduto nel caso Englaro. Per trasmettere un bene, anche di scarso valore, serve una certificazione scritta della volontà. Non a caso la legge non parla di testamento biologico, ma di "consenso informato e dichiarazione anticipata di trattamento": si parla infatti di persone e non di cose, la garanzia per la vita umana è diversa da quella applicabile a un oggetto».

Se sono cosciente posso rifiutare la nutrizione assistita: perché la legge dice che non posso inserirla nelle Dat?
«Il ddl serve ad applicare l’articolo 32 della Costituzione, offrendo la possibilità di rifiutare specifiche terapie anche anticipatamente nel caso non si sia più in grado di esprimere la mia volontà. Idratazione e alimentazione non sono terapie ma sostegno vitale e gesti di assistenza. Qual è la patologia che viene curata con alimentazione e idratazione? Se si sospende una terapia, il malato muore a causa della sua patologia. Ma se si interrompe la nutrizione si muore di fame e di sete. Anche altre forme di sostegno vitale richiedono il consenso della persona se cosciente, e non lo richiedono più se non lo è: dall’igiene personale alla mobilizzazione nel letto. Finché sono cosciente posso compiere autonomamente gesti che portano alla morte, come non mangiare, ma se non sono più cosciente e se il rifiuto di alimentazione e idratazione è inserito nelle Dat finisco con il delegare ad altri la decisione sul lasciarmi morire, magari affidandola al Servizio sanitario nazionale: siamo ai confini dell’eutanasia passiva e del suicidio assistito, vietati dalla nostra legge».

La legge 40 sulla fecondazione artificiale è stata messa sotto attacco con ricorsi e sentenze. Non accadrà lo stesso con le Dat?
«Negli ultimi anni c’è stato un intervento sempre più invasivo e improprio da parte di alcuni magistrati, ma se il Parlamento o il governo considerassero questa ipotesi l’attività legislativa sarebbe paralizzata. Il compito del legislatore è emanare leggi che rispondano alla richiesta dei cittadini e al bene comune. Quando una legge è saggia, "smontarla" per via giudiziaria non è facile: la legge 40 ha resistito a un attacco insistente di alcuni tribunali, ma alla fine la Corte costituzionale è intervenuta in misura marginale, confermandone l’impianto. Una legge è un punto fermo che blocca le iniziative "fai da te" e costringe tutti a confrontarsi con una normativa definita e un’impostazione precisa».


Avvenire.it, 1 marzo 2011 - LA SCHEDA - Così si dà valore all’alleanza terapeutica di Ilaria Nava

Alleanza terapeutica e consenso informato: la proposta di legge sulle «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazione anticipate di trattamento» riconosce la vita umana quale diritto inviolabile e indisponibile, vieta ogni forma di eutanasia e di accanimento terapeutico e prescrive l’obbligo per il medico di informare il paziente sui trattamenti sanitari più appropriati riconoscendo come prioritaria l’alleanza terapeutica. Ogni trattamento sanitario è attivato previo consenso informato, che dev’essere esplicito e attuale. È preceduto dalla corretta informazione su diagnosi, prognosi, natura, scopo, benefici e rischi del trattamento sanitario, nonché sulle possibili alternative terapeutiche e può essere revocato in qualsiasi momento. Se il soggetto è interdetto o inabilitato, la decisione del tutore, del curatore o dell’amministratore di sostegno riguardano anche i contenuti che possono essere espressi attraverso una dichiarazione anticipata. Il consenso informato non è richiesto quando una persona incapace di intendere e di volere sia in pericolo per il verificarsi di una grave complicanza o di un evento acuto.

Dichiarazione anticipata di trattamento: per le decisioni che riguardano il futuro, e che quindi non hanno il requisito dell’attualità previsto per il consenso informato, è possibile esprimere «il proprio orientamento in merito ai trattamenti sanitari in previsione di un’eventuale futura perdita della propria capacità di intendere e di volere». Sottoscrivere una Dat, che ha valore per 5 anni dalla redazione, non è obbligatorio. In questo documento «può anche essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto a ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale». Non possono essere inserite indicazioni che integrino la fattispecie dell’omicidio del consenziente, né del suicidio assistito.

Medico e fiduciario: le volontà espresse nelle Dat sono prese in considerazione dal medico che annota nella cartella i motivi per cui ritiene di seguirle o meno. Nelle Dat il soggetto può nominare un fiduciario che diventa l’unico soggetto autorizzato a interagire con il medico in relazione ai contenuti delle Dat e che si «impegna ad agire nell’esclusivo e migliore interesse del paziente, operando sempre e solo secondo le intenzioni legittimamente esplicitate dal soggetto nella dichiarazione anticipata». In caso di controversia tra il medico e il fiduciario, la questione viene sottoposta a un collegio medico la cui decisione è vincolante per il medico, che però può rifiutarsi di porre in essere prestazioni contrarie alle sue convinzioni di carattere scientifico e deontologico.

Idratazione e alimentazione: nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita, a eccezione del caso in cui risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo. Il loro rifiuto non può essere espresso attraverso una dichiarazione anticipata.


OLTRE LA SOLITUDINE DI RIMPIANTI CENSURATI E DOLORI NASCOSTI - Lo sguardo che davvero serve sull’oscura ferita dell’aborto di MARINA CORRADI, Avvenire, 1 marzo 2011

C’ era qualco­sa, nel discorso del Papa alla Pontificia accademia per la vita di sabato, che forse nei titoli dei giornali è sfuggito. Certo, Benedetto XVI ha parlato nei termini rigorosi del magistero della Chiesa: aborto come violazione della coscienza morale, aborto che «distrugge la donna» e «acceca a coscienza». E però Benedetto XVI non si è fermato alla condanna. Un’ampia parte del discorso si incentra sul 'dopo', su ciò che accade a una donna quando ormai la scelta è fatta, e quel figlio perduto. E qui il rigore del magistero, e quindi della verità che la Chiesa ritiene di dovere annunciare, lascia il posto alla carità. In uno sguardo su molte in quei milioni di donne che hanno abortito, e si ritrovano addosso, anche dopo molti anni, una oscura ferita. Ferita diffusa eppure quasi segreta, di cui pubblicamente non si parla. Non ne parlano gli uomini, perché non sanno, o non vogliono sapere; non ne parlano le donne, che avvertendo quel dolore come rigorosamente privato; oppure troppo cresciute nell’idea di aborto come 'diritto', per poterlo oggi chiamare dolore; troppo educate nell’idea di essere padrone assolute di sé, per ammettere che c’è infine qualcuno a cui di quel 'no' chiedere perdono. Il Papa chino, dunque, su questa ferita, comune a madri e a figlie, aperta eppure nascosta sotto a tante case, come un’acqua carsica che non si vede in superficie. Non con le povere parole con cui ci si consola fra noi, come si può – «è andata così, non potevi fare altrimenti, ormai è tardi, non pensarci più».( Le consolazioni fasulle che non leniscono, e anzi lasciano più sole). Di fronte a quel dolore, per il Papa non basta niente di meno di Dio. Un Dio che «non abbandona mai», ma che tenacemente continua a cercare chi se ne è andato.

Un Dio che parla nella voce della coscienza. (Dio è in quel non poter dimenticare, nel non lasciarsi pacificare da ragionevoli considerazioni; preme in quel ricordo dolente, che ritorna magari improvviso, quando ormai si è vecchie, guardando un bambino in carrozzina, per strada).

A queste donne sole con il loro censurato rimpianto Benedetto si rivolge riportando un passo della Evangelium vitae, in cui Giovanni Paolo II esortava quelle stesse donne a non scoraggiarsi, e a non abbandonare la speranza: «Sappiate – diceva – comprendere piuttosto ciò che si è verificato, e interpretatelo nella sua verità». Invito a dire a se stesse ciò che quell’aborto è stato, ad ammainare le bandiere di diritti e ideologie, e ogni rivendicazione delle magari concrete ragioni per quel 'no'; a dirsi che quello, semplicemente, era un figlio, e che per un simile male occorre un perdono che solo Dio può dare. Per quella ferita non basta nulla di meno della misericordia di Dio – tanto più grande della nostra giustizia di uomini. La nostra giustizia che assolve o condanna, ma non restituisce mai ciò che è stato, non sana l’innocenza offesa di una vittima, né la disperazione di un condannato. Invece la misericordia – «amore di viscere materne», nella radice ebraica – è un’altra giustizia, una divina 'giustizia', che ricrea. E dunque fra le righe di quel documento lo sguardo si allarga su tante donne; che un giorno, da ragazze, sole, o spaventate, o convinte di esercitare ciò che un indottrinamento capillare ha chiamato 'diritto', hanno rifiutato un figlio.

Magari poi ne hanno avuto uno, e hanno capito cos’era, quell’altro negato; oppure di bambini, magari ansiosamente cercati, non ne sono più arrivati, e quel ricordo ora somiglia a una condanna. E «non pensarci più», sanno dire solo gli altri, come chiudendo quel dolore nel recinto del nulla. Solo in Dio quel rimpianto non è un povero pensiero annichilito, ma è abbracciato, e anzi, scrisse Giovanni Paolo II, «alla sua misericordia potete affidare il vostro bambino». Che dunque è, e non sta nel niente.

Benedetto XVI lo ridice con le parole del suo predecessore, tanto amato, e non solo dai credenti. Come avvalendosi della testimonianza di un fratello maggiore. Quasi usando quel volto così caro come quello di un forte testimone; nel chinarsi di nuovo su una ampia, taciuta ferita.