Nella rassegna stampa di oggi:
1) I valori non negoziabili, base del discernimento politico
2) NEI PUNTI NON NEGOZIABILI LA CHIESA SI PROPONE COME AMICA DELL’UOMO
3) Juno siamo noi - Come si fa a negare che sia “pro life” il film che insegna a portare la pancia con amore e buonumore?
4) Diritti umani, vero fulcro del nuovo Forum fra cattolici e musulmani
5) Non cali il silenzio sul vescovo di Mosul
6) Esclusivo. Le parole che Benedetto XVI aggiunge a braccio, quando predica ai fedeli
I valori non negoziabili, base del discernimento politico
Il Cardinale Angelo Bagnasco inaugura il Consiglio Episcopale Permanente
di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 10 marzo 2008 (ZENIT.org).- Questo lunedì, nella prolusione per l’apertura dei lavori del Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), il Cardinale Angelo Bagnasco ha indicato i valori non negoziabili come criterio per il discernimento politico.
Il Presidente della CEI ha ribadito che le elezioni non sono un “un campo di pertinenza della Chiesa come tale”, ma che è compito dei Vescovi contribuire “alla serenità del clima, al discernimento meno distratto, alla concordia degli animi”.
Pur confermando “la linea di non coinvolgimento, come Chiesa, come clero e come organismi ecclesiali, in alcuna scelta di schieramento politico o di partito”, l’Arcivescovo di Genova ha fatto riferimento all’intervento del Pontefice Benedetto XVI al Convegno ecclesiale di Verona per precisare che occorre fronteggiare con determinazione e chiarezza di intenti “il rischio di scelte politiche e legislative che contraddicono fondamentali valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell’essere umano”.
A questo proposito, il Presidente della CEI ha riportato l'appello del Pontefice “alla tutela della vita umana in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale, e alla promozione della famiglia fondata sul matrimonio, evitando di introdurre nell’ordinamento pubblico altre forme di unione che contribuirebbero a destabilizzarla, oscurando il suo carattere peculiare e il suo insostituibile ruolo sociale”.
“È alla luce di questi valori fondamentali che ognuno è chiamato a discernere, poiché si tratta di valori che costituiscono da sempre l’essere stesso della persona umana”, ha sottolineato il porporato .
Il Cardinale Bagnasco ha spiegato che “non deve destare meraviglia o scandalo se la Chiesa ribadisce i valori morali che scaturiscono dalla fede cristiana, e che spesso sono scoperta anche della ragione, la quale – secondo l’esperienza universale – non cessa di indagare su ciò che l’uomo è”.
“Sono questi valori – ha aggiunto –, che hanno ispirato la storia del nostro popolo, la sua civiltà umanistica, i suoi orizzonti di apertura e coesione; e che ad un tempo ne hanno suggerito il comune sentire”.
L’Arcivescovo di Genova ha quindi ribadito che “la Chiesa apprezza il grande bene della ragione” e la difende “sia da pretese razionalistiche, che vorrebbero restringerne gli orizzonti, sia dalla presunzione di certi fideismi che facilmente evitano la fatica del pensare”.
La difesa della persona, della famiglia, dell’educazione, della libertà e della ragione, sono valori che secondo il Cardinale Bagnasco erano già ben chiari nel Concilio Vaticano.
Citando la Gaudium et spes, il Presidente della CEI ha ricordato che “il Santo Sinodo metteva l’attenzione su una serie di rischi – che diremmo oggi − non negoziabili, in quanto minano il bene costitutivo della persona, ossia “tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario”.
“In questa medesima linea – ha continuato il porporato – il Concilio ha diffusamente parlato del bene fondamentale e ineguagliabile della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna”.
“Come ha parlato dell’educazione e della sua estrema importanza, e della libertà che essa invoca, dedicando a questa un intero documento, la Dichiarazione Gravissimum educationis”.
“Davvero non c’è nulla di improvvisato in quello che la Chiesa oggi ricorda agli uomini e alle donne di buona volontà”, ha affermato il Cardinale Bagnasco.
Il Presidente della CEI ha quindi invitato quelli che saranno eletti a prendersi cura “dell’impoverimento della popolazione, della necessità di aumento dei salari minimi, della difesa del potere d’acquisto delle pensioni, dall’emergenza abitativa, delle iniziative di sostegno della maternità, delle misure per una maggiore sicurezza nei posti di lavoro, e del miglioramento di alcune fondamentali infrastrutture a servizio anche dei pendolari”.
“Dobbiamo uscire dall’individualismo, dal pensare egoisticamente solo a se stessi e alla propria categoria nella dimenticanza di tutti gli altri”, ha detto il porporato.
Per questo, ha concluso, “occorre che il personale politico questo lo tenga presente sempre, abbandonando a sua volta una politica troppo politicizzata, per restituire alla stessa uno spessore etico che solo può fare da collante”.
NEI PUNTI NON NEGOZIABILI LA CHIESA SI PROPONE COME AMICA DELL’UOMO
Avvenire, 11.3.2008
FRANCESCO D’AGOSTINO
Non sono pochi i temi che il cardinale Angelo Bagnasco ha presentato ieri all’attenzione dei confratelli vescovi, tutti raccordandoli agli insegnamenti degli ultimi due Pontefici e tutti trattandoli, secondo il suo personalissimo stile, con toni delicati, lucidità intellettuale e fermezza pastorale.
Voglio segnalarne solo tre, sacrificandone diversi altri, formulati con accenti lievi e a volte estremamente rapidi, ma sempre pregnanti e incisivi. Il cardinale ripropone con fermezza la necessità di una 'autocritica dell’età moderna in dialogo con il cristianesimo', in particolare nei confronti delle produzioni mediatiche e delle provocazioni che provengono dall’avanzamento della scienza, che tanto affascinano gli uomini di oggi. Si osservi che il cardinale, nell’esortare la modernità ad una autocritica attraverso un dialogo con il cristianesimo, non pensa affatto che quest’ultimo non appartenga pienamente 'anche' alla modernità. La posta in gioco qui non è il sogno di un 'ritorno all’antico' (o al Medioevo, come rozzamente sostengono tanti laicisti), ma l’impegno per costruire secondo giustizia questo 'tempo' in cui ci è toccato vivere, un tempo che senza l’apporto del cristianesimo potrebbe giungere a smarrire il senso stesso dell’uomo.
Sono due gli esempi (difficilmente confutabili) che il presidente della Cei porta al riguardo: il rispetto incondizionato dell’essere umano da una parte e della dignità specifica della generazione umana dall’altra. La Chiesa, nel riproporre questi temi all’attenzione del mondo di oggi, non assume nei confronti di questo - spiega il cardinale - un atteggiamento ostile, ma all’opposto 'amicale', né potrebbe essere diversamente, dato che nella sua essenza la Chiesa non può che pensare se stessa se non come 'amica dell’uomo'. Di questo spirito di amicizia di cui tanti laici sono da sempre ben consapevoli, vorremmo davvero - aggiungiamo noi - che anche alcune frange della cultura laicista prendessero dialogicamente atto, anziché chiudersi in noti, sterili e stereotipati pregiudizi.
Il secondo punto rilevante dell’allocuzione concerne le ormai prossime elezioni politiche. Con inequivocabile chiarezza, il cardinale ribadisce la linea di non coinvolgimento: non spetta alla Chiesa dire nemmeno una parola sulle scelte di schieramento politico o di partito. Ma non per questo la Chiesa si impone il silenzio; non se lo impone, né deve imporselo, quando si tratta di richiamare alla consapevolezza di tutti il fatto che un’elezione politica non può esprimersi solo nelle dinamiche formali e procedurali che la sostanziano: essa deve radicarsi in un 'atteggiamento interiore'. I cittadini, come elettori, devono capire che sono uniti da un destino comune e che attraverso il voto essi sono chiamati ad operare per individuare e realizzare il bene comune del paese. L’Italia, insiste il cardinale, ha bisogno di un 'soprassalto di amore per se stessa' e gli italiani devono imparare a volersi reciprocamente più bene. Solo così si può ottenere che il confronto elettorale produca, anziché lacerazioni e ferite, forme nuove di solidarietà democratica e di rispetto civile per tutti.
Il terzo punto dell’allocuzione del cardinale riguarda quei valori 'non negoziabili' (la vita, nella valenza più ampia del termine, l’integrità della persona, le offese alla dignità umana e alla dignità del lavoro, ecc.), che la Chiesa percepisce radicati nella sua fede e che sono nello stesso tempo patrimonio dell’esperienza umana dei singoli e dei popoli. Sono temi che vanno difesi contro riduttive pretese razionalistiche, tanto quanto contro fideismi 'che evitano la fatica del pensare'. Chiunque si impegni nella politica, e i cattolici in particolare, dovrebbe essere consapevoli che sono temi che concernendo i diritti fondamentali della persona andrebbero sottratti a confronti di carattere ideologico e partitico. L’azione politica, conclude il cardinale, ha 'un’insopprimibile valenza di esemplarità'.
E’ auspicabile che, in qualunque formazione politica militino, i cattolici ne siano sempre fermamente consapevoli.
8 marzo 2008
Da il Foglio.it
Juno siamo noi - Come si fa a negare che sia “pro life” il film che insegna a portare la pancia con amore e buonumore?
A volte le cose sono così evidenti che bisogna ripeterle. Il 2007, per il cinema americano, è stato l’anno delle donne con il pancione. Potevano essere cameriere con un marito manesco e un talento per la pasticceria (in “Waitress” di Adrienne Shelly). Potevano essere giornaliste appena promosse in video (in “Molto incinta” di Judd Apatow). Nessuna considerava l’aborto una soluzione. Se non per un attimo, magari su suggerimento di una sorella – “ora te ne liberi e pensi alla carriera, tra qualche anno farai un figlio vero” – subito respinto. Tra i film che nel 2007 raccontavano allegre gravidanze, “Juno” è il più sfacciato: ha per protagonista una sedicenne, rimasta incinta al primo colpo di un compagno di scuola (la bocca di lui sapeva di caramelline all’arancia, c’era una poltrona nei dintorni; insomma, faccende che capitano). Prevede una tappa da “Hasty Abortion”, che proprio non possiamo chiamare consultorio, vista la ristrettezza dell’offerta e la garanzia di rapidità. Poi una fuga precipitosa, colpa dell’odore di dentista, e della soffiata: “Ha già le unghie!”. Juno porta a spasso il suo pancione, comportandosi per il resto come le ragazze alla sua età: rimbecca gli adulti, li prende e si prende in giro, cerca un cavaliere per il ballo della scuola.
Guai però a dire, avverte Natalia Aspesi con il ditino alzato – perché è più forte di lei, e perché negare l’evidenza richiede un sovrappiù di fatica – che questo sia un film contro l’aborto. Guai a dire che sono contro l’aborto anche gli altri due. Presi tutti insieme esauriscono – o quasi – le motivazioni che seguono la premessa “l’aborto è un dramma” (tanto ripetuta che ormai rischia di suonar vuota): carriera da avviare, giovane età, compagno bamboccione, matrimonio in sfacelo, “una botta e via” senza uso di gommino.
Guai a dirlo. Giù le mani. Qui vigono i due pesi e le due misure, mica sarete tanto imbecilli da credere alle pari opportunità? Esempio. Da mesi sentiamo ripetere che “Il petroliere” di Paul Thomas Anderson denuncia l’avidità degli Stati Uniti (legati a doppio filo come il lupo e il vizio) e pure il loro fervore religioso, incline al fanatismo. Ma guai a dire, semplicemente: tre film con tre ragazze che non abortiscono – tutte e tre giovani, belle, e neanche particolarmente devote – segnalano che qualcosa è cambiato. (Per esempio, che quando una ragazza, in un film o fuori, annuncia “sono incinta”, la risposta automatica non è “lo tieni?”. Bensì: “Che bello!”).
Da mesi sentiamo osannare George Clooney per aver messo a nudo, in “Michael Clayton” il cuore marcio delle multinazionali. Ma quando un regista inquadra una pancia di sei mesi sotto una maglietta a righe, vietato far notare che l’unica ragazzina protagonista al cinema da molti anni a questa parte – paragonabile per impatto al giovane Holden che plasmò le generazioni ormai nonne – è incinta e contenta di esserlo.
Da mesi professionisti e dilettanti sforzano le cellule grigie per dar conto del serial killer Chigurth in “Non è un paese per vecchi” dei fratelli Coen (purtroppo rimasto orfano dello sceriffo Bell che avrebbe risolto l’arduo problema, sul taglio e piega abbiamo esaurito le battute). Guai però a dire come stanno le cose in un film che non abbisogna di spiegazioni: una ragazzina fa un figlio a sedici anni, senza morire d’invidia per le compagne di scuola che ancora possono permettersi la vita bassa. Per giunta, senza mostrare un briciolo di istinto materno, tanto che si affretta a cercare una coppia per crescere il pargolo. A proposito, ecco l’ultima su Chigurth, così come l’abbiamo appena letta su Ciak: “Il serial killer psicopatico è la rappresentazione più fedele dell’orrore indicibile dell’aereo che sbuca dal nulla e si infila nelle due torri come una palla di fuoco”.
A nessuno è venuto in mente che se in un anno escono tre film da moratoria sull’aborto, e se i suddetti film guadagnano montagne di dollari, forse qualcosa è cambiato. Forse il lutto dell’11 settembre è stato elaborato, producendo un atteggiamento più speranzoso di quello che i commentatori stranieri rimproverano all’Italia (il tutto accadeva prima che cominciassero le primarie: gli slogan elettorali americani funzionano perché intercettano qualcosa di sensato). E nessuno, per favore, ripeta le sciocchezze sullo strapotere del cinema americano, o del suo marketing: due film su tre sono produzioni indipendenti a bassissimo costo; il terzo lo firma un comico finora noto soltanto per gli incassi, e le gag su un quarantenne che non riesce a disfarsi della verginità.
Prima dei magnifici tre (tutti grondanti amore e buonumore, nel caso non l’avessimo già detto) ricordiamo due soli altri titoli che parlavano di aborto. “Citizen Ruth” di Alexander Payne (il regista del vinicolo “Sideways”) e “Palindromes” di Todd Solondz, regista di “Fuga dalla scuola media”. “Citizen Ruth” – come “Citizen Kane”, titolo originale di “Quarto potere”, in Italia “La storia di Ruth, “donna americana” – raccontava di una ragazza senza fissa dimora, sniffatrice di colla, rimasta incinta non sappiamo come, accolta prima da un gruppo prolife, poi rapita da un collettivo prochoice. I primi la vestono con cardigan rosa e volant, gli altri le mettono addosso una maglietta di Frida Kahlo. “Palindromes” racconta di Aviva, una ragazzina che scappa di casa perché i genitori la costringono ad abortire, anche se lei il bambino lo vorrebbe. Via via, altri attori prendono il testimone (come accade nella biografia dylaniana “Io non sono qui”). Il fatto che entrambi i film non fossero riassumibili con lo slogan: “L’aborto è un diritto” li ha resi sospetti (“Citizen Ruth” è uscito solo in videocassetta, Palindromes solo al Festival di Venezia). Quando Todd Solondz sarà a Roma, il prossimo 11 marzo, varrebbe la pena di fargli due domande sull’argomento. Se non altro, per pari opportunità con i registi continuamente interpellati sui danni prodotti da Bush.
“Onora il padre e la madre” di Sidney Lumet produce fervorini contro l’America che ha smarrito i valori e pensa solo ai soldi. Quando arriva un film con i valori – e con teenager che hanno come unica droga le pastiglie di tic tac e non possiedono cellulare, semmai un telefono-hamburger con il filo – guai a farlo notare: “Lo si immiserisce, lo si stravolge, lo si avvilisce” denuncia Natalia Aspesi.
Nessuno più di noi detesta il cinema-col-messaggio. Ma da lì alla cecità ce ne corre. “Sweeney Todd” racconta di un barbiere che per vendetta sgozza i clienti. “Juno” racconta una sedicenne che fa un figlio senza pensare “oddio, mi sto rovinando la vita” (“Incinta? E allora?” sta scritto sul manifesto# francese). Grazie alla meravigliosa scrittura di Diablo Cody, non troviamo metafore, o sottotesti da decifrare. Juno siamo noi perché abbiamo l’impressione di conoscerla da sempre, e l’adoriamo anche se sono passati solo cinque minuti di film. Juno siamo noi perché il film è una favola, con tanto di morale della favola, tanto semplice che chiunque la capisce. “I’m a Cautionary Whale”, annuncia la sedicenne, quando ormai il fagiolino che ha nella pancia è cresciuto parecchio, e gli amici si scansano per farla passare. Il gioco è tra “Cautionary Tale”, che significa “favola con insegnamento morale e “whale” che significa “balena”. (Sì, abbiamo detto “insegnamento morale”: non ne possiamo più di sentire, nei giorni dispari, l’elogio del “fai come ti pare” e nei giorni pari il lamento “sta gioventù, signora mia, non crede più a niente”. Urge una decisione).
Juno siamo noi. Tutti quelli che, come la simpatica sedicenne, non sopportano la frase “sessualmente attiva” pronunciata dall’addetta al consultorio mentre chiede di riempire il questionario di accettazione, senza saltare i dettagli scomodi (“fare l’amore” non rende meglio l’idea?). La ragazza è una mina vagante di intelligenza e buon senso: “Odio gli adulti che dicono ‘sessualmente attiva’. Significa che un giorno mi disattiverò, oppure devo considerarlo uno stato permanente? Bleek era sesso-attivo quando lo abbiamo fatto? Ora capisco perché aveva quella faccia”. Poiché la sceneggiatrice Diablo Cody non sbaglia un colpo, e non lascia nel suo ricamo fili pendenti, il “sessualmente attiva” tornerà più volte. Come tornerà la questione delle unghie: la matrigna di Juno (la mamma vera manda un cactus per le ricorrenze, ribattezzato “cactogramma”) lavora come “nail technician” in un salone di bellezza. Se ne serve per rimettere al suo posto la technician dell’ecografia, pronta a descrivere le minorenni come madri snaturate. Juno siamo noi, che mal sopportiamo il modo di parlare che (ultimo esempio pervenuto) affligge “Vogliamo anche le rose” di Alina Marazzi. La regista deplora nelle interviste “il retaggio maschilista”, i diari garantiti genuini sono una frase fatta via l’altra, in femministese.
Juno siamo noi, e le ragazzine che postano su You Tube canzoncine autoprodotte per incitare “Dai che ce la fai!”. Oppure mettono il loro profilo su Junoversal, una specie di Face Book per chi ha amato “Juno” (gli incassi intanto hanno toccato i 175 milioni di dollari, tutta Hollywood cerca di copiare la formula, peraltro vecchia come il cucco: una bella storia, scritta bene e recitata meglio, da una giovane attrice che incanta). Juno siamo noi, e anche un po’ Lisa Schwartzbaum, critico di Entertainment Weekly che dopo aver molto lodato “Juno” aggiunge un poscritto: “Da femminista della vecchia scuola, avrei preferito che il film spendesse qualche parola, bastava una battutina, per ricordare che Juno dà per scontate le faticose conquiste della generazione precedente”. Poi ci ripensa, e aggiunge un poscritto al poscritto: “Contrordine: Juno, il suo fidanzatino, la loro generazione sono tanto deliziosi che mi sta bene così. Da tipi come loro sono disposta perfino a farmi dire ‘zitta, vecchiaccia!’”. Proprio la stessa frase – nell’originale: “Silencio, old man!” – che Juno rivolge al droghiere che le ha venduto il quarto test di gravidanza. Probabilmente, anche il bidone di succo d’arancia che manda giù per poterli usare tutti e quattro prima dei titoli di testa.
di Mariarosa Mancuso
07/03/2008 09:06
VATICANO – ISLAM
Diritti umani, vero fulcro del nuovo Forum fra cattolici e musulmani
di Samir Khalil Samir, sj
Il p. Samir Khalil Samir, gesuita egiziano ed esperto di Islam, commenta ad AsiaNews la creazione della nuova Commissione di dialogo e spiega: è una strada lunga, ma che deve essere percorsa. Importante inoltre creare una realtà simile per gli sciiti, ramo importante dell’islam. Da non dimenticare: tutto è partito dal discorso di Benedetto XVI a Regensburg.
L’incontro è avvenuto il 4 ed il 5 marzo scorso presso il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. Al termine le parti hanno annunciato la creazione di un Forum cattolico-islamico “per sviluppare ancora di più il dialogo fra cattolici e musulmani”. Il Forum si riunirà per la prima volta a Roma dal 6 all’8 novembre prossimo.
All’appuntamento di novembre parteciperanno 24 leader religiosi e studiosi delle due religioni. Il tema da affrontare sarà “L’amore di Dio, l’amore per il prossimo”: nei 2 giorni di incontri si parlerà di “Fondamenti teologici e spirituali” e di “Dignità umana e rispetto reciproco”. Al termine, i partecipanti saranno ricevuti da Benedetto XVI.
Ecco quanto ha dichiarato p. Samir ad AsiaNews.
La Commissione nata il 5 marzo fra cattolici e musulmani è definita “stabile e duratura” e servirà a “rinforzare l’amore per Dio e gli Uomini”.
Il primo principio alla base di questo incontro era quello di mettersi d’accordo su un programma comune e sulla creazione di una Commissione di dialogo duratura: non una realtà occasionale, ma un Forum simile a quello già esistente fra il Vaticano e l’università islamica di al-Azhar. Questa nuova realtà giordana presieduta dal re [che ha promosso la lettera degli studiosi islamici ai leader cristiani ndr], cerca di radunare al suo interno il più largo numero di pensatori e leader religiosi islamici.
Creare una Commissione duratura – che si riunisce ogni anno, prima in Vaticano e poi ad Amman – mi sembra essenziale perché evita esternazioni impulsive, come la minaccia di una rottura dei rapporti fra cattolici e musulmani. In più, è importante la decisione di poter riunire la Commissione ogni volta che ci sia bisogno.
Il secondo principio è stato quello di stabilire il contenuto di questi incontri. I partecipanti hanno deciso che, in linea di massima, l’amore per Dio e l’amore per il prossimo sarà il tema dominante: in questo modo si accoglie i suggerimento della Lettera dei 138 – “Una Parola comune fra Noi e Voi” – che mette questo concetto al centro dei rapporti fra le due religioni.
Diritti umani e rispetto reciproco
Da parte sua la Chiesa ha accettato come fondamentale questo punto, ma ha aggiunto 2 argomenti: diritti umani e rispetto reciproco. Questo perché la fede ha due dimensioni: quella teologica e spirituale (capire su quali punti ci fondiamo come religioni), ed una dimensione più concreta, cioè quella della dignità dell’uomo – questa è fondamentale, perché al suo interno rientrano tutti i diritti umani –e del rispetto reciproco.
Da un certo punto di vista, questa sottolineatura ha già una dimensione teologica. Dal punto di vista cristiano, infatti, l’uomo – immagine di Dio – ha una dignità assoluta, anche se ateo o peccatore. È una cosa connaturale all’uomo: egli è l’essere più nobile della creazione. Dietro questo concetto, vi è tutto il programma del dialogo.
Quanto al rispetto reciproco, questo deve essere la base per mettersi d’accordo sui rapporti fra le religioni. Il problema è questo: noi sappiamo di avere dei dogmi diversi, addirittura su certi punti opposti. Allora, che fare? Significa che non possiamo avere un dialogo? No, si può avere se si rispettano entrambi i dogmi.
Facciamo un esempio. Tu, musulmano, dici che Maometto è messaggero di Dio, addirittura “il sigillo dei profeti”: nell’affermarlo sei nel tuo pieno diritto, ma devi riconoscere che per me, cristiano, è pieno diritto dire che Maometto non è messaggero di Dio. Parallelamente, il cristiano dice che Cristo è Figlio di Dio. Questo è un suo diritto innegabile, ma allo stesso tempo nessuno può obbligare il musulmano a dire che Cristo è Figlio di Dio.
Il rispetto reciproco vuol dire: tu hai i tuoi principi, ed hai il diritto di esporli, ma non puoi obbligarmi a riconoscerli come validi per me. Per riprendere l’espressione coranica: “A voi la vostra religione, a me la mia” (Corano 109:6), come diceva Muhammad, il profeta dei musulmani, ai miscredenti della Mecca.
I diritti umani diventano perciò la base per costruire l’edificio, perché la vera cosa in comune fra cristiani e musulmani, anzi fra tutti gli uomini, è la nostra natura umana. Con questo concetto condiviso da tutti, i dogmi e le credenze religiosi possono essere condivisi, ma anche non condivisi.
Costruire insieme una società comune a tutti
Questo programma servirà man mano alla costruzione di un progetto di società dove stabilire visioni comuni. Questo vale, per fare un esempio, anche nel dibattito che ha animato in questi ultimi tempi l’Italia: fino a che punto possiamo dire che un feto è un essere umano, nel pieno senso della parola? Se ne discute, all’interno del dibattito della dignità umana e del suo inizio. In questo modo, si affinano le proprie opinioni fino a poter dire: viviamo insieme come fratelli, sapendo che siamo diversi.
Questo “principio di Dio” ha alla base proprio l’amore per Dio e l’amore per il prossimo. Quest’ultimo, ad esempio, è un concetto da affinare: chi è il mio prossimo? Nel Vangelo, alla stessa domanda postagli da un dottore della Legge (“E chi è il mio prossimo?” Luca 15:29), Cristo spiega che non è questo il vero interrogativo. La vera domanda è: “Come posso divenire io il prossimo di tutti gli uomini, fosse anche di un mio nemico?”.
Dunque, operando queste distinzioni, la neonata Commissione ha posto le fondamenta di ciò che potrebbe diventare un progetto di società, più allargato rispetto ai termini in cui è nato.
E’ un dialogo con tutti i musulmani?
Tutto questo va inserito nel contesto della realtà islamica. Con l’islam sunnita non si potrà mai avere un dialogo con un ente che sia rappresentativo di tutti i fedeli: non esiste nell’islam un magistero o una gerarchia. Questo particolare rende il dialogo islamo-cristiano simile al dialogo con i protestanti: con chi parlare? Dobbiamo avere un dialogo con ciascuno dei gruppi, partendo dai più grandi, ma anche lì esistono dei problemi. Una volta fatto l’accordo con i luterani, questo non è stato accettato da tutti i fedeli. Non esiste il principio dell’autorità unica, da seguire per tutti.
In un certo senso, con l’islam sunnita è lo stesso. Chi firma una dichiarazione, può dire di rappresentare semplicemente sé stesso. In un certo senso, però, questo gruppo ha una autorità morale, anche se non giuridica, che può servire ad altri a precisare idee e concetti. In questo caso, tenuto conto dell’impegno della Fondazione Aal al-Bayt e del numero assai grande dei firmatari, questo gruppo potrebbe giocare un ruolo più importante dei suoi predecessori.
Prima o poi dovremo dialogare anche con gli sciiti, perché questo è un ramo importante dell’islam (sono circa il 15 % dei musulmani totali), che ha dei principi assai diversi dal punto di vista dell’interpretazione rispetto a quelli sunniti: danno di solito più importanza alla metafisica, alla spiritualità. Soprattutto, hanno un sistema gerarchico sconosciuto ai sunniti ed una tradizione teologica ed esegetica diversa. Inoltre, l’evoluzione politica e religiosa dei sciiti invita tutti quanti a stabilire rapporti strutturati con loro. Dunque si dovrà presto o tardi creare un dialogo anche con loro.
Insomma, il dialogo interreligioso è qualcosa che va passo per passo, e richiede decenni. Questo è normale, perché con i musulmani abbiamo secoli di storia parallela, talvolta costellata da episodi contrastanti. Quindi al primo posto, se si vuole un vero dialogo, vi è la necessità di ricreare la fiducia, perché se non ci si fida, le parole diventano vuote. Questo richiede un cammino, che durerà molti anni: basta vedere il cammino all’interno della famiglia cristiana, per rendersi conto di quanto sia difficile. Proprio perché è difficile, è urgente cominciare subito e farlo su delle base solide.
Riflessioni conclusive
Vorrei concludere con una doppia riflessione. La prima è per notare che tutto questo processo (la lettera dei 38 dotti, la risposta del Vaticano, la lettera dei 138, la risposta del Papa attraverso il cardinal Bertone, la risposta del principe Ghazi e l’incontro di ieri) è nato dal discorso del Professor Ratzinger (papa Benedetto XVI) nella sua antica Università a Regensburg, del 12 settembre 2006. Tutto è partito da una frase di Manuele II Paleologo nel suo scambio con il saggio persiano (al-Mudarris). Questa frase ha suscitato fiumi di scritti!
C’è chi ha considerato questa frase e quel discorso come un errore, c’è chi l’ha considerato come una “felix culpa”, e c’è chi l’ha considerato come una “parola di verità”. La storia lo dirà. È sicuro, però che quel discorso, nella sua profondità, ha spinto tutti a riflettere. A Dio sia la lode! Wa-l-hamdu li-llâh!
La seconda è che, grazie allo spirito e al cuore aperti di tanta gente, e in particolare della Fondazione Aal al-Bayt, dallo scontro iniziale sta venendo fuori l’incontro. A Dio sia lode per sempre! Wa-l-hamdu li-llâhi dâ’iman!
Ormai, c’è una strada bellissima da percorrere, una strada che porta a riconoscersi come fratelli, pur nella diversità religiosa, culturale e spirituale.
11/03/2008 09:08
IRAQ
Non cali il silenzio sul vescovo di Mosul
È l’appello dell’arcivescovo di Kirkuk, a 12 giorni dal sequestro di mons. Rahho. Alle conferenze episcopali e ai cristiani nel mondo: “Non rimanete indifferenti a questa sofferenza, non lasciateci soli in questa fatica”. Mentre crescono i timori, oggi a Kirkuk 15 leader musulmani chiedono di nuovo la liberazione del presule.
Kirkuk (AsiaNews) – La Chiesa irachena è in “profonda sofferenza” e “il buio e il silenzio” che regnano sul rapimento dell’arcivescovo caldeo di Mosul aumentano preoccupazione e ansia tra i fedeli come tra i loro pastori. Un appello affinché l’Occidente non si abitui a guardare le violenze in Iraq come “un fatto normale”, ma alzi ancora la voce contro le ingiustizie che affliggono il Paese e mostri solidarietà alla sua popolazione, arriva oggi dall’arcivescovo caldeo di Kirkuk, mons. Louis Sako.
A 12 giorni dal sequestro del vescovo Rahho, sulle sue sorti ancora nessuna novità. I rapitori – la cui identità non è stata accertata – hanno posto “condizioni difficili” da soddisfare e continuano a negare ai mediatori un contatto diretto con l’ostaggio. L’apprensione per il suo stato di salute è accresciuto dal fatto che il presule è molto malato e ha bisogno di cure quotidiane per sopravvivere. Il fatto che la città, roccaforte sunnita, sia al 90 per cento in mano ai terroristi non facilita le operazioni di ricerca anche da parte del governo iracheno.
Nell’appello inviato ad AsiaNews, mons. Sako si augura che “ancora una volta non cada il silenzio sul dolore della popolazione irachena, a cui ormai si guarda come una cosa normale e ordinaria”. “In una situazione così critica - dice rivolgendosi all’Occidente e alle conferenze episcopali mondiali - non si può rimanere indifferenti nei confronti dei fratelli cristiani; ci chiediamo dove sia la carità, l’amore, la compassione”. Il presule indica chiaramente come si può contribuire, anche da lontano, ad aiutare l’Iraq: “Pregate per noi, condividete la nostra sofferenza, preoccupazione, speranza e aiutateci concretamente a rimanere nella nostra terra e denunciare le nostre ferite. Un segno, una presenza o un gesto ci aiutano a testimoniare la nostra fede e fraternità universale”.
“La vicinanza dei vescovi, dei religiosi e dei fedeli nel mondo – aggiunge – ci darà una spinta energica a continuare a sperare nella pace e nella convivenza interreligiosa”. Mons. Sako ringrazia infine “tutti coloro che ci hanno mostrato vicinanza e solidarietà in un momento in cui ci sentiamo abbandonati e soli nella nostra profonda sofferenza ed ennesima fatica”.
Oltre agli appelli del Papa sono state numerose le condanne del sequestro arrivate anche da leader musulmani nella regione. Oggi nell’arcivescovado di Kirkuk sono attesi 15 capi religiosi musulmani che verranno a lanciare un appello per la liberazione di mons. Rahho. Domani i caldei iracheni in patria e della diaspora si uniranno in preghiera per la salvezza del vescovo: a lui verrà dedicata una messa in tutte le comunità sparse per il mondo.
Esclusivo. Le parole che Benedetto XVI aggiunge a braccio, quando predica ai fedeli
Analisi testuale di cinque delle sue ultime catechesi del mercoledì, quelle su sant'Agostino. Con sottolineate le frasi dette dal papa in aggiunta al testo scritto. Sui temi che gli stanno più a cuore
di Sandro Magister
ROMA, 11 marzo 2008 – Mercoledì scorso Benedetto XVI ha dedicato la sua settimanale udienza con i fedeli e i pellegrini a una catechesi su papa san Leone Magno.
Di lui, Joseph Ratzinger ha ricordato che non solo fu "nello stesso tempo teologo e pastore", ma fu "anche il primo papa di cui ci sia giunta la predicazione, da lui rivolta al popolo che gli si stringeva attorno durante le celebrazioni". Una predicazione fatta di "bellissimi sermoni" e "in uno splendido e chiaro latino".
Ed ha aggiunto:
"È spontaneo pensare a lui anche nel contesto delle attuali udienze generali del mercoledì, appuntamenti che negli ultimi decenni sono divenuti per il vescovo di Roma una forma consueta di incontro con i fedeli e con tanti visitatori provenienti da ogni parte del mondo".
Bastano queste parole per capire come Benedetto XVI riconosca in sé molti tratti di quel suo grande predecessore, che fu rispettato assertore del primato di Pietro e dei vescovi di Roma – un primato "necessario allora come lo è oggi" –, maestro sicuro della fede in Cristo vero Dio e vero uomo, in un'epoca di grandi contrasti cristologici, e autorevole celebrante di una liturgia cristiana che "non è il ricordo di avvenimenti passati ma l'attualizzazione di realtà invisibili che agiscono nella vita di ognuno".
Prima che a san Leone Magno, Benedetto XVI ha dedicato le sue udienze del mercoledì ad altri Padri della Chiesa, dopo aver dedicato un precedente ciclo di udienze agli Apostoli e ad altri personaggi del Nuovo Testamento.
Il papa farà seguire, dopo le settimane pasquali, catechesi dedicate ad altre grandi figure patristiche come Gregorio Magno e poi, man mano, a protagonisti della teologia medioevale d'occidente e d'oriente, come Anselmo, Bernardo, Tommaso d'Aquino, Bonaventura, Gregorio Palamas.
Per queste catechesi, Benedetto XVI si avvale dell'aiuto di studiosi, ai quali chiede di preparargli una traccia. Poi lavora su questa traccia, chiede eventualmente dei rifacimenti ed apporta lui stesso delle modifiche. Il testo che il papa leggerà ai fedeli esce da questo lavoro preparatorio. Ma non è finita. Rivolgendosi ai fedeli, il papa alza spesso gli occhi dal testo scritto e improvvisa.
Il testo finale che poi compare su "L'Osservatore Romano" ed è diffuso dalla sala stampa vaticana corrisponde quindi a quello effettivamente pronunciato dal papa, comprese le frasi aggiunte a braccio.
Riconoscere tali aggiunte non è difficile. Basta essere presenti all'udienza e seguire con attenzione come Benedetto XVI si rivolge agli astanti, se leggendo o se alzando lo sguardo. Così, almeno, per le catechesi del mercoledì. Perché per le omelie è diverso. In molti casi esse sono integralmente opera personale del papa, talora pronunciate senza l'aiuto di un testo scritto.
Nelle catechesi, individuare le parole aggiunte a braccio da Benedetto XVI è un esercizio di grande interesse. Consente infatti di cogliere i temi che gli stanno più a cuore, che ritiene più importante evidenziare e comunicare.
Qui sotto sono riprodotte integralmente le cinque catechesi che, tra gennaio e febbraio, Benedetto XVI ha dedicato a sant'Agostino, il Padre della Chiesa che da sempre è il suo faro.
Ma nei testi il lettore troverà una novità.
Vedrà che molte parole sono sottolineate. E sono proprio le parole che il papa ha aggiunto a braccio, distaccandosi dal testo scritto. Sono le parole sgorgate direttamente dalla sua mente e dal suo cuore.
Un rivelatore delle linee maestre di questo papa "teologo e pastore".
1. "Capì che la chiamata di Dio era quella di offrire il dono della verità agli altri..."
Mercoledì 9 gennaio 2008
Cari fratelli e sorelle, dopo le grandi festività natalizie, vorrei tornare alle meditazioni sui Padri della Chiesa e parlare oggi del più grande Padre della Chiesa latina, sant’Agostino: uomo di passione e di fede, di intelligenza altissima e di premura pastorale instancabile, questo grande santo e dottore della Chiesa è spesso conosciuto, almeno di fama, anche da chi ignora il cristianesimo o non ha consuetudine con esso, perché ha lasciato un’impronta profondissima nella vita culturale dell'Occidente e di tutto il mondo. Per la sua singolare rilevanza, sant’Agostino ha avuto un influsso larghissimo, e si potrebbe affermare, da una parte, che tutte le strade della letteratura latina cristiana portano a Ippona (oggi Annaba, sulla costa algerina), il luogo dove era vescovo e, dall’altra, che da questa città dell’Africa romana, di cui Agostino fu vescovo dal 395 fino alla morte nel 430, si diramano molte altre strade del cristianesimo successivo e della stessa cultura occidentale.
Di rado una civiltà ha trovato uno spirito così grande, che sapesse accoglierne i valori ed esaltarne l’intrinseca ricchezza, inventando idee e forme di cui si sarebbero nutriti i posteri, come sottolineò anche Paolo VI: "Si può dire che tutto il pensiero dell’antichità confluisca nella sua opera e da essa derivino correnti di pensiero che pervadono tutta la tradizione dottrinale dei secoli successivi” (AAS, 62, 1970, p. 426). Agostino è inoltre il Padre della Chiesa che ha lasciato il maggior numero di opere. Il suo biografo Possidio dice: sembrava impossibile che un uomo potesse scrivere tante cose nella propria vita. Di queste diverse opere parleremo in un prossimo incontro. Oggi la nostra attenzione sarà riservata alla sua vita, che si ricostruisce bene dagli scritti, e in particolare dalle "Confessiones", la straordinaria autobiografia spirituale, scritta a lode di Dio, che è la sua opera più famosa. E giustamente, perché sono proprio le "Confessiones" agostiniane, con la loro attenzione all’interiorità e alla psicologia, a costituire un modello unico nella letteratura occidentale, e non solo occidentale, anche non religiosa, fino alla modernità. Questa attenzione alla vita spirituale, al mistero dell'io, al mistero di Dio che si nasconde nell'io, è una cosa straordinaria senza precedenti e rimane per sempre, per così dire, un "vertice" spirituale.
Ma, per venire alla vita, Agostino nacque a Tagaste – nella provincia della Numidia, nell’Africa romana – il 13 novembre 354 da Patrizio, un pagano che poi divenne catecumeno, e da Monica, fervente cristiana. Questa donna appassionata, venerata come santa, esercitò sul figlio una grandissima influenza e lo educò nella fede cristiana. Agostino aveva anche ricevuto il sale, come segno dell'accoglienza nel catecumenato. Ed è rimasto sempre affascinato dalla figura di Gesù Cristo; egli anzi dice di aver sempre amato Gesù, ma di essersi allontanato sempre più dalla fede ecclesiale, dalla pratica ecclesiale, come succede anche oggi per molti giovani.
Agostino aveva anche un fratello, Navigio, e una sorella, della quale ignoriamo il nome e che, rimasta vedova, fu poi a capo di un monastero femminile. Il ragazzo, di vivissima intelligenza, ricevette una buona educazione, anche se non fu sempre uno studente esemplare. Egli tuttavia studiò bene la grammatica, prima nella sua città natale, poi a Madaura, e dal 370 retorica a Cartagine, capitale dell'Africa romana: divenne un perfetto dominatore della lingua latina, non arrivò però a maneggiare con altrettanto dominio il greco e non imparò il punico, parlato dai suoi conterranei. Proprio a Cartagine Agostino lesse per la prima volta l’"Hortensius", uno scritto di Cicerone poi andato perduto che si colloca all’inizio del suo cammino verso la conversione. Il testo ciceroniano, infatti, svegliò in lui l’amore per la sapienza, come scriverà, ormai vescovo, nelle "Confessiones": "Quel libro cambiò davvero il mio modo di sentire”, tanto che "all’improvviso perse valore ogni speranza vana e desideravo con un incredibile ardore del cuore l’immortalità della sapienza” (III, 4, 7).
Ma poiché era convinto che senza Gesù la verità non può dirsi effettivamente trovata, e perché in questo libro appassionante quel nome gli mancava, subito dopo averlo letto cominciò a leggere la Scrittura, la Bibbia. Ma ne rimase deluso. Non solo perché lo stile latino della traduzione della Sacra Scrittura era insufficiente, ma anche perché lo stesso contenuto gli apparve non soddisfacente. Nelle narrazioni della Scrittura su guerre e altre vicende umane non trovava l'altezza della filosofia, lo splendore di ricerca della verità che ad essa è proprio. Tuttavia non voleva vivere senza Dio e così cercava una religione corrispondente al suo desiderio di verità e anche al suo desiderio di avvicinarsi a Gesù. Cadde così nella rete dei manichei, che si presentavano come cristiani e promettevano una religione totalmente razionale. Affermavano che il mondo è diviso in due principi: il bene e il male. E così si spiegherebbe tutta la complessità della storia umana. Anche la morale dualistica piaceva a sant'Agostino, perché comportava una morale molto alta per gli eletti: e per chi come lui vi aderiva era possibile una vita molto più adeguata alla situazione del tempo, specie per un uomo giovane. Si fece pertanto manicheo, convinto in quel momento di aver trovato la sintesi tra razionalità, ricerca della verità e amore di Gesù Cristo. Ed ebbe anche un vantaggio concreto per la sua vita: l’adesione ai manichei infatti apriva facili prospettive di carriera. Aderire a quella religione che contava tante personalità influenti gli permetteva di continuare la relazione intrecciata con una donna e di andare avanti nella sua carriera. Da questa donna ebbe un figlio, Adeodato, a lui carissimo, molto intelligente, che sarà poi presente nella preparazione al battesimo presso il lago di Como, partecipando a quei "Dialoghi" che sant'Agostino ci ha trasmesso. Il ragazzo, purtroppo, morì prematuramente. Insegnante di grammatica a circa vent’anni nella sua città natale, tornò presto a Cartagine, dove divenne un brillante e celebrato maestro di retorica. Con il tempo, tuttavia, Agostino iniziò ad allontanarsi dalla fede dei manichei, che lo delusero proprio dal punto di vista intellettuale in quanto incapaci di risolvere i suoi dubbi, e si trasferì a Roma, e poi a Milano, dove allora risiedeva la corte imperiale e dove aveva ottenuto un posto di prestigio grazie all’interessamento e alle raccomandazioni del prefetto di Roma, il pagano Simmaco, ostile al vescovo di Milano sant'Ambrogio.
A Milano Agostino prese l’abitudine di ascoltare – inizialmente allo scopo di arricchire il suo bagaglio retorico – le bellissime prediche del vescovo Ambrogio, che era stato rappresentante dell’imperatore per l’Italia settentrionale, e dalla parola del grande presule milanese il retore africano rimase affascinato; e non soltanto dalla sua retorica, soprattutto il contenuto toccò sempre più il suo cuore. Il grande problema dell'Antico Testamento, della mancanza di bellezza retorica, di altezza filosofica si risolse, nelle prediche di sant'Ambrogio, grazie all'interpretazione tipologica dell'Antico Testamento: Agostino capì che tutto l'Antico Testamento è un cammino verso Gesù Cristo. Così trovò la chiave per capire la bellezza, la profondità anche filosofica dell'Antico Testamento e capì tutta l'unità del mistero di Cristo nella storia e anche la sintesi tra filosofia, razionalità e fede nel Logos, in Cristo Verbo eterno che si è fatto carne.
In breve tempo Agostino si rese conto che la lettura allegorica della Scrittura e la filosofia neoplatonica praticate dal vescovo di Milano gli permettevano di risolvere le difficoltà intellettuali che, quando era più giovane, nel suo primo avvicinamento ai testi biblici gli erano sembrate insuperabili.
Alla lettura degli scritti dei filosofi Agostino fece così seguire quella rinnovata della Scrittura e soprattutto delle Lettere paoline. La conversione al cristianesimo, il 15 agosto 386, si collocò quindi al culmine di un lungo e tormentato itinerario interiore, del quale parleremo ancora in un'altra catechesi, e l’africano si trasferì nella campagna a nord di Milano presso il lago di Como – con la madre Monica, il figlio Adeodato e un piccolo gruppo di amici – per prepararsi al battesimo. Così, a trentadue anni, Agostino fu battezzato da Ambrogio il 24 aprile 387, durante la veglia pasquale, nella cattedrale di Milano.
Dopo il battesimo, Agostino decise di tornare in Africa con gli amici, con l’idea di praticare una vita comune, di tipo monastico, al servizio di Dio. Ma a Ostia, in attesa di partire, la madre improvvisamente si ammalò e poco più tardi morì, straziando il cuore del figlio. Rientrato finalmente in patria, il convertito si stabilì a Ippona per fondarvi appunto un monastero. In questa città della costa africana, nonostante le sue resistenze, fu ordinato presbitero nel 391 e iniziò con alcuni compagni la vita monastica a cui da tempo pensava, dividendo il suo tempo tra la preghiera, lo studio e la predicazione. Egli voleva essere solo al servizio della verità, non si sentiva chiamato alla vita pastorale, ma poi capì che la chiamata di Dio era quella di essere pastore tra gli altri, e così di offrire il dono della verità agli altri. A Ippona, quattro anni più tardi, nel 395, venne consacrato vescovo. Continuando ad approfondire lo studio delle Scritture e dei testi della tradizione cristiana, Agostino fu un vescovo esemplare nel suo instancabile impegno pastorale: predicava più volte la settimana ai suoi fedeli, sosteneva i poveri e gli orfani, curava la formazione del clero e l’organizzazione di monasteri femminili e maschili. In breve l’antico retore si affermò come uno degli esponenti più importanti del cristianesimo di quel tempo: attivissimo nel governo della sua diocesi – con notevoli risvolti anche civili – negli oltre trentacinque anni di episcopato, il vescovo di Ippona esercitò infatti una vasta influenza nella guida della Chiesa cattolica dell’Africa romana e più in generale nel cristianesimo del suo tempo, fronteggiando tendenze religiose ed eresie tenaci e disgregatrici come il manicheismo, il donatismo e il pelagianesimo, che mettevano in pericolo la fede cristiana nel Dio unico e ricco di misericordia.
E a Dio si affidò Agostino ogni giorno, fino all’estremo della sua vita: colpito da febbre, mentre da quasi tre mesi la sua Ippona era assediata dai vandali invasori, il vescovo – racconta l’amico Possidio nella "Vita Augustini" – chiese di trascrivere a grandi caratteri i salmi penitenziali "e fece affiggere i fogli contro la parete, così che stando a letto durante la sua malattia li poteva vedere e leggere, e piangeva ininterrottamente a calde lacrime” (31,2). Così trascorsero gli ultimi giorni della vita di Agostino, che morì il 28 agosto 430, quando ancora non aveva compiuto 76 anni. Alle sue opere, al suo messaggio e alla sua vicenda interiore dedicheremo i prossimi incontri.
2. "Sant’Agostino lo sento come un uomo di oggi: un amico, un contemporaneo..."
Mercoledì 16 gennaio 2008
Cari fratelli e sorelle, oggi, come mercoledì scorso, vorrei parlare del grande vescovo di Ippona, sant’Agostino. Quattro anni prima di morire, egli volle designare il successore. Per questo, il 26 settembre 426, radunò il popolo nella Basilica della Pace, ad Ippona, per presentare ai fedeli colui che aveva designato per tale compito. Disse: "In questa vita siamo tutti mortali, ma l’ultimo giorno di questa vita è per ogni individuo sempre incerto. Tuttavia nell’infanzia si spera di giungere all’adolescenza; nell’adolescenza alla giovinezza; nella giovinezza all’età adulta; nell’età adulta all’età matura; nell’età matura alla vecchiaia. Non si è sicuri di giungervi, ma si spera. La vecchiaia, al contrario, non ha davanti a sé alcun altro periodo da poter sperare; la sua stessa durata è incerta… Io per volontà di Dio giunsi in questa città nel vigore della mia vita; ma ora la mia giovinezza è passata e io sono ormai vecchio” (Ep 213,1). A questo punto Agostino fece il nome del successore designato, il prete Eraclio. L’assemblea scoppiò in un applauso di approvazione ripetendo per ventitré volte: "Sia ringraziato Dio! Sia lodato Cristo!”. Con altre acclamazioni i fedeli approvarono, inoltre, quanto Agostino disse poi circa i propositi per il suo futuro: voleva dedicare gli anni che gli restavano a un più intenso studio delle Sacre Scritture (cfr Ep 213, 6).
Di fatto, quelli che seguirono furono quattro anni di straordinaria attività intellettuale: portò a termine opere importanti, ne intraprese altre non meno impegnative, intrattenne pubblici dibattiti con gli eretici – cercava sempre il dialogo – intervenne per promuovere la pace nelle province africane insidiate dalle tribù barbare del sud. In questo senso scrisse al conte Dario, venuto in Africa per comporre il dissidio tra il conte Bonifacio e la corte imperiale, di cui stavano profittando le tribù dei Mauri per le loro scorrerie: "Titolo più grande di gloria – affermava nella lettera - è proprio quello di uccidere la guerra con la parola, anziché uccidere gli uomini con la spada, e procurare o mantenere la pace con la pace e non già con la guerra. Certo, anche quelli che combattono, se sono buoni, cercano senza dubbio la pace, ma a costo di spargere il sangue. Tu, al contrario, sei stato inviato proprio per impedire che si cerchi di spargere il sangue di alcuno” (Ep 229, 2). Purtroppo, la speranza di una pacificazione dei territori africani andò delusa: nel maggio del 429 i Vandali, invitati in Africa per ripicca dallo stesso Bonifacio, passarono lo stretto di Gibilterra e si riversarono nella Mauritania. L’invasione raggiunse rapidamente le altre ricche province africane. Nel maggio o nel giugno del 430 "i distruttori dell’impero romano”, come Possidio qualifica quei barbari (Vita, 30,1), erano attorno ad Ippona, che strinsero d’assedio.
In città aveva cercato rifugio anche Bonifacio, il quale, riconciliatosi troppo tardi con la corte, tentava ora invano di sbarrare il passo agli invasori. Il biografo Possidio descrive il dolore di Agostino: "Le lacrime erano, più del consueto, il suo pane notte e giorno e, giunto ormai all’estremo della sua vita, più degli altri trascinava nell’amarezza e nel lutto la sua vecchiaia” (Vita, 28,6). E spiega: "Vedeva infatti, quell’uomo di Dio, gli eccidi e le distruzioni delle città; abbattute le case nelle campagne e gli abitanti uccisi dai nemici o messi in fuga e sbandati; le chiese private dei sacerdoti e dei ministri, le vergini sacre e i religiosi dispersi da ogni parte; tra essi, altri venuti meno sotto le torture, altri uccisi di spada, altri fatti prigionieri, perduta l’integrità dell’anima e del corpo e anche la fede, ridotti in dolorosa e lunga schiavitù dai nemici” (ibid., 28,8).
Anche se vecchio e stanco, Agostino restò tuttavia sulla breccia, confortando se stesso e gli altri con la preghiera e con la meditazione sui misteriosi disegni della Provvidenza. Parlava, al riguardo, della "vecchiaia del mondo” – e davvero era vecchio questo mondo romano –, parlava di questa vecchiaia come già aveva fatto anni prima per consolare i profughi provenienti dall’Italia, quando nel 410 i Goti di Alarico avevano invaso la città di Roma. Nella vecchiaia, diceva, i malanni abbondano: tosse, catarro, cisposità, ansietà, sfinimento. Ma se il mondo invecchia, Cristo è perpetuamente giovane. E allora l’invito: "Non rifiutare di ringiovanire unito a Cristo, anche nel mondo vecchio. Egli ti dice: Non temere, la tua gioventù si rinnoverà come quella dell’aquila” (cfr Serm. 81,8). Il cristiano quindi non deve abbattersi anche in situazioni difficili, ma adoperarsi per aiutare chi è nel bisogno. È quanto il grande Dottore suggerisce rispondendo al vescovo di Tiabe, Onorato, che gli aveva chiesto se, sotto l’incalzare delle invasioni barbariche, un vescovo o un prete o un qualsiasi uomo di Chiesa potesse fuggire per salvare la vita: "Quando il pericolo è comune per tutti, cioè per vescovi, chierici e laici, quelli che hanno bisogno degli altri non siano abbandonati da quelli di cui hanno bisogno. In questo caso si trasferiscano pure tutti in luoghi sicuri; ma se alcuni hanno bisogno di rimanere, non siano abbandonati da quelli che hanno il dovere di assisterli col sacro ministero, di modo che o si salvino insieme o insieme sopportino le calamità che il Padre di famiglia vorrà che soffrano” (Ep 228, 2). E concludeva: "Questa è la prova suprema della carità” (ibid., 3). Come non riconoscere, in queste parole, l’eroico messaggio che tanti sacerdoti, nel corso dei secoli, hanno accolto e fatto proprio?
Intanto la città di Ippona resisteva. La casa-monastero di Agostino aveva aperto le sue porte ad accogliere i colleghi nell’episcopato che chiedevano ospitalità. Tra questi vi era anche Possidio, già suo discepolo, il quale poté così lasciarci la testimonianza diretta di quegli ultimi, drammatici giorni. "Nel terzo mese di quell’assedio – egli racconta – si pose a letto con la febbre: era l’ultima sua malattia” (Vita, 29,3). Il santo Vegliardo profittò di quel tempo finalmente libero per dedicarsi con più intensità alla preghiera. Era solito affermare che nessuno, vescovo, religioso o laico, per quanto irreprensibile possa sembrare la sua condotta, può affrontare la morte senza un’adeguata penitenza. Per questo egli continuamente ripeteva tra le lacrime i salmi penitenziali, che tante volte aveva recitato col popolo (cfr ibid., 31,2).
Più il male si aggravava, più il vescovo morente sentiva il bisogno di solitudine e di preghiera: "Per non essere disturbato da nessuno nel suo raccoglimento, circa dieci giorni prima d’uscire dal corpo pregò noi presenti di non lasciar entrare nessuno nella sua camera fuori delle ore in cui i medici venivano a visitarlo o quando gli si portavano i pasti. Il suo volere fu adempiuto esattamente e in tutto quel tempo egli attendeva all’orazione” (ibid.,31,3). Cessò di vivere il 28 agosto del 430: il suo grande cuore finalmente si era placato in Dio.
"Per la deposizione del suo corpo – informa Possidio – fu offerto a Dio il sacrificio, al quale noi assistemmo, e poi fu sepolto” (Vita, 31,5). Il suo corpo, in data incerta, fu trasferito in Sardegna e da qui, verso il 725, a Pavia, nella Basilica di San Pietro in Ciel d’oro, dove anche oggi riposa. Il suo primo biografo ha su di lui questo giudizio conclusivo: "Lasciò alla Chiesa un clero molto numeroso, come pure monasteri d’uomini e di donne pieni di persone votate alla continenza sotto l’obbedienza dei loro superiori, insieme con le biblioteche contenenti libri e discorsi suoi e di altri santi, da cui si conosce quale sia stato per grazia di Dio il suo merito e la sua grandezza nella Chiesa, e nei quali i fedeli sempre lo ritrovano vivo” (Possidio, Vita, 31, 8). È un giudizio a cui possiamo associarci: nei suoi scritti anche noi lo "ritroviamo vivo”. Quando leggo gli scritti di sant’Agostino non ho l’impressione che sia un uomo morto più o meno milleseicento anni fa, ma lo sento come un uomo di oggi: un amico, un contemporaneo che parla a me, parla a noi con la sua fede fresca e attuale. In sant’Agostino che parla a noi, parla a me nei suoi scritti, vediamo l’attualità permanente della sua fede; della fede che viene da Cristo, Verbo Eterno Incarnato, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. E possiamo vedere che questa fede non è di ieri, anche se predicata ieri; è sempre di oggi, perché realmente Cristo è ieri oggi e per sempre. Egli è la Via, la Verità e la Vita. Così sant’Agostino ci incoraggia ad affidarci a questo Cristo sempre vivo e a trovare così la strada della vita.
3. "Scrutare la verità per poter trovare Dio e credere..."
Mercoledì 30 gennaio 2008
Cari amici, dopo la settimana di preghiera per l'unità dei cristiani ritorniamo oggi alla grande figura di sant'Agostino. Il mio caro Predecessore Giovanni Paolo II gli ha dedicato nel 1986, cioè nel sedicesimo centenario della sua conversione, un lungo e denso documento, la Lettera apostolica "Augustinum Hipponensem". Il Papa stesso volle definire questo testo "un ringraziamento a Dio per il dono fatto alla Chiesa, e per essa all'umanità intera, con quella mirabile conversione” (AAS, 74, 1982, p. 802). Sul tema della conversione vorrei tornare in una prossima udienza. È un tema fondamentale non solo per la sua vita personale, ma anche per la nostra. Nel Vangelo di domenica scorsa il Signore stesso ha riassunto la sua predicazione con la parola: "Convertitevi”. Seguendo il cammino di sant'Agostino, potremmo meditare su che cosa sia questa conversione: è una cosa definitiva, decisiva, ma la decisione fondamentale deve svilupparsi, deve realizzarsi in tutta la nostra vita.
La catechesi oggi è dedicata invece al tema fede e ragione, che è un tema determinante, o meglio, il tema determinante per la biografia di sant'Agostino. Da bambino aveva imparato da sua madre Monica la fede cattolica. Ma da adolescente aveva abbandonato questa fede perché non poteva più vederne la ragionevolezza e non voleva una religione che non fosse anche per lui espressione della ragione, cioè della verità. La sua sete di verità era radicale e lo ha condotto quindi ad allontanarsi dalla fede cattolica. Ma la sua radicalità era tale che egli non poteva accontentarsi di filosofie che non arrivassero alla verità stessa, che non arrivassero fino a Dio. E a un Dio che non fosse soltanto un'ultima ipotesi cosmologica, ma che fosse il vero Dio, il Dio che dà la vita e che entra nella nostra stessa vita. Così tutto l'itinerario intellettuale e spirituale di sant'Agostino costituisce un modello valido anche oggi nel rapporto tra fede e ragione, tema non solo per uomini credenti ma per ogni uomo che cerca la verità, tema centrale per l'equilibrio e il destino di ogni essere umano. Queste due dimensioni, fede e ragione, non sono da separare né da contrapporre, ma piuttosto devono sempre andare insieme. Come ha scritto Agostino stesso dopo la sua conversione, fede e ragione sono "le due forze che ci portano a conoscere” (Contra Academicos, III, 20, 43). A questo proposito rimangono giustamente celebri le due formule agostiniane (Sermones, 43, 9) che esprimono questa coerente sintesi tra fede e ragione: "crede ut intelligas", credi per comprendere — il credere apre la strada per varcare la porta della verità — ma anche, e inseparabilmente, "intellige ut credas", comprendi per credere, scruta la verità per poter trovare Dio e credere.
Le due affermazioni di Agostino esprimono con efficace immediatezza e con altrettanta profondità la sintesi di questo problema, nella quale la Chiesa cattolica vede espresso il proprio cammino. Storicamente questa sintesi va formandosi, prima ancora della venuta di Cristo, nell'incontro tra fede ebraica e pensiero greco nel giudaismo ellenistico. Successivamente nella storia questa sintesi è stata ripresa e sviluppata da molti pensatori cristiani. L'armonia tra fede e ragione significa soprattutto che Dio non è lontano: non è lontano dalla nostra ragione e dalla nostra vita; è vicino ad ogni essere umano, vicino al nostro cuore e vicino alla nostra ragione, se realmente ci mettiamo in cammino.
Proprio questa vicinanza di Dio all’uomo fu avvertita con straordinaria intensità da Agostino. La presenza di Dio nell’uomo è profonda e nello stesso tempo misteriosa, ma può essere riconosciuta e scoperta nel proprio intimo: non andare fuori – afferma il convertito – ma "torna in te stesso; nell’uomo interiore abita la verità; e se troverai che la tua natura è mutabile, trascendi te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che tu trascendi un’anima che ragiona. Tendi dunque là dove si accende la luce della ragione” (De vera religione, 39, 72). Proprio come egli stesso sottolinea, con un’affermazione famosissima, all’inizio delle "Confessiones", autobiografia spirituale scritta a lode di Dio: "Ci hai fatti per te e inquieto è il nostro cuore, finché non riposa in te” (I, 1, 1).
La lontananza di Dio equivale allora alla lontananza da se stessi: "Tu infatti – riconosce Agostino (Confessiones, III, 6, 11) rivolgendosi direttamente a Dio – eri all’interno di me più del mio intimo e più in alto della mia parte più alta", interior intimo meo et superior summo meo; tanto che – aggiunge in un altro passo ricordando il tempo antecedente la conversione – "tu eri davanti a me; e io invece mi ero allontanato da me stesso, e non mi ritrovavo; e ancora meno ritrovavo te” (Confessiones, V, 2, 2). Proprio perché Agostino ha vissuto in prima persona questo itinerario intellettuale e spirituale, ha saputo renderlo nelle sue opere con tanta immediatezza, profondità e sapienza, riconoscendo in due altri celebri passi delle "Confessiones" (IV, 4, 9 e 14, 22) che l’uomo è "un grande enigma” (magna quaestio) e "un grande abisso” (grande profundum), enigma e abisso che solo Cristo illumina e salva. Questo è importante: un uomo che è lontano da Dio è anche lontano da sé, alienato da se stesso, e può ritrovare se stesso solo incontrandosi con Dio. Così arriva anche a sé, al suo vero io, alla sua vera identità.
L’essere umano – sottolinea poi Agostino nel "De civitate Dei" (XII, 27) – è sociale per natura ma antisociale per vizio, ed è salvato da Cristo, unico mediatore tra Dio e l’umanità e "via universale della libertà e della salvezza”, come ha ripetuto il mio predecessore Giovanni Paolo II (Augustinum Hipponensem, 21): al di fuori di questa via, che mai è mancata al genere umano – afferma ancora Agostino nella stessa opera – "nessuno è stato mai liberato, nessuno viene liberato, nessuno sarà liberato” (De civitate Dei, X, 32, 2). In quanto unico mediatore della salvezza, Cristo è capo della Chiesa e a essa è misticamente unito al punto che Agostino può affermare: "Siamo diventati Cristo. Infatti se egli è il capo, noi le sue membra, l’uomo totale è lui e noi” (In Iohannis evangelium tractatus, 21, 8).
Popolo di Dio e casa di Dio, la Chiesa nella visione agostiniana è dunque legata strettamente al concetto di Corpo di Cristo, fondata sulla rilettura cristologica dell’Antico Testamento e sulla vita sacramentale centrata sull’Eucaristia, nella quale il Signore ci dà il suo Corpo e ci trasforma in suo Corpo. È allora fondamentale che la Chiesa, popolo di Dio in senso cristologico e non in senso sociologico, sia davvero inserita in Cristo, il quale – afferma Agostino in una bellissima pagina – "prega per noi, prega in noi, è pregato da noi; prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio: riconosciamo pertanto in lui la nostra voce e in noi la sua” (Enarrationes in Psalmos, 85, 1).
Nella conclusione della lettera apostolica "Augustinum Hipponensem" Giovanni Paolo II ha voluto chiedere allo stesso santo che cosa abbia da dire agli uomini di oggi e risponde innanzi tutto con le parole che Agostino affidò a una lettera dettata poco dopo la sua conversione: "A me sembra che si debbano ricondurre gli uomini alla speranza di trovare la verità” (Epistulae, 1, 1); quella verità che è Cristo stesso, Dio vero, al quale è rivolta una delle preghiere più belle e più famose delle "Confessiones" (X, 27, 38): "Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco tu eri dentro e io fuori, e lì ti cercavo, e nelle bellezze che hai creato, deforme, mi gettavo. Eri con me, ma io non ero con te. Da te mi tenevano lontano quelle cose che, se non fossero in te, non esisterebbero. Hai chiamato e hai gridato e hai rotto la mia sordità, hai brillato, hai mostrato il tuo splendore e hai dissipato la mia cecità, hai sparso il tuo profumo e ho respirato e aspiro a te, ho gustato e ho fame e sete, mi hai toccato e mi sono infiammato nella tua pace”.
Ecco, Agostino ha incontrato Dio e durante tutta la sua vita ne ha fatto esperienza al punto che questa realtà – che è innanzi tutto incontro con una Persona, Gesù – ha cambiato la sua vita, come cambia quella di quanti, donne e uomini, in ogni tempo hanno la grazia di incontrarlo. Preghiamo che il Signore ci dia questa grazia e ci faccia trovare così la sua pace.
4. "La storia è la lotta tra due amori..."
Mercoledì 20 febbraio 2008
Cari fratelli e sorelle, dopo la pausa degli esercizi spirituali della settimana scorsa ritorniamo oggi alla grande figura di sant'Agostino, sul quale già ripetutamente ho parlato nelle catechesi del mercoledì. È il Padre della Chiesa che ha lasciato il maggior numero di opere, e di queste oggi intendo parlare brevemente. Alcuni degli scritti agostiniani sono d’importanza capitale, e non solo per la storia del cristianesimo ma per la formazione di tutta la cultura occidentale: l’esempio più chiaro sono le "Confessiones", senza dubbio uno dei libri dell’antichità cristiana tuttora più letti. Come diversi Padri della Chiesa dei primi secoli, ma in misura incomparabilmente più vasta, anche il vescovo d’Ippona ha infatti esercitato un influsso esteso e persistente, come appare già dalla sovrabbondante tradizione manoscritta delle sue opere, che sono davvero moltissime.
Lui stesso le passò in rassegna qualche anno prima di morire nelle "Retractationes" e poco dopo la sua morte esse vennero accuratamente registrate nell’"Indiculus", l'elenco aggiunto dal fedele amico Possidio alla biografia di sant'Agostino, "Vita Augustini". L’elenco delle opere di Agostino fu realizzato con l’intento esplicito di salvaguardarne la memoria mentre l’invasione vandala dilagava in tutta l’Africa romana e conta ben milletrenta scritti numerati dal loro Autore, con altri "che non si possono numerare, perché non vi ha apposto nessun numero”. vescovo di una città vicina, Possidio dettava queste parole proprio a Ippona – dove si era rifugiato e dove aveva assistito alla morte dell’amico – e quasi sicuramente si basava sul catalogo della biblioteca personale di Agostino. Oggi, sono oltre trecento le lettere sopravvissute del vescovo di Ippona e quasi seicento le omelie, ma queste in origine erano moltissime di più, forse addirittura tra le tremila e le quattromila, frutto di un quarantennio di predicazione dell’antico retore che aveva deciso di seguire Gesù e di parlare non più ai grandi della corte imperiale, ma alla semplice popolazione di Ippona.
E ancora in anni recenti le scoperte di un gruppo di lettere e di alcune omelie hanno arricchito la nostra conoscenza di questo grande Padre della Chiesa. "Molti libri – scrive Possidio – furono da lui composti e pubblicati, molte prediche furono tenute in chiesa, trascritte e corrette, sia per confutare i diversi eretici sia per interpretare le sacre Scritture ad edificazione dei santi figli della Chiesa. Queste opere – sottolinea il vescovo amico – sono tante che a stento uno studioso ha la possibilità di leggerle ed imparare a conoscerle” (Vita Augustini, 18, 9).
Tra la produzione letteraria di Agostino – quindi più di mille pubblicazioni suddivise in scritti filosofici, apologetici, dottrinali, morali, monastici, esegetici, antieretici, oltre appunto le lettere e le omelie – spiccano alcune opere eccezionali di grande respiro teologico e filosofico. Innanzi tutto bisogna ricordare le già menzionate "Confessiones", scritte in tredici libri tra il 397 e il 400 a lode di Dio. Esse sono una specie di autobiografia nella forma di un dialogo con Dio. Questo genere letterario riflette proprio la vita di sant'Agostino, che era un vita non chiusa in sé, dispersa in tante cose, ma vissuta sostanzialmente come dialogo con Dio e così una vita con gli altri. Già il titolo "Confessiones" indica la specificità di questa autobiografia. Questa parola "confessiones" nel latino cristiano sviluppato dalla tradizione dei Salmi ha due significati, che tuttavia si intrecciano. "Confessiones" indica, in primo luogo, la confessione delle proprie debolezze, della miseria dei peccati; ma, allo stesso tempo, "confessiones" significa lode di Dio, riconoscimento a Dio. Vedere la propria miseria nella luce di Dio diventa lode a Dio e ringraziamento perché Dio ci ama e ci accetta, ci trasforma e ci eleva verso se stesso. Su queste "Confessiones" che ebbero grande successo già durante la vita di sant'Agostino, lui stesso ha scritto: "Esse hanno esercitato su di me tale azione mentre le scrivevo e l’esercitano ancora quando le rileggo. Vi sono molti fratelli ai quali queste opere piacciono” (Retractationes, II, 6): e devo dire che anch’io sono uno di questi "fratelli". E grazie alle "Confessiones" possiamo seguire passo passo il cammino interiore di quest’uomo straordinario e appassionato di Dio. Meno diffuse ma altrettanto originali e molto importanti sono poi le "Retractationes", composte in due libri intorno al 427, nelle quali sant’Agostino, ormai anziano, compie un’opera di "revisione” (retractatio) di tutta la sua opera scritta, lasciando così un documento letterario singolare e preziosissimo, ma anche un insegnamento di sincerità e di umiltà intellettuale.
Il "De civitate Dei" – opera imponente e decisiva per lo sviluppo del pensiero politico occidentale e per la teologia cristiana della storia – venne scritto tra il 413 e il 426 in ventidue libri. L'occasione era il sacco di Roma compiuto dai Goti nel 410. Tanti pagani ancora viventi, ma anche molti cristiani, avevano detto: Roma è caduta, adesso il Dio cristiano e gli apostoli non possono proteggere la città. Durante la presenza delle divinità pagane Roma era "caput mundi", la grande capitale, e nessuno poteva pensare che sarebbe caduta nelle mani dei nemici. Adesso, con il Dio cristiano, questa grande città non appariva più sicura. Quindi il Dio dei cristiani non proteggeva, non poteva essere il Dio al quale affidarsi. A questa obiezione, che toccava profondamente anche il cuore dei cristiani, risponde sant'Agostino con questa grandiosa opera, il "De civitate Dei", chiarendo che cosa dobbiamo aspettarci da Dio e che cosa no, qual è la relazione tra la sfera politica e la sfera della fede, della Chiesa. Anche oggi questo libro è una fonte per definire bene la vera laicità e la competenza della Chiesa, la grande vera speranza che ci dona la fede.
Questo grande libro è una presentazione della storia dell’umanità governata dalla Provvidenza divina, ma attualmente divisa da due amori. E questo è il disegno fondamentale, la sua interpretazione della storia, che è la lotta tra due amori: amore di sé "sino all'indifferenza per Dio”, e amore di Dio "sino all'indifferenza per sé”, (De civitate Dei, XIV, 28), alla piena libertà da sé per gli altri nella luce di Dio. Questo, quindi, è forse il più grande libro di sant'Agostino, di una importanza permanente. Altrettanto importante è il "De Trinitate", opera in quindici libri sul principale nucleo della fede cristiana, la fede nel Dio trinitario, scritta in due tempi: tra il 399 e il 412 i primi dodici libri, pubblicati a insaputa di Agostino, che verso il 420 li completò e rivide l’intera opera. Qui egli riflette sul volto di Dio e cerca di capire questo mistero del Dio che è unico, l'unico creatore del mondo, di noi tutti, e tuttavia, proprio questo unico Dio è trinitario, un cerchio di amore. Cerca di capire il mistero insondabile: proprio l'essere trinitario, in tre Persone, è la più reale e più profonda unità dell'unico Dio. Il "De doctrina Christiana" è invece una vera e propria introduzione culturale all’interpretazione della Bibbia e in definitiva allo stesso cristianesimo, che ha avuto un’importanza decisiva nella formazione della cultura occidentale.
Pur con tutta la sua umiltà, Agostino certamente fu consapevole della propria statura intellettuale. Ma per lui, più importante del fare grandi opere di respiro alto, teologico, era portare il messaggio cristiano ai semplici. Questa sua intenzione più profonda, che ha guidato tutta la sua vita, appare da una lettera scritta al collega Evodio, dove comunica la decisione di sospendere per il momento la dettatura dei libri del "De Trinitate", "perché sono troppo faticosi e penso che possano essere capiti da pochi; per questo urgono di più testi che speriamo saranno utili a molti” (Epistulae, 169, 1, 1). Quindi più utile era per lui comunicare la fede in modo comprensibile a tutti, che non scrivere grandi opere teologiche. La responsabilità acutamente avvertita nei confronti della divulgazione del messaggio cristiano è poi all’origine di scritti come il "De catechizandis rudibus", una teoria e anche una prassi della catechesi, o il "Psalmus contra partem Donati". I donatisti erano il grande problema dell'Africa di sant'Agostino, uno scisma volutamente africano. Essi affermavano: la vera cristianità è quella africana. Si opponevano all'unità della Chiesa. Contro questo scisma il grande vescovo ha lottato per tutta la sua vita, cercando di convincere i donatisti che solo nell'unità anche l'africanità può essere vera. E per farsi capire dai semplici, che non potevano comprendere il grande latino del retore, ha detto: devo scrivere anche con errori grammaticali, in un latino molto semplificato. E lo ha fatto soprattutto in questo "Psalmus", una specie di poesia semplice contro i donatisti, per aiutare tutta la gente a capire che solo nell'unità della Chiesa si realizza per tutti realmente la nostra relazione con Dio e cresce la pace nel mondo.
In questa produzione destinata a un pubblico più largo riveste un’importanza particolare la massa delle omelie, spesso pronunciate ‘a braccio’, trascritte dai tachigrafi durante la predicazione e subito messe in circolazione. Tra queste, spiccano le bellissime "Enarrationes in Psalmos", molto lette nel medioevo. Proprio la prassi di pubblicazione delle migliaia di omelie di Agostino – spesso senza il controllo dell’autore – spiega la loro diffusione e successiva dispersione, ma anche la loro vitalità. Subito infatti le prediche del vescovo d’Ippona diventavano, per la fama del loro autore, testi molto ricercati e servivano anche per altri vescovi e sacerdoti come modelli, adattati a sempre nuovi contesti.
La tradizione iconografica, già in un affresco lateranense risalente al VI secolo, rappresenta sant’Agostino con un libro in mano, certo per esprimere la sua produzione letteraria, che tanto influenzò la mentalità e il pensiero cristiani, ma per esprimere anche il suo amore per i libri, per la lettura e la conoscenza della grande cultura precedente. Alla sua morte non lasciò nulla, racconta Possidio, ma "raccomandava sempre di conservare diligentemente per i posteri la biblioteca della chiesa con tutti i codici”, soprattutto quelli delle sue opere. In queste, sottolinea Possidio, Agostino è "sempre vivo” e giova a chi legge i suoi scritti, anche se, conclude, "io credo che abbiano potuto trarre più profitto dal suo contatto quelli che lo poterono vedere e ascoltare quando di persona parlava in chiesa, e soprattutto quelli che ebbero pratica della sua vita quotidiana fra la gente” (Vita Augustini, 31). Sì, anche per noi sarebbe stato bello poterlo sentire vivo. Ma è realmente vivo nei suoi scritti, è presente in noi e così vediamo anche la permanente vitalità della fede alla quale ha dato tutta la sua vita.
5. "Abbiamo bisogno di una conversione permanente..."
Mercoledì 27 febbraio 2008
Cari fratelli e sorelle, con l’incontro di oggi vorrei concludere la presentazione della figura di sant’Agostino. Dopo esserci soffermati sulla sua vita, sulle opere e su alcuni aspetti del suo pensiero, oggi vorrei tornare sulla sua vicenda interiore, che ne ha fatto uno dei più grandi convertiti della storia cristiana. A questa sua esperienza ho dedicato in particolare la mia riflessione durante il pellegrinaggio che ho compiuto a Pavia, l’anno scorso, per venerare le spoglie mortali di questo Padre della Chiesa. In tal modo ho voluto esprimere a lui l’omaggio di tutta la Chiesa cattolica, ma anche rendere visibile la mia personale devozione e riconoscenza nei confronti di una figura alla quale mi sento molto legato per la parte che ha avuto nella mia vita di teologo, di sacerdote e di pastore.
Ancora oggi è possibile ripercorrere la vicenda di sant’Agostino grazie soprattutto alle "Confessiones", scritte a lode di Dio e che sono all’origine di una delle forme letterarie più specifiche dell’Occidente, l’autobiografia, cioè l’espressione personale della coscienza di sé. Ebbene, chiunque avvicini questo libro straordinario e affascinante, ancora oggi molto letto, si accorge facilmente come la conversione di Agostino non sia stata improvvisa né pienamente realizzata fin dall’inizio, ma possa essere definita piuttosto come un vero e proprio cammino, che resta un modello per ciascuno di noi. Questo itinerario culminò certamente con la conversione e poi con il battesimo, ma non si concluse in quella Veglia pasquale dell’anno 387, quando a Milano il retore africano venne battezzato dal vescovo Ambrogio. Il cammino di conversione di Agostino infatti continuò umilmente sino alla fine della sua vita, tanto che si può veramente dire che le sue diverse tappe – se ne possono distinguere facilmente tre – siano un’unica grande conversione.
Sant’Agostino è stato un ricercatore appassionato della verità: lo è stato fin dall’inizio e poi per tutta la sua vita. La prima tappa del suo cammino di conversione si è realizzata proprio nel progressivo avvicinamento al cristianesimo. In realtà, egli aveva ricevuto dalla madre Monica, alla quale restò sempre legatissimo, un’educazione cristiana e, benché avesse vissuto durante gli anni giovanili una vita sregolata, sempre avvertì un’attrazione profonda per Cristo, avendo bevuto l’amore per il nome del Signore con il latte materno, come lui stesso sottolinea (cfr Confessiones, III, 4, 8). Ma anche la filosofia, soprattutto quella d’impronta platonica, aveva contribuito ad avvicinarlo ulteriormente a Cristo manifestandogli l’esistenza del Logos, la ragione creatrice. I libri dei filosofi gli indicavano che c’è la ragione, dalla quale viene poi tutto il mondo, ma non gli dicevano come raggiungere questo Logos, che sembrava così lontano. Soltanto la lettura dell’epistolario di san Paolo, nella fede della Chiesa cattolica, gli rivelò pienamente la verità. Questa esperienza fu sintetizzata da Agostino in una delle pagine più famose delle "Confessiones": egli racconta che, nel tormento delle sue riflessioni, ritiratosi in un giardino, udì all’improvviso una voce infantile che ripeteva una cantilena, mai udita prima: "tolle, lege, tolle, lege"; prendi, leggi, prendi, leggi (VIII, 12,29). Si ricordò allora della conversione di Antonio, padre del monachesimo, e con premura tornò al codice paolino che aveva poco prima tra le mani, lo aprì e lo sguardo gli cadde sul passo dell’epistola ai Romani dove l’Apostolo esorta ad abbandonare le opere della carne e a rivestirsi di Cristo (13, 13-14). Aveva capito che quella parola in quel momento era rivolta personalmente a lui, veniva da Dio tramite l’Apostolo e gli indicava cosa fare in quel momento. Così sentì dileguarsi le tenebre del dubbio e si ritrovò finalmente libero di donarsi interamente a Cristo: "Avevi convertito a te il mio essere”, egli commenta (Confessiones, VIII, 12,30). Fu questa la prima e decisiva conversione.
A questa tappa fondamentale del suo lungo cammino il retore africano arrivò grazie alla sua passione per l’uomo e per la verità, passione che lo portò a cercare Dio, grande e inaccessibile. La fede in Cristo gli fece capire che il Dio, apparentemente così lontano, in realtà non lo era. Egli, infatti, si era fatto vicino a noi, divenendo uno di noi. In questo senso la fede in Cristo portò a compimento la lunga ricerca di Agostino sul cammino della verità. Solo un Dio fattosi "toccabile”, uno di noi, era finalmente un Dio che si poteva pregare, per il quale e con il quale si poteva vivere. È questa una via da percorrere con coraggio e nello stesso tempo con umiltà, nell’apertura a una purificazione permanente di cui ognuno di noi ha sempre bisogno. Ma con quella Veglia pasquale del 387, come abbiamo detto, il cammino di Agostino non era concluso. Tornato in Africa e fondato un piccolo monastero vi si ritirò con pochi amici per dedicarsi alla vita contemplativa e di studio. Questo era il sogno della sua vita. Adesso era chiamato a vivere totalmente per la verità, con la verità, nell’amicizia di Cristo che è la verità. Un bel sogno che durò tre anni, fino a quando egli non venne, suo malgrado, consacrato sacerdote a Ippona e destinato a servire i fedeli, continuando sì a vivere con Cristo e per Cristo, ma a servizio di tutti. Questo gli era molto difficile, ma capì fin dall’inizio che solo vivendo per gli altri, e non semplicemente per la sua privata contemplazione, poteva realmente vivere con Cristo e per Cristo. Così, rinunciando a una vita solo di meditazione, Agostino imparò, spesso con difficoltà, a mettere a disposizione il frutto della sua intelligenza a vantaggio degli altri. Imparò a comunicare la sua fede alla gente semplice e a vivere così per essa in quella che divenne la sua città, svolgendo senza stancarsi un’attività generosa e gravosa che così descrive in uno dei suoi bellissimi sermoni: "Continuamente predicare, discutere, riprendere, edificare, essere a disposizione di tutti – è un ingente carico, un grande peso, un’immane fatica” (Serm. 339, 4). Ma questo peso egli prese su di sé, capendo che proprio così poteva essere più vicino a Cristo. Capire che si arriva agli altri con semplicità e umiltà, fu questa la sua vera e seconda conversione.
Ma c’è un’ultima tappa del cammino agostiniano, una terza conversione: quella che lo portò ogni giorno della sua vita a chiedere perdono a Dio. Inizialmente aveva pensato che una volta battezzato, nella vita di comunione con Cristo, nei Sacramenti, nella celebrazione dell'Eucaristia, sarebbe arrivato alla vita proposta del Discorso della montagna: alla perfezione donata nel battesimo e riconfermata nell'Eucaristia. Nell’ultima parte della sua vita capì che quello che aveva detto nelle sue prime prediche sul Discorso della montagna — cioè che adesso noi da cristiani viviamo questo ideale permanentemente — era sbagliato. Solo Cristo stesso realizza veramente e completamente il Discorso della montagna. Noi abbiamo sempre bisogno di essere lavati da Cristo, che ci lava i piedi, e da Lui rinnovati. Abbiamo bisogno di una conversione permanente. Fino alla fine abbiamo bisogno di questa umiltà che riconosce che siamo peccatori in cammino, finché il Signore ci dà la mano definitivamente e ci introduce nella vita eterna. In questo ultimo atteggiamento di umiltà, vissuto giorno dopo giorno, Agostino è morto.
Questo atteggiamento di umiltà profonda davanti all’unico Signore Gesù lo introdusse all’esperienza di un’umiltà anche intellettuale. Agostino, infatti, che è una delle più grandi figure nella storia del pensiero, volle negli ultimi anni della sua vita sottoporre a un lucido esame critico tutte le sue numerosissime opere. Ebbero così origine le "Retractationes" (revisioni), che in questo modo inseriscono il suo pensiero teologico, davvero grande, nella fede umile e santa di quella che chiama semplicemente con il nome di Catholica, cioè della Chiesa. "Ho compreso – scrive appunto in questo originalissimo libro (I, 19, 1-3) – che uno solo è veramente perfetto e che le parole del discorso della montagna sono totalmente realizzate in uno solo: in Gesù Cristo stesso. Tutta la Chiesa invece – tutti noi, inclusi gli apostoli – dobbiamo pregare ogni giorno: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”.
Convertito a Cristo, che è verità e amore, Agostino lo ha seguito per tutta la vita ed è diventato un modello per ogni essere umano, per noi tutti in cerca di Dio. Per questo ho voluto concludere il mio pellegrinaggio a Pavia riconsegnando idealmente alla Chiesa e al mondo, davanti alla tomba di questo grande innamorato di Dio, la mia prima enciclica, intitolata "Deus caritas est". Questa infatti molto deve, soprattutto nella sua prima parte, al pensiero di sant’Agostino. Anche oggi, come al suo tempo, l’umanità ha bisogno di conoscere e soprattutto di vivere questa realtà fondamentale: Dio è amore e l’incontro con lui è la sola risposta alle inquietudini del cuore umano. Un cuore che è abitato dalla speranza, forse ancora oscura e inconsapevole in molti nostri contemporanei, ma che per noi cristiani apre già oggi al futuro, tanto che san Paolo ha scritto che "nella speranza siamo stati salvati” (Rm, 8, 24). Alla speranza ho voluto dedicare la mia seconda enciclica, "Spe salvi", e anch’essa è largamente debitrice nei confronti di Agostino e del suo incontro con Dio.
In un bellissimo testo sant’Agostino definisce la preghiera come espressione del desiderio e afferma che Dio risponde allargando verso di Lui il nostro cuore. Da parte nostra dobbiamo purificare i nostri desideri e le nostre speranze per accogliere la dolcezza di Dio (cfr In I Ioannis, 4, 6). Questa sola, infatti, aprendoci anche agli altri, ci salva. Preghiamo dunque che nella nostra vita ci sia ogni giorno concesso di seguire l’esempio di questo grande convertito, incontrando come lui in ogni momento della nostra vita il Signore Gesù, l’unico che ci salva, ci purifica e ci da la vera gioia, la vera vita.