Nella rassegna stampa di oggi:
1) Sua Santità Benedetto XVI - «La Resurrezione» - UDIENZA GENERALE 26 03 2008
2) La voce del prigioniero 6865, “Il grande diario” di Giovannino Guareschi
3) IL CASO ALLAM L’IDENTITÀ DELLA CHIESA di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
4) Magdi Cristiano Allam, una conversione contestata, di Samir Khalil Samir, sj
5) "Noi ex musulmani viviamo nel terrore"
6) Eutanasia: «La soluzione ha un nome: cure palliative»
Sua Santità Benedetto XVI - «La Resurrezione» - UDIENZA GENERALE 26 03 2008
Cari fratelli e sorelle!
"Et resurrexit tertia die secundum Scripturas – il terzo giorno è risuscitato secondo le Scritture". Ogni domenica, con il Credo, rinnoviamo la nostra professione di fede nella risurrezione di Cristo, evento sorprendente che costituisce la chiave di volta del cristianesimo. Nella Chiesa tutto si comprende a partire da questo grande mistero, che ha cambiato il corso della storia e che si rende attuale in ogni celebrazione eucaristica. Esiste però un tempo liturgico in cui questa realtà centrale della fede cristiana, nella sua ricchezza dottrinale e inesauribile vitalità, viene proposta ai fedeli in modo più intenso, perché sempre più la riscoprano e più fedelmente la vivano: è il tempo pasquale. Ogni anno, nel "Santissimo Triduo del Cristo crocifisso, morto e risorto", come lo chiama sant’Agostino, la Chiesa ripercorre, in un clima di preghiera e di penitenza, le tappe conclusive della vita terrena di Gesù: la sua condanna a morte, la salita al Calvario portando la croce, il suo sacrificio per la nostra salvezza, la sua deposizione nel sepolcro. Il "terzo giorno", poi, la Chiesa rivive la sua risurrezione: è la Pasqua, passaggio di Gesù dalla morte alla vita, in cui si compiono in pienezza le antiche profezie. Tutta la liturgia del tempo pasquale canta la certezza e la gioia della risurrezione del Cristo.
Cari fratelli e sorelle, dobbiamo costantemente rinnovare la nostra adesione al Cristo morto e risorto per noi: la sua Pasqua è anche la nostra Pasqua, perché nel Cristo risorto ci è data la certezza della nostra risurrezione. La notizia della sua risurrezione dai morti non invecchia e Gesù è sempre vivo; e vivo è il suo Vangelo. "La fede dei cristiani – osserva sant’Agostino – è la risurrezione di Cristo". Gli Atti degli Apostoli lo spiegano chiaramente: "Dio ha dato a tutti gli uomini una prova sicura su Gesù risuscitandolo da morte" (17,31). Non era infatti sufficiente la morte per dimostrare che Gesù è veramente il Figlio di Dio, l’atteso Messia. Nel corso della storia quanti hanno consacrato la loro vita a una causa ritenuta giusta e sono morti! E morti sono rimasti. La morte del Signore dimostra l’immenso amore con cui Egli ci ha amati sino a sacrificarsi per noi; ma solo la sua risurrezione è "prova sicura", è certezza che quanto Egli afferma è verità che vale anche per noi, per tutti i tempi. Risuscitandolo, il Padre lo ha glorificato. San Paolo così scrive nella Lettera ai Romani: "Se confesserai con la bocca che Gesù è il Signore e crederai con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti sarai salvo" (10,9).
E’ importante ribadire questa verità fondamentale della nostra fede, la cui verità storica è ampiamente documentata, anche se oggi, come in passato, non manca chi in modi diversi la pone in dubbio o addirittura la nega. L’affievolirsi della fede nella risurrezione di Gesù rende di conseguenza debole la testimonianza dei credenti. Se infatti viene meno nella Chiesa la fede nella risurrezione, tutto si ferma, tutto si sfalda. Al contrario, l’adesione del cuore e della mente a Cristo morto e risuscitato cambia la vita e illumina l’intera esistenza delle persone e dei popoli. Non è forse la certezza che Cristo è risorto a imprimere coraggio, audacia profetica e perseveranza ai martiri di ogni epoca? Non è l’incontro con Gesù vivo a convertire e ad affascinare tanti uomini e donne, che fin dagli inizi del cristianesimo continuano a lasciare tutto per seguirlo e mettere la propria vita a servizio del Vangelo? "Se Cristo non è risuscitato, diceva l’apostolo Paolo, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede" (1 Cor 15, 14). Ma è risuscitato!
L’annuncio che in questi giorni riascoltiamo costantemente è proprio questo: Gesù è risorto, è il Vivente e noi lo possiamo incontrare. Come lo incontrarono le donne che, al mattino del terzo giorno, il giorno dopo il sabato, si erano recate al sepolcro; come lo incontrarono i discepoli, sorpresi e sconvolti da quanto avevano riferito loro le donne; come lo incontrarono tanti altri testimoni nei giorni che seguirono la sua risurrezione. E, anche dopo la sua Ascensione, Gesù ha continuato a restare presente tra i suoi amici come del resto aveva promesso: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,20). Il Signore è con noi, con la sua Chiesa, fino alla fine dei tempi. Illuminati dallo Spirito Santo, i membri della Chiesa primitiva hanno incominciato a proclamare l’annuncio pasquale apertamente e senza paura. E quest’annuncio, tramandatosi di generazione in generazione, è giunto sino a noi e risuona ogni anno a Pasqua con potenza sempre nuova.
Specialmente in quest’Ottava di Pasqua la liturgia ci invita ad incontrare personalmente il Risorto e a riconoscerne l’azione vivificatrice negli eventi della storia e del nostro vivere quotidiano. Oggi mercoledì, ad esempio, ci viene riproposto l’episodio commovente dei due discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35). Dopo la crocifissione di Gesù, immersi nella tristezza e nella delusione, essi facevano ritorno a casa sconsolati. Durante il cammino discorrevano tra loro di ciò che era accaduto in quei giorni a Gerusalemme; fu allora che Gesù si avvicinò, si mise a discorrere con loro e ad ammaestrarli: "Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti… Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?" (Lc 24,25 -26). Cominciando poi da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. L’insegnamento di Cristo – la spiegazione delle profezie – fu per i discepoli di Emmaus come una rivelazione inaspettata, luminosa e confortante. Gesù dava una nuova chiave di lettura della Bibbia e tutto appariva adesso chiaro, orientato proprio verso questo momento. Conquistati dalle parole dello sconosciuto viandante, gli chiesero di fermarsi a cena con loro. Ed Egli accettò e si mise a tavola con loro. Riferisce l’evangelista Luca: "Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro" (Lc 24,29-30). E fu proprio in quel momento che si aprirono gli occhi dei due discepoli e lo riconobbero, "ma lui sparì dallo loro vista" (Lc 24,31). Ed essi, pieni di stupore e di gioia, commentarono: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?" (Lc 24,32).
In tutto l’anno liturgico, particolarmente nella Settimana Santa e nella Settimana di Pasqua, il Signore è in cammino con noi e ci spiega le Scritture, ci fa capire questo mistero: tutto parla di Lui. E questo dovrebbe far ardere anche i nostri cuori, così che possano aprirsi anche i nostri occhi. Il Signore è con noi, ci mostra la vera via. Come i due discepoli riconobbero Gesù nello spezzare il pane, così oggi, nello spezzare il pane, anche noi riconosciamo la sua presenza. I discepoli di Emmaus lo riconobbero e si ricordarono dei momenti in cui Gesù aveva spezzato il pane. E questo spezzare il pane ci fa pensare proprio alla prima Eucaristia celebrata nel contesto dell’Ultima Cena, dove Gesù spezzò il pane e così anticipò la sua morte e la sua risurrezione, dando se stesso ai discepoli. Gesù spezza il pane anche con noi e per noi, si fa presente con noi nella Santa Eucaristia, ci dona se stesso e apre i nostri cuori. Nella Santa Eucaristia, nell’incontro con la sua Parola, possiamo anche noi incontrare e conoscere Gesù, in questa duplice Mensa della Parola e del Pane e del Vino consacrati. Ogni domenica la comunità rivive così la Pasqua del Signore e raccoglie dal Salvatore il suo testamento di amore e di servizio fraterno. Cari fratelli e sorelle, la gioia di questi giorni renda ancor più salda la nostra fedele adesione a Cristo crocifisso e risorto. Soprattutto, lasciamoci conquistare dal fascino della sua risurrezione. Ci aiuti Maria ad essere messaggeri della luce e della gioia della Pasqua per tanti nostri fratelli. Ancora a tutti voi cordiali auguri di Buona Pasqua.
Saluto
Rinnovo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Grazie per la vostra gioia di Pasqua. In particolare, saluto i novelli Diaconi della Compagnia di Gesù con i loro Superiori e familiari, ed invoco su ognuno di essi una copiosa effusione di doni celesti, a conferma dei loro generosi propositi di fedeltà a Cristo. Saluto i fedeli della Parrocchia Maria Santissima Assunta e San Liberale in Castelfranco Veneto e quelli della Parrocchia Sacro Cuore di Gesù in Bellizzi. Un affettuoso saluto indirizzo ai fedeli della Parrocchia di Ognissanti, in Roma che ricordano quest’anno il centenario di fondazione della parrocchia, affidata a San Luigi Orione dal mio predecessore San Pio X. Auguro a tutti di essere sempre fedeli testimoni di Cristo e di contribuire a diffondere ovunque la gioia di seguire il suo Vangelo per costruire insieme una società più fraterna.
Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Cari giovani - e specialmente voi, ragazzi e ragazze che siete venuti così numerosi da parrocchie e oratori dell'Arcidiocesi di Milano, siate entusiasti protagonisti nella Chiesa e nella società. Voi, che fate quest'anno la "Professione di fede", impegnatevi a costruire la civiltà dell'amore, fondata su Cristo che è morto e risorto per tutti. Cari malati, la luce della Risurrezione illumini e sostenga la vostra quotidiana sofferenza, rendendola feconda a beneficio dell'intera umanità. E voi, cari sposi novelli, attingere ogni giorno dal Mistero pasquale la forza per un amore sincero ed inesauribile.
La voce del prigioniero 6865
Data: 26 Marzo 2008
Autore: Egidio Bandini
Fonte: Libero 26 marzo 2008
Una lieta sorpresa per gli amici guareschiani. Uscirà alla fine di maggio per Rizzoli "Il grande diario" di Giovannino Guareschi. Il libro contiene gli scritti inediti che l'autore compose durante i due anni di internamento nei lager nazisti. Il numero dell'internato Guareschi era 6865. Il materiale è stato ritrovato nell'archivio paterno da Alberto e Carlotta Guareschi. Lo scrittore fu arrestato l'8 settembre 1943 ad Alessandria, e tornò in libertà il 28 agosto 1945. Faceva parte degli IMI (Internati militari italiani), cioè quei soldati che dopo l'armistizio si erano rifiutati di combattere a fianco dei tedeschi. Guareschi di quei giorni terribili scrisse: «Nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno. Fummo peggio che abbandonati, ma questo non bastò a renderci dei bruti: con niente ricostruimmo la nostra civiltà. Non abbiamo vissuto come bruti: costruimmo noi, con niente, la Città Democratica. E se, ancor oggi, molti dei ritornati guardano ancora sgomenti la vita di tutti i giorni tenendosene al margine, è perché l'immagine che essi si erano fatti, nel lager, della Democrazia, risulta spaventosamente diversa da questa finta democrazia che ha per centro sempre la stessa capitale degli intrighi e che ha filibustieri vecchi e nuovi al timone delle vecchie navi corsare». Parole forse da meditare seriamente proprio in questi giorni di campagna elettorale...
DIARIO DEL LAGER
Il libro segreto di Guareschi
per sopravvivere ai nazisti
Rizzoli pubblica le memorie inedite di Giovannino scritte in Polonia nel campo di concentramento. Lui voleva bruciarle, i figli le hanno recuperate
«Non muoio neanche se mi ammazzano!» Questo il motto arcifamoso che Giovannino Guareschi coniò appena arrivato a Czestochowa, quando, pur sotto gli occhi delle guardie naziste, un bambino corse via dalla madre per porgere all'Internato militare italiano numero 6865 una mela. «Sulla corteccia rossa e lucida della mela vedo l'impronta dei dentini del bimbo e penso a mio figlio», scrive Guareschi. « Lo zaino non mi pesa più, mi sento fortissimo. Lo debbo rivedere, il mio bambino: il primo dovere di un padre è quello di non lasciare orfani i suoi figli. Lo rivedrò. Non muoio neanche se mi ammazzano!». Di momenti come questo è fatto quello che Guareschi chiamava "Gran Diario". Lo scrisse dopo la prigionia, ma decise di non pubblicarlo, per rispetto dei suoi compagni che non l'avevano autorizzato. Oggi, dopo 60 anni e oltre dalla liberazione degli internati, le memorie saranno pubblicate grazie a Carlotta e Alberto (i figli di Giovannino) per Rizzoli (col titolo "Il grande diario", in uscita a fine maggio ). Nel testo si raccontano i due anni di prigionia che lo scrittore passò nei lager nazisti assieme ad altri 640.000 internati militari italiani: 200 generali, 3.000 ufficiali superiori ed anziani, 23.000 ufficiali inferiori, 16.000 sottufficiali, 594.000 graduati e soldati, 3.000 civili militarizzati.
Catturato dai tedeschi
Due anni nei campi di concentramento, che iniziarono con un increscioso incidente accaduto a Milano e che Giovannino descrive così, in una lettera del 1964 ad una professoressa di lettere: «Per cause indipendenti dalla mia volontà, scoppiò la guerra mondiale. Io ero stato fascista dal 1922 quando avevo 14 anni: venni arrestato nel 1942 dai fascisti per aver comunicato al rione Gustavo Modena, Ciro Menotti, Castelmorrone ciò che in quel momento pensavo di tutta la faccenda. Per salvarmi dal processo, mi fecero richiamare: l'8 settembre del 1943 fui catturato dai tedeschi che gentilmente mi domandarono se preferivo continuare a combattere assieme a loro o se preferivo essere mandato in campo di concentramento. Risposi che avevo deciso di continuare la guerra per conto mio e, così, mi ritrovai in un campo di concentramento presso Varsavia in Polonia». Comincia così la drammatica avventura di un umorista nel lager; l'incontro con la generosità di un bambino che se ne infischia degli invasori per aiutare un uomo affamato e, ben presto, con la consapevolezza di essere dimenticati da tutti, visto che la figura dell'Internato militare era nuova, non contemplata dai trattati e neppure la Croce Rossa avrebbe potuto aiutare Guareschi e gli altri 640.000 italiani che, come lui, avevano scelto di dire no ai nazisti. Passano quasi cinque anni e a Giovannino viene l'idea di scrivere un diario della prigionia: nasce "Diario Clandestino", l'opera più importante di Guareschi, il ritratto disincantato e preciso di quanto accadde in quei giorni interminabili, il racconto di ciò che fecero molti internati per rendere meno disperata la vita nei lager, dai giornali parlati ai tornei di bridge e di bocce, dalle lezioni universitarie alle rappresentazioni teatrali, alle trasmissioni virtuali di "Radio B 90". Un diario sui generis, dal momento che nasce dalle ceneri del vero diario: «In verità io avevo in mente di scrivere un vero diario e, per due anni, annotai diligentissimamente tutto quello che facevo o non facevo, tutto quello che vedevo e pensavo. Anzi, fui ancora più accorto: e annotai anche quello che avrei dovuto pensare, e così mi portai a casa tre librettini con dentro tanta di quella roba, da scrivere un volume di duemila pagine. E appena a casa misi un nastro nuovo sulla macchina per scrivere e cominciai a decifrare e sviluppare i miei appunti, e dei due anni di cui intendevo fare la storia non dimenticai un solo giorno. Fu un lavoro faticosissimo e febbrile: ma, alla fine, avevo il diario completo. Allora lo rilessi attentamente, lo limai, mi sforzai di dargli un ritmo piacevole, indi lo feci ribattere a macchina in duplice copia, e poi buttai tutto nella stufa: originale e copia. Credo che questa sia stata la cosa migliore che io ho fatto nella mia carriera di scrittore: tanto è vero che essa è l'unica di cui non mi sono mai pentito (...). Nomi, fatti, responsabilità, considerazioni di carattere storico e politico, tutto è stato bruciato e doveva bruciare assieme alle cartelle del diario».
La voce del prigioniero 6865
Perciò, a Guareschi non restò che utilizzare la parte del lavoro scritta per il lager: «Oltre agli appunti del diario da sviluppare poi a casa, scrissi un sacco di roba per l'uso immediato. La roba che, nelle mie intenzioni d'allora, doveva essere scritta e servire esclusivamente per il lager e che io non avrei dovuto mai pubblicare fuori del lager. E invece fu proprio questa la roba che mi è parsa ancora valida. E, disperse al vento le ceneri del "Gran Diario", ho scelto nel pacchetto di cartaccia unta e bisunta qualche foglietto, ed ecco il "Diario clandestino". È l'unico materiale autorizzato, in quanto io non solo l'ho pensato e l'ho scritto dentro il lager: ma l'ho pure letto dentro il lager. L'ho letto pubblicamente una, due, venti volte, e tutti l'hanno approvato. È la voce del numero 6865 che parla. È la stessa voce di allora. Sono gli stessi baffi di allora. Non ho aggiunto niente: ho bruciato il famoso diario perché non avevo il diritto di dire sul nostro lager cose che non fossero state approvate dai miei compagni di lager. Da quelli vivi e da quelli morti. Perché bisogna anche tener conto dei Morti, nella vera democrazia». In realtà, però, le cose non andarono proprio così. Una parte consistente del "Gran Diario" si è salvata dal furore ustorio di Giovannino, grazie ad una sua inveterata abitudine: utilizzare il verso dei dattiloscritti o dei quaderni per annotare spunti e idee per racconti, indici di volumi, scalette di romanzi. Qualcuno dei quadernetti di appunti andò effettivamente a finire nella stufa di casa Guareschi, ma si salvarono un centinaio di fogli del dattiloscritto definitivo (certamente accantonati in attesa di utilizzarne il lato non scritto) racchiusi in una carpetta infilata in una cassa utilizzata nel trasloco dell'archivio guareschiano da Milano alla nuova casa di Roncole Verdi nel 1952, oltre ai due taccuini che servirono allo scrittore nel 1946 per scrivere il "Diario Clandestino" e alle due agende nelle quali Guareschi, cronista della vita nel campo di concentramento descrive, dall'8 settembre 1943 - giorno della sua cattura ad Alessandria fino al 28 agosto 1945 - giorno del suo rimpatrio - le tappe giornaliere della prigionia. Questo materiale è stato ritrovato da Alberto e Carlotta Guareschi quando si misero a cercare i disegni fatti nel lager per una mostra in occasione del sessantesimo anniversario dalla liberazione degli internati. Durante le numerose incursioni nello sterminato archivio paterno, poi, emersero altri fogli dattiloscritti, già usati sul verso per alcune "brutte" di racconti o sceneggiature. Rispettando la volontà chiaramente espressa dal padre, Carlotta e Alberto, al di là dell'utilizzo di qualche brano nell'autobiografia "Chi sogna nuovi gerani" e nel volume "Ritorno alla base", decisero di non pubblicare il "Gran Diario" e non toccarono più quei fogli. Con l'attuale riordino dell'archivio a Roncole Verdi, però, sono tornati sotto gli occhi i taccuini, i dattiloscritti e le agende che, nel centenario dalla nascita di Giovannino Guareschi, a sessantatré anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, hanno assunto tutt'altro interesse: un interesse storico. Ecco, allora, che il "Gran Diario" ha preso forma, partendo dagli scarni appunti delle agende, in cui Guareschi annotava la cronaca suddividendola in due parti: nella prima Giovannino segna una sorta di bollettino, sulla stagione, sull'umore e sulla salute: le "f" significano "fame" e la lunghezza della serie di "f" varia a seconda dell'intensità della fame.
La vittoria sulla barbarie
Nella seconda parte la cronaca telegrafica sulla vita del lager e, spesso, il commento ai temi del giorno. Il "Gran Diario" vedrà la luce proprio quest'anno come omaggio al momento fondamentale nella vita e nella formazione di Guareschi, quella prigionia dalla quale lo stesso Giovannino dice di essere uscito vittorioso «perché, nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno. Fummo peggio che abbandonati, ma questo non bastò a renderci dei bruti: con niente ricostruimmo la nostra civiltà. Non abbiamo vissuto come bruti: costruimmo noi, con niente, la Città Democratica. E se, ancor oggi, molti dei ritornati guardano ancora sgomenti la vita di tutti i giorni tenendosene al margine, è perché l'immagine che essi si erano fatti, nel lager, della Democrazia, risulta spaventosamente diversa da questa finta democrazia che ha per centro sempre la stessa capitale degli intrighi e che ha filibustieri vecchi e nuovi al timone delle vecchie navi corsare». Leggeremo il "Gran Diario" con tutta la commozione e la pietà che Guareschi provò nell'annotare quei giorni di sofferenza e di fame, ma anche con lo stesso spirito che egli stesso mise nelle "Istruzioni per l'uso" del "Diario clandestino" concludendole così: «Comunque il libro è qui. Se la vedano i miei ventitré lettori. Se non va bene, vuol dire che la prossima prigionia farò meglio».
IL CASO ALLAM L’IDENTITÀ DELLA CHIESA di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
Corriere della Sera, 27 marzo 2008
Sono due le questioni al centro della discussione nata dalla conversione al Cattolicesimo di Magdi Allam, nonché dal battesimo in San Pietro impartitogli da Benedetto XVI, che quella conversione ha per così dire ratificato e reso pubblica nel più solenne dei modi. La prima questione riguarda per l’appunto il fortissimo segno pubblico impresso dalla solennità della circostanza. Molti vi hanno visto quasi l’immagine di una «Ecclesia triumphans», di una nuova Chiesa trionfante pronta a lanciarsi in una crociata anti-islamica. Vi hanno visto cioè un più o meno esplicito contenuto politico. Prima però di rispondere se il gesto in questione possa davvero essere interpretato così, sarebbe bene riflettere sul fatto che, come in tutte le istituzioni che hanno alle spalle una tradizione secolare (penso alla monarchia britannica ad esempio), anche nella Chiesa cattolica «pubblico» e «politico» non sono necessariamente due dimensioni sovrapposte e/o sovrapponibili. Spesso la dimensione pubblica, i riti, le celebrazioni, corrispondono a esigenze che piuttosto che con la politica hanno a che fare con una vicenda storico-identitaria; sono cioè la manifestazione e insieme la rivendicazione della propria natura e della propria storia.
Si potrà naturalmente obiettare che tra i due ambiti vi è un certo rapporto, ed è senz’altro vero. Ma è ancor più vero che si tratta di cose assai diverse, le quali implicano intenzioni e prospettive ideali anch’esse assai diverse. Riaffermare pubblicamente chi si è, da quale storia si viene, non vuol dire affatto enunciare per ciò stesso un programma di azione, indicare obiettivi, insomma fare politica nel senso che comunemente si dà a questa parola. È molto probabile insomma che con il battesimo in San Pietro la Chiesa di Benedetto XVI — il cui pontificato sembra particolarmente sensibile proprio a questo tema — abbia voluto soprattutto riaffermare la propria identità, al cui centro sta, precisamente, la conversione. E cioè il battesimo.
Il Cristianesimo, infatti, lungi dal nascere come una religione etnica, cioè legata vocazionalmente a una determinata popolazione, è nato anzi in polemica con una religione siffatta, nel suo caso rappresentata per l’appunto dall’ebraismo. Proprio perciò esso dovette inizialmente affidare le sue sole speranze di successo alla spontanea adesione di migliaia e migliaia di uomini e donne, dovendo a null’altro che a tale adesione la sua prima, decisiva diffusione nel mondo. C’è stato e c’è un evidente, intimo nesso tra tutto questo e alcuni tratti cruciali dell’identità culturale cristiana nel suo complesso, a cominciare da quei tratti fondamentali costituiti dalla centralità della persona e dal primato della coscienza. Il motore storico del Cristianesimo, insomma, così come una delle sue massime dimensioni fondative, è stata la conversione. Ed è plausibile, direi ovvio, che per la Chiesa, la quale della storia cristiana si considera la vera erede, continui a esserlo; e che con il rito in San Pietro essa abbia voluto semplicemente ribadire questo elemento centralissimo della sua identità: a dispetto di ogni opportunismo (questo sì politico!) e di ogni conformismo dei tempi. Ha senso fargliene una colpa? Tuttavia, si aggiunge — ed è la seconda questione di cui si dibatte — le «bellicose dichiarazioni» rese da Magdi Allam stesso all’indomani del battesimo hanno piegato ad un significato politico la sua conversione, e dunque anche il rito e la partecipazione ad esso del Papa. Certo: bellicose quelle dichiarazioni lo sono state senz’altro. Ma chi punta il dito contro di esse, vedendovi soltanto un clamoroso fraintendimento della natura complessa dell’Islam, e, ancor peggio, una mancanza di carità cristiana, chi fa ciò, non solo, forse, dovrebbe spendere almeno qualche parola sulla terribile condizione personale del dichiarante. Sul fatto, per esempio, che Allam, sua moglie e i suoi figli vivono ormai da anni una vita non vita, una vita priva di un solo momento di vera intimità e tranquillità, dovendo tutto prevedere e programmare, circondati, 24 ore su 24, da uomini con le armi spianate che stanno lì a ricordargli continuamente il pericolo mortale sospeso sulle loro teste. Non solo; forse dovrebbe anche chiedersi come mai, di fronte alla violenza delle ripetute condanne a morte giunte dall’islamismo «estremista» ad Allam come a Salman Rusdie, come a Robert Redeker e a tanti altri, come mai di fronte alle «aberranti derive fondamentaliste e terroriste» dell’Islam, in nessuna occasione sia arrivata alle nostre orecchie dallo stesso Islam una voce significativa, alta e forte, di condanna; come mai nessun imam di fama, nessun celebre intellettuale, nessuna importante istituzione o assemblea islamica abbia mai pensato di pronunciarsi in maniera irrevocabile contro tale uso barbarico della fede. Dovrebbe chiederselo e, se possibile, anche darsi, e darci, una risposta.
27/03/2008 10:28
VATICANO – ISLAM
Magdi Cristiano Allam, una conversione contestata, di Samir Khalil Samir, sj
Il battesimo cattolico del noto giornalista Magdi Allam, egiziano e musulmano non praticante, suscita critiche e disprezzo nel mondo islamico. Vi è pure imbarazzo nel mondo cristiano, timoroso di vedere la Chiesa e Benedetto XVI lanciare una nuova crociata. Invece, come per il discorso di Regensburg, questo battesimo è un messaggio per difendere la libertà religiosa, l’evangelizzazione e la convivenza fra religioni.
Beirut (AsiaNews) - Ogni anno alla notte di Pasqua, nella basilica di san Pietro, il papa battezza un gruppo di adulti, provenienti da vari continenti. Nella festa del battesimo di Gesù invece, il papa usa battezzare alcuni bambini.
Alla veglia pasquale di quest’anno vi erano 7 battezzati. Uno di loro era un musulmano noto in Italia e all’estero: Magdi Allam, vicedirettore ad personam del Corriere della Sera, il quotidiano più diffuso in Italia.
A. Il battezzato Magdi
1. Magdi Allam e l’evoluzione della società egiziana
Magdi Allam, nato al Cairo (Egitto) nel 1952, proviene da una famiglia musulmana. Sua madre era una donna religiosa, suo padre più laicizzato. È stato educato dai salesiani italiani in Egitto, che tengono la scuola tecnica più seria e più famosa del Cairo.
Giunto in Italia nel ‘72, egli continua gli studi all’università La Sapienza di Roma. Dopo la laurea comincia una vita da giornalista, prima lavorando a Repubblica; poi al Corriere della Sera.
Magdi Allam si è specializzato sempre di più sul fenomeno dell’islam radicale, soprattutto dopo i fatti dell’11 settembre 2001. La sua posizione è divenuta sempre più netta contro questo tipo di islam che dà un’immagine violenta, radicale, intollerante e invadente. La sua posizione è divenuta poi ancora più dura, mentre la violenza dell’islam diveniva sempre più cieca e più diffusa, toccando tutto il mondo islamico, arabo e non arabo.
Va ricordato che questo movimento di islam radicale è nato agli inizi degli anni ’70 proprio in Egitto, sul sottofondo del movimento dei Fratelli musulmani – fondati al Cairo nel ’28 – rafforzandosi con l’aiuto ideologico e finanziario dell’Arabia Saudita e della scuola wahhabita. L’Egitto in questi 30 anni è cambiato radicalmente. E questo Magdi l’ha notato: tutti i programmi radio e televisivi si islamizzano; il cinema egiziano più famoso nel mondo arabo è divenuto più puritano e islamico; non si accetta la minima allusione negativa all’Islam; non si può fare un film sui profeti dell’Antico testamento; la televisione religiosa occupa tutto il campo della vita; le moschee si moltiplicano sempre di più; il velo diviene quasi un obbligo; il niqab – il corrispettivo del burka afgano, che copre tutto il corpo della donna meno gli occhi – si diffonde sempre di più.
Nel dicembre 2006 il ministro egiziano della cultura Faruk Hosni si permette un’allusione alla grande diffusione del velo in Egitto e dice che “non riconosco più il mio Paese, divenuto simile all’Arabia saudita”: in parlamento i deputati legati ai Fratelli musulmani esigono le sue dimissioni in base alla costituzione (che è ispirata alla sharia islamica). Sotto le pressioni, il suo partito al potere gli chiede di presentare le dimissioni. Faruk è salvato in extremis dalla Prima Donna, la signora Sawsan Mubarak.
Tutto questo ha reso la posizione di Magdi Allam ancora più radicale verso questo Islam. Esso ha il suo fondamento nel Corano e negli atteggiamenti del profeta Muhammad, ma non corrisponde ala visione della maggioranza dei musulmani. Questi, però, abituati a sottomettersi a tutti gli ordini che vengono dagli imam, accettano questa situazione in modo supino.
2. Dalla violenza degli islamisti attuali alla non violenza del Vangelo
Questo ha forse rinforzato il distacco di Magdi Allam dall’islam vissuto e l’ha condotto alla conclusione che i germi di questa violenza sono presenti nel Corano e nella tradizione dei detti di Maometto.
Qualcuno sospetta che dietro la sua scelta vi siano complotti politici, ma io preferisco seguire il principio che sant’Ignazio di Loyola ha stilato negli Esercizi Spirituali, quando dice che bisogna attribuire a chiunque, perfino a un nemico, l’intenzione migliore, il cosiddetto “presupponendum”.
La Chiesa cattolica, nella persona più rappresentativa, il papa, con la sua omelia nella notte di Pasqua, ha sottolineato che ogni uomo che abbia fatto un cammino spirituale e sia stato aiutato da una comunità cristiana a verificare i suoi motivi, deve essere accolto nella Chiesa.
Il giorno dopo il suo battesimo, Magdi Allam ha scritto al suo giornale una lettera, spiegando i motivi della sua scelta, perché si è fatto battezzare dal papa, ecc… Qualcuno ha reagito dicendo che il battesimo era una questione personale che non conviene esporre in pubblico. Io al suo posto forse non lo avrei fatto, ma non è scorretto averlo fatto.
Per me, è stonato che nel momento del battesimo, si riprenda la propria analisi sul fondamentalismo. Quello era il momento in cui Magdi avrebbe potuto comunicare come il cristianesimo è anche il compimento dello slancio religioso dell’islam. E anche questo avrebbe valore: l’islam contemporaneo si dirige a grandi passi verso un integralismo intransigente sempre più grande; il cristianesimo contemporaneo si muove invece verso un’apertura sempre più grande. Così si sarebbe compreso ancora di più la sua scelta.
La conversione poi non è solo uno staccarsi dal passato (in questo caso dall’islam). Essa è anche un proiettarsi verso il nuovo ed il futuro. Quest’altra dimensione, quella della scoperta del cristianesimo e dell’adesione sempre più forte alla persona di Gesù, è più intima e Allam non ne parla. Se ne parlasse, forse rischierebbe di essere bersaglio di critiche da parte di chi dice che la conversione è un fatto personale e privato. Ma sarebbe bello scoprire i perché più personali di questa scelta.
Il modo in cui lui ha scritto la sua lettera, apre lo spazio a una visione di conflitto fra cristianesimo e islam, con una lettura di tipo politico, ideologico, culturale. Ma questa è solo una tappa. Il cristianesimo è il compimento di tutto ciò che c’è di spirituale e di buono nel mondo. Ho avuto diverse occasioni di seguire giovani musulmani egiziani, iraniani e libanesi che volevano convertirsi al cristianesimo. In molti casi, il cammino comincia proprio col constatare la violenza dell’islam attuale; poi si scopre che il cristianesimo significa pace ed amore. Della persona di Gesù colpisce l’elemento amore, dono di sé anche nella passione e la croce, superando la visione del Corano, in cui Gesù sfugge al martirio.
Certo Magdi Allam non era un musulmano praticante, per cui il suo cammino è più sul versante culturale e politico. Di là a dire però che non è autentico, c’è un passo … che niente permette di fare!
B. Il valore assoluto della libertà religiosa
1. Libertà di abbandonare l’islam e convertirsi
Il suo battesimo però afferma la legittimità della conversione. Credo che per questo egli abbia voluto dare tanto risalto alla sua conversione: per affermare ciò che è negato dal mondo musulmano.
Allam ha scritto molto sul caso dell’afghano convertito Abdul Rahman, prendendo posizioni molto nette e affermando il diritto alla conversione. Magdi vuole sostenere la civiltà dei diritti umani, più rappresentata dalla civiltà cristiana.
Io conosco a Roma qualche musulmano convertito, che però tiene nascosta la sua conversione, senza mai negarla. Magdi, essendo persona pubblica, ha sentito il bisogno il proclamare che era musulmano e si è fatto cristiano. Tarek Ramadan l’aveva perfino accusato di essere in realtà un copto che si spacciava per musulmano.
Per i musulmani, uno che è nato islamico, rimane tale, anche se si allontana dalla pratica. Per questo la conversione a un’altra religione è impossibile. Avendo raggiunto la perfezione con la pratica islamica, la pienezza della rivelazione divina data da Dio nel cuore di Adamo, ma sviluppata e culminata nel Corano, non si può tornare indietro. Nel Corano, perfino Adamo è musulmano.
Mi pare capire così la reazione di una persona che mi è cara che dice su Repubblica del 23 marzo: "non c'era nessun bisogno, per dimostrare l'amore per Gesù, di rinnegare l'amore e la fede per il profeta Mohammed. I musulmani hanno, all'interno della loro dottrina, il riconoscimento più alto della figura di Cristo e della Vergine Maria". “Per questo, non capisco il perché della scelta di rinnegare la tradizione del messaggio islamico: qualsiasi apostasia è vista con forte perplessità".
E invece io dico: non si può essere cristiano e musulmano nello stesso tempo, perché ci sono alcuni punti inconciliabili tra di loro, a livello dogmatico (che Cristo sia l’ultima rivelazione del Padre o che Muhammad sia “il sigillo dei profeti” che ha portato l’ultimo messaggio all’umanità); a livello etico (l’obbligo di perdonare e di amare il nemico; oppure il non obbligo di farlo, ecc.); a livello storico (Cristo è morto in croce; oppure non è morto ma è vivo). Che i musulmani abbiano “il riconoscimento più alto della figura di Cristo e della Vergine Maria” è un conto, ma che il Cristo del Corano (per quanto bello possa essere) non sia quello dei Vangeli è un altro conto.
Nello stesso senso Abu Muhammad, commentando il battesimo di Magdi, scrive da Gaza: “L’islam è una vasta tenda che raggruppa tutte le religioni e i Libri Celesti. Noi crediamo a tutti i messaggeri di Dio e a tutti i Libri. Abbiamo visioni larghe e spirito aperto. Anche l’apostata nell’islam va criticato, finché riconosca il vero dal falso e scopra ciò che ignora”.
Lo stesso rimprovero è espresso dall’UCOII: “Non c'è contrasto Gesù-Maometto”. Invece il contrasto c’è, e come! Libero ognuno di preferire l’uno all’altro. Ma non si può negare i fatti.
Magdi, invece, viene ad affermare, con la sua conversione, che la perfezione lui l’ha trovata nel cristianesimo.
Queste sono alcune delle reazioni educate di musulmani. Ma se si passa a un sito musulmano in arabo, come “islamonline”, vi sono solo insulti. Badr lo tratta come un “cane”; Metwalli dice: “dal comunismo ai crociati al fuoco della geenna”; Chérif lo tratta da “vile” e si felicita con disprezzo che sia divenuto cattolico; un altro scrive: “se Dio vuole morirà da miscredente (kâfir) e così andrà all’inferno”; “hai amato chi ha ucciso i profeti e i politeisti, va dunque con loro!”. Ahmad scrive: “Va all’inferno !” ; et Umm Ahmad scrive dalla Francia: “Cerchiamo bene: è sicuramente un ebreo sionista, o comunque senza origine!”. Abu Muhammad da Gaza invoca Dio di mandargli torture dolorose”. La litania è infinita.
2. Libertà di conversione anche di fronte al mondo laico
La conversione e la religione sono anche malvisti dalla società occidentale secolarizzata. Basta vedere le polemiche che hanno suscitato le parole del presidente francese Sarkozy sulle radici cristiane dell’Europa e sulla necessità di puntare ancora sulla religione per recuperare i valori laici perduti. I laici dicono che è l’illuminismo laico che ha portato i valori al mondo, non la religione.
Il discorso di Benedetto XVI a Regensburg voleva completare le conquiste illuministe allargando la ragione anche alla dimensione religiosa. Aggiungeva però: non si tratta di tornare alla situazione anteriore all’illuminismo; la sua proposta non è un ritorno al passato ma un passo avanti[1].
Chi, essendo non credente, non permette alla società di essere più credente, è contrario ai diritti umani. Nel nostro mondo vi è quindi un totalitarismo di tipo islamico, ma anche, da qualcuno, un totalitarismo illuminista e ateo.
Se non si rispetta la dimensione religiosa, si scivola verso un’interpretazione politica o ideologica della religione. Magdi Allam è stato talvolta criticato dall’intellighenzia laica occidentale come uno che vuol provocare il conflitto di civiltà, o a favore di qualche partito politico italiano o straniero. Personalmente, anche se non condivido alcune posizioni come quelle di fronte al conflitto israelo-palestinese, non credo che lui cerchi il conflitto di civiltà. Combatte la violenza quando si copre di religione, come nel caso di chi usa della violenza in nome dell’islam, ma si dovrebbe aggiungere anche quelli che lo fanno in nome dell’ebraismo o del Vangelo.
C. Benedetto XVI: Dovere di evangelizzare con rispetto, Reciprocità nella missione
1. Benedetto XVI: il cristianesimo è per tutti
Che Benedetto XVI abbia accettato di persona a celebrare il battesimo di Magdi Allam è un fatto che sorprende. Va pure detto che egli lo ha fatto senza ostentazione, dando la stessa importanza a tutti i 7 battezzati, non dando più importanza al musulmano convertito. Questa enfasi sull’islamico convertito è piuttosto opera della stampa, abituata alle letture politiche.
Ma Benedetto XVI ha voluto sottolineare che tutti, musulmani, atei, indù, buddisti, cristiani che hanno abbandonato la fede, tutti sono chiamati alla fede. Ha voluto affermare l’universalità dell’appello cristiano, non perché i cristiani siano il gruppo più folto, ma per sottolineare che tutti gli esseri umani sono chiamati da Gesù. Tutti hanno diritto a conoscere Cristo. Nessuno è escluso.
Certo, la presenza di un musulmano fra i catecumeni è un segnale per il mondo islamico. Esso è il gruppo più recalcitrante ad accettare questo passo. Il papa, senza violenza o acredine, sembra dire: Anche voi siete chiamati a scoprire Cristo e ad entrare nella Chiesa se lo desiderate.
2. Esperienze personale
Da parte mia, ho vissuto un’esperienza tragica. Anni fa ero in Marocco. Viene a trovarmi un professore marocchino 35enne di lingua araba per parlare del Vangelo e di Cristo. Dopo mezz’ora io gli dico che sono stupito a vedere la sua conoscenza di temi cristiani. Lui mi risponde che è da 14 anni che chiede il battesimo. All’inizio ho pensato che sbagliasse espressioni. Ore dopo mi incontro con il vescovo e con una piccola comunità di sacerdoti ai quali racconto l’episodio e dico che quel musulmano chiede da 14 anni il battesimo e i sacerdoti glielo rifiutano. Uno dei sacerdoti si alza e mi rimbrotta: “È giusti rifiutarglielo. Noi non vogliamo fare dei martiri”[2]. Dopo aver espresso le sue prudenze, il sacerdote mi fa una filippica sul fatto che io non ho capito il concilio Vaticano II secondo cui tutti possono essere salvati, anche nella loro religione, ecc…
Io ho risposto che il sacerdote non aveva il diritto di rifiutare il battesimo. Se il musulmano chiede il battesimo, lo si può avvertire dei rischi che corre, lo si può mettere in guardia, ma non si può rifiutarglielo perché la sua chiamata viene dallo Spirito Santo e lui è libero, è una sua scelta.
Uscendo, il vescovo mi ha ringraziato per le mie precisazioni.
Il giorno dopo vado a Marrakesh e incontrandomi con la piccola comunità di frati e di suore di là, racconto questo episodio e la mia conclusione, cioè che non si può rifiutare il battesimo a una persona che lo chiede, anche se musulmana. Tutti mi accolgono con applausi, festa, urla! E mi dicono che da anni sono impediti ad avvicinare i musulmani e i sacerdoti continuano a rifiutare il battesimo a chiunque di loro lo volesse. La loro “prudenza” si spiega col timore che per ripicca i musulmani facciano chiudere le scuole cristiane, mettendo in crisi l’organizzazione della missione.
Un’altra volta, dopo aver celebrato la funzione del Venerdì Santo, sto per chiudere la porta della chiesa, quando tre giovani musulmani sui 20-25 anni mi chiedono di entrare per visitarla. La loro curiosità li spinge a farmi tante domande sull’edificio, sulla croce coperta e sul cristianesimo. Ad un certo punto arriva il parroco e caccia via i giovani, dicendomi: “Non abbiamo il diritto di parlare con loro di fede cristiana”. Tutto ciò è un fatto molto grave perché oltre a mettere in luce la censura dei Paesi musulmani verso la missione cristiana, mostra che vi è anche un’autocensura a parte dei cristiani, della quale ha parlato Magdi Allam nella sua lettera.
Penso perciò che il gesto del papa significa: la missione della Chiesa è universale, è anche verso i musulmani e deve essere esplicita.
Altre volte la missione cristiana viene frenata da “opportunismi”. Ad esempio, si consiglia a un non cristiano di non prendere il battesimo per fungere da ponte con la sua cultura. Anche il card. Newman, quando era anglicano, ha pensato questo. Ma il punto è che se appena costui sente di dover fare il passo completo ed esplicito dell’appartenenza alla Chiesa, deve fare il passo che gli suggerisce la sua interiorità.
3. Benedetto XVI: Reciprocità e missione
L’ultimo aspetto è quello della reciprocità nel dovere di evangelizzare. Il papa e molti documenti vaticani sottolineano che noi cristiani abbiamo il dovere di annunciare il vangelo a chiunque, e ognuno è libero di accettare o rifiutare.
Come mantenere l’obbligo personale di annunciare il vangelo e rispettare la libertà dell’altro? La Chiesa risolve questa apparente contraddizione mettendo in chiaro che non si può obbligare nessuno a una conversione. Già dall’8°secolo i pensatori arabi cristiani hanno scritto trattati per sottolineare che non solo la violenza è vietata per chiamare qualcuno, ma anche la pressione morale o spirituale è vietata. E loro sapevano bene quali pressioni fisiche, finanziarie e morali dovevano subire per mantenere la loro fede!
Occorre garantire la libertà di evangelizzazione (tabshîr), come la libertà d’islamizzare (da’wa). Per me, il cristianesimo è la più bella e più perfetta religione, e l’islam, pur avendo molte cose belle, non è il compimento del progetto divino sull’uomo, non è l’appello all’umanesimo. Allo stesso tempo ammetto che il musulmano sia convinto del contrario ed è suo pieno diritto, anzi dovere! Questo è il vero rispetto reciproco: ognuno segue la sua coscienza e cerca di illuminare l’altro sempre di più.
Il papa non nasconde la sua certezza che il musulmano ha bisogno di un passo ulteriore per giungere alla perfezione della verità. Ma non per questo attacca l’islam o disprezza il musulmano. E quando un musulmano mi dice “peccato che non sei musulmano!”, capisco che mi porta molta stima. Ed è lo stesso per me a suo riguardo.
Questo rispetto reciproco è fondamentale per costruire una convivenza pacifica fra religioni, ma anche con personalità laiche ed atee: una società in cui ciascuno è convinto della bontà della sua posizione, ma convinti anche che l’altro ha altrettanto diritto a vivere questa certezza e a vivere con me.
Conclusione: Il minimo comun denominatore sono i diritti umani
Perchè questo avvenga occorre un minimo comune denominatore: i diritti umani. Rinunciare ai diritti umani è un errore. Per questo, senza tregua, il Vaticano continua a chiedere la reciprocità di culto. Come i musulmani si trovano in società europee in piena libertà religiosa, così i cristiani vorrebbero potersi esprimere con libertà nei Paesi islamici.
E come i musulmani possono chiamare i cristiani a diventare musulmani in Occidente (e lo fanno), così i cristiani devono poter chiamare i musulmani a diventare cristiani nei Paesi islamici. Invece, tanti Paesi musulmani hanno rinforzato le pene contro chi annuncia il Vangelo, l’attualità dell’Algeria ci lo ricorda quotidianamente!
Il battesimo di Magdi Allam da parte del papa non è un atto di aggressione, ma un’esigenza di reciprocità. È una provocazione tranquilla, ma che serve solo per farci pensare di più e svegliarci. Ognuno di noi deve vivere come missionario, tentando di offrire all’altro il meglio di quanto uno ha incontrato e compreso.
Quando scopro un “prodotto” buono, la mia gioia è di passare l’informazione ai miei amici. Non è atto di propaganda commerciale, ma di simpatia e di stima. Così, il musulmano m’invita con semplicità a diventare musulmano e io l’invito con semplicità a diventare cristiano.
Due anni fa, due studenti iraniani che studiavano l’arabo a Beirut sono venuti a chiedermi di spiegar loro il cristianesimo, e a mio turno ho fatto loro delle domande sull’islam. Poi, ad un certo punto, mi hanno detto: “professore, il tempo ci manca e dobbiamo tornare in Iran, per favore accontentiamoci di parlare del cristianesimo”.
Questo gesto di Benedetto XVI è un grande salto per la convivenza fra i popoli. Al di fuori di questa piena identità testimoniata nella libertà, vi è solo il disprezzo verso chi non la pensa come me o il relativismo di chi non ha alcuna certezza – e che spesso si esprime con grande intolleranza.
[1] Anche l’islam ha bisogno di un movimento illuminista, che è esistito nel IX-X secolo, ma è stato sommerso dalla corrente religiosa tradizionalista.
[2] Il riferimento è al rischio di essere uccisi per “apostasia dall’islam”, come avviene in molti Paesi musulmani.
"Noi ex musulmani viviamo nel terrore"
Di Francesco De Remigis
Il Giornale
26 Marzo 2008
«Il mio nome è Hamid Laabidi. Il giorno che mi sono battezzato è il 25 aprile 1997». Comincia così il racconto di un uomo di origine marocchina che ha compiuto un percorso di fede per il quale tanti musulmani, anche in Italia, rischiano la persecuzione. Al Giornale Hamid, mediatore culturale di 42 anni, racconta com’è avvenuta la sua conversione al cristianesimo, tra le perplessità di alcuni correligionari e la diffidenza di chi vede un musulmano entrare in chiesa per la prima volta.
In provincia di Vercelli da quasi vent’anni, oggi vive a Borgosesia. Ricorda la difficoltà di un percorso di conversione maturato «dopo sei anni di ricerca spirituale portata avanti senza tagliare i ponti con gli altri musulmani». «Parlando con loro – racconta – avvertivo un pregiudizio, poi sono arrivate minacce concrete se fossi diventato cristiano e sono stato frenato.
Col tempo, però, ho capito che se noi ci sentiamo deboli e abbiamo paura di convertirci, i fanatici dell’islam si sentono forti e pensano di poterti spaventare». «Inizialmente ci hanno provato – spiega Hamid –. Ricordo gesti e parole violente nei miei confronti. Devo ringraziare la comunità cristiana che mi è stata vicina e la cittadinanza che ha rispettato il mio nuovo percorso. Gli altri musulmani, invece, sono stati messi di fronte al fatto compiuto. Si sono ritrovati un mediatore culturale cristiano. Se un immigrato musulmano aveva bisogno di me non poteva fare a mano di parlarmi. Così le cose si sono quasi normalizzate».
Ma nel frattempo il fanatismo di chi non accetta la libertà di culto è cresciuto nelle comunità islamiche italiane, spiega Hamid, soprattutto con l’ingresso di immigrati che lo hanno importato dai Paesi di origine, «dov’è inconcepibile che un fratello possa abbandonare l’islam».
Secondo Hamid è ancora troppa l’ignoranza che i governi di certi Stati arabi trasmettono ai cittadini, che mantengono il loro pregiudizio anche dopo l’arrivo in Italia. «Sembra più difficile scegliere liberamente il proprio credo qui che non a Rabat – conclude – dove ogni tanto faccio ritorno ed entro tranquillamente in chiesa».
In Italia ci sono infatti centinaia di convertiti che vivono in segreto la nuova condizione, almeno inizialmente. Alcuni sono riusciti a superare la paura grazie al sostegno di cittadini italiani.
Altri stanno chiedendo consiglio ad amici immigrati che vivono in Italia da più tempo. È il caso di Ahmed Mohamed, padovano di origine egiziana che al Giornale confida le difficoltà di un musulmano che vorrebbe convertirsi. Lui, per esempio, lo ha fatto soltanto a metà.
Non ha ricevuto il battesimo perché non si sente tutelato: «Lo Stato pensa che nelle comunità islamiche siamo tutti fratelli, mentre lo scorso anno hanno dato fuoco alla mia auto per intimorirmi. La diffidenza è molto forte – spiega – perché assumendo un nome cristiano si capisce che hai lasciato l’islam». Ahmed ha però superato le perplessità dei familiari e le ire di alcuni correligionari, assicurando almeno al suo primogenito il battesimo.
«Per i miei genitori è stato quasi un disonore quando mi sono presentato con un crocefisso addosso, mentre a Padova, dove la situazione è sempre più tesa, non posso certo ostentarlo».
La libertà religiosa è ancora tabù nelle comunità islamiche. Per questo è stata richiesta massima riservatezza da altri venti musulmani che hanno trovato il coraggio di ricevere il battesimo in Italia proprio in questi giorni. Sono diventati cristiani nelle festività pasquali, ma in segreto. Quattro egiziani sono stati battezzati in Sicilia, nel Palermitano.
Due tunisini in Calabria, una donna nel Viterbese. Altri due stanno invece valutando di sposarsi in una chiesa di Modena, sempre con il sostegno della comunità cristiana.
Eutanasia: «La soluzione ha un nome: cure palliative» Avvenire, 27 marzo 2008
Lo insegna l’esperienza di chi lavora sul campo: le richieste eutanasiche sono quasi sempre figlie di contesti di solitudine o depressione. La fine «dignitosa» che la gente cerca è quella che oggi offre la medicina palliativa. Parla l’esperto Gian Vito Romanelli, dell’Asl di Verona.
Nnon farsi cogliere, di fronte a una prognosi infausta, da una disperazione tale da essere indotti al suicidio. Oppure a formulare richieste eutanasiche. Sono innumerevoli le persone nel nostro Paese che potrebbero portare una testimonianza in questo senso. Ne parliamo con Gian Vito Romanelli, medico di famiglia esperto in cure palliative, che lavora nell’hospice San Giuseppe dell’Asl n. 20 di Verona.
Il tema dell’eutanasia ritorna in primo piano con i recenti casi del Belgio e della Francia
«Sono storie terribili: la tragedia di Hugo Claus riapre la discussione sulla demenza, che forse bisognerebbe iniziare a valutare come una malattia terminale, alla quale dare risposte assistenziali con le cure palliative. La vicenda di Chantal è più frequente e possibile, perché per una donna la trasformazione della propria immagine corporea comporta sempre un dramma. In entrambi i casi emerge un dato incontrovertibile: un uomo, se lasciato solo ad affrontare la sua sofferenza, pensa all’eutanasia come alla soluzione possibile. Del resto, anche la persona in preda alla depressione può pensare alla soluzione suicidaria come modo per mettere fine alle sue sofferenze. Resta il fatto che è sempre un momento in cui si è abbandonati. L’uomo ha bisogno, nei momenti difficili della sua esistenza, di sfogare la rabbia data dalla perdita del controllo sul suo corpo e l’angoscia della paura, condividendo tutto questo con qualcuno che l’accompagni nel suo personalissimo calvario, senza pietosità, ma aiutandolo a risolvere le sue angosce e a prepararsi, per quanto possibile, agli eventi ineluttabili che il suo destino gli offre»
C’è chi ritiene però che, di fronte a un episodio come quello francese emerga la necessità di una legislazione che regoli la morte assistita. Anche nel nostro Paese.
«Non credo che una legge possa dare agli operatori sanitari la serenità e la tranquillità necessarie per applicarla su tematiche così complesse e delicate. Ed effettivamente, la tendenza che si registra in alcuni Paesi in cui l’eutanasia è stata legalizzata già da tempo è quella di andare verso l’abbandono di questa scelta nefasta. Mi riferisco all’Olanda e ai dati resi noti lo scorso anno dal British medical Journal e che in questi giorni sono tornati alla ribalta».
Sul caso dello scrittore belga Hugo Claus, invece, è stata commessa da molti una imprecisione: hanno detto che sarebbe morto per sedazione palliativa.
«È un grave errore che va chiarito: nella medicina palliativa la differenza tra sedazione palliativa ed eutanasia è molto chiara. È dimostrato che i pazienti seguiti in un progetto assistenziale di medicina palliativa, sia in hospice che a domicilio, richiedono raramente l’eutanasia. L’eutanasia non è un atto terapeutico ed in genere viene richiesta quando l’ammalato ed i suoi familiari non si sentono accuditi e presi in carico dall’equipe curante. La sedazione palliativa, invece, è un atto terapeutico, proposto quando i sintomi del malato diventano refrattari alla cura. Lo scopo della sedazione non è il raggiungimento del decesso, ma l’attenuazione della percezione, da parte del paziente, dei sintomi».
Qualcuno potrebbe avanzare il dubbio che la sedazione palliativa acceleri il processo di morte.
«È chiaro che in pazienti che hanno una prognosi infausta, dopo la sedazione può iniziare quel processo irreversibile che chiamiamo 'fase agonica', che può durare anche giorni e che va controllata nel suo divenire, ma sempre nel rispetto del mistero della vita. Spesso, infatti, assistiamo a persone che sopravvivono giorni contro ogni logica scientifica. Sembra quasi che i concetti fisiologici e biochimici, vengano soppiantati da altre regole, che appartengono solo all’individuo».
Quale genere di risposta a suo parere si può dare all’opinione pubblica che di certo rimane scossa e provata da queste storie e che può sollevare richieste legislative improprie, o diritti a una camuffata autodeterminazione, solo sull’onda dell’emotività?
«La migliore risposta è l’informazione diretta e precisa di come la medicina palliativa può assistere, nella fase ultima della vita, pazienti affetti da malattie inguaribili, dando risposte puntuali e tempestive ai sintomi disturbanti e accompagnando il paziente e i suoi familiari nel processo di accoglimento di una morte accettabile e dignitosa. Ai parenti dei malati che assisto dico sempre di testimoniare, a quanti sono loro vicino, la possibilità di una cura efficace dei sintomi e la possibilità di una relazione di aiuto che attenui l’angoscia dell’ineluttabilità della fine».
di Francesca Lozito