Nella rassegna stampa di oggi:
1) Discorso del Papa alla Plenaria del Pontificio Consiglio “Cor Unum”
2) Ferrara una email mi ha cambiato la vita
3) Il Papa chiede il rilascio dell'Arcivescovo caldeo rapito in Iraq
4) LO SGUARDO DEL NEONATOLOGO SU «QUEL BIMBO»
5) Non esistono i diversi Ogni ragazzo è un pregio
6) Basta l’esame del gamete femminile
7) Ovociti, la diagnosi che «salva» gli embrioni
8) Ru486? Per la donna soffererenza doppia»
Discorso del Papa alla Plenaria del Pontificio Consiglio “Cor Unum”
CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 29 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Benedetto XVI nel ricevere in udienza, questo venerdì, i partecipanti alla Plenaria del Pontificio Consiglio "Cor Unum".
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Signor Cardinale,
venerati fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!
Sono lieto di incontrarvi in occasione dell’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio Cor Unum. A ciascuno di voi che prendete parte a quest’Incontro rivolgo il mio cordiale saluto. In particolare saluto il Cardinale Paul Josef Cordes, che ringrazio per le cortesi parole, Mons. Segretario e tutti i Membri e Officiali del Pontificio Consiglio Cor Unum. La tematica sulla quale state riflettendo in questi giorni - "Le qualità umane e spirituali di chi opera nell’attività caritativa della Chiesa" - tocca un elemento importante della vita ecclesiale. Si tratta, infatti, di coloro che svolgono nel Popolo di Dio un servizio indispensabile, la diakonia della carità. E proprio al tema della carità ho voluto dedicare la mia prima Enciclica Deus caritas est.
Colgo, pertanto, volentieri quest’occasione per esprimere particolare riconoscenza a coloro che, a diverso titolo, operano nel settore caritativo, manifestando con i loro interventi che la Chiesa si rende presente, in maniera concreta, accanto a quanti si trovano coinvolti in qualche forma di disagio e di sofferenza. Di quest’azione ecclesiale i Pastori hanno la responsabilità globale ed ultima, per quanto concerne sia la sensibilizzazione che la realizzazione di progetti di promozione umana, specialmente a favore di Comunità meno abbienti. Rendiamo grazie a Dio poiché sono molti i cristiani che spendono tempo ed energie per far giungere non solo aiuti materiali, ma anche un sostegno di consolazione e di speranza a chi versa in condizioni difficili, coltivando una costante sollecitudine per il vero bene dell’uomo. L’attività caritativa occupa così un posto centrale nella missione evangelizzatrice della Chiesa. Non dobbiamo dimenticare che le opere di carità costituiscono un terreno privilegiato di incontro anche con persone che ancora non conoscono Cristo o lo conoscono solo parzialmente. Giustamente, dunque, i Pastori e i responsabili della pastorale della carità dedicano un’attenzione costante a chi lavora nell’ambito della diakonia, preoccupandosi di formarli dal punto di vista sia umano e professionale, che teologico-spirituale e pastorale.
In questo nostro tempo si dà una grande rilevanza alla formazione continua tanto nella società quanto nella Chiesa, come dimostra la fioritura di apposite istituzioni e centri creati allo scopo di fornire utili strumenti per acquisire competenze tecniche specifiche. Indispensabile per chi opera negli organismi caritativi ecclesiali è però quella "formazione del cuore", di cui ho parlato nella citata Enciclica Deus caritas est (n. 31 a): formazione intima e spirituale che, dall’incontro con Cristo, fa scaturire quella sensibilità d’animo che sola permette di conoscere fino in fondo e soddisfare le attese e i bisogni dell’uomo. E’ proprio questo che rende possibile l’acquisizione degli stessi sentimenti di amore misericordioso che Dio nutre per ogni essere umano. Nei momenti di sofferenza e di dolore è questo l’approccio necessario. Chi opera nelle molteplici forme dell’attività caritativa della Chiesa non può, pertanto, contentarsi solo della prestazione tecnica o di risolvere problemi e difficoltà materiali. L’aiuto che offre non deve mai ridursi a gesto filantropico, ma deve essere tangibile espressione dell’amore evangelico. Chi poi presta la sua opera a favore dell’uomo in organismi parrocchiali, diocesani e internazionali la compie a nome della Chiesa ed è chiamato a lasciar trasparire nella sua attività un’autentica esperienza di Chiesa.
Una valida ed efficace formazione in questo settore vitale non può allora non mirare a qualificare sempre meglio gli operatori delle diverse attività caritative, perché siano anche e soprattutto testimoni di amore evangelico. Tali essi sono se la loro missione non si esaurisce nell’essere operatori di servizi sociali, ma nell’annuncio del Vangelo della carità. Seguendo le orme di Cristo, essi sono chiamati ad essere testimoni del valore della vita, in tutte le sue espressioni, difendendo specialmente la vita dei deboli e dei malati, seguendo l’esempio della Beata Madre Teresa di Calcutta, che amava e si prendeva cura dei moribondi, perché la vita non si misura a partire dalla sua efficienza, ma ha valore sempre e per tutti. In secondo luogo, questi operatori ecclesiali sono chiamati ad essere testimoni dell’amore, del fatto cioè che siamo pienamente uomini e donne quando viviamo protesi verso l’altro; che nessuno può morire e vivere per se stesso; che la felicità non si trova nella solitudine di una vita ripiegata su se stessa, ma nel dono di sé. Infine, chi lavora nell’ambito delle attività ecclesiali, deve essere testimone di Dio, che è pienezza di amore ed invita ad amare. La fonte di ogni intervento dell’operatore ecclesiale è in Dio, amore creatore e redentore. Come ho scritto nella Deus caritas est, noi possiamo praticare l’amore perché siamo stati creati a immagine e somiglianza divina per "vivere l’amore e in questo modo far entrare la luce di Dio nel mondo" (n. 39): ecco ciò a cui ho voluto invitare con questa Enciclica.
Quanta pienezza di significato potete quindi cogliere nella vostra attività! E quanto essa è preziosa per la Chiesa! Mi rallegro che, proprio per renderla sempre più testimonianza del Vangelo, il Pontificio Consiglio Cor Unum abbia promosso per il prossimo mese di giugno un corso di Esercizi Spirituali a Guadalajara per Presidenti e Direttori di organismi caritativi del Continente americano. Esso servirà a recuperare appieno la dimensione umana e cristiana a cui ho appena accennato, e spero che in futuro l’iniziativa si possa ampliare anche ad altre regioni del mondo. Cari amici, ringraziandovi per quel che voi fate, vi assicuro il mio affettuoso ricordo nella preghiera e su ciascuno di voi e sul vostro lavoro imparto di cuore una speciale Benedizione Apostolica.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Ferrara una email mi ha cambiato la vita
Prima il dubbio se rinunciare alla corsa elettorale. Poi il ripensamento grazie a un messaggio notturno. Giuliano Ferrara spiega la sua scelta. E racconta del suo primo incontro con un Papa, del suo ateismo goloso di teologia, della sua rinuncia a essere padre che ora lo opprime.
Fino a martedì scorso Giuliano Ferrara appariva indeciso. Era stanco, aveva dormito poco e male: l’aspetto tradiva l’angoscia di chi è incapace di sciogliere il dubbio, diviso tra la voglia di portare in Parlamento la battaglia «pro life» e il timore di seppellirla per sempre con un insuccesso elettorale. Insomma, non era aria da intervista, semmai da sfogo: «C’è chi mi spinge ad andare avanti e chi mi invita a fermarmi, dicono che ho già vinto, che sono riuscito a far discutere tutti di aborto. In realtà temono lo zero virgola, un risultato sotto le aspettative che taciterebbe ogni discussione sul tema della vita». L’ho lasciato, nel pomeriggio, più propenso al ritiro che alla candidatura, pronto a un accordo con il Pdl. In lista ci sarebbero stati gli alfieri della moratoria contro l’aborto, ma non lui, che si sarebbe messo da parte. Ma già mercoledì mattina il clima era cambiato e l’Elefantino era tornato battagliero.
Che ti è successo?
Nulla. A notte alta ho pensato che non potevo tergiversare. Ho ricevuto molte pressioni, anche da amici: hanno fatto ricorso perfino ad ampie citazioni di vecchi discorsi di Papa Ratzinger a favore di un compromesso. Volevano che mi fermassi. Una misura di realismo politico, che non danneggiasse la battaglia culturale intrapresa.
Di inviti te ne sono arrivati da «Avvenire», «Famiglia cristiana», Comunione e liberazione...
Ma, come mi è stato insegnato, quando c’è un impulso di coscienza rettamente formato bisogna proseguire. Il mio si è formato in modo tortuoso, non religioso, ma è un impulso chiarissimo. Per cui, con cuore allegro, farò una campagna elettorale civilissima, senza fanatismi, imponendo un tema.
Non me la racconti giusta. Ieri non sapevi che fare, oggi non hai un dubbio. Chi è stato?
Il cognome non lo faccio per discrezione: si chiama Cristiano. È un ragazzo di Brescia, competente e buono, che si occupa del sito online del Foglio. Non sapevo che fosse della mia partita, ma ieri, all’una di notte, mi ha mandato una email in cui mi esortava ad andare avanti. Io l’ho letta alle 3, mentre insonne cercavo di decidermi. C’era allegato un video, un pezzo di Ogni maledetta domenica, il film in cui Al Pacino, allenatore di una squadra di football, incita i suoi giocatori: «Diamoci dentro, conquistiamocelo centimetro per centimetro». E noi questa battaglia la faremo centimetro per centimetro.
Nemmeno un aiutino dai vescovi?
Io credo che la Chiesa, nella sua immensa saggezza, voglia coprire tutto l’arco delle scelte possibili. I liberaldemocratici che stanno nel Pdl, ma anche, sebbene siano messi male, i cattolici che sono nel centrosinistra. È attenta, forse per ragioni inerziali, perfino al partito di centro.
Ma ti guardano con simpatia.
Ho ragione di credere che, pur senza farsi coinvolgere direttamente, l’esperimento di una lista su un tema generale e culturale come quello della vita ai vescovi non dispiaccia.
Hai la benedizione di Benedetto XVI.
No, quello lo dice don Gianni Baget Bozzo, che mi invita ad andare avanti.
Ma nella chiesa di Santa Maria Liberatrice domenica scorsa il Papa s’è intrattenuto a stringerti la mano...
È stato gentile, si è fermato due volte. Ma vuoi che ti dica com’è nato quell’incontro? Sabato scorso sono andato al bar sotto casa, lo faccio ogni mattina, e la cassiera Simona mi ha detto: «Lo sa che domani arriva il Papa?». Solo allora mi sono ricordato che il parroco mi aveva dato una lettera, che ho ritrovato a fatica sotto una montagna di carte. Senza Simona avrei mancato l’appuntamento con quella carismatica figura.
Sei affascinato dal Pontefice?
Beh, tutti noi romani siamo un po’ papisti, ma il mio interesse viene da quand’ero ragazzino. Un giorno, mentre tornavo da scuola con i libri sottobraccio, vidi Paolo VI. Allora non c’erano tutte le misure di sicurezza che ci sono oggi e ci si poteva avvicinare. Il Papa stava su una Mercedes nera, decappottabile, e mi fece molta impressione.
Ma tu non avevi un’educazione religiosa...
La mia era una famiglia di atei materialisti, anche se i miei si erano sposati davanti al prete, perché in quegli anni la linea di Palmiro Togliatti era d’intesa con la Chiesa e il Pci invitava i suoi dirigenti al matrimonio cristiano. Però non aver avuto un’educazione religiosa è il mio cruccio. Ho scoperto tardi la teologia, i libri di Sant’Agostino, Ugo di San Vittore e Anselmo d’Aosta...
Li hai letti quando hai smesso di essere comunista?
No, ho cominciato a leggere Itinerarium mentis in Deum di San Bonaventura a 17 anni. Allora andavo male in trigonometria e in algebra, ma ero affascinato dalla filosofia medioevale e dalla teologia. Poi negli anni ho letto molti altri testi, ma per cultura personale, per edificazione.
Di’ la verità: ti stai convertendo?
No. Conversione significa inginocchiarsi e pregare, entrare in comunione con Cristo: io da tutto ciò sono lontano come lo ero prima, o vicino come lo ero prima. Semplicemente mi sono trasferito nel corso del tempo dal mio mondo a questo altro mondo, dove si pensa, si custodiscono le più belle biblioteche, si cercano le radici della vita dell’uomo.
Nella storia della Chiesa i convertiti spesso sono diventati integralisti.
Te lo ripeto: io sono credente, ma nel senso che non sono una persona scettica. Ho fede, nel senso che ho fiducia. Se poi devo farmi una critica, sì, sono a rischio fanatismo, perché sono uomo dai giudizi netti. Per me due più due fa quattro e non ci sono altre sfumature.
Mai sentito il bisogno di confessarti?
No, ho i normali tormenti di chi vive in un mondo borghese-cristiano, ma non sono afflitto dalla sindrome di don Giovanni.
E il senso del peccato?
Ce l’ho molto. Quando dal Parlamento europeo cacciarono Rocco Buttiglione perché aveva usato la parola peccato, scrissi un articolo in cui accusai i laici di aver espulso dal vocabolario proprio il senso del peccato.
Oggi difendi il diritto alla vita, quando avevi 20 anni hai lasciato che la tua ragazza abortisse. Provi pentimento?
Non ne parlo volentieri. L’ho fatto tempo fa in risposta a una lettera di Adriano Sofri, che mi diceva che non si può fare una battaglia sincera se non si è sinceri anche nella dimensione personale. Ne ho parlato allora e mi è venuto male. Quando accadde, io avevo 21 anni e lei 19: mi voltai dall’altra parte, ma all’epoca non era neppure discutibile. Era così e basta. Era la cultura mia e dei miei genitori. Ma la cultura non elude la nostra responsabilità personale, la mia responsabilità.
Ci pensi mai?
Sì, e ritengo che sia stata una cosa tremenda. Non lo dico con le lacrime agli occhi, ma penso che ho avuto successo, ho fatto tanti soldi, ho vissuto tante avventure e sarebbe stato bello avere dei bambini da allevare, avere dei compagni di vita. Oggi sarebbero tre uomini fra i 35 e i 25 anni. La mia è stata una negazione della vita.
Hai il senso della paternità?
Certo che ce l’ho. L’avevo perfino con mio padre, che mi diceva: «Mi tratti come se fossi tuo figlio». Lui era un gran credente, un bigottone. Il suo dio era comunista e quando il comunismo crollò si sentì perso.
Hai mai pensato di adottare un bambino?
No, ma ho adottato i redattori del Foglio.
Per polemizzare con chi protestava per l’intervento dei carabinieri durante un aborto, a Napoli, hai detto che anche tu, forse, avevi la sindrome di Klinefelter, come il feto abortito. Hai fatto gli esami?
Purtroppo non ce l’ho. Me lo ha comunicato il medico qualche giorno fa. Mi ha chiamato e mi ha detto: «Ho una brutta notizia». Simpatizzava con me.
Chi porti in questa battaglia?
Gli amici che hanno condiviso con me la campagna sulla moratoria. Paola Bonzi, la mia dea, una splendida donna che a Milano convince le donne a non abortire. Leandro Aletti, un ginecologo che ha speso tutta la vita per questa causa. E poi tanta gente, giovani e donne.
Anche di sinistra?
Sì, anche di sinistra. C’è una ragazza del Pd pronta a candidarsi, ma non voglio fare il radicale che sbandiera i nomi.
Susanna Tamaro si candida con te?
Gliel’ho chiesto. Ha rifiutato. Conduce una vita riservata e, anche se è totalmente solidale, non ci sarà. È una donna esile e piccina, molto simpatica, che ci è venuta a trovare al Foglio e ha partecipato anche alla nostra riunione di redazione.
Perché Comunione e liberazione è tiepida sulla tua lista e non ti appoggia?
È una cosa comprensibile: i cristiani veri pensano che la soluzione di ogni problema sia la conversione. È una sorta di relativismo cristiano. Nelle cose terrene sentono puzzo di morale laica e invece loro nell’operare umano sono molto più pragmatici.
Non pensi che rischi di far perdere le elezioni al Cavaliere?
Io credo che non succederà nulla. Noi ci presenteremo solo alla Camera, dove non saremo determinanti per il successo né del Pd, né del Pdl. In pratica chiediamo il doppio voto: al Senato votate chi volete, alla Camera scegliete una lista contro l’eugenetica e l’indifferenza morale verso il maltrattamento della vita umana. Se lo troveranno lì, il nostro simbolo, nella cabina elettorale: un po’come un occhio che ti guarda.
Dio ti vede anche nel segreto dell’urna: era un vecchio slogan elettorale dei cattolici.
Ma io non sono né Luigi Gedda né padre Riccardo Lombardi.
E se perdi?
Sarò stato sconfitto io, non l’idea.
Non entrerai in Parlamento...
Vuoi che ti dica la verità? Io non sono un politico, non ho il cinismo della politica. Ho la passione della politica. Mi piace discutere, far girare le idee, ma non fare il politico. Credo di non esserne neppure capace. Anzi, se non fosse la battaglia per la vita, non mi candiderei nemmeno.
di Maurizio Belpietro
Panorama - n. 10 del 2008 (6/3/2008)
Il Papa chiede il rilascio dell'Arcivescovo caldeo rapito in Iraq
E auspica “che il popolo iracheno ritrovi cammini di riconciliazione e di pace”
CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 29 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Non appena informato del rapimento di monsignor Paulos Faraj Rahho, Arcivescovo di Mossul dei Caldei, in Iraq, avvenuto questo venerdì pomeriggio, Benedetto XVI ha fatto appello ai rapitori per la sua liberazione.
In alcune dichiarazioni all'agenzia “Misna”, l’Arcivescovo siriaco di Mossul, monsignor Baptiste Georges Casmoussa, ha riferito che il presule “usciva dalla chiesa del Santo Spirito dopo aver celebrato la 'via crucis' quando è stato avvicinato da alcuni uomini che lo hanno prelevato insieme all’autista e ad altri due suoi collaboratori”.
Secondo fonti della polizia le due guardie del corpo di monsignor Rahho e il suo autista sono rimasti uccisi durante uno scontro a fuoco con i sequestratori; una guardia del corpo e l’autista sono morti sul posto, mentre la seconda guardia del corpo è deceduta all’ospedale per le ferite riportate.
Una fonte locale, ascoltata sempre dall'agenzia “Misna”, ha rivelato che nei giorni scorsi l’Arcivescovo Rahho aveva detto a un confratello di avere ricevuto una telefonata da qualcuno che gli chiedeva 50.000 dollari, affermando che “gli iracheni hanno sofferto troppo” a causa della guerra.
Stando a quanto riferito dall'agenzia missionaria “AsiaNews”, i rapitori avrebbero già stabilito un contatto e avanzato delle richieste.
Secondo una nota emessa questo venerdì dal Vaticano il fatto che il rapimento sia avvenuto al termine di una via crucis, “un rito religioso assai caro e partecipato dai fedeli in Iraq”, “fa pensare che l’azione criminosa sia stata premeditata”.
“Amareggiato per tale nuovo esecrabile atto, che colpisce profondamente l’intera Chiesa nel Paese e in particolare la Chiesa Caldea, il Papa si sente vicino al Patriarca Card. Emmanuel III Delly e a tutta quella provata comunità cristiana, come pure ai familiari delle vittime”, si legge poi.
“Il Sommo Pontefice – continua la nota – invita la Chiesa universale ad unirsi alla sua fervente preghiera affinché prevalgano negli autori del rapimento ragione e umanità e Mons. Rahho venga restituito quanto prima alla cura del suo gregge”.
Infine, il Papa “rinnova anche l’auspicio che il popolo iracheno ritrovi cammini di riconciliazione e di pace”.
NO A LIMITI APRIORISTICI
LO SGUARDO DEL NEONATOLOGO SU «QUEL BIMBO» Avvenire, 1.3.2008
MARINA CORRADI
Se presenta segni di vitalità il neonato prematuro deve essere rianimato, indipendentemente dall’età gestazionale e anche dal consenso dei genitori. Il parere espresso – a larga maggioranza – dal Comitato nazionale di bioetica non prevede alcuna 'età' minima del feto. Chiede semplicemente che sia vitale, e affida questo giudizio alla scienza e coscienza del medico.
Un pronunciamento netto, che per essere compreso va letto dentro la logica di sale parto in cui i secondi per decidere sono pochissimi, e gli elementi di valutazione frequentemente incerti: a cominciare dalla stessa età gestazionale, che spesso non è accertabile con assoluta precisione. Pochi secondi, per scegliere tra la vita e la morte.
In base a cosa decidere? In alcuni Paesi nordici il paletto è rigido, sotto alle 24 settimane non si rianima – eccessivi i costi delle cure, e degli eventuali handicap. È la linea espressa mesi fa da una bozza di documento di medici italiani, che ipotizzavano una soglia per la rianimazione a 23 settimane. Invece il Comitato rigetta la statistica come criterio, e riporta al centro il singolo bambino prematuro. Non contano le tabelle, le percentuali, le possibilità sulla carta: conta lo sguardo del neonatologo su 'quel' bambino, e la chance che, se è vitale, gli si deve dare.
La scelta del Comitato non vuole dire oltranzismo o accanimento terapeutico: se nell’istante del parto si deve dare una opportunità a tutti, viene poi il momento di valutare se ossigeno e terapie servono solo a ritardare una morte inevitabile, dunque se sono accanimento terapeutico. La sostanza del documento approvato non sta certo dunque in un vitalismo estremista, ma nel rifiuto a fissare limiti aprioristici e rigidi alla rianimazione; sta in un 'no' a una medicina astratta, e in un 'sì' alla valutazione, ogni volta, di ogni singolo caso.
È, in fondo, una questione di contrapposte culture. Quella olandese che nega l’ossigeno se un prematuro non ha 24 settimane è una evidence based medicine scrupolosamente attenta alle statistiche di sopravvivenza e agli handicap più o meno gravi, nonché ai costi di certe patologie, in un’ottica già in odore di eugenetica. Se la 'finestra' di possibilità di vita in perfetta salute appare troppo stretta, certa sanità nordica non si mette nella sfida. Calcola per numeri, e non singole possibilità di vita. La mediterranea differenza che ci auguriamo il pronunciamento di ieri possa preservare è nell’attenzione a ogni uomo come a qualcosa di irripetibile; e, anche, in un rinnovato patto di fiducia con i medici, cui non vuole dare norme precostituite, ma dice solo: valuta tu se quel figlio è vitale, sei un medico, ci fidiamo di te.
Antica, insopprimibile alleanza: può forse la legge decidere nei dettagli cosa è da fare nel qui e ora drammatico e imponderabile di una sala parto? Quel giudizio non può essere che del medico: e anche senza il consenso dei genitori. Il consenso invece verrà chiesto per proseguire le cure, nel caso si proceda a una sperimentazione. Ma, nell’atto di dare una estrema irripetibile chance, nessun consenso deve essere chiesto. Perché il figlio, una volta separato dalla madre, nel Diritto occidentale diventa titolare di un proprio diritto alla vita. Solo in certe culture primitive il nato è 'cosa' nella disponibilità del padre.
La larga maggioranza ottenuta dal documento conforta. Tra tanti scontri, almeno qualcosa di condiviso: ogni nato vitale va rianimato, senza statistiche, senza permessi. Perché non appartiene né a sua madre né a suo padre. È, semplicemente, un uomo.
Non esistono i diversi Ogni ragazzo è un pregio
Avvenire, 1.3.2008
DAVIDE RONDONI
Li chiamano bulli. Li chiamano ragazzini difficili. Li hanno messi sulle pagine dei giornali.
Prima molto spesso, poi di meno. Ogni tanto, un episodio, un fattaccio. Da archiviare ormai facilmente sotto la schedatura 'fatti di bullismo'.
Comoda, già anestetizzata nel diventare una schedatura, una classificazione. E invece, come scriviamo da molto tempo qui, e ben da prima che la valanga di fatti più o meno gravi, ci costringesse a voltarci tutti, almeno un attimo, dalla parte dei nostri ragazzini, ecco da molto prima scrivevamo qui, quasi supplicando i potenti, quelli che hanno voce in capitolo, che hanno mezzi, e dovrebbero avere conseguente responsabilità: guardateli, i nostri ragazzini d’Italia, sono loro la bomba sui cui siamo seduti. Nel senso che mentre tutti parlano di fisco, di tariffe e di altri problemi certo rilevanti, rischiamo di non vedere che nei nostri ragazzini sta succedendo qualcosa.
Certo, non tutti sono bulli. Non tutti, com’è accaduto a Torino, picchiano di brutto un compagno di scuola tanto bravo a danzare da poter sognare di emulare Nureyev. Ma non tutti capiscono che non esistono i diversi, e che ogni ragazzo – che balli o giochi a pallone – è un pregio (ecco perché, oggi, su Popotus ci si torna a scrivere e ragionare su).
Eppure, chiaro, non tutti sono bulli. E alcuni episodi hanno precise radici in disagi personali, o addirittura disturbi, che meritano attenzioni particolari. Ed è anche vero che si è fatta largo tra commentatori e politici l’espressione «emergenza educativa» che anche da queste pagine ha preso le mosse. Però la bomba non è disinnescata solo perché se ne parla. La bomba intesa non come deflagrazione, come chissà che evento visibile e catastrofico. Un poeta ha scritto che il mondo non finirà con uno schianto ma con un lamento. Ecco, qualcosa del genere. Sembra quasi che i nostri ragazzini, cioè il nostro futuro, esprimano – a volte anche con atteggiamenti violenti – una specie di lamento, di disagio nella relazione con il reale. Una specie di sofferenza, pronta in certi casi a mutarsi in ira, sorda o esclamante, contro se stessi o contro gli altri. È un’età delicata, dove si formano le cavità della persona, dove si fanno le prime esperienze di percezione esaltante di sé e si avvertono i primi abissi.
Cosa stiamo offrendo alle loro vite in formazione ? Adulti spesso paurosi, specialisti di tante magnifiche scienze, abilissimi in nuove tecnologie di cui riempiamo pure loro, e però sperduti e incerti dinanzi alle cose fondamentali dell’esistenza. Offriamo scuole spesso ridotte a recinti della depressione burocratica ed esistenziale, e poi montagne di detriti televisivi, banalità a go-go, voci di speaker di continuo da radio chiacchierone, siti web che ciarlano in modo vacuo di tutto… Per poi stupirci che la accesa energia vitale di un ragazzino, da protagonista, o da spettatore non innocente, si vada esprimendo con raptus, con ire incontrollate, con amputazioni e defaillance nella normalità delle relazioni? Ma che normalità si può chiedere a ragazzini immersi troppo spesso in lunghe solitudini, o in contenitori passatempo, in relazioni distorte tra adulti, sospinti a percepire la vita con un’ansia febbrile con sorrisi finti, stampati sul viso a uso dei flashes?
Ora in tanti, forse in troppi e vanvera, parlano di emergenza educativa. Va quasi di moda, se non fosse una moda cinica. Poi ci sono alcuni, sempre pochi, che si rimboccano le maniche, e prestano tempo e attenzione a loro.
Fanno con i ragazzi il loro dovere, e anche più del loro dovere. Come è giusto quando c’è una emergenza. Come è giusto quando si ama. Di costoro non si occupano quasi mai i giornali. Io vorrei scrivere qui alcuni dei loro nomi. Come una notizia controcorrente, perché la speranza dell’Italia più che dai prossimi candidati passa da gente come loro: Eugenio, Elena, Franco, Gianfranco, Francesco, Andrea, Daniela, Barbara, Sabina, Nicola…
DA SAPERE
Basta l’esame del gamete femminile
Avvenire, 1.3.2008
DA ROMA
L a nuova tecnica di diagnosi preconcepimento, descritta nella rivista Prenatal Diagnosis, presentata ieri a Roma dal Laboratorio Genoma, è incentrata sull’ovulo. Cioè sul gamete femminile, prima che sia fecondato dallo spermatozoo, quando ancora l’embrione non c’è come invece accade nel caso della diagnosi preimpianto, tanto sollecitata dai critici della legge 40. In questo senso la nuova tecnica rispetta i criteri etici della legge sulla fecondazione assistita, ma si muove nell’ipotesi di un’estensione delle tecniche alle coppie non infertili portatrici di malattie genetiche. La diagnosi preconcepimento dell’ovulo viene condotta su una struttura chiamata globulo polare: è il nucleo che viene prodotto quando avviene l’ovulazione e che contiene in modo speculare il patrimonio genetico della donna. È racchiuso tra il nucleo e la membrana dell’ovocita e viene naturalmente espulso nel processo di maturazione. Analizzando il patrimonio genetico racchiuso in questo nucleo-specchio, è possibile, secondo il fondatore di Genoma, il biologo Francesco Fiorentino, eseguire un’indagine cromosomica del gamete femminile. Su questa base sono stati selezionati tre ovociti sani, fertilizzati poi con la tecnica Icsi, nella quale la cellula germinale maschile viene introdota nell’ovulo. I tre embrioni sono stati impiantati come prevede la legge, ottenendo una gravidanza.
Ovociti, la diagnosi che «salva» gli embrioni
DA ROMA
Avvenire, 1.3.2008
PIER LUIGI FORNARI
Presentata ieri a Roma una nuova procedura nei processi di procreazione medicalmente assistita che, al posto della diagnosi preimpianto tanto invocata dai critici della legge 40, introduce una diagnosi preconcepimento effettuata sugli ovociti, dunque non sugli embrioni. La tecnica che è stata elaborata dal Laboratorio Genoma, fondato dal biologo molecolare Francesco Fiorentino, rispetta dunque il divieto della diagnosi preimpianto sull’embrione contenuto nella legge 40.
L’équipe coordinata da Fiorentino è arrivato per questa via alla prima gravidanza, adesso già al terzo mese, utilizzando questa tecnica per una coppia laziale infertile, nella quale la donna è portatrice della malattia di CharcotMarie-Tooth, una sindrome neurologica ereditaria. La fecondazione è stata attuata con la speciale procedura di fecondazione assistita (Icsi) al Centro di medicina e biologia della riproduzione dell’European Hospital di Roma, diretto dal professor Ermanno Greco.
Lo scopo della tecnica è quello di diagnosticare la possibile trasmissione di malattie come la talassemia, la fibrosi cistica e la distrofia muscolare, che affliggono delle coppie in Italia, già nell’ovocita. Il pregio etico è dunque che si seleziona l’ovocita e non l’embrione.
«La legge 40 - ha affermato Fiorentino – ha tanti aspetti negativi, ma in questo caso ha avuto quello positivo di imporci, di darci la possibilità di escogitare una tecnica diversa dalla diagnosi preimpianto, senza quel divieto non saremmo mai arrivati all’analisi preconcepimento ». Inoltre Fiorentino ritiene, che dato il divieto presente nella norma della produzione di più di tre embrioni e l’obbligo di impiantarli tutti, «pur ammettendo la diagnosi preimpianto, è preferibile la diagnosi preconcepimento che consente maggiore efficienza, ed il rispetto di principi etici». Ma proprio il rispetto di questi valori dovrebbe secondo Fiorentino consentire un cambiamento non indifferente della legge 40: l’ammissione alla fecondazione assistita anche dei portatori di malattie genetiche non infertili.
L’analisi preconcepimento viene condotta su una struttura chiamata globulo polare: è il nucleo che viene prodotto quando avviene l’ovulazione e che contiene in modo speculare il patrimonio genetico della donna. Analizzando il patrimonio genetico racchiuso in questo nucleo-specchio, è possibile, secondo Fiorentino, fare la diagnosi cromosomica dell’ovocita.
Da un’indagine condotta dal ricercatore, prima che in Italia venisse adottata la legge 40, ha puntualizzato il direttore dell’European Hospital, Ermanno Greco, emerge che il 95,6% delle coppie che richiedeva al centro la diagnosi preimpianto avrebbe potuto servirsi di quella preconcepimento evitando così il test sugli embrioni.
«La nuova tecnica è eticamente impeccabile», secondo Greco ed anche, «meno invasiva poiché con la diagnosi preimpianto vengono comunque prelevate due cellule dall’embrione». A giudizio dell’esperto sarebbero già molte le coppie italiane in attesa di sottoporsi alla diagnosi genetica preconcepimento, per evitare viaggi all’estero, dove le pratiche diverrebbero sempre più costose. Tra l’altro la coppia che ha ricorso alla diagnosi preconcepimento si è recata anche all’estero, non riuscendo nel suo intento.
Commentando la notizia, la ginecologa Eleonora Porcu, responsabile del Centro di sterilità e fecondazione assistita del Policlinico Sant’Orsola Malpighi di Bologna, esprime soddisfazione perché tra l’altro nella conferenza stampa di presentazione della diagnosi preconcepimento «finalmente emergono contenuti positivi della legge 40, così a torto bistrattata. È la dimostrazione che un limite etico può essere un buon incentivo scientifico ».
La ginecologa, che ha introdotto la tecnica di congelamento dell’ovocita femminile, alternativa al congelamento degli embrioni, trova che la tecnica della diagnosi del gamete femminile al posto dell’embrione, risponda allo stesso modo ad «un maggior rispetto dei principi etici». La ricercatrice sottolinea comunque che la sua tecnica è rispettosa del limite introdotto dalla legge di consentire la fecondazione medicalmente assistita solo alle coppie infertili.
LA DIFESA DELLA VITA
«Le ricerche del professor Greene pubblicate sul New England Journal of Medicine dimostrano che le complicazioni dopo l’assunzione della pillola abortiva richiedono quasi sempre ricoveri d’urgenza»
Ru486? Per la donna soffererenza doppia»
Puccetti: all’aborto farmaceutico si aggiunge spesso quello chirurgico
Avvenire, 1.3.2008
DA GENOVA ANDREA BERNARDINI
« I dubbi sull’aborto farmacologico non derivano dalla adesione acritica alle opinioni del Papa o dei vescovi. Si fondano sullo studio della letteratura medica». Renzo Puccetti, 42 anni, pisano, medico internista, ha risposto così sul 'Foglio' di ieri al senatore Ignazio Marino, presidente della commissione sanità, che aveva asserito come «la questione della Ru486 andrebbe affrontata in maniera non ideologica ».
Puccetti nei mesi scorsi ha coordinato un gruppo di lavoro (Gisam, Gruppo interdisciplinare studio aborto medico) che, riunendo specialisti di aree diverse con l’intento di valutare criticamente i dati messi a disposizione dalla letteratura scientifica, ha prodotto un documento, che sarà pubblicato sul numero di marzo della rivista ufficiale della Società italiana di ginecologia ed ostetricia, Italian Journal of Gynaecology and Obstetric.
Dottor Puccetti, andiamo al sodo: l’aborto farmacologico è più o meno sicuro di quello chirurgico?
Nella nostra ricerca abbiamo individuato un solo studio che esamina la mortalità delle due tecniche in modo comparativo a parità di età gestazionale. Si tratta dello studio del professor Greene (Usa) pubblicato nel dicembre 2005 sull’autorevolissimo New England Journal of Medicine; da questo emerge come l’aborto farmacologico sia gravato da un tasso di mortalità dieci volte maggiore rispetto a quello chirurgico a parità di età gestazionale. Anche le complicanze che hanno richiesto il ricovero ospedaliero per essere trattate sono più frequenti con la tecnica abortiva farmacologica».
Nel documento Gisam si parla anche di donne la cui morte è collegabile all’assunzione della pillola abortiva…
I decessi hanno seguito vari percorsi eziopatogenetici, infettivi, emorragici, allergici. Le donne decedute erano giovani, sane, seguite dopo l’aborto a domicilio e la sintomatologia è insorta nelle sepsi mortali in modo assai subdolo, prima di evolvere fino all’exi- tus con notevole rapidità.
In Toscana si sta sviluppando un 'modello' cui altre regioni dicono di guardare con interesse. Il protocollo adottato prevede un ricovero ordinario di tre giorni. Sono sufficienti?
Non sempre: talora ne servono di più. Addirittura non c’è unanimità di giudizio sui criteri da adottare per definire la riuscita dell’aborto.
Molte delle donne, una volta assunta la pillola abortiva, firmano il foglio di dimissioni volontarie dall’ospedale… non c’è il pericolo che il feto venga espulso senza la presenza del medico?
La letteratura internazionale parla di un 5% delle donne che espelle l’embrione prima del secondo farmaco. Riferisce anche di donne che hanno espulso l’embrione in auto nel viaggio di ritorno e di altre che non sanno dire quando ciò sia avvenuto. Un dato preoccupante è che in molte casistiche mancano notizie circa le donne che non si presentano alle visite di controllo. E non sono poche. Quanto alla Toscana, disponiamo solo di dati quantitativi: sappiamo, ad esempio, che, tra il dicembre 2005 ed il novembre 2007, sono state eseguite 542 interruzioni di gravidanza farmacologiche; e che tra queste in 77 casi è stato necessario effettuare un intervento di revisione chirurgica. Una donna su sette, ha, cioè, subito un doppio intervento abortivo.
Il vostro rapporto dimostra come nei paesi in cui si fa uso da tempo della pillola abortiva, la propensione all’aborto è aumentata…
Sì, nei Paesi dove si è sperimentato più a lungo la Ru486, è aumentata la propensione ad abortire le gravidanze già avviate. L’associazione esiste ed è statisticamente significativa, ma per spiegarne le ragioni serviranno ulteriori studi con idoneo disegno sperimentale.