giovedì 6 marzo 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI presenta la figura di San Leone Magno
2) Intervista ad Oswaldo Payá, dissidente cubano
3) Quell’aborto invisibile più duro del chirurgico
4) Dossier del Mpv sull’aborto per i candidati alle politiche
5) Ogni dono è uno scambio



Benedetto XVI presenta la figura di San Leone Magno
Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 5 marzo 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole di saluto e il discorso pronunciati questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale, tenutasi prima nella Basilica vaticana e poi nell'Aula Paolo VI, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura di San Leone Magno.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Sono lieto di accogliervi in questa Basilica e di rivolgere a tutti il mio cordiale benvenuto. Saluto voi, rappresentanti dell’Opera Madonnina del Grappa e del Movimento Speranza e vita, e vi incoraggio ad approfondire sempre di più la vostra vita di fede, tenendo presenti gli insegnamenti del vostro fondatore p. Enrico Mauri. Non stancatevi di affidarvi a Cristo e di testimoniarlo in ogni ambiente.
Saluto gli insegnanti, gli alunni e i genitori delle Scuole gestite dalle Apostole del Sacro Cuore di Gesù. Cari amici, vi ringrazio per la vostra presenza così numerosa ed auguro a ciascuno di vivere questo tempo della scuola come occasione propizia per una autentica formazione integrale. Vi incoraggio a rafforzare la vostra adesione al Vangelo per essere sempre disponibili e pronti a compiere la volontà del Signore. Saluto, infine, tutti voi, studenti dei vari Istituti scolastici e vi assicuro la mia preghiera affinché lo Spirito Santo infonda nei vostri cuori la vera gioia e vi colmi dei suoi doni.
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Cari fratelli e sorelle,
proseguendo il nostro cammino tra i Padri della Chiesa, veri astri che brillano da lontano, nel nostro incontro di oggi ci accostiamo alla figura di un Papa, che nel 1754 fu proclamato da Benedetto XIV Dottore della Chiesa: si tratta di san Leone Magno. Come indica l’appellativo presto attribuitogli dalla tradizione, egli fu davvero uno dei più grandi Pontefici che abbiano onorato la Sede romana, contribuendo moltissimo a rafforzarne l’autorità e il prestigio. Primo Vescovo di Roma a portare il nome di Leone, adottato in seguito da altri dodici Sommi Pontefici, è anche il primo Papa di cui ci sia giunta la predicazione, da lui rivolta al popolo che gli si stringeva attorno durante le celebrazioni. E’ spontaneo pensare a lui anche nel contesto delle attuali udienze generali del mercoledì, appuntamenti che negli ultimi decenni sono divenuti per il Vescovo di Roma una forma consueta di incontro con i fedeli e con tanti visitatori provenienti da ogni parte del mondo.
Leone era originario della Tuscia. Divenne diacono della Chiesa di Roma intorno all’anno 430, e col tempo acquistò in essa una posizione di grande rilievo. Questo ruolo di spicco indusse nel 440 Galla Placidia, che in quel momento reggeva l’Impero d’Occidente, a inviarlo in Gallia per sanare una difficile situazione. Ma nell’estate di quell’anno il Papa Sisto III – il cui nome è legato ai magnifici mosaici di Santa Maria Maggiore – morì, e a succedergli fu eletto proprio Leone, che ne ricevette la notizia mentre stava appunto svolgendo la sua missione di pace in Gallia. Rientrato a Roma, il nuovo Papa fu consacrato il 29 settembre del 440. Iniziava così il suo pontificato, che durò oltre ventun anni, e che è stato senza dubbio uno dei più importanti nella storia della Chiesa. Alla sua morte, il 10 novembre del 461, il Papa fu sepolto presso la tomba di san Pietro. Le sue reliquie sono custodite anche oggi in uno degli altari della Basilica vaticana.
Quelli in cui visse Papa Leone erano tempi molto difficili: il ripetersi delle invasioni barbariche, il progressivo indebolirsi in Occidente dell’autorità imperiale e una lunga crisi sociale avevano imposto al Vescovo di Roma – come sarebbe accaduto con evidenza ancora maggiore un secolo e mezzo più tardi, durante il pontificato di Gregorio Magno – di assumere un ruolo rilevante anche nelle vicende civili e politiche. Ciò non mancò, ovviamente, di accrescere l’importanza e il prestigio della Sede romana. Celebre è rimasto soprattutto un episodio della vita di Leone. Esso risale al 452, quando il Papa a Mantova, insieme a una delegazione romana, incontrò Attila, capo degli Unni, e lo dissuase dal proseguire la guerra d’invasione con la quale già aveva devastato le regioni nordorientali dell’Italia. E così salvò il resto della Penisola. Questo importante avvenimento divenne presto memorabile, e rimane come un segno emblematico dell’azione di pace svolta dal Pontefice. Non altrettanto positivo fu purtroppo, tre anni dopo, l’esito di un’altra iniziativa papale, segno comunque di un coraggio che ancora ci stupisce: nella primavera del 455 Leone non riuscì infatti a impedire che i Vandali di Genserico, giunti alle porte di Roma, invadessero la città indifesa, che fu saccheggiata per due settimane. Tuttavia il gesto del Papa – che, inerme e circondato dal suo clero, andò incontro all’invasore per scongiurarlo di fermarsi – impedì almeno che Roma fosse incendiata e ottenne che dal terribile sacco fossero risparmiate le Basiliche di San Pietro, di San Paolo e di San Giovanni, nelle quali si rifugiò parte della popolazione terrorizzata.
Conosciamo bene l’azione di Papa Leone, grazie ai suoi bellissimi sermoni – ne sono conservati quasi cento in uno splendido e chiaro latino – e grazie alle sue lettere, circa centocinquanta. In questi testi il Pontefice appare in tutta la sua grandezza, rivolto al servizio della verità nella carità, attraverso un esercizio assiduo della parola, che lo mostra nello stesso tempo teologo e pastore. Leone Magno, costantemente sollecito dei suoi fedeli e del popolo di Roma, ma anche della comunione tra le diverse Chiese e delle loro necessità, fu sostenitore e promotore instancabile del primato romano, proponendosi come autentico erede dell’apostolo Pietro: di questo si mostrarono ben consapevoli i numerosi Vescovi, in gran parte orientali, riuniti nel Concilio di Calcedonia.
Tenutosi nell’anno 451, con i trecentocinquanta Vescovi che vi parteciparono, questo Concilio fu la più importante assemblea fino ad allora celebrata nella storia della Chiesa. Calcedonia rappresenta il traguardo sicuro della cristologia dei tre Concili ecumenici precedenti: quello di Nicea del 325, quello di Costantinopoli del 381 e quello di Efeso del 431. Già nel VI secolo questi quattro Concili, che riassumono la fede della Chiesa antica, vennero infatti paragonati ai quattro Vangeli: è quanto afferma Gregorio Magno in una famosa lettera (I,24), in cui dichiara "di accogliere e venerare, come i quattro libri del santo Vangelo, i quattro Concili", perché su di essi - spiega ancora Gregorio - "come su una pietra quadrata si leva la struttura della santa fede". Il Concilio di Calcedonia – nel respingere l’eresia di Eutiche, che negava la vera natura umana del Figlio di Dio – affermò l’unione nella sua unica Persona, senza confusione e senza separazione, delle due nature umana e divina.
Questa fede in Gesù Cristo vero Dio e vero uomo veniva affermata dal Papa in un importante testo dottrinale indirizzato al Vescovo di Costantinopoli, il cosiddetto Tomo a Flaviano, che, letto a Calcedonia, fu accolto dai Vescovi presenti con un’eloquente acclamazione, della quale è conservata notizia negli atti del Concilio: "Pietro ha parlato per bocca di Leone", proruppero a una voce sola i Padri conciliari. Soprattutto da questo intervento, e da altri compiuti durante la controversia cristologica di quegli anni, risulta con evidenza come il Papa avvertisse con particolare urgenza le responsabilità del Successore di Pietro, il cui ruolo è unico nella Chiesa, perché "a un solo apostolo è affidato ciò che a tutti gli apostoli è comunicato", come afferma Leone in uno dei suoi sermoni per la festa dei santi Pietro e Paolo (83,2). E queste responsabilità il Pontefice seppe esercitare, in Occidente come in Oriente, intervenendo in diverse circostanze con prudenza, fermezza e lucidità attraverso i suoi scritti e mediante i suoi legati. Mostrava in questo modo come l’esercizio del primato romano fosse necessario allora, come lo è oggi, per servire efficacemente la comunione, caratteristica dell’unica Chiesa di Cristo.
Consapevole del momento storico in cui viveva e del passaggio che stava avvenendo – in un periodo di profonda crisi – dalla Roma pagana a quella cristiana, Leone Magno seppe essere vicino al popolo e ai fedeli con l’azione pastorale e la predicazione. Animò la carità in una Roma provata dalle carestie, dall’afflusso dei profughi, dalle ingiustizie e dalla povertà. Contrastò le superstizioni pagane e l’azione dei gruppi manichei. Legò la liturgia alla vita quotidiana dei cristiani: per esempio, unendo la pratica del digiuno alla carità e all’elemosina soprattutto in occasione delle Quattro tempora, che segnano nel corso dell’anno il cambiamento delle stagioni. In particolare Leone Magno insegnò ai suoi fedeli – e ancora oggi le sue parole valgono per noi – che la liturgia cristiana non è il ricordo di avvenimenti passati, ma l’attualizzazione di realtà invisibili che agiscono nella vita di ognuno. E’ quanto egli sottolinea in un sermone (64,1-2) a proposito della Pasqua, da celebrare in ogni tempo dell’anno "non tanto come qualcosa di passato, quanto piuttosto come un evento del presente". Tutto questo rientra in un progetto preciso, insiste il santo Pontefice: come infatti il Creatore ha animato con il soffio della vita razionale l’uomo plasmato dal fango della terra, così, dopo il peccato d’origine, ha inviato il suo Figlio nel mondo per restituire all’uomo la dignità perduta e distruggere il dominio del diavolo mediante la vita nuova della grazia.
È questo il mistero cristologico al quale san Leone Magno, con la sua lettera al Concilio di Efeso, ha dato un contributo efficace ed essenziale, confermando per tutti i tempi — tramite tale Concilio — quanto disse san Pietro a Cesarea di Filippo. Con Pietro e come Pietro confessò: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E perciò Dio e Uomo insieme, "non estraneo al genere umano, ma alieno dal peccato" (cfr Serm. 64). Nella forza di questa fede cristologica egli fu un grande portatore di pace e di amore. Ci mostra così la via: nella fede impariamo la carità. Impariamo quindi con san Leone Magno a credere in Cristo, vero Dio e vero Uomo, e a realizzare questa fede ogni giorno nell'azione per la pace e nell'amore per il prossimo.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare alle Religiose infermiere di diverse Congregazioni, che stanno partecipando ad un corso di aggiornamento. Care sorelle, sforzatevi di vedere sempre nei malati il volto di Cristo e ripartite da Lui ogni giorno con umile coraggio per essere testimoni del suo amore. Saluto i fedeli provenienti dal Santuario della Divina Misericordia, in Santa Lucia di Caserta e i Militari della Scuola di Fanteria, di Cesano.
Saluto, infine, i malati e gli sposi novelli. Cari malati, siate sempre consapevoli che contribuite in modo misterioso alla costruzione del Regno di Dio, offrendo generosamente le vostre sofferenze al Padre celeste in unione a quelle di Cristo. E voi, cari sposi novelli, sappiate quotidianamente edificare la vostra famiglia nell'ascolto di Dio, nel fedele reciproco amore e nell'accoglienza dei più bisognosi, seguendo l'esempio della Santa Famiglia di Nazaret.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]



Intervista ad Oswaldo Payá, dissidente cubano
Oswaldo Payá è uno dei più noti dissidenti cattolici cubani ed ha già ricevuto numerosi riconoscimenti a livello internazionale, tanto che anche quest’anno è uno dei candidate al premio Nobel per la pace. Alcuni giorni dopo la notizia della rinuncia al potere di Fidel Castro ha rilasciato l’intervista che di seguito riportiamo. Vale la pena leggerla dato che Payá è una voce autorevole per comprendere come il popolo cubano stia vivendo questa delicata fase della sua storia…


Rifiutiamo riforme cosmetiche
Intervista ad Oswaldo Payá, dissidente cubano


Oswaldo Payá, 56 anni, é oggi uno dei dissidenti cubani più conosciuti e stimati anche all'estero. Nel 2002, sfruttando una "breccia" nella Costituzione cubana, raccolse un numero sufficiente di firme per inviare all'Assemblea Nazionale un progetto per la realizzazione di un referendum sulle riforme politiche e l'apertura del regime. Come si poteva prevedere, il progetto fu dimenticato nel cassetto dal Legislativo e, come risposta ad esso, Fidel Castro fece approvare una legge che dichiarava "irrevocabile" il regime comunista del Paese. La "pubblicità" riguardo a questa proposta, attirò a Cuba, in uno storico viaggio, l'ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter. Durante la visita, nella quale gli fu permesso di pronunciare un discorso senza precedenti alla televisione cubana, Carter incontrò Payá e manifestò pubblicamente l'appoggio alla sua iniziativa parlamentare, che prese il nome di Progetto Varela.
La sera di venerdì scorso - ancora sotto l'influsso dell'annuncio inaspettato della rinuncia di Fidel tre giorni prima - Payá ha ricevuto il giornalista del giornale Estado di San Paolo, nella sua casa del Cerro, povero e sperduto comune nella periferia dell'Avana, e ha concesso la seguente intervista.
Signor Payá, lei crede che l'annuncio di Fidel Castro della settimana scorsa, secondo cui dovrebbe lasciare il l'incarico principale del governo cubano, apra qualche spiraglio all'ottimismo in relazione all'adozione di qualche riforma?
C'è spazio per l'ottimismo perché l'uscita di scena di Fidel segna la fine di una tappa e l'inizio di un'altra. Segna un governo che termina. C'è spazio per l'ottimismo, non perché il governo si disponga a cambiare, ma perché è il popolo cubano a desiderare ardentemente un cambiamento. Tutto quello che io spero è che le persone che governeranno non sbattano la porta in faccia al futuro. Non chiediamo potere, ma diritti.
Cosa spiegherebbe la relativa apatia con cui il popolo cubano ha accolto la notizia?
Il momento che stiamo vivendo porta con sé una lezione di vita e di storia. In circostanze normali, in qualunque Paese del mondo, l'uscita di scena di un governante che è stato al potere praticamente per 50 anni provocherebbe grande commozione. Ma a Cuba, come voi del giornale Estado avete potuto constatare, non vi è stata nessuna grande reazione. L'annuncio della decisione di Fidel è stato importante perché, fino a questo momento, c'era grande incertezza sul fatto che continuasse o meno al potere. Il silenzio delle strade non è solo il riflesso di questa incertezza, ma è indice anche di quanto la popolazione si senta repressa e spaventata, anche quando si tratta di piangere l'allontanamento di Fidel. Davanti alla sorpresa dell'annuncio, non c'è stata chiarezza sul modo in cui la popolazione avrebbe dovuto reagire. Il popolo cubano desidera davvero, nel suo intimo, un cambiamento reale dei cuori e delle menti dei suoi governanti e dei suoi amici, vicini, parenti etc. .
Crede in un cambiamento culturale del popolo cubano?
Questo cambiamento culturale è possibile, anche se non ha la libertà di manifestarsi apertamente in merito a questo tema. Deve aver notato una certa apatia per le strade, ma questo accade semplicemente perché i cubani non si sentono liberi di esprimere ciò che realmente sentono. È bene chiarire una cosa: il motto del regime è veramente una condanna: "O socialismo o morte". Credo che questo dica tutto. Davanti a tutto questo, spetta a ciascuno scegliere l'alternativa che gli conviene. Il motto del nostro movimento, differentemente da come viene presentato è: "libertà e vita". A ciò aggiungo la parola "fraternità".
Crede che coloro che saranno scelti per dirigere il Paese, durante la riunione dell'Assemblea Nazionale di questa domenica, saranno disposti a promuovere queste?
Guardi, davanti a tutto ciò che oggi si vede nel Paese, i successori di Fidel -chiunque essi siano- hanno l'obbligo morale di promuovere le riforme e di non sentirsi in diritto di appropriarsi del Paese. I cambiamenti sono possibili e fattibili. Abbiamo la regola di porre la nostra fiducia in Dio e nel popolo cubano. Le riforme sono possibili e si apre per esse uno spiraglio di opportunità. Il nostro movimento è, prima di tutto, umanista e in nessun modo squalifichiamo a priori le persone che oggi sono al governo. Sappiamo che possiedono la capacità politica per dirigere un processo di riforme. Dio voglia che abbiano anche la volontà politica per portare avanti queste riforme.
Come dovranno agire i successori di Fidel?
Ciò che non potranno fare è di credere che sono gli unici capaci di attuare questo processo di riforma. Se vorranno dimostrare al popolo la loro volontà di portare avanti i cambiamenti, dovranno prima di tutto liberare i prigionieri politici. Poi saranno moralmente obbligati a garantire la libertà di espressione, di riunirsi, di organizzarsi in sindacati per i lavoratori - cosa che Lula (il presidente del Brasile Luiz Inácio Lula da Silva) non copiò da Fidel quando è stato qui in gennaio.
Ci sono differenze sostanziali tra i tre favoriti alla carica di presidente del Consiglio di Stato: Raúl Castro, Carlos Lage e Felipe Pérez Roque?
Non importa chi sarà il successore di Fidel; egli dovrà cambiare le leggi per garantire i diritti dei cittadini. La società cubana non accetterà un cambiamento solo cosmetico, che serva unicamente a dissimulare la situazione attuale. Cuba ha attraversato un periodo di 50 anni di totalitarismo e ora non ci interessa il "socialismo buono". Vogliamo la libertà senza riduzioni o relativismi.
Ha intravisto qualche segno di una possibile reazione dei cubani nel caso in cui il regime resista ad attuare i cambiamenti?
No. I cubani per natura non hanno ciò che si é soliti chiamare odio di classe. Ma c'è un gruppo che si è arroccato al potere da quasi 50 anni. Da molto tempo questo gruppo difende i propri interessi e mantiene la sua sete di potere con un'arroganza che si è vista poche volte nella storia dell'umanità. E a quest'arroganza le si da il nome di sovranità nazionale e di indipendenza. I membri di questo gruppo si appoggiano sulla tesi che qualunque segno di debolezza da parte del regime favorirebbe l'aggressione straniera e il ritorno del Paese a una situazione di sottomissione a interessi internazionali. Essa è parte integrante della politica di terrore e di paura che quotidianamente il regime incute nella società cubana. Questo si ripete da molte decadi. È una strategia molto ben pianificata, che porta alla conclusione che, opporsi al governo significa automaticamente opporsi alla libertà del proprio Paese. Questa strategia è stata percepita dai cubani che, già da qualche tempo, si sentono defraudati. Noi riconosciamo che questo gruppo che è al potere da tanto tempo ha ottenuto conquiste importanti in termini sociali. In nessun modo vogliamo perdere queste conquiste. Ma abbiamo bisogno anche di libertà, di mantenere il nostro diritto di avere diritti. Vogliamo mantenere il sistema che ci permette di avere salute ed educazione gratuite. E vogliamo anche il resto: libertà di espressione, di riunione, libertà religiosa, libertà di stampa, etc.
Ma i segni di scontento sono ancora fragili e timidi...
Cuba, contrariamente a quanto si immagina nel resto del mondo, ha una società plurale. Qui abbiamo una diversità di posizioni, di aspettative, di opinioni. Ci sono molti che discordano dalle azione del governo, c'è chi segue ciecamente gli orientamenti del regime e si identifica ideologicamente e storicamente con quest'esperienza marxista, c'è chi vuole semplicemente emigrare e lasciarsi tutto alle spalle. Ciò che il nostro movimento chiede è il rispetto e il diritto di esistere liberamente in mezzo a tutte queste posizioni. Qualunque persona ragionevole potrà concludere che, mettendo quest'esigenza su una bilancia e osservandola attentamente, non si tratta di niente di eccezionale.
Una rottura repentina non potrebbe causare a Cuba una frattura sociale con conseguenze devastanti?
Credo che la riconciliazione sia il cammino della pacificazione. Affermiamo questo con il nostro lemma, "libertá e vita". I brasilani devono considerare che il nostro lavoro è molto più spinoso di quello degli ideologi del governo, i quali hanno una missione molto più comoda, che è quella di reprimere le idee. Contrariamente a quanto dice Fidel, quello che c'è a Cuba non è la battaglia delle idee, ma la repressione delle idee divergenti. Il regime non fa altro che spaventare il popolo, affermando che la distensione non causerebbe l'indebolimento del governo, ma dello stesso Paese, che porterebbe prima alla perdita dell'indipendenza, delle conquiste sociali dell'educazione e della salute e dopo finirebbe per portare alla generalizzazione della corruzione e del crimine. I cubani vogliono cambiamenti pacifici, senza scontri. Non vogliamo più nè capitalismo selvaggio, nè comunismo selvaggio. Il nostro movimento non ha mai parlato di libertà di mercati - e non perchè non lo consideriamo importante - ma siamo rigorosi nella difesa della libertà delle persone. E le persone non devono essere soggette a nessuna forza, nè del sistema, nè del mercato, nè dello Stato. La nostra proposta di cambiamento non esclude nessun cubano, nè i prigionieri politici, nè i membri dello stesso governo.
Ha mai sentito minacciata la sua sicurezza personale a causa della sua attuazione politica?
Vivo sotto minacce costanti, fatte non solo a me, ma a anche alla mia famiglia. Ricevo frequenti telefonate strane, con minacce velate o esplicite. Gli agenti del governo mi perseguitano per strada in ogni momento. Telefonano e disturbano le persone che parlano con me. Sono cattolico. Quando vado in Chiesa, mi seguono da lontano. Due settimane fa qualcuno ha allentato i bulloni delle ruote della mia macchina - una Kombi 1974, fabbricata in Brasile, che lei ha visto di fronte a casa mia. Telecamere installate sui pali dai servizi segreti del regime controllano ogni movimento attorno a casa mia, chiunque entri o esca da qui. Guardi lei stesso (si alza dalla sedia e apre la finestra della facciata della casa), sul muro qui di fronte hanno fatto un murale con la caricatura di George W. Bush che festeggia con un verme (la parola "verme" viene normalmente utilizzata a Cuba per indicare gli anti-castristi esiliati a Miami). [...] Tutto questo fa parte di una campagna di intimidazione e un esempio della strategia del terrore promossa dal regime.
Questa sua visione della politica ha molti seguaci qui a Cuba?
Abbiamo degli amici. Molti sono in prigione e sopportano con forza di volontà e di spirito. Altri soffrono per la povertà, le minacce, le persecuzioni. Sono alcune centinaia, non migliaia, questi amici più prossimi. Ma ci conforta sapere che c'è un'immensa maggioranza della popolazione cubana che appoggia la nostra proposta di cambiamenti politici pacifici. È per questo che il governo ci perseguita tanto.
Come crede sia vista Cuba all'estero?
Molti all'estero vedono Cuba sotto il prisma dell'ideologia e vedono solo Fidel, il Che, o il romanticismo degli anni ribelli della rivoluzione, etc. Ma dobbiamo dire che vogliamo essere visti sotto un'altra ottica, come esseri umani, che hanno il diritto di avere diritti. Siamo 11 milioni di esseri umani che vogliono libertà e dignità.
Che futuro prevede per il Paese?
Crediamo che i cambiamenti non saranno possibili senza una riconciliazione. Crediamo che non ci sia da temere per il futuro. Come i brasiliani, il popolo cubano è pieno di inventiva, creativo e possiede una non comune capacità di lavoro. Liberi dagli ormeggi di oppressione dello Stato, saremo un Paese di lavoratori con tutto il potenziale necessario per prosperare. Vogliamo solo che ci sleghino le mani e ci tolgano il bavaglio.
O Estado 24 febbraio 2008
Tratto da www.lozuavopontificio.net


L’AMARA ILLUSIONE DELLA PILLOLA RU486
Quell’aborto invisibile più duro del chirurgico

MICHELE ARAMINI
S i dice che la pillola Ru486 provochi l’aborto 'invisibile'. Forse è per questo motivo che oggi appare così tanto desiderata. Lo è dai medici che praticano l’aborto, i quali così sperano di non dover più mettere le mani sul feto: per quanto possano mostrarsi disponibili a sopprimere una vita umana, si tratta di un evento non certo tra i più piacevoli neppure per coloro che sono abituati a praticarlo. Forse la pillola abortiva è desiderata anche da chi pensa che un intervento chirurgico non sia un fatto di poco conto – fisicamente, psicologicamente e moralmente – ed è indotto a credere che una pillola sia più sopportabile. Certo chi invoca la Ru486 spera di ridurre l’aborto a qualcosa di impalpabile, un evento possibilmente indolore e dalla durata minima. Con la stessa motivazione si vorrebbe far usare la pillola abortiva non in ospedale, come richiederebbe la legge 194, ma in privato, a casa propria, seppure sotto un generico controllo medico. Questo è il punto. L’aborto invisibile cui si vuole giungere è anche un aborto completamente privatizzato, che sfuggirebbe a quei sia pur minimi controlli previsti dalla legge, con immaginabili ricadute tra le più giovani.
Sarebbe uno degli esiti estremi del più generale fenomeno della 'privatizzazione della coscienza' per il quale ciascuno si può regolare come crede, senza dover rendere conto ad altri delle proprie scelte. Non è possibile però considerare l’aborto come fatto puramente privato: la vita umana non è un oggetto in balia della volontà di chiunque.
Per lo stesso motivo l’interruzione di gravidanza va lasciata sotto la vigile attenzione della coscienza sociale e dentro i confini della legge. Se è vero che l’aborto è un dramma – come oggi tutti ormai riconoscono – occorre mantenere viva la coscienza del suo valore negativo. È soltanto su questa base condivisa che si può sviluppare un forte impegno di prevenzione e di sostegno alle donne in difficoltà, custodendo la sensibilità morale per attuare anche le parti dimenticate della 194. Diversamente è lecito credere che per alcuni parlare dell’aborto come tragedia da evitare sia solo un modo per coprire un preteso diritto che si sa di non poter onestamente rivendicare.
La speranza che la Ru486 provochi un aborto 'invisibile' non è neppure realistica. L’assunzione delle due diverse pillole previste dalla procedura dell’aborto farmacologico (uccisiva del feto la prima, la Ru486 vera e propria; solo espulsiva la seconda) comporta che la donna sopporti un travaglio di almeno 3-4 giorni e che in molti casi veda personalmente il feto espulso. Non è quindi difficile immaginare che l’aborto chimico segni più profondamente la donna di quanto faccia l’aborto praticato chirurgicamente. Non si comprende dunque l’insistenza e la fretta con cui si vuole introdurre anche in Italia questa nuova modalità di interruzione precoce della gravidanza, a meno che non si operi per rendere disponibile un prodotto con un evidente significato di normalizzazione e persino di banalizzazione di un atto comunque drammatico. È proprio questo tentativo che va scoperto e denunciato. Alcune voci nel recente dibattito sull’aborto affermano che la legge di uno Stato laico debba comunque essere – come si dice – «pro choice», cioè a favore della libera scelta. Ma le stesse voci sostengono poi che la politica deve essere necessariamente «pro life», proprio per il valore fondamentale della vita e della sua funzione per la società. In sostanza costoro ritengono che sia necessario mantenere la legge 194 e che insieme occorra operare per l’attuazione di misure di prevenzione dell’aborto e in generale a favore della vita. È necessario ora che anche da questo fronte si lavori per porre un freno a tutti i tentativi di ridurre l’aborto a un fatto talmente ordinario e privato da far credere di poterlo gestire in una sorta di 'fai da te' tragicamente solitario.


Dossier del Mpv sull’aborto per i candidati alle politiche
Avvenire, 6.3.2008
DI CARLO CASINI
Nella campagna elettorale già iniziata si discuterà inevitabilmente anche di aborto.
Anzi, a mio giudizio, proprio il diverso giudizio sulla legge 194/1978 dovrebbe essere un criterio di orientamento nel voto, per evitare che le forze decisamente contrarie al riconoscimento del diritto alla vita, riescano ad ingannare gli elettori con riferimenti vaghi alla tutela della vita (Quale? Da che momento? Come? Perché?).
È possibile che i candidati siano chiamati a parlare dell’aborto e della legge sull’aborto. Purtroppo la pressione «abortista» di molti mezzi di comunicazione di massa e la distrazione personale hanno prodotto la accettazione di talune falsità e comunque una grande ignoranza.
Per questo il Movimento per la vita ha in corso di pubblicazione un dossier da mettere a disposizione di tutti i candidati.
Esso farà parte del numero di marzo di Sì alla vita.
Un punto che merita particolare attenzione riguardo l’argomento che la legge 194 avrebbe ridotto il numero degli aborti.
È proprio vero?
È vero che la cifra annuale degli aborti registrati è andata crescendo dal 1978 al 1982-83 fino a superare le 230.000 unità, mentre da tempo si è stabilizzata su 130-140.000. Ma questa diminuzione, purtroppo, può essere apparente e comunque dovuta a cause socio­demografiche estranee alla legge.
A chi pensa che l’aborto sia un male perché sopprime una vita umana, interessa il numero complessivo degli aborti, non soltanto di quelli registrati. Ora, a parte quelli clandestini di tipo, diciamo tradizionale, a quelli legali vanno aggiunti quelli di tipo nuovo, tanto clandestini da essere inconoscibili, causati dalle varie «pillole del giorno dopo», che trent’anni fa non esistevano. Il Corriere della Sera ha dato la notizia che ogni anno vengono vendute circa 350.000 confezioni di «pillole del giorno dopo».
L’aborto non è avvenuto se non vi era stato concepimento. Ma come non pensare che in molte decine di migliaia di casi vi è stata la eliminazione dell’embrione impedendogli di raggiungere la mucosa uterina? Inoltre, bisogna considerare che per effetto del crollo delle nascite le donne in età feconda nel 1982-1983 erano molto più numerose di quelle capaci di generare negli anni 2000. Va poi considerato il marcato innalzamento dell’età matrimoniale. L’aborto italiano è prevalentemente di tipo familiare.
È pensabile che una consuetudine di vita garantita dal patto matrimoniale porti ad una maggior frequenza di rapporti sessuali e ad una minore determinazione nell’evitare i concepimenti non voluti. Se le cose stanno così, è comprensibile che il mutamento sociologico possa avere contribuito alla diminuzione delle Ivg (interruzioni volontarie di gravidanza). Insomma, è dubbio il calo complessivo della eliminazione dei concepiti prima della nascita. Tuttavia è sperabile e chi vuol difendere la vita non può non auspicarlo.
Ma, posto che la diminuzione sia reale, sorge una seconda più decisiva domanda: per quale ragione tale riduzione sarebbe stata prodotta dalla L. 194? Quale sarebbe stato il meccanismo?
Certamente non quello dell’intervento consultoriale, che avviene in una minoranza di casi e che tutti riconoscono non essere stato affatto applicato nella direzione della difesa della vita, ma semmai per consolidare la scelta abortiva. In effetti gli «abortisti» sostengono che la riduzione sarebbe stata prodotta dalla contraccezione. Domanda: ma mettendo da parte le riserve della Chiesa e senza prendere in considerazione la natura eventualmente abortiva di taluni mezzi farmacologici e meccanici (spirale), classificati tra i contraccettivi, posto che effettivamente l’uso più diffuso dei contraccettivi abbia compresso gli aborti, cosa ne avrebbe impedito di farne propaganda senza la legge 194? Anzi, vi sarebbe stata una ragione in più per ricorrere al loro uso, di fronte alla impossibilità di ricorrere all’aborto per porre «rimedio» ad una gravidanza non voluta! La verità è che se una diminuzione vi è stata, la causa non è la contraccezione ma qualcosa di diverso. La riprova viene dalla Francia, dall’Inghilterra e dal confronto tra le varie regioni di Italia. Francia e Regno Unito hanno una popolazione più o meno uguale a quella italiana e leggi - almeno in Francia - simili a quella italiana. Certamente in questi paesi la contraccezione è più diffusa che in Italia. In particolare la «pillola del giorno dopo» e la Ru486 proprio in Francia hanno trovato la più estesa diffusione. Eppure proprio nel paese transalpino e in Gran Bretagna gli aborti, che qualche decennio fa erano un numero minore che da noi, sono andati progressivamente aumentando fino a raggiungere cifre che superano le 200.000 unità all’anno. Come spiegare questo fenomeno? Evidentemente la contraccezione non comprime le interruzioni volontarie della gravidanza. Alla stessa conclusione si giunge confrontando il numero degli aborti nelle varie regioni d’Italia.
Nessuno può sostenere che Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Lombardia facciano un uso della contraccezione minore che in Sicilia, Calabria, Altro Adige o Veneto. Eppure le Ivg sono più numerose nelle aree dove la contraccezione è più diffusa.
Dunque la sperabile riduzione degli aborti va spiegata non con la legge 194 né con la contraccezione. Vi deve essere un fattore diverso. Perché non pensare che al lavoro del Movimento per la vita e dei Cav (nel 2008 sarà raggiunta probabilmente la cifra di 100.000 bambini aiutati a nascere) e molto di più a una maggiore disponibilità diffusa nel tessuto sociale ad ascoltare l’incessante messaggio della Chiesa e dei grandi pontefici, da Giovanni Paolo II - il Papa della Vita! - a Benedetto XVI. La difesa della vita nascente, passa prioritariamente attraverso la mente ed il cuore della gente e forse, nonostante la crescente secolarizzazione e scristianizzazione, in Italia resta, più che altrove, la disponibilità ad ascoltare il messaggio cristiano.
Dunque se vera riduzione vi è stata, il merito non è della legge.
Per ridurre il fumo delle sigarette ne viene proibito l’uso nei locali pubblici e nei mezzi di trasporto.
Se vi fosse scritto «si può fumare» o, addirittura «offriamo gratuitamente le sigarette» non credo che si fumerebbe di meno. È strana l’idea che dicendo «si può abortire» e talora «è tuo diritto fondamentale abortire, se vuoi» si possa automaticamente disincentivare il ricorso alla Ivg.
Si può concludere che se vera riduzione vi è stata, ciò non è avvenuto a causa della legge. Ma nonostante la legge, soprattutto per merito della cultura che si oppone alla legge.


Ogni dono è uno scambio
Avvenire, 6.3.2008
DI JEAN-LUC MARION
Noi doniamo senza calcolare. Doniamo senza calcolare, in tutti i sensi del termine. Pri­mo, perché doniamo continuamen­te: doniamo così come respiriamo, in ogni istante, in tutte le circostanze, dal mattino alla sera, e non passa giorno senza che, in un modo o nell’altro, non abbiamo dato qualcosa a qualcuno, talvolta persino abbiamo «donato tutto». Doniamo anche sen­za tenere il libro contabile, senza mi­sura, perché donare implica giusta­mente donare in perdita, o quanto meno non contare il proprio tempo né il proprio pensiero, e nemmeno i propri sforzi, in modo da non tenere semplicemente il conto dei propri doni. Infine, doniamo senza conta­re, perché il più delle volte doniamo senza averne una chiara coscienza, per mancanza di tempo e d’atten­zione, dal momento che doniamo quasi meccanicamente, automatica­mente e senza saperlo.
Così, l’attitudine al dono, l’atteggia­mento di donare sembra al primo ap­proccio andare da sé, tanto il suo e­sercizio si dispiega inconsapevol­mente, senza pensarci, né preoccu­parsene; l’evidenza stessa del dono ne renderebbe la consapevolezza quasi superflua.
Tuttavia, questa evidenza ci toglie su­bito la certezza che sembrava dare. Perché questi tre modi di donare non possono stare insieme senza con­traddirsi: in effetti, la terza modalità del donare senza calcolo – donare senza averne coscienza – annulla ma­nifestamente le due precedenti; per­ché, se veramente doniamo inces­santemente e senza misura, come potremmo alla fine non prenderne consapevolezza? E viceversa, se do­niamo senza divenirne coscienti, co­me sapremo ancora di donare inces­santemente e senza misura? O, più e­sattamente, come assicureremo noi stessi che questo «incessantemente e senza misura» qualifica il nostro do­no come autentico, se non ne abbia­mo consapevolezza alcuna? In bre­ve, come donare senza tenere il con­to, se si dona senza rendersene con­to?
Ma, oltre questa contraddizione for­male, si delinea una contraddizione incomparabilmente più profonda, che mette in causa interamente il do­no: infatti, questo dono che preten­de di donare senza contare, in realtà conta sempre e conta pure anche troppo. Il dono dona in maniera tale da non perdere niente, né mai si per­de, ma ha sempre il suo tornaconto e si ritrova quanto meno uguale a ciò che sarebbe rimasto se non avesse mai donato nulla. Di fatto e di dirit­to, il dono non dona senza contare, perché, alla fine, in un modo o nel­­l’altro, il conto si rivela sempre van­taggioso. Basta analizzarne le tre di- mensioni, il donatore, il donatario e il dono donato, per vedere il dono an­nullarsi nel suo contrario, lo scambio.
Guardiamo prima di tutto il donato­re. In realtà, egli non dona mai senza ricevere in cambio quanto ha dona­to. Se dona essendo riconosciuto co­me donatore, anche se il suo dono non gli viene mai restituito, egli rice­ve almeno la riconoscenza del dona­tario. Anche nel caso in cui quest’ul­timo manchi di riconoscenza, il do­natore riceverà almeno la stima dei testimoni del suo dono. Supponen­do che egli per caso doni senza che nessuno lo riconosca come donato­re, sia che il dono resti strettamente privato (senza testimoni), sia che il beneficiario ignori questo dono o lo rifiuti (ingratitudine), il donatore ri­ceverà quanto meno da se stesso u­na stima di sé (per aver fatto il gene­roso, aver dispensato gratuitamen­te); e questa stima, di fatto perfetta­mente meritata, gli assi­curerà una «contentezza di se stesso» (Cartesio), quindi l’autarchia del saggio. Egli si sentirà, del resto a buon diritto, mo­ralmente superiore all’a­varo che ha saputo non i­mitare, e questo guada­gno compenserà larga­mente la sua perdita. Di conseguenza, però, il do­natore avrà annullato il suo dono in uno scambio - scomparendo lui stes­so come donatore, per diventare l’ac­quirente della propria stima. Al prez­zo certamente di un bene perduto, ma ritrovato. Un beneficio non sa­rebbe dunque per definizione mai perso.
Guardiamo poi il donatario. Rice­vendo, egli non riceve solamente un bene, ma soprattutto un debito; di­viene così il debitore del suo bene­­fattore, obbligato pertanto a rendere. Se rende senza tardare un altro bene per questo primo bene, sarà da que­sto momento alla pari, proprio per a­ver annullato il suo debito sostituen­do uno scambio al dono, annullando dunque il dono, che come tale scom­pare. Viceversa, se non può restitui­re subito, egli resterà in avvenire un debitore, temporaneo o definitivo; durante il periodo del suo debito do­vrà esprimere la sua riconoscenza e ammettere la sua dipendenza; così, egli non si farà perdonare che rim­borsando il suo debito attraverso la sua sottomissione di debitore, accet­tando addirittura la condizione di servitore di fronte al padrone. Se in­fine nega di aver ricevuto un dono, anche a prezzo di una menzogna o di un diniego di giustizia, egli dovrà ar­gomentare che non si trattava che di un dovuto, o che non ha ricevuto nul­la. Dunque, in ogni caso, il donatario cancellerà il dono e ristabilirà uno scambio - reale o fittizio, poco im­porta, poiché sfocerà comunque nel­l’annullare se stesso come donatario. Osserviamo infine il dono donato: es­so tende non meno inesorabilmente a cancellare in sé ogni traccia e ogni memoria del gesto che l’ha donato. Infatti, non appena donata, la cosa del dono, qualunque essa sia, impo­ne la sua presenza, e la sua evidenza realizzata offusca l’atto che la dona: il dono donato occupa tutta la scena della donazione donante e la rinvia alla non effettività del suo trascorso passato. Se dobbiamo rinnovare sempre l’attenzione a ringraziare co­me si deve il benefattore prima di prendere possesso del dono (come si ripete ai bambini piccoli), ciò deriva meno da una cattiva condotta che da una necessità fenomenologica – il do­no sequestra tutta l’attenzione e an­nulla la propria provenienza. Appe­na donato, il dono scompare come dono donato per consolidarsi nel suo valore di oggetto di uno scambio da quel momento possibile, dunque quasi inevitabile.
Come non concludere che il dono, appena si compie effettivamente ed emerge nella fredda luce dell’espe­rienza, deve snaturarsi inevitabil­mente nel suo contrario, secondo u­na triplice assimilazione allo scambio e al commercio? Come non dedurre da questa auto-soppressione una for­ma di instabilità, che fa di esso una apparenza di fenomeno, incapace di costituirsi in fenomeno oggettivo? Il dono si contraddice di una contrad­dizione in termini – i termini dello scambio. In effetti, o il dono si mani­festa nell’effettività, ma allora scom­pare come dono; oppure resta un pu­ro dono, ma diviene non apparente, non effettivo, escluso dal processo delle cose, idea pura della ragione. O il dono resta conforme alla donazio­ne, ma allora non si manifesta mai. Oppure si manifesta, ma nell’econo­mia dello scambio, dove si trasforma nel suo contrario – precisamente lo scambio, il dono restituito ( do, ut des), il donato per un reso e il reso per an­nullare un donato, il commercio e la gestione dei beni. Lo scambio s’im­pone come la verità del dono, che lo cancella. Sottomettendosi all’econo­mia, il dono muta la sua essenza di dono con una effettività che lo nega, precisamente nello scambio. Perché l’economia fa l’economia del dono.