domenica 9 marzo 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Papa: israeliani e palestinesi fermino la violenza in Terra Santa
2) Discorso di Benedetto XVI sul mondo moderno – importante tessera nel mosaico di interpretazione del nostro tempo
3) L'8 marzo "musica e vagiti" di una lista pazza in piazza Farnese
4) Il canto libero di Ferretti Giovanni Lindo
5) I mostri di Odifreddi e la veglia della ragione
6) L’aborto e la sindrome del sopravvissuto
7) Io, Lerner, mio padre minatore e i sessantottini al potere
8) «La Ru486, un aborto brutale»
9) Un vescovo e un rabbino difendono la preghiera per la salvezza degli ebrei


09/03/2008 11:34
VATICANO
Papa: israeliani e palestinesi fermino la violenza in Terra Santa
All’Angelus Benedetto XVI torna anche a ricordare il rapimento di mons. Rahho. In mattinata, tra i giovani del Centro San Lorenzo, commentando la resurrezione di Lazzaro, il Papa ha parlato della speranza e della fede che il gesto di Gesù vuole provocare, allora come oggi.

Città del Vaticano (AsiaNews) - Si fermi la violenza, “certamente contraria ai voleri di Dio” che colpisce la Terra Santa e l’Iraq ed i responsabili politici israeliani e palestinesi abbiamo il coraggio di andare avanti sulla strada del dialogo, per costruire la pace. Il Medio Oriente è tornato anche oggi nelle parole di Benedetto XVI che ai 40mila fedeli presenti in Piazza San Pietro per la recita dell’Angelus ha espresso il suo dolore e la sua preoccupazione per l’odio che continua a colpire quella zona ed anche il vicino Iraq. Per la terza volta, infatti, il Papa ha rivolto il suo pensiero al vescovo caldeo di Mosul, rapito, e del quale non si hanno notizie.
“Nei giorni scorsi – ha detto, dopo la recita della preghiera marina - la violenza e l’orrore hanno nuovamente insanguinato la Terra Santa, alimentando una spirale di distruzione e di morte che sembra non avere fine. Mentre vi invito a domandare con insistenza al Signore Onnipotente il dono della pace per quella regione, desidero affidare alla Sua misericordia le tante vittime innocenti ed esprimere solidarietà alle famiglie e ai feriti”. “Incoraggio, inoltre, - ha proseguito - le Autorità israeliane e palestinesi nel loro proposito di continuare a costruire, attraverso il negoziato, un futuro pacifico e giusto per i loro popoli e a tutti chiedo, in nome di Dio, di lasciare le vie tortuose dell’odio e della vendetta e di percorrere responsabilmente cammini di dialogo e di fiducia”.
“È questo il mio auspicio – ha concluso - anche per l’Iraq, mentre trepidiamo ancora per la sorte di Sua Eccellenza mons. Rahho e di tanti iracheni che continuano a subire una violenza cieca ed assurda, certamente contraria ai voleri di Dio”.
La domenica del Papa, oggi, era cominciata con una messa celebrata nella chiesa di San Lorenzo in Piscibus, a pochi metri dal Vaticano, celebrata in occasione del 25mo anniversario dell’istituzione del Centro internazionale giovanile San Lorenzo, inaugurato da Giovanni Paolo II il 13 marzo 1983, e nel quale, come egli stesso ha ricordato l’allora cardinale Ratzinger è andato “non poche volte”.
Ai giovani presenti, come anche più tardi a coloro che erano in Piazza San Pietro, il Papa, prendendo spunto dal Vangelo di oggi, ha parlato della “dimensione della speranza. In particolare l’evangelista Giovanni narra la risurrezione di Lazzaro (cfr Gv 11,1-45), che costituisce l’ultimo “segno” compiuto da Gesù prima di entrare nel mistero della sua passione e morte. E’ infatti l’ultimo suo viaggio in Giudea, la sua ultima salita verso Gerusalemme, che si concluderà sul Golgota. Potremmo a questo punto domandarci: Perché Gesù, che ha guarito tanti malati, non è accorso rapidamente al capezzale dell’amico Lazzaro morente? Lo spiega in verità Lui stesso ai suoi discepoli: quella malattia doveva servire a manifestare la gloria di Dio (cfr Gv 11,4) e a suscitare la fede (cfr Gv 11,15). Gesù non compie miracoli perché si parli di Lui, bensì perché si creda in Lui. I ‘segni’ sono sempre un appello alla conversione, un invito a schierarsi dalla sua parte”.
“La fede – ha detto poi - non è credere in qualcosa ma in Qualcuno; non è astratta teoria, ma impegno concreto per Cristo; è scegliere la luce al posto delle tenebre, la vita piuttosto che la morte; è una fiducia totale in Dio capace di spostare le montagne (cfr Mt 21,21-22). Ora, ci chiediamo: siamo veramente convinti che a Dio nulla è impossibile? Chi ci dà questa certezza? La potenza di Colui che ha vinto la morte rendendoci partecipi della sua vittoria, si manifesta secondo la nostra fede”.
Ai giovani, infine, Benedetto XVI ha rivolto l’invito a “portare avanti con gioia la missione che il Centro San Lorenzo svolge nel cuore della comunità ecclesiale di Roma: una missione di fede, di amore e di speranza. Quanti vostri coetanei vivono nell’ignoranza di Dio, quanti si lasciano attrarre da false promesse di successo, di benessere materiale, quanti sono alla ricerca della verità! C’è bisogno di amici veri, che sappiano affiancarli e aiutarli nella ricerca; di guide spirituali che li avvertano dei pericoli e indichino loro la via della vita; di testimoni fedeli di Cristo che li attirino sulla strada impegnativa ma liberante da Lui proposta nel Vangelo”.


Discorso di Benedetto XVI sul mondo moderno – importante tessera nel mosaico di interpretazione del nostro tempo
Avvenire, 9 marzo 2008
FRANCESCO BOTTURI
Con il discorso di ieri al ponti­ficio Consiglio della Cultura, Benedetto XVI ha aggiunto un’im­portante tessera all’ampio mosai­co di interpretazione del nostro tempo che sta componendo. In­tervenendo sul tema dell’assem­blea plenaria «La Chiesa e la sfida della secolarizzazione», il Papa ha ripreso il suo discorso sul mondo moderno in chiave di secolariz­zazione. È un passo importante perché si tratta di una chiave di lettura poco sviluppata nel Con­cilio Vaticano II e ancora non del tutto consueta nel magistero. Ep­pure è una categoria interpretati­va essenziale della modernità, perché, più che quelle di raziona­lismo, illuminismo, ateismo, scientismo, ne esprime il dinami­smo interiore e complessivo. Si può legittimamente proporre u­na lettura dell’intera modernità dal punto di vista della secolariz­zazione, di cui le posizioni ora ri­cordate sono piuttosto delle figu­re interne, come le forme che la modernità ha assunto nel suo tempo storico.
Il Papa ha subito cura di distin­guere «secolarizzazione» e «seco­larismo », segno del dramma che ha abitato la modernità, la quale avrebbe potuto percorrere un processo di secolarizzazione non secolaristico (come ebbe a pro­spettare Henri De Lubac nel suo magistrale testo «L’alba incom­piuta del Rinascimento»); che do­po l’età medievale avrebbe potu­to guadagnare i giusti spazi di u­na «secolarità» (culturale, scienti­fica, giuridica, politica...) non an­titetica al cristianesimo e al senso religioso. Così, però, non è stato; anche perché l’esigenza di una «positiva secolarità» fu travolta dai conflitti teologici tra cattolici e protestanti e dalle orribili guerre di religione del tempo.
Certamente fu in quel contesto traumatico che prese corpo nella coscienza europea l’idea di una ri­progettazione del 'mondo' «etsi Deus non daretur», che dopo un iniziale significato giuridico e me­todologico non irreligioso, ne ha assunto uno di alternativa irreli­giosa o areligiosa, divenendo alla fine forma dominante di cultura, una «impostazione del mondo e dell’umanità senza riferimento al­la Trascendenza, [che] invade ogni aspetto della vita quotidiana e svi­luppa una mentalità in cui Dio è di fatto assente, in tutto o in par­te, dall’esistenza e dalla coscien­za umana». E questa mentalità – osserva ancora il Papa – si è fatta talmente pervasiva da manife­starsi «già da tempo in seno alla Chiesa stessa»; come energia cor­rosiva del senso religioso e della fede, che non fa più percepire «il bisogno di Dio, di pensare a Lui e di ritornare a Lui». Osservazione preziosa. La secolarizzazione se­colarista non è (più) identificabi­le con una concezione del mon­do o una dottrina, ma è divenuta piuttosto un «ambiente del pen­sare », come ha detto Heidegger del nichilismo, il cui effetto è quel­lo di obnubilare l’umile senso del bisogno di Dio e il gusto del rap­porto con Lui. E quindi di rende­re «superficiali» rispetto alle esi­genze elementari e profonde del­l’umano e in definitiva «egocen­trici ». Così, più in generale, la sin­drome spirituale dell’uomo seco­larizzato non è confortante agli occhi del Papa: «sterile culto del­l’individuo », «atrofia spirituale», «vuoto del cuore», talvolta ac­compagnati da forme religiose surrogate e spiritualistiche.
Un’analisi che difficilmente l’uo­mo contemporaneo può soppor­tare di sé (aspettiamoci proteste), ma che hanno l’evidente scopo di una diagnosi per un riscatto, che, infatti, è subito proposto con l’i­dea centrale nel discorso di un «ri­chiamo dei valori alti dell’esisten­za che danno senso alla vita e pos­sono appagare l’inquietudine del cuore umano alla ricerca della fe­licità » e con la proposta culturale del «dialogo tra uomini e donne impegnati alla ricerca di un au­tentico umanesimo, al di là delle divergenze che li separano».


Il Papa: la secolarizzazione minaccia anche la Chiesa
Avvenire, 9 marzo 2008
Pubblichiamo il discorso rivolto ieri mattina, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, da Benedetto XVI ai partecipanti all’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della cultura.
S ignori cardinali, cari fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio, gentili signore, illustri signori!
Sono lieto di accogliervi, in occasione dell’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della cultura, congratulandomi per il lavoro che svolgete e, in particolare, per il tema scelto per questa sessione: « La Chiesa e la sfida della secolarizzazione ». È questa una questione fondamentale per il futuro dell’umanità e della Chiesa. La secolarizzazione, che spesso si muta in secolarismo abbandonando l’accezione positiva di secolarità, mette a dura prova la vita cristiana dei fedeli e dei pastori, e voi l’avete, durante i vostri lavori, interpretata e trasformata anche in una sfida provvidenziale così da proporre risposte convincenti ai quesiti e alle speranze dell’uomo, nostro contemporaneo.
R ingrazio l’arcivescovo monsignor Gianfranco Ravasi, da pochi mesi presidente del dicastero, per le cordiali parole con le quali si è fatto vostro interprete e ha illustrato la scansione dei vostri lavori. Sono grato anche a voi tutti per l’impegno profuso nel far sì che la Chiesa si ponga in dialogo con i movimenti culturali di questo nostro tempo, e sia così conosciuto sempre più capillarmente l’interesse che la Santa Sede nutre per il vasto e variegato mondo della cultura.
Oggi più che mai, infatti, la reciproca apertura tra le culture è un terreno privilegiato per il dialogo tra uomini e donne impegnati nella ricerca di un autentico umanesimo, aldilà delle divergenze che li separano. La secolarizzazione, che si presenta nelle culture come impostazione del mondo e dell’umanità senza riferimento alla Trascendenza, invade ogni aspetto della vita quotidiana e sviluppa una mentalità in cui Dio è di fatto assente, in tutto o in parte, dall’esistenza e dalla coscienza umana. Questa secolarizzazione non è soltanto una minaccia esterna per i credenti, ma si manifesta già da tempo in seno alla Chiesa stessa. Snatura dall’interno e in profondità la fede cristiana e, di conseguenza, lo stile di vita e il comportamento quotidiano dei credenti. Essi vivono nel mondo e sono spesso segnati, se non condizionati, dalla cultura dell’immagine che impone modelli e impulsi contraddittori, nella negazione pratica di Dio: non c’è più bisogno di Dio, di pensare a Lui e di ritornare a Lui. Inoltre, la mentalità edonistica e consumistica predominante favorisce, nei fedeli come nei pastori, una deriva verso la superficialità e un egocentrismo che nuoce alla vita ecclesiale.
La «morte di Dio» annunciata, nei decenni passati, da tanti intellettuali cede il posto ad uno sterile culto dell’individuo. In questo contesto culturale, c’è il rischio di cadere in un’atrofia spirituale e in un vuoto del cuore, caratterizzati talvolta da forme surrogate di appartenenza religiosa e di vago spiritualismo. Si rivela quanto mai urgente reagire a simile deriva mediante il richiamo dei valori alti dell’esistenza, che danno senso alla vita e possono appagare l’inquietudine del cuore umano alla ricerca della felicità: la dignità della persona umana e la sua libertà, l’uguaglianza tra tutti gli uomini, il senso della vita e della morte e di ciò che ci attende dopo la conclusione dell’esistenza terrena. In questa prospettiva il mio predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II, consapevole dei cambiamenti radicali e rapidi delle società, con insistenza richiamò l’urgenza di incontrare l’uomo sul terreno della cultura per trasmettergli il messaggio evangelico. Proprio per questo istituì il Pontificio Consiglio della cultura, per dare un nuovo impulso all’azione della P Chiesa nel fare incontrare il Vangelo con la pluralità delle culture nelle varie parti del mondo (cfr Lettera al card. Casaroli, in: AAS LXXIV, 6, pp. 683-688).
La sensibilità intellettuale e la carità pastorale del Papa Giovanni Paolo II lo spinsero a mettere in risalto il fatto che la rivoluzione industriale e le scoperte scientifiche hanno permesso di rispondere a domande che prima erano parzialmente soddisfatte solo dalla religione. La conseguenza è stata che l’uomo contemporaneo ha spesso l’impressione di non aver più bisogno di nessuno per comprendere, spiegare e dominare l’universo; si sente il centro di tutto, la misura di tutto.
Più recentemente la globalizzazione, per mezzo delle nuove tecnologie dell’informazione, ha avuto non di rado come esito anche la diffusione in tutte le culture di molte componenti materialistiche e individualistiche dell’Occidente. Sempre più la formula « Etsi Deus non daretur diventa un modo di vivere che trae origine da una specie di 'superbia' della ragione – realtà pur creata e amata da Dio – la quale si ritiene sufficiente a se stessa e si chiude alla contemplazione e alla ricerca di una Verità che la supera. La luce della ragione, esaltata, ma in realtà impoverita, dall’Illuminismo, si sostituisce radicalmente alla luce della fede, alla luce di Dio (cfr Benedetto XVI, Allocuzione per l’incontro con l’Università di Roma 'La Sapienza', 17 gennaio 2008). Grandi, perciò, sono le sfide con le quali la missione delle Chiesa deve confrontarsi in questo ambito. Quanto mai importante si rivela perciò l’impegno del Pontificio Consiglio della Cultura per un dialogo fecondo tra scienza e fede. È un confronto tanto atteso dalla Chiesa, ma anche dalla comunità scientifica, e vi incoraggio a proseguirlo.
In esso la fede suppone la ragione e la perfeziona, e la ragione, illuminata dalla fede, trova la forza per elevarsi alla conoscenza di Dio e delle realtà spirituali. In questo senso la secolarizzazione non favorisce lo scopo ultimo della scienza che è al servizio dell’uomo, «imago Dei ». Questo dialogo continui nella distinzione delle caratteristiche specifiche della scienza e della fede. Infatti, ognuna ha propri metodi, ambiti, oggetti di ricerca, finalità e limiti, e deve rispettare e riconoscere all’altra la sua legittima possibilità di esercizio autonomo secondo i propri principi (cfr Gaudium et spes, 36); entrambe sono chiamate a servire l’uomo e l’umanità, favorendo lo sviluppo e la crescita integrale di ciascuno e di tutti.
E sorto soprattutto i pastori del gregge di Dio a una missione instancabile e generosa per affrontare, sul terreno del dialogo e dell’incontro con le culture, dell’annuncio del Vangelo e della testimonianza, il preoccupante fenomeno della secolarizzazione, che indebolisce la persona e la ostacola nel suo innato anelito verso la Verità tutta intera. Possano, così, i discepoli di Cristo, grazie al servizio reso in particolare dal vostro dicastero, continuare ad annunciare Cristo nel cuore delle culture, perché Egli è la luce che illumina la ragione, l’uomo e il mondo. Siamo posti anche noi di fronte al monito rivolto all’angelo della Chiesa di Efeso: «Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua costanza... Ho, però, da rimproverarti che hai abbandonato il tuo primo amore» ( Ap 2,2.4). Facciamo nostro il grido dello Spirito e della Chiesa: «Vieni!» ( Ap 22,17), e lasciamoci invadere il cuore dalla risposta del Signore: «Sì, verrò presto!» ( Ap 22,20). Egli è la nostra speranza, la luce per il nostro cammino, la forza per annunciare la salvezza con coraggio apostolico giungendo fino al cuore di tutte le culture. Dio vi assista nello svolgimento della vostra ardua ma esaltante missione!
Affidando a Maria, Madre della Chiesa e Stella della Nuova Evangelizzazione, il futuro del Pontificio Consiglio della Cultura e quello di tutti i suoi membri, vi imparto di tutto cuore la benedizione apostolica
Benedetto XVI


L'8 marzo "musica e vagiti" di una lista pazza in piazza Farnese
Da Foglio.it
La polemica con Napolitano che non cita le donne che aiutano le donne e le quattrocento aule scolastiche piene grazie a Paola Bonzi

“Paola Bonzi è qui per una riparazione istituzionale, perché oggi 8 marzo il presidente Giorgio Napolitano si è dimenticato di ringraziare le donne che aiutano le donne”, dice Giuliano Ferrara dal palco di piazza Farnese, affollato di strumenti e bandiere, di bambini e candidati e palloncini con scritto “Aborto? No Grazie”. Invece “nel suo ispirato discorso maschile, il capo dello stato avrebbe dovuto aggiungere che la libertà delle donne non si realizza spingendole in braccio ai chirurghi negli ambulatori abortisti. E che nel mondo centinaia di milioni di bambine vengono escluse dalla vita per decisione dello stato e di uno schiavismo genetico che meriterebbe la censura e la moratoria di tutte le nazioni civili”. E allora è giusto che sia Paola Bonzi la prima candidata della lista ad andare al microfono, che ancora vibra delle note e delle parole di Ferretti Giovanni Lindo, che potete godervi integrali qui sotto: “Dispiace che qualcuno si consideri scimmia nuda o poco altro, deve essere la conseguenza insalubre del troppo rimirarsi l’ombelico… umani siamo, donne e uomini, non è mai troppo né troppo poco”. Poi Giuliano Ferrara accompagna Paola Bonzi al microfono di questo 8 marzo diverso, molto diverso dalle “dimenticanze” dei politici e dalla “cultura della morte, che non sopravviverà”. E Paola Bonzi parla come fa sempre, con entusiasmo, racconta a donne e mariti, ai militanti venuti da Giarre, da Pisa, da Milano, delle migliaia di donne che ha aiutato “a nascere come mamme” in questi ventitré anni di impegno al Centro aiuto alla vita della Mangiagalli; e dei novemila bambini che ne sono nati, “e che sapete quanti sono? Sono come quattrocento classi di scuola, immaginateli. Ma noi ne vogliamo ancora di più, li vorremmo far nascere tutti”. Poi tocca a Olimpia Tarzia, anche lei con la sua lunga militanza nel Movimento per la vita, e poi anche nell’impegno in politica. Con piglio pasionario ha parlato del welfare, del welfare per le famiglie e per le donne che non c’è, e che invece ci dovrebbe essere, in questo paese di vecchi. Ma anche della necessità di superare una cultura ormai ancora più vecchia, quella del femminismo ideologico, per la quale essere donna non poteva che essere la negazione dell’essere madre e l’aborto l’emblema rivendicato della “libertà di scelta”. Ci sono tutte le parole e tutti i temi di chi vuole bene alle donne, all’8 marzo per la vita di piazza Farnese. Matilde Leonardi, neurologa pediatrica, ci mette la sua competenza scientifica, e anche sulle legislazioni internazionali che tutelano (o invece no) il diritto di nascere. Ci mette soprattutto la passione di un’idea, quella di appartenere a “una generazione che non può restare ferma alla ‘conquista’ di una generazione fa, la legge 194. Ma che deve dire che oggi è necessario scegliere davvero: cioè scegliere di non usarla, quella legge”. Agnese Pellegrini, giornalista impegnata da anni nella militanza pro life, ha insistito su un altro tema del sì alla vita, e lo potremmo chiamare il tema di “Juno”: si può anche non accettarla, la maternità, e per mille motivi. Ma questo può non corrispondere per forza, o per inerzia, a negare una vita che invece può essere fatta nascere, e poi affidata ad altri. Perché dire no all’aborto è responsabilità di tutti, pure degli uomini, come ha ricordato la “Lettera alle donne” di Wojtyla che Pellegrini ha scelto di leggere. Il tempo ha tenuto, il cielo era viola e blu, la musica bella. Perché “la vita è arcigna con coloro che le tengono il broncio”, come ha detto Maurizio Crippa, citando nel suo intervento Emmanuel Mounier. Eravamo una dozzina. Nessuno arcigno.
di Maurizio Crippa


Il canto libero di Ferretti Giovanni Lindo
Da Foglio.it
Piazza bella piazza a sostegno di una lista pazza
S'OSTINA
Da giovane frequentavo le piazze. Ogni sabato pomeriggio, per qualche anno, sono sceso in piazza a manifestare: occasioni internazionali, nazionali, locali, non mancavano. C’era sempre una bastarda repressione da contrastare, una nobile causa da sostenere. Certo non sono stato né il primo né l’ultimo che, nell’assoluta convinzione di essere libero, padrone della propria esistenza e votato alla miglior causa si è ritrovato poi a constatare l’infinita distanza, spesso la netta contrapposizione, tra la realtà e le parole usate per comprenderla e raccontarla. Tra la complessità del vivere e la sua riduzione a sequela rancorosa e lineare, tra il mistero della vita e la lista delle rivendicazioni. Convinto di luccicare di verità e di libertà mi sono ritrovato a proteggere l’oppressione e servire la menzogna. E’ stata la guerra che ha distrutto la Jugoslavia a travolgermi: la realtà e l’ideologia che avrebbe dovuto decodificarla erano inconciliabili. Anzi, l’ideologia che sostenevo era un peggiorativo dell’esistente. Un po’ come chi semina vento, raccoglie tempesta e si rammarica per il maltempo. A Mostar, ridente cittadina europea a vocazione turistica, travolta dall’odio e dal sangue, la realtà si presentava in forma beffarda. La linea del fuoco, cannoneggiata bombardata cecchinata, era il “viale della pace e della fratellanza tra i popoli”: il dogma dell’internazionalismo socialista e la bandiera del pacifismo. Sono stato costretto a guardare la realtà con i miei occhi, ad ascoltare con le mie orecchie, a toccare con mano. Mi sono ricordato che, da qualche parte c’era un cuore e, per quanto maltrattata, avevo un’anima. Così ero stato allevato e ben educato: era il caso di ricominciare da lì. Trovarmi altri maestri, nuovi insegnanti, vecchi insegnamenti.
LE COSE CAMBIANO
Me ne sono tornato a casa. Molte incombenze quotidiane, nessuna pretesa, nessuna rivendicazione. Fosse servito a qualcosa prendermi a schiaffi per la mia dabbenaggine l’avrei fatto. Ho preferito ringraziare per la vita che mi era stata donata. Non immaginavo un qualsiasi pubblico impegno per l’avvenire ma, per l’appunto, la vita oltre che dono, meraviglioso comunque, è un mistero che non siamo noi a determinare. Non così tanto come vorremmo. C’è altro oltre la nostra buona o pessima volontà. Ho cominciato a comprare il Foglio. La prima volta che l’ho visto, sullo scaffale di un’edicola, l’ho comprato, con un po’ di imbarazzo residuale, perché era bello. Come? – mi sono detto – in un tempo in cui i giornali sono sempre più gravati da titoli, fotografie, rubriche, allegati, colori, chi è che si permette tanta eleganza formale, tanta leggerezza?. Il Foglio è diventato il mio legame quotidiano con il contemporaneo e poi molto di più perché mi ha aperto alla conoscenza di mondi sconosciuti di cui percepivo la mancanza: il pensiero neo-conservatore americano, tanto per dirne uno. Grazie, di cuore, Giuliano Ferrara.
SIAMO CASI DIFFICILI
Un giorno al bar mentre bevevo il caffè mi sono messo a sfogliare l’Espresso che “dalla A alla Z” snocciolava tutti i bei nomi della musica, dello spettacolo. Tutti a favore dell’abrogazione della legge sulla fecondazione assistita. La cosa che mi ha innervosito oltre ogni limite era l’assunto indubitabile: la musica è il bene, il giusto e da che mondo è mondo il bene e il giusto sono di sinistra sono progressisti. Mi sono sentito chiamato in causa, proprio io, ero pur sempre il cantante dei CCCP Fedeli alla Linea, dei CSI. Non ci ho mangiato, non ci ho dormito, finché non ho scritto una letterina e l’ho spedita al Foglio grazie al quale avevo scoperto che, anche in quel caso come nella mia vita, tra la realtà e le parole che la raccontano si può creare un corto circuito. Spacciare l’eugenetica per liberazione non mi pare bello. Spacciare i desideri per diritti non mi pare giusto. E se il mondo della musica lo fa, con quella nonchalance che rende evidente la propria superiorità morale e materiale, beh! allora toccava a me, nel mio piccolo, sostenere Giuliano Ferrara e il cardinale Ruini. Mai e poi mai avrei immaginato il risultato del referendum. Ho riso di cuore per giorni e giorni. Come? Tutta lì, in quella percentuale, l’Italia dei media, della cultura, dello spettacolo, del radioso futuro, dei diritti perfetti così come fan tutti, così come bisogna fare? Da allora ogni tanto scrivo al Foglio, ogni volta mi chiedo il perché, che senso ha, chi mi credo di essere? Non lo so, non so rispondermi, ma ci sono cose, problemi, accadimenti, che interrogano tutti, e ognuno secondo le proprie capacità e responsabilità, è chiamato a rispondere. Non si può far finta di niente. Non per le cose essenziali della vita, quelle davvero importanti.
AMANDOTI - Per sempre
Quanto suona strano, in un vortice di mutazioni e cambiamenti che inducono a reinventarsi la vita ogni giorno, ogni weekend, ogni stagione come se noi potessimo ricrearci a nostra immagine e somiglianza, a misura delle nostre voglie, dei nostri contrattempi! Un ciclo perpetuo di sfilate dove agli ingegneri sociali, come ai grandi sarti, spetta volare alto: alta moda, per i maestri del pensiero, gli organizzatori sociali, c’è il prêt-à-porter e alle grandi masse toccano i grandi magazzini, i saldi, l’usato comunque l’obbligo di far bella figura, essere, in tempo reale, aggiornati. Comunque la si rigiri, e si può rigirare all’infinito, trattasi sempre di braghe o di gonne. Hai voglia di chiamarli pareo o salopettes. Trattasi dell’umano: maschi e femmine. Declinabili, i due, in tutte le variazioni possibili, inimmaginabili a priori ma, dal momento del concepimento alla morte, vivi, vitali, in atto e in potenza. Trattasi della meraviglia del creato, delle creature, questi esseri miserrimi e sorprendenti che noi tutti siamo, trattasi dell’uomo. Dispiace che qualcuno si consideri scimmia nuda o poco altro. Deve essere la insalubre conseguenza del troppo rimirarsi l’ombelico; un delirio d’onnipotenza ribaltato. Umani siamo, donne e uomini, non è mai troppo né troppo poco.
DEL MONDO - Glorifichi la vita
Mai avrei immaginato di ritrovarmi, a 54 anni, in così bella piazza a festeggiare le donne, la vita, a festeggiare l’8 marzo. Una data che mi sovrasta e un po’ mi imbarazza. So di mille osservazioni possibili, dall’astioso allo strafottente, tutte valide. A mio favore ho solo un motivo: sostenere con la mia presenza, la mia parola, il mio canto: la campagna per la moratoria: “Aborto? No, grazie!” così come è stata pensata e costruita da Giuliano Ferrara e il Foglio. Dalla petizione alla lista. Con tutti i dubbi, le perplessità, il giorno dell’angoscia e i molti della felicità; a ognuno i suoi. Come vi ho detto, mia volontà era di non assumermi alcuna responsabilità pubblica, non farmi arruolare in nessun caso, memore anche di troppe cause sbagliate e insofferente verso i media e la smania di apparire che ci sovrasta, ma sono le persone che si incontrano a fare la differenza. E succede. Sono le persone, nella loro corposità, nel loro comportarsi, nel loro esserci che mi fanno cambiare nei miei buoni proponimenti di montanaro scontroso e scantonante.
Era già successo lo scorso anno ed erano stati gli occhi di due donne, una anziana e una giovane, la loro luminosità velata da una tristezza che durava da troppo tempo a farmi decidere, di colpo, di organizzare un 25 aprile, la festa della liberazione dal nazifascismo, perché vivesse, non fosse cancellata la memoria di un fratello e uno zio prima calunniati poi uccisi poi rigettati da una retorica faziosa e falsa. L’abbiamo chiamato: un 25 aprile solitario, in onore di Giorgio Morelli, nome di battaglia Il Solitario, in onore del comandante Azor, dei partigiani cattolici di Reggio Emilia. Un 25 aprile sui monti che li avevano visti prima ribelli, poi vittoriosi, poi assassinati, poi defraudati del loro valore, della loro storia. Una messa a suffragio, un pranzo ipercalorico all’aperto, un piccolo concerto, la recita del S. Rosario. Due-trecento persone per un 25 aprile solitario. Troppo pochi? I partigiani erano meno. Sono le persone, solo le persone, a essere importanti, sempre. In una comunione tra i morti, i viventi, i non ancora nati. I numeri non sono che l’infinita variazione dell’uno. E’ successo di nuovo oggi, 8 marzo 2008, ne sono felice. Ci voleva Giuliano Ferrara. Non che manchino persone meravigliose, a me sconosciute, che dedicano il proprio tempo, la propria vita, i propri scritti, all’onore nascosto e mistificato dell’aborto. E’ che le idee, la speranza e i fatti che ne conseguono viaggiano con le persone che ne sono sostegno e incarnazione. E poi serve un contesto che permetta di fiorire e crescere. Serve la terra, l’acqua, il sole. Serve la giusta dose di concime e al fondo ci vuole buon umore. Quel buon umore che unito alla conoscenza e all’intelligenza permette di far fronte tanto alle tragedie dell’umanità che alle interviste televisive. Quel buon umore che, unito all’amore per l’uomo, è il solo che può incrinare e combattere il sublime convincimento che non c’è problema, oppure c’è ma non bisogna parlarne, oppure bisogna parlarne ma non in campagna elettorale e comunque deve essere chiaro che è tutta una mossa del cardinal Ruini, delle forze oscure e clericali, il ritorno ai tempi bui, lo spettro della Reazione. E’ il buon umore, e un po’ di strafottenza, che può intaccare la pressante invocazione all’Italia perché diventi al fine un paese normale. Normale? Normale a chi? Detto da chi fa culto di ogni trasgressione. Sarebbe normale essere accusati d’oscurantismo antiscientifico perché si fa presente che la tecnica odierna permette di fotografare i bimbi nel ventre materno? Ed è evidente all’occhio e al cuore che trattasi di bimbi, personcine. Sono bimbi, sono figli, nipoti. Sono innocenti, deboli, indifesi. Sarebbe normale accusare di visione reazionaria chi si ribella a un determinismo genetico che fa dei non ancora nati oggetto di ogni sperimentazione, di ogni abuso, ne fa oggetti di selezione e commercializzazione? Si tratta del mistero della vita, la vita in atto, in un ciclo umano che va dal concepimento alla morte naturale. Per ciò che mi riguarda la morte non è che un passaggio ad altro: il giudizio, l’inferno o il paradiso, ma questa è fede e la fede è un dono non un’imposizione e tantomeno un motivo d’orgoglio che sottintenda una superiorità morale. Anche la vita è un dono, ma è carne, è palpabile, dimostrata. Si può fotografare, raccontare con dovizia di particolari, si può cantare nelle canzoni e farci dei bei film. Ci sono mille obiezioni possibili alla presentazione di questa lista ma sono di natura politica, corrente e ordinaria, non valgono. E’ la politica a essere in funzione della vita, non viceversa. Se non c’è rispetto per la vita la politica è solo accaparramento e distribuzione del potere. Legittimo ma un po’ poco, troppo poco.
Per quanto riguarda la conta dei numeri il rischio è alto ma io faccio riferimento alla risposta del patriarca ortodosso: “Mi dicono coloro che si interessano di numeri…”, un incipit che rende onore a tale interesse ma non ne fa ragione per la propria esistenza. Che qualcuno, anche pochi, pongano oggi a base della politica nella sua totalità, la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale è indispensabile. E’ giusto, è bello e mette di buon umore. Comunque è una semina e non sempre chi semina raccoglie ma se nessuno semina chi raccoglierà? Benvenuta sorella lista.
LA VITA E’ UNA GRAN COSA - TE DEUM
di Ferretti Giovanni Lindo



I mostri di Odifreddi e la veglia della ragione
di Vittorio Messori
Le liste dei best seller lo confermano: è in corso, in Occidente, una campagna antireligiosa, in particolare anticristiana. Anzi, in modo privilegiato anticattolica, con una virulenza di cui, da noi, un Piergiorgio Odifreddi è un paladino esemplare. Riesumando il termine del Terrore giacobino (“la Superstition“, con il corollario volterriano di un“Ecrasez l’Infame!“), ci esortano ad impegnarci contro i miti religiosi, per costruire una società finalmente atea, basata sulle certezze della scienza. I corifei di questa crociata all’inverso si riconoscono nelle parole che stanno sotto la celebre incisione di Goya e che spesso, tutti, ripetono : <>. Se non ci libereremo dalle leggende religiose, le fauci del drago continueranno a minacciarci.
Si può discuterne. Smettendola, però, con una mistificazione, denunciata di recente anche dalla Civiltà Cattolica. Sueño significa, in spagnolo, sia “sonno“ che “sogno“ . E proprio a quest’ultimo significato pensava (è certo) quell’antilluminista che fu Goya, colui che con la sua arte ha denunciato gli orrori concreti dei miti rivoluzionari imposti dalle baionette francesi. Dunque, la celebre frase vuol dire esattamente il contrario di quanto hanno voluto farci credere i fautori del razionalismo. I mostri, cioè, vengono non dal sonno bensì dalla veglia della ragione, quando coltiva il sogno di mondi nuovi e perfetti, quando dà veste ideologica a quelle utopie “razionali“, “scientifiche“ che, promettendoci il paradiso in terra, hanno prodotto gli inferni che hanno devastato gli ultimi due secoli.
© Corriere della Sera


L’aborto e la sindrome del sopravvissuto
L’aborto ha trasformato i figli, i nostri figli, in un esercito di sopravvissuti, “survivors”, come la psicologia anglosassone chiama chi è passato attraverso un pericolo mortale. Da qui l’insicurezza, la fragilità che caratterizza i giovani delle grandi società abortiste d’Occidente…
di Claudio Risé
L’aborto non è solo il più preciso indicatore della vitalità, o delle tendenze mortifere, di una società, come abbiamo visto la scorsa settimana. E’ anche l’indicatore della salute mentale dei suoi componenti.
La società che legittima ed utilizza l’aborto ha due caratteristiche precise. La prima è l’onnipotenza: la fantasia di potere sulla vita e sulla morte. L’altra, poiché l’onnipotenza nell’uomo non può essere che immaginaria, è quel profondo senso di insicurezza che si impadronisce di chi si è illuso di possederla.
Il terreno su cui si gioca la difficile partita dell’equilibrio umano è quello oggi prediletto dai moderni deliri tecnoscientifici, e dai sistemi totalitari che li hanno coccolati fin dall’inizio per i sogni di potere che essi lasciano immaginare: il campo della nascita, e della morte. E’ lì che si legittimano, ed utilizzano, appunto le pratiche dell’aborto e dell’eutanasia, come strumenti di un potere sulla vita, che dischiude fantasie di immortalità. Sono i punti estremi di quel “biopotere”, o potere sulla vita, nel quale il filosofo Michel Foucault aveva individuato una delle caratteristiche della modernità.
L’evento della nascita, dell’arrivo del figlio, era rimasto fino a un paio di generazioni fa avvolto nella dimensione sacra della comunicazione con Dio, o con un sovramondo (a seconda delle diverse concezioni religiose e filosofiche), al di sopra e al di là di noi. Questo Altro comunicava con noi anche attraverso questo avvenimento decisivo: il prendere forma e vita di una nuova persona umana. Della quale, proprio perché veniva da un altrove, secondo un disegno di cui noi eravamo solo esecutori, noi non avevamo certo la proprietà, ma solo la custodia. Che poteva essere amorosa, od anche negligente, ma in nessun caso aveva qualcosa a che fare con la proprietà.
Con la legittimazione dell’aborto invece, e le manipolazioni genetiche che sempre l’accompagnano, la nascita entra nella sfera del biopotere, del potere sulla vita, che ci si immagina non abbia più nulla a che vedere con Dio, ma viene per così dire spartito fra lo Stato (il legislatore che norma i modi della nascita e della sua manipolazione), ed i genitori che scelgono i tempi e le forme del “loro” bambino.
Nasce così la nuova figura psicologica, terribilmente simile ad un bene di consumo, del “bambino desiderato”, che spodesta sempre di più l’immagine, omai arcaica, del “bambino capitato”. Desiderato anche lui, ma certo meno programmato e “scelto” fino ai minimi dettagli, come la tecnologia genetica spinge a fare.
Il bimbo desiderato però, ha un suo inevitabile doppio: il bimbo soppresso con l’aborto, non arrivato alla nascita appunto perché autonomo, “deviante” rispetto alla politica procreativa familiare/statale. L’aborto ha così trasformato i figli, i nostri figli, in un esercito di sopravvissuti, “survivors”, come la psicologia anglosassone chiama chi è passato attraverso un pericolo mortale. Da qui l’insicurezza, la fragilità che caratterizza i giovani delle grandi società abortiste d’Occidente; la loro costante richiesta di conferma, di prove d’affetto, che non bastano mai a rassicurarli veramente.
Narcisisti, dicono gli psicologi. Bamboccioni, è invece la sentenza dei vecchi babbioni. Sopravvissuti: è il temine giusto. La loro vita è assediata da angosce ancora poco studiate.
Tempi 6 marzo 2008, www.tempi.it


Io, Lerner, mio padre minatore e i sessantottini al potere
08.03.2008 Mentre assistiamo sbigottiti e disgustati alle candidature – ultimo segno di una totale decadenza e inaffidabilità della politica – sto seriamente maturando un’idea: non vedo l’ora di non votare. Per la prima volta in vita mia…
P.S. Finalmente è stata riattivata la posta al mio sito. Basta cliccare sopra “scrivimi”. “GAFFE” LERNER, LA VOCE DEL PADRONE E L’OPERAIO DELLA THYSSEN UMILIATO

da “Libero” 7 marzo 2008
Non so se Gad Lerner (che torna ad essere per l’occasione “Gaffe” Lerner) si sia risentito quando, nel suo blog, sono arrivati questi messaggi indignati (con lui) per ciò che è accaduto mercoledì sera al suo programma, L’Infedele. Di sicuro deve esserne imbarazzato Fausto Bertinotti (come vedremo).
Prima di leggere alcune di queste mail riassumo l’accaduto. Il titolo della puntata era “Povero Marx imbavagliato!”, con tanto di foto del filosofo barbuto col bavaglio. A essere silenziato e strapazzato in modo imbarazzante da Lerner, però, è stato l’operaio simbolo dell’attuale classe operaia (sedotta e abbandonata), ovvero Ciro Argentino, il giovane lavoratore della ThyssenKrupp, amico dei poveri operai morti in fabbrica a Torino nel rogo del dicembre scorso.
Argentino era stato invitato alla trasmissione insieme con due ospiti politici: Fausto Bertinotti e Matteo Colaninno (figlio di Colaninno), già dirigente di Confindustria e oggi capolista del Pd in Lombardia. Evidentemente l’operaio era stato chiamato lì per dar voce alla rabbia operaia (di questi tempi più che giustificata), ma siccome non si comportava a comando e ha osato per due volte disturbare il signor Colaninno, sovrapponendo la sua voce alla voce del padrone, per lesa maestà ha scatenato la spropositata reazione di Lerner che gli ha intimato – con toni che oggi nessuno usa - di non disturbare più o altrimenti di andarsene. Il povero operaio intimidito, zittito e pallido, non ha più osato “disturbare”, non trovando il coraggio di alzarsi e mandare a quel paese il conduttore.
La scena ha colpito molti. E qualcuno ha scritto subito al blog di Lerner. Giuseppe A. Possedoni, per esempio, ha inviato questa mail: “Caro Collega, nella tua, come in ogni altra trasmissione che diffonde dibattiti in tv, le interruzioni, anche irruente e fatte con toni in grado di innervosire un morto, avvengono continuamente. Solo nel tuo programma di stasera, però, mi è capitato di vedere il conduttore (cioè tu) rivolgersi a un ospite nel modo assolutamente inammissibile che hai usato nei confronti dell’operaio della Thyssen quando ha dato sulla voce all’imprenditore Colaninno”. Un certo Sandro, a sua volta, osserva sarcastico: “E bravo gaddino, lo sapevo che avrebbe fatto carriera, l’ho sempre saputo fin da quando facevo il ‘gabbiottaro’ a Lotta Continua…. ma certe volte riece a sorprendermi per la sua scorrettezza dialettica come quando zittisce l’operaio della Thyssen trattenendo, anzi non trattenendo, lo sdegno per le pressanti domande che mettono in difficoltà il suo ‘protetto’ Colaninno. Poi qualcosa sull’ex ‘prodiano’ Bertinotti: è passato senza soluzione di continuità dal sostegno al moderato liberismo del governo alla sferzante retorica classista (ma ndò stava negli ultimi due anni?)…..non più credibile!!!!”.
Infine un’altra telespettatrice, Silvana Mazzarello, scrive a Lerner: “Ti ho sempre ammirato molto e non mi perdo una tua trasmisione ma….(e qui la mail diventa tutta maiuscola, nda) non permetterti mai più di umiliare ed azzittire nel modo che hai usato stasera una persona come l’operaio che hai bistrattato. C’è modo e modo !!! Capisco che non ti stia simpatico perché probabilmente non vota Pd. Però non ti puoi permettere di riversare su gente che già sta soffrendo una situazione anche la pubblica umiliazione. Chiaro ?!!!”.
Probabilmente è stato più di un incidente. Più di una gaffe. Lerner, nei suoi programmi, ha sempre dedicato molta attenzione al mondo operaio e di recente, dopo la tragedia della Thyssen, ha realizzato pure uno speciale dell’Infedele sugli operai di Torino. La sua è infatti la generazione che è passata da Lotta continua e Potere operaio al Palazzo del potere. E’ l’informazione di Sinistra. Allora come si spiega l’incidente di mercoledì sera? Prima spiegazione: è stata solo una gaffe. Probabile, può capitare a tutti di sbagliare. Ma c’è anche una seconda spiegazione possibile (e se ne trova traccia nel blog di Lerner): si può ritienere che ieri come oggi questi intellettuali di sinistra sempre abbiano pensato gli operai come scenografia e tappezzeria, da far parlare o gridare a comando, all’interno del proprio palinsesto ideologico. Una volta Bertinotti diceva che il Pci aveva insegnato agli operai a non togliersi più il cappello davanti al padrone. Mercoledì si è avuta la sensazione che si sia fatto togliere di nuovo il cappello all’operaio davanti al padrone, capitalista “illuminato” candidato del Partito democratico. E’ stata una scena imbarazzante. Molti hanno avuto la percezione di cosa sia la Casta.

Anche perché al telespettatore veniva da pensare che il debordante conduttore non si permette di rivolgersi con quei toni agli ospiti “importanti”, come certi industriali e banchieri, o D’Alema o Bertinotti. E il compagno Bertinotti – di fronte a quella scena umiliante – non ha sentito il bisogno di intervenire per dire a Lerner che, a quel punto, insieme all’operaio se ne sarebbe andato anche lui.

A meno che mi sia sfuggito qualcosa, è stato lì a guardarsi la reprimenda senza obiettare. Chi tace acconsente. Eguale atteggiamento del resto ha tenuto “la mia saggia amica Lella Costa” (come si esprime Lerner, pratico di salotti sessantottini) e pure “il prete di strada don Andrea Gallo”. Tutti “de sinistra”, a parole, ma incapaci di sollevare la minima obiezione di fronte a una scena avvertita, almeno da certi telespettatori, come un’umiliazione. Il contributo della signora Costa, in tutta la serata, si è sostanziato in una battutella freddina su Fabrizio Corona che non c’entrava niente ed era peraltro assente. Che talento umoristico! Peccato non si sia cimentata sui due ospiti presenti, Bertinotti e Colaninno. O su Lerner e la sua sfuriata.
Probabilmente i presenti neanche si sono resi conto dell’assurdità della scenata perché forse danno per scontato che l’operaio – ancorché chiamato come ospite in un programma – non deve disturbare e deve aprir bocca quando lo decide l’illuminato Conduttore. Quella è la sua parte in commedia. L’operaio deve far casino solo se sono i sindacati o il partito a ordinarglielo. Se invece è il cuore, la coscienza, la dignità a farlo parlare – mettendo così in imbarazzo il signor Colaninno, chiaramente a digiuno di politica, ma schierato a Sinistra – allora la voce del proletariato si può silenziare e poi si può proseguire amabilmente la borghese conversazione salottiera.

Era chiaro che Colaninno, il quale si è sempre presentato in tv come confindustriale e mastica poco di politica, fosse in fortissimo imbarazzo di fronte a chi lo contestava da sinistra e a chi ironizzava sul suo sbarco nel partito di D’Alema e Veltroni. Ma così “scortato” da Lerner ha dato la sensazione di essere molto a corto di argomenti. Ha dato l’impressione di essere l’ultimo rampollo di quella borghesia italiana che si è sempre caratterizzata per la furbizia. Col cuore a sinistra e il portafogli a destra. Solidarietà vivissime dunque a Ciro Argentino. La classe operaia non va in Paradiso, con questa Sinistra, e chissà che non mandi tutti all’inferno.
Antonio Socci


«La Ru486, un aborto brutale» Avvenire, 9.3.2008
DA MILANO ILARIA NAVA
« B ene, pensate quello che vi pare riguardo all’aborto, ma di certo passare con nonchalance due pillole a una donna, aspettare che vada a casa, si faccia venire i crampi, sanguini fino a cosa fatta e poi? Tiri lo sciacquone? È una brutalità esagerata. È ovviamente, una brutalità verso il feto ma, accidenti, è anche una brutalità estrema verso la donna». Le parole dell’insospettabile scrittrice inglese India Knight sulla Ru486 sono riecheggiate venerdì sera nel corso del convegno organizzato a Milano dal Movimento per la vita (Mpv) ambrosiano in collaborazione con l’Amci, l’associazione medici cattolici, di Milano. Ad aprire i lavori il presidente del Mpv ambrosiano Paolo Sorbi insieme a Giorgio Lambertenghi, presidente di Amci Milano. «Mettiamo al centro la vita» il titolo dell’evento, anche se i relatori si sono maggiormente concentrati sull’attualissimo tema della pillola abortiva. Un’occasione preziosa, che ha permesso di far conoscere al pubblico presente, circa una sessantina di persone, alcuni discutibili aspetti di questa modalità abortiva. Tra i più inquietanti quelli legati alla salute della donna, evidenziati da Nicola Natale, responsabile dell’Unità operativa di ginecologia della clinica milanese S. Rita: «Su 950 casi di donne americane che hanno accusato postumi negativi in seguito all’assunzione della Ru486 – ha sottolineato il professor Natale citando dati del 2006 della Food and Drug Administration, l’ente statunitense di controllo sui farmaci – 116, ossia il 12,2% ha avuto bisogno di trasfusioni di sangue in seguito all’emorragia». Oltre a evidenziare i numerosi effetti collaterali della pillola abortiva, che può essere assunta entro il 49° giorno di gravidanza, non sono stati tralasciati i dati relativi agli esiti mortali «Sono sedici i casi di morte materna registrati nel mondo occidentale a seguito dell’assunzione della Ru486, ma a questi vanno ad aggiungersi i casi, non documentati, che possiamo supporre si siano verificati negli altri Paesi in cui è in uso». Le tappe del percorso di autorizzazione all’immissione in commercio della pillola abortiva in Italia sono state illustrate da Diego Cremona, avvocato e membro del direttivo nazionale del Mpv, che ha evidenziato anche alcune obiezioni che l’Italia potrebbe muovere alla procedura europea, che di solito viene impropriamente definita come «automatica»: «C’è un aspetto che desta grande preoccupazione: per l’aborto chimico sono necessarie due diverse sostanze. La seconda pillola, il Cytotec (misoprostolo), che serve per indurre le contrazioni uterine utili all’espulsione del feto, andrebbe prescritta off label, ossia fuori dalle indicazioni terapeutiche autorizzate, e contro il parere della stessa ditta produttrice del farmaco, la Searle, che lo ha testato solo come antiulcera». A tutto ciò si aggiunga l’aspetto di incompatibilità con la legge 194: «Dobbiamo chiederci se sia ammissibile introdurre per via amministrativa una procedura abortiva che si scontra di fatto e di diritto con la disciplina vigente per l’interruzione volontaria della gravidanza, introdotta, lo ricordiamo, per “socializzare il dramma dell’aborto”, che impone che tutto avvenga sotto stretta osservanza di strutture mediche autorizzate e con obblighi di informazione che il metodo farmacologico esclude o, almeno, consente ampiamente di eludere».
L’opinione della scrittrice inglese Knight al convegno del Movimento per la vita ambrosiano. Ribadite le gravi preoccupazioni sanitarie per un farmaco che è anche poco compatibile con la legge 194


Un vescovo e un rabbino difendono la preghiera per la salvezza degli ebrei
Il vescovo è Gianfranco Ravasi. Il rabbino è Jacob Neusner. La preghiera è quella del Venerdì Santo in rito antico. Ecco perché Benedetto XVI ha voluto cambiarne il testo


di Sandro Magister

ROMA, 7 marzo 2008 – Alcuni esponenti di rilievo del mondo ebraico avevano protestato vivacemente contro la nuova formulazione voluta da Benedetto XVI della preghiera per i giudei nella liturgia del Venerdì Santo, secondo il rito antico.

A queste proteste è ora arrivata una risposta autorevole, in una breve nota pubblicata sull'ultimo numero della "Civiltà Cattolica", la rivista dei gesuiti di Roma stampata con il controllo previo, riga per riga, della segreteria di stato vaticana.

In più, nei giorni scorsi sono intervenuti in difesa della nuova formulazione anche personalità importanti della Chiesa cattolica e del mondo ebraico: da una parte l'arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio della cutlura, e dall'altra il rabbino Jacob Neusner (nella foto), professore di storia e teologia del giudaismo al Bard College di New York, autore ampiamente citato da Benedetto XVI, con reciproca stima, nel suo libro "Gesù di Nazaret".

In breve, questi sono gli antefatti.

Fino a un anno fa nella liturgia del Venerdì Santo di rito antico – il cui uso è stato liberalizzato da papa Joseph Ratzinger con il motu proprio "Summorum Pontificum" del 7 luglio 2007 – si invitava in latino a pregare per i giudei "affinché Dio e Signore nostro tolga il velo dai loro cuori, perché anch’essi riconoscano Gesù Cristo, nostro Signore".

E subito dopo l'orazione era così formulata:

"Dio onnipotente ed eterno, che non respingi dalla tua misericordia neppure i giudei, esaudisci le nostre preghiere che ti presentiamo per l’accecamento di quel popolo; affinché, riconosciuta la verità della tua luce, che è Cristo, siano liberati dalle loro tenebre. Per lo stesso Cristo Signore nostro, Amen".

Benedetto XVI, con una nota della segreteria di stato pubblicata il 6 febbraio 2008 su "L'Osservatore Romano", ha cambiato le parole sia dell'invito alla preghiera che dell'orazione.

Il papa ha disposto che, nella liturgia di rito antico, si inviti a pregare per gli ebrei "affinché Dio e Signore nostro illumini i loro cuori perché riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini".

E poi si pronunci questa orazione:

"Dio onnipotente ed eterno, che vuoi che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità, concedi nella tua bontà che, entrando la pienezza dei popoli nella tua Chiesa, tutto Israele sia salvo. Per Cristo nostro Signore. Amen".

In latino il nuovo testo dell'invito è il seguente:

“Oremus et pro Iudaeis. Ut Deus et Dominus noster illuminet corda eorum, ut agnoscant Iesum Christum salvatorem omnium hominum".

E quello dell'orazione:

“Omnipotens sempiterne Deus, qui vis ut omnes homines salvi fiant et ad agnitionem veritatis veniant, concede propitius, ut plenitudine gentium in Ecclesiam Tuam intrante omnis Israel salvus fiat. Per Christum Dominum nostrum. Amen”.

Stando alla nota pubblicata su "La Civiltà Cattolica", questa sarebbe stata la ragione del cambiamento:

"Nell’attuale clima di dialogo e di amicizia tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico è sembrato giusto e opportuno al papa [fare questo cambiamento], per evitare ogni espressione che potesse avere anche la più piccola apparenza di offesa o comunque dispiacere agli ebrei".

Le parole della precedente formulazione che a molti – sia ebrei che cattolici – apparivano offensive erano soprattutto "accecamento" e "tenebre". Entrambe sono sparite dal nuovo formulario.

Ma ciò non ha impedito che dal mondo ebraico si levassero nuove proteste.

La più aspra è venuta dall'assemblea dei rabbini italiani. In un comunicato firmato dal loro presidente, Giuseppe Laras, hanno detto che la nuova preghiera costituisce "una sconfitta dei presupposti stessi del dialogo" ed è "solo apparentemente meno forte" della precedente. Essa "legittima anche nella prassi liturgica un’idea di dialogo finalizzato, in realtà, alla conversione degli ebrei al cattolicesimo, ciò che è ovviamente per noi inaccettabile". E quindi, "in relazione alla prosecuzione del dialogo con i cattolici, si impone quanto meno una pausa di riflessione che consenta di comprendere appieno gli effettivi intendimenti della Chiesa cattolica circa il dialogo stesso".

Altre comunità ebraiche, specie americane, hanno reagito in modo meno duro, negando che la nuova preghiera metta in pericolo il dialogo con la Chiesa. Un dialogo che di per sé – ha rimarcato "La Civiltà Cattolica" – "non è finalizzato alla conversione degli ebrei al cristianesimo, ma si propone l’approfondimento della mutua conoscenza in campo religioso, la crescita della reciproca stima e della collaborazione nei settori della pace e del progresso, oggi messi in grave pericolo".

Quanto alla nuova formulazione della preghiera, la nota della "Civiltà Cattolica" così conclude, con un periodare un po' contorto:

"Essa non ha nulla di offensivo per gli ebrei, perché in essa la Chiesa chiede a Dio quello che san Paolo chiedeva per i cristiani: che, cioè, 'il Dio del Signore nostro Gesù Cristo [...] possa illuminare gli occhi della mente' dei cristiani di Efeso perché possano comprendere il dono della salvezza che essi hanno in Gesù Cristo (cfr Efesini 1,18-23). La Chiesa infatti crede che la salvezza sia soltanto in Gesù Cristo, come è detto negli Atti degli Apostoli (4,12). È chiaro d’altra parte che la preghiera cristiana non può non essere che 'cristiana', fondata, cioè, sulla fede – che non è di tutti – che Gesù è il Salvatore di tutti gli uomini. Perciò gli ebrei non hanno motivo di offendersi se la Chiesa chiede a Dio che li illumini affinché riconoscano liberamente Cristo, unico Salvatore di tutti gli uomini, e siano anch’essi salvati da Colui che l’ebreo Shalom Ben Chorin chiama il Fratello Gesù".

Naturalmente, la nuova formulazione della preghiera vale solo per la liturgia di rito antico. E quindi nella quasi totalità delle chiese cattoliche il prossimo Venerdì Santo si continuerà a pregare per gli ebrei con il formulario del messale di Paolo VI del 1970.

Secondo questo formulario universalmente più diffuso, si prega per gli ebrei affinché Dio “li aiuti a progredire sempre nell'amore del suo nome e nella fedeltà alla sua alleanza”.

Parole ineccepibili – e in effetti mai contestate – ma anche meno ricche di rimandi biblici, all'Antico e al Nuovo Testamento, di quelle introdotte da Benedetto XVI con la sua variante del testo antico della preghiera.

Col nuovo formulario, infatti, papa Ratzinger ha non attenuato, ma molto rafforzato la preghiera con più pregnanti contenuti cristiani.

Da questo punto di vista, quindi, la nuova preghiera per gli ebrei nella liturgia in rito antico non impoverisce ma postula un arricchimento di senso della preghiera in uso nel rito moderno. Esattamente come in altri casi è il rito moderno a postulare un'evoluzione arricchente del rito antico. In una liturgia perennemente viva come quella cattolica, è questo il senso della coabitazione tra i due riti antico e moderno voluta da Benedetto XVI con il motu proprio "Summorum Pontificum".

Una coabitazione non destinata a durare ma a comporsi in futuro "di nuovo in un solo rito romano", prendendo il meglio da entrambi. Questo scrisse nel 2003 l'allora cardinale Ratzinger – svelando un suo recondito pensiero – in una lettera a un colto esponente del tradizionalismo lefebvriano, il filologo tedesco Heinz-Lothar Barth.

Tornando alla nuova formulazione della preghiera per gli ebrei nel rito antico, ecco qui di seguito come l'arcivescovo Gianfranco Ravasi – presidente del pontificio consiglio della cutlura ma anche biblista di fama mondiale – ne ha spiegato la stupefacente ricchezza in un articolo su "L'Osservatore Romano" del 15 febbraio 2008.

Con subito dopo uno scritto del rabbino americano Jacob Neusner, pubblicato in Germania il 23 febbraio 2008 su "Die Tagespost" e in Italia su "il Foglio" del 26 febbraio, anch'esso in difesa della nuova formulazione della preghiera.


1. "Oremus et pro Iudaeis"

di Gianfranco Ravasi


Un giorno Kafka all'amico Gustav Janouch che lo interrogava su Gesù di Nazaret rispose: "Questo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi".

Il rapporto tra gli ebrei e questo loro "fratello maggiore", come l'aveva curiosamente chiamato il filosofo Martin Buber, è stato sempre intenso e tormentato, riflettendo anche la ben più complessa e travagliata relazione tra ebraismo e cristianesimo. Forse sia pure nella semplificazione della formula è suggestiva la battuta di Shalom Ben Chorin nel suo saggio dal titolo emblematico "Fratello Gesù", del 1967: "La fede di Gesù ci unisce ai cristiani, ma la fede in Gesù ci divide".

Abbiamo voluto ricreare questo fondale, in realtà molto più vasto e variegato, per collocarvi in modo più coerente il nuovo "Oremus et pro Iudaeis" per la Liturgia del Venerdì Santo.

Non c'è bisogno di ripetere che si tratta di un intervento su un testo già codificato e di uso specifico, riguardante la Liturgia del Venerdì Santo secondo il "Missale Romanum" nella stesura promulgata nel 1962 dal beato Giovanni XXIII, prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Un testo, quindi, già cristallizzato nella sua redazione e circoscritto nel suo uso attuale, secondo le ormai note disposizioni contenute nel motu proprio di Benedetto XVI "Summorum Pontificum" del luglio 2007.

All'interno, dunque, del nesso che unisce intimamente l'Israele di Dio e la Chiesa cerchiamo di individuare le caratteristiche teologiche di questa preghiera, in dialogo anche con le reazioni severe che essa ha suscitato in ambito ebraico.

* * *

La prima è una considerazione "testuale" in senso stretto: si ricordi, infatti, che il vocabolo "textus" rimanda all'idea di un "tessuto" che è elaborato con fili diversi. Ebbene, la trentina di parole latine sostanziali dell'Oremus è totalmente frutto di una "tessitura" di espressioni neotestamentarie. Si tratta, quindi, di un linguaggio che appartiene alla Scrittura Sacra, stella di riferimento della fede e dell'orazione cristiana.

Si invita innanzitutto a pregare perché Dio "illumini i cuori", così che anche gli ebrei "riconoscano Gesù Cristo come salvatore di tutti gli uomini". Ora, che Dio Padre e Cristo possano "illuminare gli occhi e la mente" è un auspicio che san Paolo già destina agli stessi cristiani di Efeso di matrice sia giudaica sia pagana (Efesini 1, 18; 5, 14). La grande professione di fede in "Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini" è incastonata nella Prima lettera a Timoteo (4, 10), ma è anche ribadita in forme analoghe da altri autori neotestamentari, come, ad esempio, il Luca degli Atti degli Apostoli che mette in bocca a Pietro questa testimonianza davanti al Sinedrio: "In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati" (Atti 4, 12).

A questo punto ecco l'orizzonte che la preghiera vera e propria delinea: si chiede a Dio, "che vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità", di far sì "che, con l'ingresso della pienezza delle genti nella Chiesa, anche tutto Israele sia salvo". In alto si leva la solenne epifania di Dio onnipotente ed eterno il cui amore è come un manto che si allarga sull'intera umanità: egli, infatti si legge ancora nella Prima lettera a Timoteo (2, 4) "vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità". Ai piedi di Dio si muove, invece, come una grandiosa processione planetaria, che è fatta di ogni nazione e cultura e che vede Israele quasi in una fila privilegiata, con una presenza necessaria.

È ancora l'apostolo Paolo che conclude la celebre sezione del suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani, dedicata al popolo ebraico, l'olivo genuino sul quale noi siamo stati innestati, con questa visione la cui descrizione è "intessuta" su citazioni profetiche e salmiche: l'attesa della pienezza della salvezza "è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti; allora tutto Israele sarà salvato come sta scritto: Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà le empietà da Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati" (Romani 11, 25-27).

Un'orazione, quindi, che risponde al metodo compositivo classico nella cristianità: "tessere" le invocazioni sulla base della Bibbia così da intrecciare intimamente il credere e il pregare, la "lex credendi" e la "lex orandi".

* * *

A questo punto possiamo proporre una seconda riflessione di indole più strettamente contenutistica. La Chiesa prega per aver accanto a sé nell'unica comunità dei credenti in Cristo anche l'Israele fedele. È ciò che attendeva come grande speranza escatologica, cioè come approdo ultimo della storia, san Paolo nei capitoli 9-11 della Lettera ai Romani a cui sopra accennavamo. È ciò che lo stesso Concilio Vaticano II proclamava quando, nella costituzione sulla Chiesa, affermava che "quelli che non hanno ancora accolto il Vangelo in vari modi sono ordinati ad essere il popolo di Dio, e per primo quel popolo al quale furono dati i testamenti e le promesse e dal quale è nato Cristo secondo la carne, popolo in virtù dell'elezione carissimo a ragione dei suoi padri, perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili" (Lumen gentium, n. 16).

Questa intensa speranza è ovviamente propria della Chiesa che ha al centro, come sorgente di salvezza, Gesù Cristo. Per il cristiano egli è il Figlio di Dio ed è il segno visibile ed efficace dell'amore divino, perché come aveva detto quella notte Gesù a "un capo dei Giudei", Nicodemo, "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, e non lo ha mandato per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (cfr Giovanni, 3, 16-17). È, dunque, da Gesù Cristo, figlio di Dio e figlio di Israele, che promana l'onda purificatrice e fecondatrice della salvezza, per cui si può anche dire in ultima analisi, come fa il Cristo di Giovanni, che "la salvezza viene dai Giudei" (4, 22). L'estuario della storia sperato dalla Chiesa è, quindi, radicato in quella sorgente.

Lo ripetiamo: questa è la visione cristiana ed è la speranza della Chiesa che prega. Non è una proposta programmatica di adesione teorica né una strategia missionaria di conversione. È l'atteggiamento caratteristico dell'invocazione orante secondo il quale si auspica anche alle persone che si considerano vicine, care e significative, una realtà che si ritiene preziosa e salvifica. Scriveva un importante esponente della cultura francese del Novecento, Julien Green, che "è sempre bello e legittimo augurare all'altro ciò che è per te un bene o una gioia: se pensi di offrire un vero dono, non frenare la tua mano". Certo, questo deve avvenire sempre nel rispetto della libertà e dei diversi percorsi che l'altro adotta. Ma è espressione di affetto auspicare anche al fratello quello che tu consideri un orizzonte di luce e di vita.

È in questa prospettiva che anche l'Oremus in questione, pur nella sua limitatezza d'uso e nella sua specificità, può e deve confermare il nostro legame e il dialogo con "quel popolo con cui Dio si è degnato di stringere l'Antica Alleanza", nutrendoci "della sua radice di olivo buono su cui sono innestati i rami dell'olivo selvatico che siamo noi Gentili" (Nostra aetate, n. 4). E come pregherà la Chiesa nel prossimo Venerdì Santo secondo la liturgia del Messale di Paolo VI, la comune e ultima speranza è che "il popolo primogenito dell'alleanza con Dio possa giungere alla pienezza della redenzione".

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2. Anche Israele chiede a Dio di illuminare il cuore dei gentili

di Jacob Neusner


Israele prega per i gentili. Perciò anche le altre religioni monoteistiche, compresa la Chiesa cattolica, hanno il diritto di fare la stessa cosa, e nessuno dovrebbe sentirsi offeso. Qualsiasi altro atteggiamento nei confronti dei gentili impedirebbe a questi ultimi l’accesso all’unico Dio rivelato a Israele nella Torah.

La preghiera cattolica manifesta lo stesso spirito altruista che caratterizza la fede del giudaismo. Il regno di Dio apre le proprie porte a tutta l’umanità: quando pregano e chiedono il rapido avvento del regno di Dio, gli israeliti esprimono lo stesso grado di libertà di spirito che impregna il testo papale della preghiera per gli ebrei (meglio: il “Santo Israele”) da pronunciare al venerdì santo.

Mi spiego. Per la teologia del giudaismo nei confronti dei gentili mi baso sulla liturgia standard della sinagoga, ripetuta tre volte al giorno.

Il testo cui mi riferisco è l’Authorised Daily Prayer Book delle United Hebrew Congregations of the British Empire (London, 1953), che contiene la traduzione inglese di una preghiera per la conversione dei gentili, recitando la quale si conclude il rito pubblico eseguito tre volte al giorno in ogni singolo giorno dell’anno.

In questo testo Israele, in quanto popolo sacro (da non confondere con lo stato di Israele), ringrazia Dio per averlo reso diverso dalle altre nazioni, e chiede che il mondo sia portato fino alla perfezione, quando tutta l’umanità invocherà il nome di Dio inginocchiandosi davanti a Lui.

Il testo della preghiera inizia con le parole “È nostro dovere lodare il Signore di tutte le cose” e ringrazia Dio per avere creato Israele diverso dalle altre nazioni del mondo. Israele ha il proprio “destino”, che consiste proprio nell’essere diverso da tutte le altre nazioni. A Dio viene chiesto di “eliminare gli abominii della terra”, quando il mondo giungerà alla perfezione sotto il regno dell’Onnipotente.

Questa preghiera per la conversione di “tutti gli empi della terra” – che sono “tutti gli abitanti del mondo” – viene recitata non una volta all’anno ma ogni giorno. Ha un parallelo in un passo delle Diciotto Benedizioni, nel quale si domanda a Dio di spazzare via “il dominio dell’arroganza”.

Possiamo quindi affermare che nel giudaismo si chiede a Dio di illuminare le nazioni e di accoglierle nel suo regno. Proprio per sottolineare ulteriormente questa aspirazione la preghiera “È nostro dovere” è seguita dal seguente Kaddish: “Possa Egli stabilire il suo regno durante la vostra vita e nei giorni e nella vita di tutta la casa di Israele”.

Questi passi tratti dalla liturgia quotidiana del giudaismo non lasciano alcun dubbio sul fatto che, quando Israele si riunisce in preghiera, chiede a Dio di illuminare il cuore dei gentili. La visione escatologica trova il proprio nutrimento nei Profeti e nella loro visione di una singola umanità riunita, nonché in una libertà di spirito che si estende a tutta l’umanità. La condanna dell’idolatria non concede molto sollievo al cristianesimo o all’islam, che non vengono menzionati. Le preghiere chiedono a Dio di affrettare l’avvento del suo regno.

Queste preghiere ebraiche sono il corrispettivo di quella voluta da Benedetto XVI che chiede la salvezza di tutto Israele quando il tempo avrà raggiunto la propria pienezza e tutta l’umanità entrerà nella Chiesa. Le preghiere di proselitismo ebraiche e cristiane hanno in comune lo stesso spirito escatologico e tengono la porta della salvezza aperta per tutti gli uomini.

Tanto la preghiera “È nostro dovere” quanto quella cattolica "Preghiamo anche per gli ebrei” sono la concreta espressione della logica del monoteismo e della sua speranza escatologica.