venerdì 28 marzo 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Magdi Cristiano Amico
2) "Allam incita all'odio” di AFEF JNIFEN
3) La "Spe salvi" tra storia ed escatologia -. Una nuova alleanza tra Chiesa e modernità laica
4) PER UN GRANDE PROGETTO FORMATIVO, di Francesco Botturi
5) «Basta scontri ideologici sul futuro della scuola»
6) intervista Ribolzi: prioritario attuare l’autonomia e la libertà di scelta
7) Russia, la «Spe salvi» fa incontrare cattolici e ortodossi


Magdi Cristiano Amico
Autore: Cavallari, Fabio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
giovedì 27 marzo 2008
Ho conosciuto Magdi Cristiano Allam circa un anno fa, quando stavo ultimando il libro scritto a quattro mani con l’amica Suor Maria Gloria Riva. Stavamo cercando qualcuno che sapesse interpretare il nostro lavoro, che intendesse immergersi in “Volti e Stupore – Uomini feriti dalla bellezza“ con assoluta curiosità e stupore. Fu don Gabriele Mangiarotti a fare il nome di Magdi. Confesso: mi sembrava un’esagerazione. Intellettuale, scrittore e vice-direttore ad personam del Corriere della Sera. Perché mai avrebbe dovuto accettare la nostra proposta? Altro livello di relazioni il suo, altre frequentazioni e conoscenze. “Il nostro non è un libro” dicevamo io e Suor Gloria, “il nostro è un cammino, un percorso comune, la testimonianza che l’incontro è possibile”. “Magdi Allam poi non avrà neppure il tempo materiale per dedicarsi a noi…”, così pensavo cercando di non crearmi illusioni. “Ci sta!” mi telefonò entusiasta don Gabriele “Scriverà la prefazione al libro”. Una prefazione può essere considerata un po’ come la fase preparatoria di un viaggio. E’ necessario scegliere le cose giuste da mettere in valigia, stabilire percorso e tappe intermedie. Il viaggio è una domanda, è incontro. Per non sbagliare strada, per non perdersi nelle paludi è imprescindibile preparare il viatico. Viaticum come provvisione per il viaggio. Bene, noi avevamo bisogno di un testimone, di qualcuno che prendesse per mano le nostre storie e ne desse voce. Magdi, entrò in punta di piedi, con delicatezza e sensibilità. Schiuse porte, conferì un tono alle nostre parole. Egli fu il primo che concretizzò il nostro desiderio di comunanza. Rimasi affascinato dalle parole che usò per il nostro libro. Rese palese ciò che palese ancora non era: l’Amicizia. Ricordo ancora la prima volta che lo sentii telefonicamente. Suor Gloria era con lui e mi aveva annunciato che nel corso di quell’incontro mi avrebbero chiamato. Ero emozionato, volevo testimoniargli la mia gioia per aver capito, per essere entrato così prepotentemente nei nostri racconti, per essersi inserito nel nostro dialogo con partecipazione, condivisione e tatto. Non credo di essere riuscito in quella telefonata ad esprimere compiutamente tutta la mia gratitudine. Non credo, ma da quel momento è iniziato un percorso di amicizia. Non più il vice-direttore ad personam del Corriere della Sera ma un amico che combatte una battaglia, un amico che in nome della libertà non abbassa lo sguardo neppure al cospetto di una condanna a morte. Un amico, un compagno di viaggio. Da quel momento, ci siamo incontrati, abbiamo avuto modo di affrontare momenti pubblici l’uno accanto all’altro. Solo qualche giorno prima della Veglia Pasquale ho saputo della sua conversione, la notizia mi ha scosso per il timore che quella scelta potesse mettere in pericolo la sua vita, ma non mi ha meravigliato la decisione in sé. Come ha avuto modo di dire don Gabriele Mangiarotti, la conversione di Magdi “l’ho trovata, per così dire, naturale”. Non ho la “grazia della fede” ma ho partecipato al percorso di Magdi con il trasporto e l’affetto che solo agli amici è possibile riservare. Per la prima volta nella mia vita ho assistito alla Veglia Pasquale. Domenica 23 Marzo non mi trovavo neppure in Italia, ma grazie ad un computer di fortuna sono riuscito a seguire, grazie a Sat2000, l’intera cerimonia. Partecipazione e tensione, emozione e afflato del cuore mi hanno catturato durante le tre ore della diretta televisiva. Un amico stava compiendo una svolta storica per la sua vita ed una sorta di empatia mi ha coinvolto profondamente. Il giorno seguente, il lunedì dell’Angelo, ho voluto immediatamente chiamarlo per testimoniargli il mio affetto e seppur a distanza donargli il mio abbraccio. Abbracciare non è un semplice gesto d’affetto, implica accoglienza, dedizione e difesa. Nell’attesa di sentire la sua voce, sono stato colto dalla stessa emozione che ho provato la prima volta che ci siamo sentiti. “Una nuova prima volta”, mi sono detto. Non so spiegare razionalmente questo fatto, ma esprimerlo mi sembra un atto dovuto, un gesto tutto interno al concetto di Amicizia. Nei giorni seguenti avrei sperato per Magdi, la possibilità di una “pausa” che gli permettesse di riposarsi da emozioni e tensioni fortissime. Le reazioni alla sua conversione sono state però di una ferocia inaudita. Per carità, le espressioni di affetto e di vicinanza non gli sono certo mancate, ma come sempre a fare clamore sono state le voci “fuori” coro, le urla stonate, le accuse di tradimento e apostasia. Non voglio ora ripercorre i fiumi di parole spese, le tante dichiarazioni irresponsabili e offensive scritte su giornali e pronunciate all’interno del mondo dei mass-media, mi interessa però sottolineare un punto che credo centrale. Se le reazioni del mondo islamico potevano considerarsi “d’obbligo” sono state le critiche provenienti dal mondo occidentale che mi hanno impressionato. Non mi interessa confutare, una per una, le tesi proposte, non mi interessa dare ulteriore pubblicità a demagoghi e menzogneri che hanno fatto della delegittimazione il loro esercizio retorico. Mi ha però impressionato la reazione di taluni intellettuali italiani. L’accusa che gli hanno rivolto non è stata quella di essersi convertito. La colpa di Magdi Cristiano sarebbe quella di averlo fatto pubblicamente e attraverso una celebrazione solenne. In pratica ritorna sempre a primeggiare la questione legata al ruolo pubblico della religione. I laicisti vorrebbero ridurre il “sacro” ad una mera esperienza intima e privata, del tutto estranea alla dimensione collettiva. E’ l’ennesima pretesa, di ridurre il Cristianesimo ad un ruolo subalterno rispetto alle pratiche quotidiane della modernità e del relativismo. Oggi si attacca Magdi Allam per la sua conversione pubblica e facendolo si rinnova l’attacco violento contro l’esperienza cristiana. I laicisti chiedono di operare un’astrazione intellettuale, epurando il pensiero e la cultura cattolica dalle vicende che riguardano la vita, la morte, la dignità e la libertà individuale. Non è necessario essere credenti per considerare tutto questo una follia totalitaria. Da amico e compagno di strada, saluto la nuova vita di Magdi Cristiano con il cuore aperto e la mano salda sul timone della verità.



Padre Lombardi: la libertà di scelta religiosa
deriva dalla dignità della persona umana

"Affermare la libertà di scelta religiosa conseguente alla dignità della persona umana": è questo "il rischio" che il Papa si è assunto amministrando il battesimo al giornalista Magdi Allam. Lo afferma padre Federico Lombardi, direttore generale della Radio Vaticana, rispondendo in una nota - trasmessa nel radiogiornale di giovedì 27 marzo - alle osservazioni di Aref Ali Nayed, direttore del centro regale di studi strategici islamici ad Amman, in Giordania. "Non pensiamo - sottolinea - che l'accusa di mancanza di rispetto per la dignità e la libertà della persona umana sia meritata oggi da parte della Chiesa. Ben altre sono le violazioni di essa a cui dare attenzione prioritaria".
Pur riconoscendo la volontà di Nayed di proseguire nel dialogo fra cristiani e musulmani, intrapreso soprattutto nell'ultimo anno e mezzo, padre Lombardi puntualizza alcuni aspetti delle critiche espresse dall'intellettuale islamico dopo la celebrazione del sabato santo. "Amministrare il battesimo a una persona - ribadisce - implica riconoscere che ha accolto la fede cristiana liberamente e sinceramente". Naturalmente egli resta libero "di esprimere le proprie idee, che rimangono idee personali" e - nel caso in questione - non diventano "in alcun modo espressione ufficiale delle posizioni del Papa e della Santa Sede".
Anche riguardo alla simbologia liturgica della veglia, il direttore di Radio Vaticana fa notare che non ci sono state novità rispetto agli anni passati e che quindi le spiegazioni offerte dal Papa non possono essere tacciate di "manicheismo". Infine, riferendosi all'accusa di proselitismo da parte delle scuole cristiane nei Paesi musulmani, padre Lombardi sottolinea "la grandissima tradizione di impegno educativo della Chiesa cattolica".
(©L'Osservatore Romano - 28 marzo 2008)


"Allam incita all'odio” di AFEF JNIFEN
La Stampa, 28 marzo 2008
Mi sono decisa a parlare della conversione al cristianesimo di Magdi Allam avendo letto la presa di distanza del Vaticano dai giudizi critici sull’Islam che il giornalista ha rilasciato dopo la cerimonia del battesimo nella veglia pasquale in San Pietro.
Voglio precisare che non mi permetto di giudicare Papa Benedetto XVI e che al tempo stesso sono profondamente convinta che debba essere a ogni costo difesa la libertà di professare la propria religione così come di convertirsi. Ma non posso più tacere sulla disinformazione riguardo al mondo musulmano che Magdi Allam porta avanti da anni. Pur essendo italiana, le mie origini si radicano nella cultura islamica e faccio parte della comunità araba in Italia. Non sono praticante, ma per rispetto della religione musulmana, la religione dei miei genitori in cui sono cresciuta, sento di dover intervenire.
Non sono interessata alla conversione di Magdi Allam, e così credo la maggioranza degli italiani, ma ho ben chiaro - e da diverso tempo - qual è il suo obiettivo. Magdi Allam grida al genocidio contro gli ebrei e i cristiani nel mondo islamico. Ci sono stati e ci sono casi, ce lo insegna la storia. Ma ci sono stati e ci sono conflitti anche all’interno di una stessa religione, tra sciiti e wahabiti, tra sunniti e sciiti, tra cattolici e protestanti. Di questo, però, Allam non scrive, come non scrive delle tante testimonianze e dei tanti sforzi per favorire il dialogo interreligioso. No, lui vuole soltanto alimentare i conflitti, infiammare lo scontro di civiltà per cercare di passare alla storia come un simbolo e una vittima di queste crisi. E’ diabolico, ma non ci riuscirà.
Nei giorni scorsi in Qatar - un Paese di soli 800 mila abitanti - è stata aperta la prima chiesa cristiana e negli Emirati Arabi la quinta, mentre in Oman sono quattro quelle già presenti. Ancora, in Tunisia c’è la più vecchia sinagoga di tutta l’Africa, il Marocco ha avuto un ministro del Turismo di religione ebraica così come oggi il re ha alcuni consiglieri che professano quella fede, mentre in Libano la Costituzione dice che il presidente debba essere cristiano. Insomma, ci sono tanti esempi di tolleranza e dialogo che la gente magari non conosce, ma Allam non ne parla mai. Lui cita soltanto esempi di conflitti. Certo che nel mondo musulmano ci sono gli integralisti, chi lo nega? E in presenza di conflitti gli integralisti esasperano il fattore religioso. Ma nessuno oserebbe dire che poiché Mussolini e Hitler erano cristiani il cristianesimo sia violento. Gli articoli che da anni scrive Magdi Allam sono stati molto dannosi per la comunità arabo-musulmana in Italia. Non c’è stato alcun esponente della destra, anche la più estrema, che abbia fatto un lavoro tanto negativo. Allam ha troppo astio dentro di sé, mi auguro che ora dopo il battesimo trovi pace interiore, lo dico senza ironia. Scommetto però che arriverà invece un libro sulla sua conversione, spero soltanto che darà i soldi in beneficenza a qualche parrocchia. Ci risparmi altre lezioni di malafede tra le religioni, anche il Vaticano ha capito che crea zizzania fra due mondi che cercano un dialogo difficile, ma molto importante.
Caro Magdi, alla faccia tua il dialogo continuerà.


La "Spe salvi" tra storia ed escatologia -. Una nuova alleanza tra Chiesa e modernità laica
di Aldo Schiavone
Direttore dell'Istituto Italiano di Scienze Umane
La Spe salvi è un testo complesso e coinvolgente, scritto con grande maestria intrecciando una molteplicità di temi, da motivi più propriamente pastorali a riflessioni di ordine dottrinario e dogmatico. E insieme, è anche quel che si direbbe un saggio storico d'interpretazione, dedicato a misurarsi con nodi cruciali disposti su un arco temporale lunghissimo, dall'antichità romana al mondo contemporaneo.
Il filo conduttore, annunciato come di consueto già nelle parole dell'incipit - una bellissima citazione paolina - è un serrato discorso sulla speranza, giustamente considerata come la connessione per eccellenza fra due piani fondamentali: l'orizzonte della storia e quello dell'escatologia. È una scelta forte, che tocca senza dubbio un nervo scoperto dei nostri giorni: quel che altrove (in "Storia e destino") ho creduto di definire come la perdita del futuro, l'incapacità, di attirare "dentro il presente il futuro", in modo che "le cose future si rivers(i)no in quelle presenti, e le presenti in quelle future", come adesso scrive suggestivamente il Pontefice (n. 7).
Per lui (e non potrebbe essere altrimenti) l'aspetto escatologico della speranza - della speranza cristiana - si lega alla certezza "che il cielo non è vuoto", che "al di sopra di tutto c'è una volontà personale, c'è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come Amore" (n. 5). È il punto di giunzione - insieme limpidissimo e tormentato - fra speranza e fede: e opportunamente Benedetto ricorda in proposito l'elaborazione teologica medievale che arriva a definire appunto la fede come "sostanza delle cose sperate" (n. 7).
Ma l'uomo è anche storia, e la domanda capitale "che cosa possiamo sperare?" (n. 22) - un dubbio che gli eventi del nostro tempo rendono insieme decisivo e carico d'angoscia - richiede perciò anche una risposta sul terreno della storicità, e non solo su quello dell'escatologia. Ed è a questo punto che l'interrogarsi di Benedetto sulla speranza - sulla sua forma storica, potremmo dire - si trasforma, inevitabilmente e con grande forza, in un discorso sulla modernità: sulla sua ragione, sulle sue conquiste e sui suoi fallimenti. La prospettiva è fortemente sintetica, ma mai superficiale, e l'uso che viene proposto in queste pagine di Kant, di Adorno, persino di Marx, è veloce e a volte discutibile, ma sempre pertinente. Seguirne tutti i passaggi sarebbe però ora troppo lungo e complesso, e mi guarderò dal farlo. Cercherò invece di tenermi stretto a quel che mi sembra il dispositivo essenziale e più potente del ragionamento del Pontefice. Che si trova a mio avviso nell'affermazione che è oggi indispensabile "un'autocritica dell'età moderna" nella quale possa confluire anche "un'autocritica del cristianesimo moderno" (n. 22). Si tratta di una posizione di assoluto rilievo, che condivido pienamente. Sono del tutto convinto anch'io che i tempi - se sappiamo davvero interpretarli - siano maturi per una nuova alleanza fra cristianesimo e modernità laica, sulla base di una parallela revisione critica della loro storia, e che essa possa contribuire a quell'autentica rigenerazione dell'umano senza di cui il nostro futuro si riempie di ombre. Ma come lavorare a questo straordinario obiettivo comune? Benedetto accenna sobriamente ma con efficacia ai principali fallimenti ideologici e politici della modernità, che retrospettivamente ci appaiono in tutta la loro portata: l'idea troppo lineare, ingenua e materialistica di "progresso"; l'idea datata e inadeguata del comunismo come esito ultimo della rivoluzione francese, e come puro capovolgimento della base economica delle nostre società - e su tutto ciò non ci può essere ancora che concordanza. Ma la modernità non è solo questo: e Benedetto lo sa benissimo. Egli ne individua infatti correttamente il cuore nella capacità di instaurare un nuovo e rivoluzionario rapporto fra scienza e prassi (n. 17) - cioè fra conoscenza e tecnica trasformatrice.
Ora, il punto è che questo intreccio fra scienza e tecnica - la potenza trasformatrice della tecnica - non sta solo andando "verso una padronanza sempre più grande della natura" (n. 24); ma sta facendo molto, molto di più. Ci sta spingendo - dopo milioni di anni di storia della specie - verso lo sconvolgente punto di fuga oltre il quale la separazione, che finora ci ha dominati, fra storia della vita (nel senso delle nostre basi biologiche) e storia dell'intelligenza (umana) non avrà più ragione di essere. Un punto in cui le basi naturali della nostra esistenza smetteranno di essere un presupposto immodificabile dell'agire umano, e diventeranno un risultato storicamente determinato della nostra ragione, della nostra etica e della nostra cultura. Questo ricongiungimento - il passaggio, almeno potenziale, nel controllo evolutivo della specie dalla natura alla mente - non è lontano: il suo annuncio è già nelle cronache quotidiane.
E allora io mi domando - e mi permetto di chiedere sommessamente: ma la forma storica della nostra speranza non dipende anche da come si schiera la Chiesa di fronte all'annuncio di questa novità radicale? È essa davvero pronta ad accoglierla? O forse l'"autocritica" di cui parla il Pontefice deve innanzitutto riguardare proprio questo aspetto? È vero, Benedetto ha ragione: la scienza - nessuna scienza - potrà mai "redimere" l'uomo (n. 17): c'è bisogno di etica e di valori. Ma può modificare - e lo sta già facendo - in modo drastico la trama esistenziale dell'umano, il suo vissuto più profondo, le prospettive primarie di vita (e di morte). Insomma, il rapporto storico tra modernità e speranza non può evitare di sciogliere questo nodo: il superamento definitivo e completo dei confini biologici assegnatici finora dal nostro cammino evolutivo può essere integrato all'interno di una forma storica di speranza compatibile con la fede e con l'escatologia? Nella "somiglianza" dell'uomo con Dio - anch'essa richiamata dal Pontefice (n. 43) - nell'infinito cui questo abissale paragone allude, può essere incluso il progetto di un umano finalmente libero dai propri vincoli naturali, e completamente padrone del suo destino "storico"? In altri termini, quel che viene qui in questione è l'irrompere e l'installarsi dell'infinito entro la storicità del finito: anch'esso, come Benedetto sa bene, un tema cruciale della modernità, ben riflesso in alcuni grandi luoghi della filosofia classica tedesca. E credo proprio che il significato della transizione rivoluzionaria che stiamo attraversando, che chiama la Chiesa ad assumersi responsabilità enormi, sia tutto qui: aver reso effettivo, diretto e determinante innanzi agli occhi di tutti quello che la modernità aveva solo lasciato intravedere ai suoi filosofi. Che cioè l'infinito come assenza di confini materiali alla possibilità del fare, come caduta di ogni determinazione obbligata da una barriera esterna a noi (omnis determinatio est negatio) sta entrando stabilmente nel mondo degli uomini, e sempre di più dovremo imparare ad averlo accanto, e, se posso dir così, a padroneggiarlo. Con l'aiuto di Dio, starei per dire: ma non oso e mi fermo. Certo, io non ho alcuna autorità per sostenerlo, ma non riesco a sottrarmi all'idea che un Dio d'amore - come quello che Benedetto ci invita a pensare - non abbia bisogno di un uomo in scacco, di un uomo prigioniero della sua materialità biologica, di un uomo che abbia da esser protetto da se stesso con il richiamo a presunti vincoli "naturali", ma abbia scelto per amore di avere accanto un uomo totalmente libero, e totalmente libero, a sua volta, di sceglierLo. Non mi nascondo che mettersi in questo vento - arrivare cioè a immaginare un nuovo rapporto fra storia ed escatologia, dove l'infinito non stia solo dal lato della seconda, perché di questo in fondo si tratta - imporrebbe grandi cambiamenti nel magistero e nella dislocazione mondana della Chiesa. Ma davvero se non ora, quando? Le energie vi sono - e c'è la speranza. Forse, occorre solo un po' più di profezia - senza rinunciare alla dottrina.
(©L'Osservatore Romano - 28 marzo 2008)


Russia, la «Spe salvi» fa incontrare cattolici e ortodossi
Avvenire, 28 marzo 2008
La presentazione a Mosca dell’edizione russa della «Spe Salvi» ha rappresentato un importante passo in avanti nel dialogo tra cattolici e ortodossi, oltre che un’occasione d’incontro con la viva voce della Chiesa cattolica. La seconda enciclica di Benedetto XVI, «sbarcata» in Russia da poche settimane grazie alle Edizioni Francescane – in collaborazione con la Nunziatura apostolica e l’agenzia di stampa cattolica Agnuz – è stata presentata per la prima volta martedì presso il Centro culturale «Biblioteca dello Spirito», in cui da 15 anni collaborano cattolici e ortodossi promuovendo il dialogo ecumenico attraverso incontri, mostre e pubblicazioni. La serata del 25 marzo è stata un’ulteriore occasione di confronto, cui hanno partecipato l’arcivescovo cattolico di Mosca, Paolo Pezzi, e padre Vladimir Shmalij, segretario della Commissione teologica sinodale del Patriarcato e vicerettore dell’Accademia teologica di Sergiev Posad. Nel suo intervento, padre Shmalij si è soffermato sulla percezione dell’enciclica da parte del mondo ortodosso, che vede molto positivamente il Pontificato di Benedetto XVI per il recupero del cristianesimo nella sua tradizione integrale, contro ogni deriva soggettivista: «La speranza cristiana – ha affermato padre Shmalij – è una realtà oggettiva, che non deriva dal nostro stato psicologico».
Rileggendo alla luce dell’enciclica alcuni gravi problemi della società russa, l’autorevole esponente ortodosso ha citato il caso dei tanti suoi connazionali «che ricorrono a psicologi e antidepressivi per superare la tristezza e l’assenza di speranza, tratti distintivi della società consumistica di oggi». A sua volta Pezzi ha affermato che «il mondo oggi ha bisogno del coraggio di alcuni testimoni, che facciano già esperienza della speranza e la portino a tutti».
Nel suo intervento l’arcivescovo di Mosca ha sottolineato il legame tra speranza e certezza: «Mentre solitamente gli uomini tendono a riferire la speranza a un futuro incerto, il Papa testimonia che essa si fonda sul fatto cristiano ed è già possibile viverla ora, tanto da esserne salvati». Al termine dell’incontro padre Shmalij ha definito «azzeccata» l’idea di una presentazione a più voci della «Spe salvi», «un’enciclica indirizzata a tutti gli uomini, che affronta le questioni più scottanti della modernità».
Firmata da Papa Ratzinger il 30 novembre scorso, giorno della festa di Sant’Andrea (patrono della Russia, dell’Ucraina e della Romania), l’enciclica è stata subito accolta come «omaggio» simbolico alla tradizione cristiana orientale e un ponte verso il futuro.
Fabrizio Rossi



L’ITALIA E IL FUTURO
PER UN GRANDE PROGETTO FORMATIVO
, di Francesco Botturi
Avvenire, 27 marzo 2008
« D are significato alla for­mazione » è il titolo del primo punto del manifesto Un patto per la scuola e credo sia an­che l’espressione del giudizio culturale di fondo che sostiene questa iniziativa. Dare significa­to alla formazione significa mol­te cose. Essenziale è certo il suo valore in ordine al rispetto, alla crescita, alla cura della persona umana, che è – appunto – il sog­getto titolare di un diritto-dove­re di formazione. Ma oggi la «for­mazione » riceve un significato più ampio, in riferimento alla nuova e sempre più perentoria situazione internazionale e mon­diale.
Si parla di 'globalizzazione' e di nuovi soggetti, soprattutto o­rientali, che si presentano sulla scena mondiale, determinando spostamenti dell’asse dell’eco­nomia, degli interessi finanziari, dei centri della decisione politi­ca, eccetera. In questo nuovo contesto, mondiale ed epocale, in cui le 'placche continentali' si sono rimesse in movimento, che cosa ha il dovere di fare un Paese del Vecchio Mondo – che e­videntemente non ha illimitate risorse demografiche ed econo­miche – per avere un futuro di­gnitoso e utile a sé e agli altri? Può pensare di non avere su alcune grandi questioni un progetto na­zionale complessivo e di non a­vere al centro di questo la preoc­cupazione per la formazione del­le sue risorse umane, a comin­ciare dagli ambiti familiare, sco­lastico e universitario? Con qua­li altre energie antropologiche crede di poter essere protagoni­sta della storia che lo attende?
Un patto per la scuola è, a mio avviso, un contributo serio in ta­le direzione. Per questo inizia col dire che «le decisioni sul sistema educativo di istruzione e forma­zione debbano essere escluse […] dalla logica dello scontro po­litico che ha segnato questo de­cennio, con interventi di natura legislativa continui e contrappo­sti »; perché «la formazione è un bene comune» e – insisterei nel dire – oggi più di prima fonda­mentale e ormai strategico. Si sottolinea perciò il bisogno di in­terventi organici, ma sulla base di un accordo che si mantenga si­no al raggiungimento degli o­biettivi, per superare l’ostacolo grave e ricorrente del breve im­pegno di legislatura, sproporzio­nato a portare a compimento un disegno efficace.
Non è possibile però formare per decreto, ma è possibile e neces­sario sollecitare e sostenere le e­nergie e le strutture che hanno la capacità e il compito della for­mazione. Perciò «dare significa­to alla formazione» significa an­che avere fiducia nella capacità delle «diverse agenzie educative» operanti nella società e insieme avere fiducia nelle istituzioni pre­poste al compito formativo. Per questo appaiono particolar­mente importanti, da una parte, la proposta di promuovere le ne­cessarie innovazioni con una «lo­gica leggera» in «una cornice nor­mativa organica ma flessibile», dall’altra, quella di incentivare «la piena autonomia delle istitu­zioni scolastiche», attribuendo loro tutta la necessaria respon­sabilità. Un patto per la forma­zione e per la scuola è solo ap­parentemente – o per pigra abi­tudine – una questione settoria­le: è piuttosto un gesto etico di cura per la risorsa fondamenta­le del Paese e, perciò, un atto di responsabilità politica.


«Basta scontri ideologici sul futuro della scuola»
Appello ai partiti: servono riforme bipartisan

Avvenire, 28 marzo 2008
DA MILANO ENRICO LENZI
S ette punti per rilanciare «un patto per la scuola» che punti a superare lo scontro ideologico e permetta di aprire «una nuova stagione di riforme condivise». Ma so­prattutto che renda la scuola «più equa e me­no egualitaristica», cioè capace di valorizza­re le capacità di tutti. Un documento essen­ziale e sintetico, ma ricco di spunti e indica­zioni offerti al mondo politico e non solo. Pro­mosso da alcuni dei componenti del «Grup­po del buon senso», che alcuni anni fa fu tra i primi a richiedere un diverso approccio nel­la riforma del nostro sistema scolastico (in ri­goroso ordine alfabetico Vittorio Campione, Fiorella Farinelli, Paolo Ferratini, Claudio Gentili, Franco Nembrini, Luisa Ribolzi, Sil­vano Tagliagambe e Stefano Versari), l’appel­lo per «un patto per la scuola» ha raccolto il sostegno di decine di esperti e operatori nel campo della formazione, tra i quali Giuliano Amato, Franco Bassanini, Dario Antiseri, Ro­berto Maragliano, Attilio Oliva, Stefano Za­magni, Claudia Mancina, Gianfelice Rocca. Uno schieramento bipartisan, segno di un in­teresse trasversale che il tema della scuola rie­sce a suscitare, nonostante tutto, nell’opi­nione pubblica.
«Noi pensiamo che le decisioni sul si­stema educativo di istruzione e for­mazione – si legge nel documento – debbano essere escluse, esplicita­mente e in modo condiviso, dalla lo­gica dello scontro politico, che ha se­gnato questo decennio». Due i moti­vi: «la formazione è un bene comu­ne da salvaguardare e sviluppare» e «gli effetti delle riforme sono visibili solo ben oltre l’arco di una legislatu­ra ». Ma non basta eliminare lo scon­tro, occorre anche modificare l’ap­proccio riformatore. «I falliti tentati­vi di realizzare una riforma che mo­difichi l’intero assetto del sistema e lo determini sino ai minimi dettagli – prosegue l’appello –, suggeriscono di adottare una logica leggera di pro­mozione delle innovazioni, con una cornice normativa organica ma fles­sibile, che fissi i punti essenziali e pre­veda la possibilità di modifiche suc­cessive ». Partendo da questo scena­rio, i firmatari del «patto per la scuo­la » chiedono alle forze politiche tre impegni precisi: «trovare un’intesa sulle priorità, superando la logica del muro contro muro; sviluppare l’intesa anche a livello regionale, in un quadro di collabora­zione con gli Enti locali; mantenere questa intesa fino al raggiungimento degli obiettivi concordati, indipendentemente dalle varia­zioni del quadro politico». Accanto a queste premesse i firmatari del­l’appello indicano anche sette «punti essen­ziali » da cui partire nell’azione di riforma del sistema scolastico. Elementi che già da tem­po caratterizzano il dibattito riformatore al­l’interno delle scuole italiane, ma che non hanno trovato ancora un’applicazione con­creta o completa. Si parte dal «dare significa­to alla formazione» anche «attraverso una col­laborazione e una valorizzazione delle diver­se agenzie educative, presenti a vario titolo nella società, per contribuire a contrastare, con uno sforzo comune, il disagio giovanile». Nell’attuale contesto socio-economico serve «più formazione, in più luoghi, per tutta la vi­ta ». In questo secondo punto, il documento riconosce che «sarà chiesto di avere una for­mazione più elevata e più diversificata nei contenuti e nei livelli», perché «è ormai un fatto irreversibile una formazione nel corso della vita». Ecco allora, come terzo punto, la necessità di «più autonomia e più responsa­bilità ». È una delle riforme che non ha trova­to pieno compimento. Al contrario «è neces­sario realizzare e incentivare la piena auto­nomia, attribuendo alle scuole poteri reali in materia di organizzazione del curricolo e u­tilizzo delle risorse umane e finanziarie». In questo scenario il ministero «conserverà e potenzierà i propri compiti fondamentali di indirizzo, controllo e ricerca», a cui si affian­cherà «un forte sistema di valutazione che o­pererà come agenzia indipendente». Con l’autonomia sarà possibile raggiungere il quarto punto: «un sistema educativo nazio­nale più articolato» nel quale «un passo es­senziale è la piena attuazione della parità sco­lastica, che realizza le condizioni per il dirit­to di scelta delle famiglie». Un passaggio per «innalzare la qualità dell’offerta formativa», assicurando «le intese necessarie ad una mi­gliore integrazione tra istituzione, formazio­ne e lavoro». Al quinto punto il documento parla di «più competenze e meno dispersio­ne ».
Serve, secondo i firmatari, «una formazione di base più qualificata e soprattutto attenta al­lo sviluppo integrale della persona: maggior integrazione tra indirizzi e livelli, potenzia­mento della cultura tecnica e scien­tifica, maggiori connessioni con il mondo del lavoro». Indispensabile anche guardare a «una didattica nuo­va », inserita come sesto punto es­senziale. Fissare centralmente gli standard da conseguire, ma «lascia­re la possibilità alle scuole di rag­giungere con modalità diverse que­sti obiettivi». E come accade per tut­te le riforme servono «più risorse e meno sprechi». In questo settimo punto il documento affronta il tema dell’edilizia scolastica che «richiede un organico piano di interventi». Ma anche le risorse umane vanno tute­late. «Gli insegnanti, veri protagoni­sti del cambiamento, devono opera­re in condizioni di lavoro più vicine a quelle europee, per cui va ripensato tutto il processo di qualificazione, re­clutamento e carriera, in una logica per cui a maggiori responsabilità cor­rispondono maggiori incentivi». Ma, secondo i parametri medi europei e alle caratteristiche del territorio, «va fatta una stima seria del numero di docenti necessario, programmando anche gli accessi sul medio periodo».


intervista Ribolzi: prioritario attuare l’autonomia e la libertà di scelta
«Togliere la scuo­la dalla lotta partitica e farla tornare sul terreno del con­fronto politico». Per Luisa Ri­bolzi, docente di Sociologia dell’Educazione presso la Facoltà di Scienze della For­mazione dell’Università di Genova e una degli otto pro­motori dell’appello, è l’o­biettivo di questo «patto per la scuola».

Come nasce l’appello?
«Le sue radici si collocano nel lavoro che come 'grup­po del buon senso' abbia­mo elaborato alcuni anni fa, lanciando già allora, un ap­pello alle forze politiche per­ché la scuola smettesse di essere un terreno di scontro ideologico. Un appello sot­toscritto allora, come oggi, da persone rappresentative di differenti posizioni ideo­logiche e culturali. Un do­cumento che il mondo del­l’associazionismo scolasti­co ha studiato e in gran par­te apprezzato. Ora, in occa­sione di una nuova campa­gna elettorale, abbiamo pensato di riproporre il te­ma all’attenzione di tutte le forze politiche. In fase di e­laborazione il testo è stato inviato a moltissime perso­ne e le adesioni sono state numerose. Davvero in raris­simi casi abbiamo ottenuto dei rifiuti a sottoscriverlo».
Quale obiettivo immediato vi siete posti?
«Spezzare il meccanismo di riforme e controriforme che ha caratterizzato l’approc­cio di cambiamento della scuola italiana in quest’ulti­mo decennio. Una modalità che non ha funzionato. Al contrario serve una 'rifor­ma gentile', implementan­do gli aspetti innovativi che nella scuola esistono. E poi è impossibile pensare di ve­dere i risultati di una rifor­ma scolastica all’interno di una legislatura. I tempi per i risultati sono più lunghi. An­che per questo è necessario un patto bipartisan e un ap­proccio differente nelle riforme scolastiche».
I sette punti essenziali che avete individuato sono la base su cui poggiare un’a­zione di riforma?
«Sono sicuramente i punti fondanti. Sono enunciazio­ni di principio, che devono poi trovare un’applicazione concreta».
In quest’ultimo decennio l’azione di riforma non è mancata. I sette punti da voi indicati come si pongono ri­spetto a questo lavoro?
«Sono il frutto del grande di­battito che ha caratterizzato il periodo di riforma. Sono di fatto una sorta di agenda delle cose da fare, ma par­tendo dalla constatazione della situazione reale che la scuola italiana vive tutti i giorni. Prenda il primo pun­to, in cui parliamo del biso­gno di dare significato alla formazione. Non è forse l’e­sigenza di aiutare i giovani d’oggi a dare un senso alla loro esistenza?»
Ritiene che l’appello trovi terreno fertile?
«Nell’opinione pubblica è decisamente favorevole. E­sprime da tempo il desiderio che intorno alla scuola si plachi lo scontro ideologico e si ponga mano a una rifor­ma condivisa. Anche tra gli esperti che animano il di­battito culturale sui mezzi di informazione è in calo la li­tigiosità ».
E i punti critici?
«Esistono, ovviamente. Le o­biezioni sono principal­mente legate alla difesa di posizioni corporative e non solo. Dentro la scuola c’è chi preferirebbe avere meno au­tonomia e dunque meno re­sponsabilità. Per non parla­re della valutazione del pro­prio lavoro. E lo stesso mini­stero della Pubblica Istru­zione a volte si dimostra re­stio ad assecondare il pro­cesso di autonomia».
Quale dei sette punti ritie­ne prioritario?
«Quello sull’autonomia, che richiama anche una mag­gior responsabilità di tutti i soggetti. Più autonomia comporterebbe anche mol­ti altri aspetti: l’attenzione alla preparazione e al reclu­tamento dei docenti, elabo­razione dei progetti educa­tivi e l’elenco potrebbe con­tinuare.
E non dimentiche­rei anche il diritto di scelta in campo educativo per le famiglie, con il varo di una piena parità».
Un documento con cui i partiti dovranno confron­tarsi?
«È la nostra speranza, so­prattutto perché si avvii un periodo di riforme condivi­se. Un successo in tal senso è legato anche al modo con cui si parla di scuola. I mez­zi di comunicazione do­vrebbero occuparsene non solo per la cronaca nera, ma dovrebbero mostrare l’altro volto, quello che funziona. E che è quello vero».
Enrico Lenzi