venerdì 21 marzo 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) Omelia del Papa nella Messa in Coena Domini
2) Pasqua di risurrezione
3) Cinquant’anni fa, a Cannes, vinceva “Alle soglie della vita”, sponsorizzato dal governo svedese per contrastare gli aborti e mai distribuito in Italia
4) Aborto, ricette sbagliate. E poco adatte all’Italia
5) Parigi, Chantal scatena la battaglia sull’eutanasia


Omelia del Papa nella Messa in Coena Domini
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 20 marzo 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'omelia pronunciata da Benedetto XVI questo pomeriggio, Giovedì Santo, presiedendo nella Basilica di San Giovanni in Laterano la concelebrazione della Messa in Coena Domini.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
san Giovanni inizia il suo racconto sul come Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli con un linguaggio particolarmente solenne, quasi liturgico. "Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (13, 1). È arrivata l'"ora" di Gesù, verso la quale il suo operare era diretto fin dall'inizio. Ciò che costituisce il contenuto di questa ora, Giovanni lo descrive con due parole: passaggio (metabainein, metabasis) ed agape - amore. Le due parole si spiegano a vicenda; ambedue descrivono insieme la Pasqua di Gesù: croce e risurrezione, crocifissione come elevazione, come "passaggio" alla gloria di Dio, come un "passare" dal mondo al Padre. Non è come se Gesù, dopo una breve visita nel mondo, ora semplicemente ripartisse e tornasse al Padre. Il passaggio è una trasformazione. Egli porta con sé la sua carne, il suo essere uomo. Sulla Croce, nel donare se stesso, Egli viene come fuso e trasformato in un nuovo modo d'essere, nel quale ora è sempre col Padre e contemporaneamente con gli uomini. Trasforma la Croce, l'atto dell'uccisione, in un atto di donazione, di amore sino alla fine. Con questa espressione "sino alla fine" Giovanni rimanda in anticipo all'ultima parola di Gesù sulla Croce: tutto è portato a termine, "è compiuto" (19, 30). Mediante il suo amore la Croce diventa metabasis, trasformazione dell'essere uomo nell'essere partecipe della gloria di Dio. In questa trasformazione Egli coinvolge tutti noi, trascinandoci dentro la forza trasformatrice del suo amore al punto che, nel nostro essere con Lui, la nostra vita diventa "passaggio", trasformazione. Così riceviamo la redenzione - l'essere partecipi dell'amore eterno, una condizione a cui tendiamo con l'intera nostra esistenza.
Questo processo essenziale dell'ora di Gesù viene rappresentato nella lavanda dei piedi in una specie di profetico atto simbolico. In essa Gesù evidenzia con un gesto concreto proprio ciò che il grande inno cristologico della Lettera ai Filippesi descrive come il contenuto del mistero di Cristo. Gesù depone le vesti della sua gloria, si cinge col "panno" dell'umanità e si fa schiavo. Lava i piedi sporchi dei discepoli e li rende così capaci di accedere al convito divino al quale Egli li invita. Al posto delle purificazioni cultuali ed esterne, che purificano l'uomo ritualmente, lasciandolo tuttavia così com'è, subentra il bagno nuovo: Egli ci rende puri mediante la sua parola e il suo amore, mediante il dono di se stesso. "Voi siete già mondi per la parola che vi ho annunziato", dirà ai discepoli nel discorso sulla vite (Gv 15, 3). Sempre di nuovo ci lava con la sua parola. Sì, se accogliamo le parole di Gesù in atteggiamento di meditazione, di preghiera e di fede, esse sviluppano in noi la loro forza purificatrice. Giorno dopo giorno siamo come ricoperti di sporcizia multiforme, di parole vuote, di pregiudizi, di sapienza ridotta ed alterata; una molteplice semifalsità o falsità aperta s'infiltra continuamente nel nostro intimo. Tutto ciò offusca e contamina la nostra anima, ci minaccia con l'incapacità per la verità e per il bene. Se accogliamo le parole di Gesù col cuore attento, esse si rivelano veri lavaggi, purificazioni dell'anima, dell'uomo interiore. È, questo, ciò a cui ci invita il Vangelo della lavanda dei piedi: lasciarci sempre di nuovo lavare da quest'acqua pura, lasciarci rendere capaci della comunione conviviale con Dio e con i fratelli. Ma dal fianco di Gesù, dopo il colpo di lancia del soldato, uscì non solo acqua, bensì anche sangue (Gv 19, 34; cfr1 Gv 5, 6. 8). Gesù non ha solo parlato, non ci ha lasciato solo parole. Egli dona se stesso. Ci lava con la potenza sacra del suo sangue, cioè con il suo donarsi "sino alla fine", sino alla Croce. La sua parola è più di un semplice parlare; è carne e sangue "per la vita del mondo" (Gv 6, 51). Nei santi Sacramenti, il Signore sempre di nuovo s'inginocchia davanti ai nostri piedi e ci purifica. PreghiamoLo, affinché dal bagno sacro del suo amore veniamo sempre più profondamente penetrati e così veramente purificati!
Se ascoltiamo il Vangelo con attenzione, possiamo scorgere nell'avvenimento della lavanda dei piedi due aspetti diversi. La lavanda che Gesù dona ai suoi discepoli è anzitutto semplicemente azione sua - il dono della purezza, della "capacità per Dio" offerto a loro. Ma il dono diventa poi un modello, il compito di fare la stessa cosa gli uni per gli altri. I Padri hanno qualificato questa duplicità di aspetti della lavanda dei piedi con le parole sacramentum ed exemplum. Sacramentum significa in questo contesto non uno dei sette sacramenti, ma il mistero di Cristo nel suo insieme, dall'incarnazione fino alla croce e alla risurrezione: questo insieme diventa la forza risanatrice e santificatrice, la forza trasformatrice per gli uomini, diventa la nostra metabasis, la nostra trasformazione in una nuova forma di essere, nell'apertura per Dio e nella comunione con Lui. Ma questo nuovo essere che Egli, senza nostro merito, semplicemente ci dà deve poi trasformarsi in noi nella dinamica di una nuova vita. L'insieme di dono ed esempio, che troviamo nella pericope della lavanda dei piedi, è caratteristico per la natura del cristianesimo in genere. Il cristianesimo, in rapporto col moralismo, è di più e una cosa diversa. All'inizio non sta il nostro fare, la nostra capacità morale. Cristianesimo è anzitutto dono: Dio si dona a noi - non dà qualcosa, ma se stesso. E questo avviene non solo all'inizio, nel momento della nostra conversione. Egli resta continuamente Colui che dona. Sempre di nuovo ci offre i suoi doni. Sempre ci precede. Per questo l'atto centrale dell'essere cristiani è l'Eucaristia: la gratitudine per essere stati gratificati, la gioia per la vita nuova che Egli ci dà.
Con ciò, tuttavia, non restiamo destinatari passivi della bontà divina. Dio ci gratifica come partner personali e vivi. L'amore donato è la dinamica dell'"amare insieme", vuol essere in noi vita nuova a partire da Dio. Così comprendiamo la parola che, al termine del racconto della lavanda dei piedi, Gesù dice ai suoi discepoli e a tutti noi: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri" (Gv 13, 34). Il "comandamento nuovo" non consiste in una norma nuova e difficile, che fino ad allora non esisteva. Il comandamento nuovo consiste nell'amare insieme con Colui che ci ha amati per primo. Così dobbiamo comprendere anche il Discorso della montagna. Esso non significa che Gesù abbia allora dato precetti nuovi, che rappresentavano esigenze di un umanesimo più sublime di quello precedente. Il Discorso della montagna è un cammino di allenamento nell'immedesimarsi con i sentimenti di Cristo (cfr Fil 2, 5), un cammino di purificazione interiore che ci conduce a un vivere insieme con Lui. La cosa nuova è il dono che ci introduce nella mentalità di Cristo. Se consideriamo ciò, percepiamo quanto lontani siamo spesso con la nostra vita da questa novità del Nuovo Testamento; quanto poco diamo all'umanità l'esempio dell'amare in comunione col suo amore. Così le restiamo debitori della prova di credibilità della verità cristiana, che si dimostra nell'amore. Proprio per questo vogliamo tanto maggiormente pregare il Signore di renderci, mediante la sua purificazione, maturi per il nuovo comandamento.
Nel Vangelo della lavanda dei piedi il colloquio di Gesù con Pietro presenta ancora un altro particolare della prassi di vita cristiana, a cui vogliamo alla fine rivolgere la nostra attenzione. In un primo momento, Pietro non aveva voluto lasciarsi lavare i piedi dal Signore: questo capovolgimento dell'ordine, che cioè il maestro - Gesù - lavasse i piedi, che il padrone assumesse il servizio dello schiavo, contrastava totalmente con il suo timor riverenziale verso Gesù, con il suo concetto del rapporto tra maestro e discepolo. "Non mi laverai mai i piedi", dice a Gesù con la sua consueta passionalità (Gv 13, 8). È la stessa mentalità che, dopo la professione di fede in Gesù, Figlio di Dio, a Cesarea di Filippo, lo aveva spinto ad opporsi a Lui, quando aveva predetto la riprovazione e la croce: "Questo non ti accadrà mai!", aveva dichiarato Pietro categoricamente (Mt 16, 22). Il suo concetto di Messia comportava un'immagine di maestà, di grandezza divina. Doveva apprendere sempre di nuovo che la grandezza di Dio è diversa dalla nostra idea di grandezza; che essa consiste proprio nel discendere, nell'umiltà del servizio, nella radicalità dell'amore fino alla totale auto-spoliazione. E anche noi dobbiamo apprenderlo sempre di nuovo, perché sistematicamente desideriamo un Dio del successo e non della Passione; perché non siamo in grado di accorgerci che il Pastore viene come Agnello che si dona e così ci conduce al pascolo giusto.
Quando il Signore dice a Pietro che senza la lavanda dei piedi egli non avrebbe potuto aver alcuna parte con Lui, Pietro subito chiede con impeto che gli siano lavati anche il capo e le mani. A ciò segue la parola misteriosa di Gesù: "Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi" (Gv 13, 10). Gesù allude a un bagno che i discepoli, secondo le prescrizioni rituali, avevano già fatto; per la partecipazione al convito occorreva ora soltanto la lavanda dei piedi. Ma naturalmente si nasconde in ciò un significato più profondo. A che cosa si allude? Non lo sappiamo con certezza. In ogni caso teniamo presente che la lavanda dei piedi, secondo il senso dell'intero capitolo, non indica un singolo specifico Sacramento, ma il sacramentum Christi nel suo insieme - il suo servizio di salvezza, la sua discesa fino alla croce, il suo amore sino alla fine, che ci purifica e ci rende capaci di Dio. Qui, con la distinzione tra bagno e lavanda dei piedi, tuttavia, si rende inoltre percepibile un'allusione alla vita nella comunità dei discepoli, alla vita nella comunità della Chiesa - un'allusione che Giovanni forse vuole consapevolmente trasmettere alle comunità del suo tempo. Allora sembra chiaro che il bagno che ci purifica definitivamente e non deve essere ripetuto è il Battesimo - l'essere immersi nella morte e risurrezione di Cristo, un fatto che cambia la nostra vita profondamente, dandoci come una nuova identità che rimane, se non la gettiamo via come fece Giuda. Ma anche nella permanenza di questa nuova identità, per la comunione conviviale con Gesù abbiamo bisogno della "lavanda dei piedi". Di che cosa si tratta? Mi sembra che la Prima Lettera di san Giovanni ci dia la chiave per comprenderlo. Lì si legge: "Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa" (1, 8s). Abbiamo bisogno della "lavanda dei piedi", della lavanda dei peccati di ogni giorno, e per questo abbiamo bisogno della confessione dei peccati. Come ciò si sia svolto precisamente nelle comunità giovannee, non lo sappiamo. Ma la direzione indicata dalla parola di Gesù a Pietro è ovvia: per essere capaci a partecipare alla comunità conviviale con Gesù Cristo dobbiamo essere sinceri. Dobbiamo riconoscere che anche nella nostra nuova identità di battezzati pecchiamo. Abbiamo bisogno della confessione come essa ha preso forma nel Sacramento della riconciliazione. In esso il Signore lava a noi sempre di nuovo i piedi sporchi e noi possiamo sederci a tavola con Lui.
Ma così assume un nuovo significato anche la parola, con cui il Signore allarga il sacramentum facendone l'exemplum, un dono, un servizio per il fratello: "Se dunque io, il Signore e Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri" (Gv 13, 14). Dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri nel quotidiano servizio vicendevole dell'amore. Ma dobbiamo lavarci i piedi anche nel senso che sempre di nuovo perdoniamo gli uni agli altri. Il debito che il Signore ci ha condonato è sempre infinitamente più grande di tutti i debiti che altri possono avere nei nostri confronti (cfr Mt 18, 21-35). A questo ci esorta il Giovedì Santo: non lasciare che il rancore verso l'altro diventi nel profondo un avvelenamento dell'anima. Ci esorta a purificare continuamente la nostra memoria, perdonandoci a vicenda di cuore, lavando i piedi gli uni degli altri, per poterci così recare insieme al convito di Dio.
Il Giovedì Santo è un giorno di gratitudine e di gioia per il grande dono dell'amore sino alla fine, che il Signore ci ha fatto. Vogliamo pregare il Signore in questa ora, affinché gratitudine e gioia diventino in noi la forza di amare insieme con il suo amore. Amen.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


Pasqua di risurrezione

Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
venerdì 21 marzo 2008
Si avvicina la Pasqua in un panorama che a livello nazionale e mondiale appare sempre più segnato dalla sofferenza, dall’orrore, in altre parole, dalla croce. Pensiamo alle tragedie di casa nostra, a quelle che ci sembrano assurde manifestazioni di violenza tra le mura domestiche, soprattutto quando coinvolgono i bambini. L’attenzione internazionale è in questi giorni puntata sulla protesta in Tibet cui la Cina ha risposto con spietata crudeltà, ma non possiamo dimenticare Israele e l’Irak con la barbara uccisione di mons. Rahho. Sofferenza e martirio richiamano alla mente e al cuore la morte del Giusto, il Figlio di Dio, che ha assunto su di sé il peccato del mondo, il dolore di tutti gli uomini. Come sopportare il dolore del mondo senza guardare questo dolore? E come volgere lo sguardo a Cristo in un mondo che lo rifiuta in nome di una libertà impazzita? Sant’Ignazio di Antiochia scrive “Il cristianesimo non è persuasione, ma vera grandezza”. Allora come riconoscerla? Guardando ai fatti e ascoltando i testimoni del presente e del passato. Non si arriva alla fede senza il metodo razionale della testimonianza. “La conoscenza di Dio non è come la conoscenza di qualsiasi altra cosa. È una strada” (l’allora cardinal Ratzinger). Anche per noi oggi si tratta di percorrere un cammino e la risurrezione inizia con accettare di compiere questa strada. Tra i testimoni che sono stati prossimi a Gesù seguiamo Maria, che ha partecipato con il suo cuore di madre alla sofferenza del Figlio. “Guardate, o popoli, se c’è un dolore simile al mio!”, recita uno dei responsori della Passione musicati da Da Victoria. I testimoni del nostro tempo sono tanti. Pochi giorni fa sono stati celebrati i funerali di Chiara Lubich. Ma ognuno di noi può pensare al “suo” testimone, all’incontro che ha svelato il senso della storia propria e del mondo, che ha illuminato una personale ricerca della verità e del bene. Alla Vittima pasquale si alzi oggi il sacrificio di lode, dice la sequenza liturgica, Cristo innocente ha riconciliato i peccatori con il Padre, il Signore della vita, morto, vivo regna. È risorto Cristo, mia speranza!
Se Cristo è risorto, si può ancora parlare dell’uomo.


Dal Foglio.it, 21 marzo 2008
Il Bergman pro life che non avete visto
Cinquant’anni fa, a Cannes, vinceva “Alle soglie della vita”, sponsorizzato dal governo svedese per contrastare gli aborti e mai distribuito in Italia

Cinquant’anni fa, Ingmar Bergman (1918-2007) ottenne la Palma d’oro per la miglior regia al Festival di Cannes del 1958. Più volte premiato nella sua lunga carriera e autore di pellicole che hanno fatto la storia del cinema, la notizia di quel premio è, però, legata al film che lo ricevette: praticamente sconosciuto (sebbene prodotto, tanto per intenderci, dopo “Il settimo sigillo” e “Il posto delle fragole”). Un’opera quasi inedita, dunque, “Nära livet” (Alle soglie della vita), pellicola in bianco e nero mai distribuita e tradotta in italiano, disponibile nella prima visione, in svedese con sottotitoli in inglese (a tre quarti, il film si interrompe per qualche istante, e un cartello avverte: “Un attimo che giriamo la bobina”).
Oltre a Bergman e al suo film semisconosciuto, cinquant’anni fa Cannes premiò anche le protagoniste di quella pellicola: Eva Dahlbeck (da poco scomparsa), Ingrid Thulin, Bibi Anderrson e Barbro Hiort af Ornäs ottennero, infatti, il premio collettivo come migliori attrici. Con il regista, alla sceneggiatura collaborò la scrittrice Ulla Isaksson (1916-2000), autrice del volume omonimo pubblicato in Svezia proprio nel 1958 (nel 1995 la Isaksson ha ricevuto il prestigioso premio svedese Selma Lagerlöf “perché con la sua scrittura ha mostrato come l’amore vince sulla disperazione”).
La vicenda si svolge nella stanza E del reparto maternità dell’ospedale XX, che ospita tre donne molto diverse per carattere, età e situazione. Tutte, compresa l’infermiera Brita – che, a suo modo, completa il quartetto – si trovano dinnanzi alla comune esperienza della gravidanza, al mistero della vita. Nel bianco-grigio-nero di quella camera, con eloquenti movimenti e poche ma essenziali battute, si coglie il loro vissuto, ciò che le ha condotte lì. Sono, come spesso accade con Bergman, soprattutto gli sguardi a raccontarne le vicende. Da un lato della stanza c’è il letto di Cecilia Ellius, giunta nottetempo al pronto soccorso con una forte emorragia, a causa della quale perde il bambino al terzo mese di gravidanza. Dall’altro lato, appaiati, vediamo altri due letti. Uno è di Hjördis Pettersson, un’operaia diciannovenne che non vuole assolutamente il figlio che aspetta (la ragazza-madre incinta e abbandonata dall’uomo è figura ricorrente in Bergman, con un chiaro tratto autobiografico: tale era la sua tata di bambino, May, che per questo si annegherà nel fiume). Il terzo letto è quello di Stina Andersson, una venticinquenne sposata, robusta, rubiconda e sprizzante gioia da ogni poro del suo ultimo mese di una gravidanza che ancora non accenna a finire.
Non appena le vicende si mettono a fuoco, colpisce come un pugno nello stomaco la vicinanza fisica tra le tre protagoniste: quale regia crudele può imporre a una donna psicologicamente distrutta, che si risveglia dall’anestesia del raschiamento, di trovarsi dinnanzi una florida e incintissima ragazzona che addenta una mela, impaziente di partorire? (“Mi manca così tanto il bambino che tra poco impazzirò, se non arriva”). La prima reazione è un conato. Il pianto dei neonati sullo sfondo completa il quadro, acuendo il dolore di Hjördis e il nostro disagio. Ma proprio quella vicinanza fisica che pare a noi così politicamente (e psicologicamente) scorretta, sarà la forza interiore di queste tre donne, tutte variamente colpite. Sarà quella comunione che permetterà loro di superare le difficoltà che hanno incontrato, e di affrontare i terribili macigni che presto incomberanno su di loro. Cecilia, che si presenta come la più sconfitta dalla vita, è convinta di aver perso suo figlio perché, in realtà, non era abbastanza desiderato: il padre non lo voleva, mentre lei non era sufficientemente forte da amarlo da sola. “Per questo non ha potuto nascere, ma è stato gettato in un lavandino, oppure è stato messo in una provetta per qualche esperimento. (…) Avete buttato via quello che sarebbe dovuto diventare mio figlio, e me lo sono meritata”. Stina, invece, autentica incarnazione della primitiva gioia di vivere, trabocca di amore per il bambino in arrivo. “E’ la cosa più bella che mi sia capitata. E la più incredibile. Tutto il resto avrei potuto più o meno immaginare in anticipo come sarebbe stato. Ma questo! Come se qualcosa scendesse su di noi e ci colmasse, qualcosa di superiore, e che però è dentro di noi, qualcosa su cui non si aveva potere, ma che comunque ci raggiungeva”. A completare il quadro, Hjördis, arrivata in ospedale dopo un tentativo di aborto non riuscito: è arrabbiata con il mondo e con la vita. Allo stesso tempo, è autenticamente terrorizzata da ciò che le sta accadendo, vorrebbe odiare quel bambino che cresce in lei (“questo maledetto bambino”, anche se “lui, poverino, non ha fatto niente di male”). Vorrebbe perderlo, ma rifiuta decisamente di sottoporsi nuovamente allo shock e allo schifo dell’aborto – meglio annegarsi entrambi. Sarà, ovviamente, proprio lei la sola a salvare la vita che porta.
Pur così diverse, queste tre donne rideranno e piangeranno, soffrendo e sperando, disperandosi e facendosi coraggio: la vita in quella stanza d’ospedale contrasta nettamente con l’asetticità della realtà che le circonda. La società sembra aver pensato per loro ad ogni genere di possibile efficiente assistenza, ma qualcosa manca. Vi sono medici preparati (con i loro vuoti formulari) e incoraggianti assistenti sociali, ma è un sapere che alle donne non serve – o non basta: le grandi domande che aleggiano in quella camera, ricevono solo una vuota eco dalle comparse esterne. E’ vero che, come ricorda la bionda e solerte assistente sociale, l’efficienza statale copre tutto (“Adesso la società è preparata ad aiutare e sostenere la ragazza madre nella sua battaglia per il suo bambino. Abbiamo il sussidio di maternità e gli assegni familiari, il parto è gratuito e c’è l’assistenza sociale. La legge adesso protegge i diritti dei figli illegittimi e lei avrà un tutore che l’aiuterà, che verificherà se il padre passa gli alimenti e così via. Inoltre avrà una casa dove stare, prima e dopo il parto […] Potrà chiamarsi signora e avere un piccolo appartamento. […] Può usufruire di un mutuo statale, e come ragazza madre ha la priorità sull’assegnazione della casa. […] Ci sono ottimi nidi con rette contenute per chi ha un reddito modesto”). Ma è vero anche che c’è dell’altro. Hjördis lo sa, e qui si gioca una parte importante della sua terrorizzata ribellione. “Volete costringermi a partorire, è questo che volete! Coi vostri soldi di qui e soldi di là, casa di qui e casa di là. E il vostro: Guarda come sono meravigliosi! Ma io penso che siano orribili, io! Orribili e ripugnanti, come sanguisughe che ti si attaccano e ti succhiano tutto il sangue che hai. Cosa ne sa una come te di queste cose? Tu che hai letto solo una montagna di libri seduta a una bella scrivania. Tu, tu non hai mai dimenticato il diaframma, eh? Tu non ti sei mai sentita palpare da due fottute braccia tatuate…”.
Sarà solo la comunione tra queste tre donne, al contempo Grazie e Parche, ad aiutarle. Sarà solo il coraggio reciproco a sostenerle: Cecilia, Stina e Hjördis sono contemporaneamente vittime e protagoniste di un destino che, senza apparenti e razionali spiegazioni, alterna vita e morte. E così, è la coppia Stina e Hjördis che accoglie Cecilia al suo risveglio; è il confronto e lo scambio notturno tra Hjördis e Cecilia che accompagna e veglia Stina nel parto (la donna viene addormentata mentre, inutilmente, rifiuta il minaccioso forcipe); infine Hjördis, uscendo dall’ospedale, lascia dietro di sé Stina e Cecilia, più vicine e più forti.
Tutt’intorno, il mondo esterno. Gli uomini, innanzitutto, i mariti, i fidanzati, i medici – presenze varie e composite, comunque incapaci di partecipare davvero a quanto succede. Lo stesso vale, però, per le altre figure femminili, amiche, parenti o personale ospedaliero che siano. Il messaggio della cupa incomunicabilità sembra cogliere tutti e tutte coloro che non vivono nel corpo il mistero della gravidanza.
Questa separazione tra l’interno della stanza e il mondo circostante è enfatizzata dal tratto tipico dei film di Bergman: anche questo è fortemente teatrale per l’unità di luogo e per la ritualità scandita da ogni immagine.
L’unico trait d’union tra le tre pazienti e il mondo esterno è dato dall’infermiera Brita, essenziale e affettuosa, angelo custode nella freddezza asettica dell’ospedale e dell’esistenza. Testimone di quella vita umana che scorre da e nei corpi delle donne, la sua è la saggezza coraggiosa che sa bene come nascita e morte siano le due facce dello stesso mistero. Un mistero tanto più fitto quanto più, specie ai suoi albori, le fa procedere intimamente appaiate.
Il film ebbe uno sponsor d’eccezione: venne realizzato, infatti, con l’appoggio del governo svedese che aveva in corso una campagna per il contenimento delle pratiche abortive, all’epoca clandestine (l’interruzione di gravidanza diverrà legale nel paese solo nel 1974). Se è prevedibile il finale – proprio colei che non voleva la gravidanza sarà la sola continuatrice della vita – quello che invece sorprende ha una portata ben più generale. E’ il modo in cui la pellicola, nel suo messaggio profondamente pro life, viene costruita. Il messaggio diventa così importante proprio perché è complesso, ambivalente e – per le donne in primis – faticoso. E’ un inno alla vita, ma a quella vera, fatta anche di sconfitte e dolori. Perché quando Hjördis fugge tra le braccia dell’infermiera, non vuole tornare nella “stanza E”, in cui sembra regnare solo la morte. Perché ogni volta che la porta si apre – e a un certo punto si dovrà, necessariamente, aprire per sempre – ogni volta sembra di veder entrare Bengt Ekerot – l’attore che interpreta la Morte nel “Settimo sigillo” – per una sfida a scacchi.
Del resto, come ci avverte la Isaksson nel proemio, “è misteriosa la vita, come la nascita e la morte; è misterioso che alcuni siano destinati a vivere, altri a morire. Possiamo tempestare di domande il cielo, o la scienza – nessuna risposta sarà comunque definitiva. Intanto la vita prosegue, coronando i viventi di felicità e dolore. Una cerca affetto e deve scordare il proprio desiderio, accettando la sua impossibilità a dare la vita. Una è piena di vita e non può tenere il bambino desiderato. Una, ingenua e troppo giovane, viene improvvisamente colta di sorpresa dalla vita e va a incrementare la schiera dei nascituri. La vita le corona tutte, ma non pone domande, non dà risposte, è sempre in marcia verso nuove nascite, nuove vite. Sono solo gli esseri umani che s’interrogano”. La risposta sarà dura. Solo una madre e un figlio si salvano, riuscendo a oltrepassare le soglie della vita – “coi tacchi alti e picchiettanti, inizia il suo cammino verso il mondo fuori”. Solo una. Anche questo è un onesto messaggio a favore della vita.
di Giulia Galeotti


LA PREVENZIONE CONTINUA A RIMANERE UNA CENERENTOLA
Aborto, ricette sbagliate. E poco adatte all’Italia

Avvenire, 21 marzo 2008
ASSUNTINA MORRESI
I l no della Lombardia alla bozza di linee guida sull’attuazione della legge 194 proposta ieri alle Regioni dal ministro della Salute Livia Turco esprime tutta la delusione di chi aspettava dal Ministero un documento in cui la «tutela sociale della maternità» – come recita l’intestazione della legge – avesse almeno lo stesso peso della parte dedicata all’«interruzione volontaria della gravidanza».
Giustamente il documento presentato alla Conferenza Stato-Regioni si propone di migliorare l’efficienza dei servizi sul territorio, in primis i consultori e i centri per la diagnosi prenatale, e dedica molta attenzione alle donne immigrate, che contribuiscono al numero totale degli aborti in Italia per il 30%. Ma le strategie di prevenzione e riduzione degli aborti vengono affidate a una diffusione più ampia della contraccezione, compresa quella cosiddetta «d’emergenza», mentre ancora c’è scarsa attenzione a prevenzione e sostegno.
Non si capisce, per esempio, perché ci debba essere carattere di urgenza per l’inserimento della spirale e la richiesta di certificati per abortire, e non anche per colloqui con chi vorrebbe tenere il figlio e dichiara di essere in condizioni in qualche modo disperate.
Che poi diffondere la contraccezione sia il fattore principale di prevenzione degli aborti è oramai poco più che una leggenda metropolitana. Basti vedere i dati di Francia e Gran Bretagna, dove la pillola contraccettiva è estremamente diffusa, e la pillola del giorno dopo disponibile senza ricetta, spesso gratis nelle scuole. in Gran Bretagna si è passati dai 55 mila aborti del 1967 – quando è entrata in vigore la legge – agli oltre 200mila di quest’anno, con percentuali molto elevate fra le minorenni. È di ieri, poi, la denuncia del deputato inglese Mark Pritchard sulle 15mila donne inglesi che hanno abortito almeno per la terza volta nella loro vita. In Francia gli aborti non riescono a scendere sotto i 200mila l’anno, e il numero medio di aborti per donna è costante dal 1986.
In Italia, invece, la pillola del giorno dopo richiede una ricetta medica non ripetibile (come stabilito dall’allora Ministro della Salute Umberto Veronesi), la pillola contraccettiva è usata dal 20% circa delle donne – uno dei valori più bassi in Europa – e secondo un’indagine della Sigo (Società Italiana di Ostetricia e Ginecologia) nel 2005 quarantesette donne italiane su 100 non hanno usato alcun metodo. Eppure nel nostro Paese non solo gli aborti sono diminuiti ma anche la natalità è in forte calo: si direbbe quindi che le coppie italiane controllino le nascite senza ricorrere né all’aborto né alla contraccezione chimica. E allora, che bisogno c’è di diffondere ancor di più la contraccezione?
La chiave del paradosso italiano – diminuzione delle nascite e degli aborti, e allo stesso tempo scarsa diffusione di contraccezione chimica – sta tutta nella tenuta dei rapporti familiari, nella responsabilità reciproca delle relazioni, nella solidarietà fra le generazioni: l’Italia continua a essere, nonostante tutto, il Paese occidentale con il minor numero di divorzi e di bambini nati al di fuori del matrimonio. Un Paese in cui la famiglia continua a essere il punto di riferimento nei rapporti sociali e un’autorevole agenzia educativa, e dove quindi un figlio 'inaspettato' non è sempre un problema insormontabile. Infatti l’aumento di richieste di aborto da parte di minorenni, senza autorizzazione dei genitori, è riconducibile a gravi situazioni di degrado familiare. Ma di questa realtà nella bozza di 'linee guida' non c’è traccia.


Passione
La persecuzione e il dolore innocente La Via Crucis del Colosseo scritta da Zen

Avvenire, 21 marzo 2008
DI LORENZO ROSOLI
I l «protagonista» della Via Crucis? È Gesù Cri­sto, «come ci viene presentato dai Vangeli e dalla tradizione della Chiesa. Ma dietro di lui c’è tanta gente del passato e del presente, ci siamo noi». E in quel noi ci sono, primi fra tutti, i cristiani della Cina e di tutte le Chiese che ieri e oggi hanno conosciuto il dolore e la persecu­zione. Ma ci sono anche le vittime innocenti del potere ingiusto e della negazione della libertà religiosa. Parola di Joseph Zen Ze-kiun, prete sa­lesiano, vescovo di Hong Kong, cardinale. Figlio della Cina, ma anche voce e pastore di un po­polo che nonostante tutte le oppressioni non ha smarrito la sete di Dio e la fame di giustizia, di libertà, di dignità umana.
Al cardinale Zen Benedetto XVI ha affidato le meditazioni e le preghiere della Via Crucis al Co­losseo che stasera alle 21,15 – come ogni anno – lo stesso Pontefice presiederà, portando la cro­ce nelle ultime tre stazioni. La riceverà – scelta emblematica – da una ragazza cinese. Prima di lei la porteranno il cardinale vicario di Roma, Camillo Ruini (prima stazione); una suora del Burkina Faso (seconda e terza); una famiglia ro­mana (quarta e quinta); una portatrice di han­dicap in carrozzella accompagnata da un barel­liere e da una dama dell’Unitalsi (sesta e setti­ma); i frati francescani della Custodia di Terra Santa (ottava e nona stazione).
La sequenza dei cirenei scelti per la Via Crucis di stasera dà volto e carne alle molteplici realtà in cui vivono la Chiesa e i cristiani del nostro tem­po. Allo stesso modo, i testi scritti da Zen inne­stano la memoria della passione e morte di Ge­sù dentro la carne della contemporaneità. Quan­do Ratzinger – per mezzo del cardinale segreta­rio di Stato, Tarcisio Bertone – gli ha chiesto di preparare le meditazioni per la Via Crucis, «non ho avuto la minima esitazione ad accettare tale compito», confessa Zen. «Ho capito che il San­to Padre, con quel gesto, intendeva manifestare la propria attenzione al grande Continente a­siatico e coinvolgere, in particolare, in questo solenne esercizio di pietà cristiana i fedeli della Cina, per i quali la Via Crucis è una devozione molto sentita. Il Papa ha voluto che io portassi al Colosseo la voce di quelle sorelle e di quei fra­telli lontani», si legge nel testo della Presentazio­ne alle meditazioni redatto dallo stesso Zen.
Dunque: «Lasciamo che stasera tanti nostri fra­telli lontani anche nel tempo siano presenti spi­ritualmente in mezzo a noi. Essi probabilmen­te più di noi oggi hanno vissuto nel loro corpo la Passione di Gesù. Nella loro carne Gesù è sta­to nuovamente arrestato calunniato, torturato, deriso, trascinato, schiacciato sotto il peso del­la croce e inchiodato su quel legno come un cri­minale ». Stasera nel cuore del Papa e di tutti i fe­deli ci saranno i «martiri viventi» del XXI secolo ma – sottolinea Zen – «anche i persecutori». La via della Croce sia – per loro e per tutti – via di conversione, perdono, riconciliazione.


IL CASO FRANCESE
Sotto tiro il deputato neogollista Jean Leonetti che sta preparando un nuovo testo sui pazienti terminali: già le norme attuali potevano aiutarla «No» dei legali all’autopsia sull’ex insegnante
Parigi, Chantal scatena la battaglia sull’eutanasia

Avvenire, 21 marzo 2008
Mistero sulla morte della donna affetta da un raro tumore La sinistra e alcune associazioni «cavalcano» l’onda di commozione e chiedono la revisione della legge
DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ
All’indomani della morte ancora miste­riosa di Chantal Sébire, l’ex insegnante cinquantenne della Borgogna affetta da una rarissima forma tumorale e all’origine nelle scorse settimane di una richiesta d’eutanasia re­spinta dai tribunali francesi, il tragico caso uma­no è divenuto ieri più che mai un tema di dibat­tito politico. Sull’onda di commozione suscitata in tutto il Paese dal destino della donna col volto sfigurato dal male, diverse associazioni pro-eutanasia e vari esponenti politici perlopiù dell’opposizione socialista hanno chiesto un riesame della legge del 2005 che ribadisce ferma­mente l’inammisibilità del­l’eutanasia in Francia. Jean Leonetti, il deputato neogollista che aveva fir­mato il testo di legge, ha di­chiarato ieri che l’ex inse­gnante ritrovata morta mercoledì nella sua abita­zione «non ha chiesto che la legge fosse applicata».
Secondo Leonetti, il testo «avrebbe potuto alleviare le sue sofferenze, anche a costo di abbreviare la sua vita». Ma «non era la scel­ta » della donna, la quale in­vece ha insistito nella via di una «richiesta di suicidio». Le parole del deputa­to sembrano suonare come un’accusa implicita al­le associazioni pro-eutanasia di cui l’ex insegnante aveva accettato il “sostegno”.
Leonetti, che giudica la legge «conosciuta e ap­plicata male» soprattutto negli aspetti riguardan­ti la sedazione del dolore, è stato appena incari­cato dal premier François Fillon di verificare tut­to il processo di applicazione del testo e di evi­denziarne le eventuali lacune. Ma nella scia della forte mediatizzazione del caso, sono nelle ultime ore soprattutto le voci favorevoli all’eutanasia a cercare nuovi argomenti.
Per il deputato socialista Jean-Marie Le Guen, oc­corre introdurre «un nuovo diritto dell’uomo: il diritto a morire nella dignità». Da parte sua l’ex pre­mier socialista Laurent Fabius ha preannunciato di voler presentare una proposta di legge per l’eu­tanasia. Per l’altro deputato Ps Gaetan Gorce, la legge dovrebbe includere anche i casi «di una don­na, d’un uomo che non è in fin di vita, che è vitti­ma di una malattia incurabile, che soffre terribil- mente». Ieri, intanto, il Tribunale di Digione ha fatto sapere che la richiesta d’eutanasia della don­na, «rigettata» conformemente alla legge, era teo­ricamente «ricevibile». Un particolare in cui i le­gali dell’ex insegnante vedono una breccia per e­ventuali ricorsi, in futuri casi simili, fino alla Cor­te europea.
Attraverso il portavoce Luc Chatel, il governo si è limitato a dire che occorre «prendere in conside­razione i casi più dolorosi» di malattie terminali. Ma l’esecutivo Fillon attende soprattutto le con­clusioni del rapporto di valutazione di Leonetti. Da parte sua, il presidente dell’Assemblea nazio­nale Bernard Accoyer, neogollista, ha ricordato che «non si deve mai legiferare in modo precipi­toso ».
Intanto, restavano ieri misteriose le circostanze precise della morte della donna. La pista dell’eu­tanasia attiva non è scartata, mentre quella del suicidio appare contraria ai principi manifestati in passato dall’ex insegnante. I legali sono con­trari a ogni richiesta di autopsia.