venerdì 14 marzo 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Morto l'arcivescovo di Mosul
2) Preghiamo per Chiara Lubich
3) (Adnkronos) - E’ morta nella notte Chiara Lubich
4) Volantino di Cl sulle elezioni
5) GESU' DI NAZARET, Un intervento di Julián Carrón ,su Vita e Pensiero
6) SIAMO DI FRONTE A UNA VERA PULIZIA ETNICA
7) Non c’è niente di meglio che avere a che fare con Gesù, di Davide Rondoni
8) L’aborto come fatto privato Ma arriva l’incidente. E tutto salta
9) Scola: il cristianesimo aiuta l’incontro fra le culture


Morto l'arcivescovo di Mosul
Il Papa ha subito inviato un telegramma di cordoglio al card. Emmanuel III Delly, Patriarca di Babilonia dei caldei, nel quale afferma: “La più decisa deplorazione per un atto di disumana violenza che offende la dignità dell’essere umano e nuoce gravemente alla causa della fraterna convivenza dell’amato popolo iracheno”…

Mosul (AsiaNews) - E' morto l'arcivescovo caldeo di Mosul, mons. Faraj Rahho, rapito il 29 febbraio scorso dopo la Via Crucis celebrata nella chiesa del Santo Spirito. Lo hanno comunicato i rapitori che hanno indicato ai mediatori il luogo dove recuperare il corpo del presule, 67 anni. “Una grande Croce per la nostra Chiesa prima della Pasqua” ha commentato ad AsiaNews la notizia il vescovo di Arbil, mons. Rabban al Qas. Personalità della Chiesa caldea, tra cui mons. Shlemon Warduni, hanno portato il cadavere all’ospedale di Mosul per accertare le cause, ancora ignote, del decesso. I funerali si svolgeranno domani nella vicina cittadina di Karamles. Mons. Rahho sarà sepolto vicino a p. Ragheed, il suo sacerdote e segretario ucciso il 3 giugno 2007 all’uscita dalla messa da un commando terrorista.
Il presule, era molto malato. Pochi anni fa aveva subito un infarto e da allora aveva bisogno di assumere medicine quotidiane. Le difficili trattative andate avanti in questi 14 giorni di sequestro avevano da subito preoccupato per la totale assenza di contatti diretti con l’ostaggio. Tra le condizioni poste dai rapitori - fanno sapere fonti di AsiaNews a Mosul - oltre ad un ingente riscatto nell’ordine dei milioni di dollari, si è parlato anche di forniture di armi e della liberazione di prigionieri arabi nelle carceri curde.
La notizia della morte di mons. Rahho “colpisce e addolora profondamente” il Papa, come ha riferito il direttore della sala stampa vaticana, p. Federico Lombardi. Benedetto XVI auspica che “questo tragico evento richiami ancora una volta e con più forza l'impegno di tutti e in particolare della comunità internazionale per la pacificazione di un Paese così travagliato”. Per tre volte in questi giorni il Papa aveva lanciato un appello per la liberazione del vescovo. Per il rilascio del presule si erano espressi numerosi leader musulmani, sunniti e sciiti, in Iraq, Libano e Giordania, che hanno anche condannato il gesto come “contrario all’islam”.
AsiaNews 13 marzo 2008



Preghiamo per Chiara Lubich
Cari amici, vi invito tutti a pregare per Chiara Lubich, gravemente ammalata. Domandiamo alla Madonna, da lei amata come sorgente della vita che non muore, di ottenerle il dono di una sempre più intensa immedesimazione con Cristo, vivendo con Lui nella sofferenza l’offerta totale di sé al Dio che è amore.
Julián Carrón


Roma, 14 mar. - (Adnkronos) - E’ morta nella notte Chiara Lubich
fondatrice del movimento dei Focolari. All’età di 88 anni, la Lubich si è spenta nella sua casa di Rocca di Papa, a Roma, dove era rientrata ieri per sua espressa volontà dopo il ricovero al Policlinico Gemelli. Per tutta la giornata, ieri, centinaia di persone, parenti, stretti collaboratori e suoi figli spirituali, sono passati nella sua stanza, per rivolgerle l’ultimo saluto, per poi fermarsi in raccoglimento nell’attigua cappella, sostando poi a lungo attorno alla casa in preghiera. Un’ininterrotta e spontanea processione, si legge in una nota del movimento, e a taluni la Lubich ha potuto anche fare cenni d’intesa, nonostante l’estrema debolezza. Le condizioni di salute della Lubich erano peggiorate proprio nella giornata di ieri. Continuano a giungere dal mondo intero messaggi di partecipazione e di condivisione da parte di leader religiosi, politici, accademici e civili, e da tanta gente del ‘‘suo’&rsquo ; popolo.


Volantino di Cl sulle elezioni«Il compito immediato di agire in ambito politico per costruire un giusto ordine nella società non è della Chiesa come tale, ma dei fedeli laici, che operano come cittadini sotto propria responsabilità: si tratta di un compito della più grande importanza, al quale i cristiani laici italiani sono chiamati a dedicarsi con generosità e con coraggio, illuminati dalla fede e dal magistero della Chiesa e animati dalla carità di Cristo».
Benedetto XVI
Elezioni 2008
Ciò che abbiamo di più caro
1) Ogni volta che siamo chiamati alle urne siamo provocati, come cristiani, a rendere ragione della nostra fede. È questo, infatti, a essere ultimamente in gioco nel modo in cui diamo il nostro contributo alla costruzione della società.
Come ci ha insegnato don Giussani, ciò che ognuno ama viene a galla di fronte alle urgenze del vivere: «Se in primo piano è veramente la fede, se ci aspettiamo veramente tutto dal fatto di Cristo, oppure se dal fatto di Cristo ci aspettiamo quello che decidiamo di aspettarci, ultimamente rendendolo spunto e sostegno a nostri progetti o a nostri programmi», emerge di fronte alla prova, nel giudizio e nella decisione.
Perciò le elezioni rappresentano per noi un’occasione educativa unica, per verificare a che cosa teniamo veramente e per smascherare la possibile ambiguità che sta alla radice di ogni nostra azione.
2) Alla politica non chiediamo la salvezza, non è da essa che l’aspettiamo, per noi e per gli altri.
La tradizione della Chiesa ha sempre indicato due criteri ideali per giudicare ogni autorità civile così come ogni proposta politica:
a) la libertas Ecclesiae. Un potere che rispetta la libertà di un fenomeno così sui generis come la Chiesa è per ciò stesso tollerante verso ogni altra autentica aggregazione umana. Il riconoscimento del ruolo anche pubblico della fede e del contributo che essa può dare al cammino degli uomini è, dunque, garanzia di libertà per tutti, non solo per i cristiani.
b) il «bene comune». Un potere che si concepisce come servizio al popolo ha a cuore la difesa di quelle esperienze in cui il desiderio dell’uomo e la sua responsabilità – anche attraverso la costruzione di opere sociali ed economiche, secondo il principio di sussidiarietà – possono crescere in funzione del bene comune, ben sapendo che da nessun programma esso potrà venire realizzato in termini definitivi, a causa del limite intrinseco a ogni tentativo umano.
3) Per queste ragioni noi accordiamo la nostra preferenza a chi promuove una politica e un assetto dello Stato che favoriscano quella “libertà” e quel “bene”, e che possano perciò sostenere la speranza del futuro, difendendo la vita, la famiglia, la libertà di educare e di realizzare opere che incarnino il desiderio dell’uomo. Lo facciamo in un momento storico che esige di non disperdere il voto, per non aggiungere confusione a confusione.
In particolare, invitiamo a guardare ad alcuni amici che, a partire dal personale impegno con la comune esperienza cristiana, hanno già dimostrato in questi anni di perseguire una politica al servizio del bene comune, della sussidiarietà e della libertas Ecclesiae. Ci auguriamo che essi possano continuare a documentare la novità che ha investito la loro vita, come la nostra, affinché nella loro azione si possa rendere ancora più esplicito il frutto dell’educazione ricevuta: una passione per la libertà e per il bene vissuta come carità.
Comunione e Liberazione
Marzo 2008



GESU' DI NAZARET, Un intervento di Julián Carrón ,su Vita e Pensiero




SIAMO DI FRONTE A UNA VERA PULIZIA ETNICA
Avvenire, 14.3.2008
LUIGI GENINAZZI
Nella tragica sequenza irachena d’orrore e di morte la data di ieri segna un macabro punto di svol­ta che lascia allibiti. È grande il no­stro dolore di fronte al cadavere del vescovo caldeo di Mosul, sequestra­to, lasciato morire o, più probabil­mente, ucciso, e poi sepolto dai suoi rapitori che vigliaccamente si sono risparmiati anche il gesto pietoso di consegnarlo alla comunità cristiana cui l’avevano sottratto. Ma è ancor più grande la nostra indignazione. L’unica 'colpa' di questo martire della Chiesa del terzo millennio è stata l’aver continuamente esortato i suoi fedeli a rimanere in Iraq. Per questo era nel mirino dei terroristi e dei fanatici islamici in una terra dove, vale la pena ricordarlo, i cri­stiani hanno antiche radici e sono presenti da ben prima che arrivas­sero i seguaci di Maometto.
Che le cose volgessero al peggio di­venne subito evidente dopo la 'guerra di liberazione' voluta dagli Stati Uniti, nell’agosto del 2004, quando una serie di attentati pro­vocò decine di morti tra i fedeli che riempivano le chiese di Baghdad e di Mosul. Da allora è stata una escala­tion continua: sequestri, rapimenti e uccisioni di sacerdoti, attacchi a luoghi di culto, violenze, minacce e ricatti nei confronti dei fedeli, per­secuzioni quotidiane che hanno già decimato una delle comunità cri­stiane più vive di tutto il Medio O­riente. Non a caso è stato colpito monsignor Rahho, il vescovo di una città come Mosul che è la culla del cristianesimo iracheno, il cuore del­la regione più fittamente popolata dai caldei spinti ad un’emigrazione umiliante e ad una fuga precipitosa. Non c’è scampo: o il ritorno alla 'dhimma', l’antica legge islamica che impone ai cristiani la sottomis­sione ed il pagamento di una tassa, o l’esilio. Chi si rifiuta è un condan­nato a morte.
Siamo di fronte ad un martirio col­lettivo che si configura come una ve­ra e propria pulizia etnica. Quel che sta avvenendo in Iraq è il genocidio strisciante dei cristiani. Un intellet­tuale laico come Regis Débray l’ha paragonato all’antisemitismo. E pa­dre Abdel Ahad, uno dei preti ira­cheni che ha passato quaranta gior­ni nelle mani dei fanatici jihadisti, ha detto: «Ho conosciuto l’odio profondo che i terroristi islamici nu­trono verso i cristiani, ho sperimen­tato sulla mia pelle il loro progetto di cacciarci tutti quanti».
Ma la sopravvivenza dei cristiani in Iraq non riguarda solo la religione. È un problema che tocca le sorti del­la civilizzazione e interpella la co­scienza dell’Occidente. Le comunità cristiane in Medio Oriente hanno sempre rappresentato un ponte di dialogo ed un fattore d’equilibrio. Si tratta di un patrimonio culturale, spirituale ed anche materiale che ha arricchito le nazioni al cui interno i cristiani di rito orientale, pur in mez­zo ad alterne vicende, vivono da quasi due millenni.
Oggi in Iraq, sarebbe miope negar­lo, i cristiani stanno peggio che ai tempi di Saddam Hussein. Certo, an­che loro avevano dovuto sopporta­re i controlli e le limitazioni imposte dalla dittatura baathista. Ma sono stati i primi che nella caduta del re­gime hanno intravisto il pericolo di un’esplosione violenta del fanati­smo islamico. Un rischio divenuto realtà e di cui stanno pagando un prezzo altissimo. L’Occidente, ed in primis il 'cristiano rinato' George Bush, dovrebbero farsene carico, promuovendo una grande campa­gna per accogliere i profughi dall’I­raq e una vasta mobilitazione perché si metta fine al genocidio dei cri­stiani, il nuovo antisemitismo che ci addolora e ci indigna.


Non c’è niente di meglio che avere a che fare con Gesù
DAVIDE RONDONI
Avvenire, 14.3.2008
Discorso radicale.
Perché la vita non è una conversazione da bar.
Non è una cosa da chiacchiera continua, come quella che pervade da ogni sito, da ogni radio, da ogni schermo, la nostra vita e specie quella meno riparata dei più giovani. Ha parlato dell’anima, della possibilità di venderla. E del fatto che se pur l’anima è incancellabile nella natura umana, tale 'fiato vitale' a volte sembra svanire lasciando spazio al vuoto. Vuoto che si sente, anche dietro ai bagliori del successo, ai riflessi colorati degli onori civili o sociali.
Quel vuoto o deserto che, diceva il poeta Eliot, non è lontano ma è 'pressato sul treno della metropolitana'.
Ha portato davanti ai ragazzi le questioni più serie della vita. Ha richiamato a confessarsi, ad avere presente il proprio peccato, a impegnarsi per non ripeterlo. Ha parlato della croce. E del fatto che la vita senza guardare la croce è un circo violento e insopportabile. Ha detto le cose di sempre, e le cose di domani. Ha citato un film, perché questo genere di problemi anima anche le più serie espressioni di arte contemporanea. Si è rivolto senza avere il problema di raccogliere consenso. Perché sapeva che il suo richiamo, il suo invito e insomma tutta la sua raccomandazione a prendere sul serio il peccato e quella possibilità di perdersi, e tutta la sua precisione e passione di pastore stavano per così dire attaccate, agganciate in cima a una certezza: non c’è niente di meglio che avere a che fare con Gesù Cristo. Non c’è niente di meglio, di più dolce, di così umanamente intenso come 'l’incontro con un avvenimento, con una Persona', con Gesù. Una gioia che, come nel discorso del Papa, sta prima del problema del peccato e della confessione.
Sta prima, per diventare più ricco dopo. Se non ci fosse prima la coscienza, almeno iniziale, di tale gioia, nessun richiamo al peccato avrebbe senso. Per questo motivo, il Papa può dire che il ritrovo di ieri non è 'a caso'. Non è 'a caso' che la Chiesa parla di queste cose scomode. Non è 'a caso' che parla, e dovrebbe parlare, richiamando a noi che esiste la possibilità di perdersi. Del peccato, insomma. Non lo fa per affaticarci la vita ricordando cose spiacevoli. Mentre invece troppe volte accade di sentire discorsi sui peccati, e anche richiami etici, e prediche e predicozzi, fatti 'a caso'.
Discorsi che sembrano fatti apposta solo per appesantire la vita. Per avvilirla. Per uno strano gusto moralistico. Fatti 'a caso', insomma. Senza il loro vero proposito, che ieri il Papa invece richiama fin dall’inizio.
Se il cristianesimo, infatti, non è l’esperienza di una gioia per l’anima, e se da nessuna parte si trova qualcosa che plachi la sete dell’anima, tanto varrebbe giocarsela e venderla al miglior offerente.
Tanto varrebbe strapparla da sé e buttarla, in una specie di gioco. Invece, l’incontro con Gesù, dice il Papa, è la realizzazione di ciò che l’anima desidera. È per tale incontro che vale la pena prendersi cura di lei.
Riconoscerci peccatori, riconoscerci mancanti. Come sa bene chi ama davvero.
Come sa chi conosce il volto che gli riempie il cuore. Ci si sente sempre un po’ inadeguati. Un po’ difettosi.
Esistenzialmente, su un piano diverso, l’innamorato vero fa l’esperienza simile a quella del peccatore. Come il primo sa che esiste la sua amata e vorrebbe esserne sempre degno, così il peccatore non perde la fede, anzi, ne dà segno cercando di migliorare l’anima. Questo i ragazzi lo capiscono. Questo un uomo vivo lo capisce. Che il ritrovo di ieri del Papa non era 'a caso'. Non era un esercizio di etica. Era un ritrovo di innamorati.



C’È QUALCOSA DI ILLUMINANTE NELLA MACABRA VICENDA GENOVESE
L’aborto come fatto privato Ma arriva l’incidente. E tutto salta

Avvenire, 14 marzo 2008
MARINA CORRADI
Mogli della Genova bene, imbarazzate a abortire in un ospedale pubblico.
L’attrice di un reality show, per cui un figlio è un inciampo alla carriera. Gravidanze venute da una relazione extraconiugale, di cui nessuno deve sapere. Nelle anonime testimonianze delle donne indagate nell’inchiesta di Genova, sui giornali, lo spaccato di un aborto clandestino diverso da quello che a volte, carsicamente, emerge dalle cronache. Non extracomunitarie illegali, ma benestanti ansiose di fare in fretta; e che, a casa, non ci si accorga di niente. La tragica storia di Genova dimostra prima di tutto che l’aborto clandestino esiste, anche se, negli annuali rapporti ministeriali sulla applicazione della 194, si sottolinea con costante soddisfazione il calo degli interventi. Poi ci sono, almeno, le ventimila interruzioni clandestine stimate dall’Istituto superiore di Sanità; le straniere che si arrangiano con un farmaco, e a volte finiscono con un’emorragia all’ospedale; poi ci sono anche studi in palazzi eleganti, in quartieri residenziali.
L’aborto, al di là delle statistiche ufficiali, ha un 'sommerso' di cui la vicenda genovese potrebbe essere solo una punta vistosa.
Ma, al di là del legale e del sommerso, il suicidio di un medico da venticinque anni in servizio all’ospedale Gaslini, di un uomo conosciuto e stimato d’improvviso accusato di praticare aborti clandestini, getta Genova nello sbalordimento; e non può, pure nella pietà per questa fulminea tragedia, non porre delle domande. Sul sito Internet del Secolo XIX piovono email di gratitudine per il ginecologo che ha fatto nascere i propri figli da una gravidanza difficile, da un parto travagliato.
Al Gaslini, ospedale cattolico, il dottor Ermanno Rossi i bambini li faceva nascere. Le sue pazienti testimoniano della sua sensibilità professionale e umana. Poi – secondo le intercettazioni e le testimonianze di altre pazienti – nello studio privato praticava aborti. Per mille euro. O cinquecento, secondo i casi. Una cifra tale da giustificare la messa in gioco della reputazione di tutta una vita? Perché, allora? Dottore, gli avrebbe detto una paziente intervistata dal Secolo XIX, «mio marito non deve assolutamente sapere». E viene rassicurata: «Non lo saprà nessuno». Medico attento, umano, 'squisito', dice la signora, e se ne torna a casa grata. Il 'perché', dalla parte del medico, sembra allora stare in un’alleanza perfetta con la donna. Alleanza tacita e assoluta, che però esclude da un lato il 'pubblico' e la lealtà con il mondo attorno, come se eliminare una vita fosse cosa esclusivamente privata.
Dall’altro, nega totalmente quel terzo invisibile. Se sua madre l’avesse voluto, sarebbe stato un figlio festeggiato e vezzeggiato in una stanza d’ospedale. Ma, in quel patto privato, il figlio è un nulla – neanche un numero nelle statistiche della legge 194. E tutto, in mezz’ora e per mille euro, è tornato in ordine: carriere di stelline televisive, matrimoni perbene e borghesi rispettabilità.
Il piccolo incomodo, eliminato.
Poi d’improvviso i carabinieri, e un uomo che traccia, sconvolto, un bilancio disperato. Anti­abortista sì, ma per convenienza?
L’accusa è bruciante. Ma su questa morte già c’è chi grida: è colpa dei pro life; oppure: è colpa dei troppi medici obiettori. La presidente dell’Aied, che non è certo una organizzazione cattolica, al Secolo XIX dichiara che «in Liguria la 194 funziona».
La storia di Genova è in realtà storia di aborti riservati per donne benestanti. È l’aborto 'privato' che pretende di non essere detto, né discusso nella sua natura, né tantomeno visto lealmente nella sua essenza. È quello, anche, che non si dice, per reciproca convenienza. È, nell’ordine apparentemente perfetto, l’annientamento totale dell’invisibile. Ciò che dovrebbe, oltre lo smarrimento di Genova, convincere della necessità e dell’urgenza di un dibattito limpido, non ideologico e finalmente concreto su aborto e applicazione della 194. Perché, senza grida né proclami, tutto sia detto. Perché qualcuno di quei figli invisibili possa nascere.


Scola: il cristianesimo aiuta l’incontro fra le culture
Avvenire, 14 marzo 2008
DA SUBIACO (ROMA)
AUGUSTO CINELLI
Se l’interculturalità è ca­rattere intrinseco dell’Eu­ropa, è ancora possibile parlare di un’identità europea modellata dall’evento cristia­no? E come pensare il futuro del Vecchio Continente, in una fase storica segnata dal com­parire di nuovi attori sulla sce­na e dalla ricorrente obiezione nei riguardi della rilevanza pubblica del fatto religioso? In­terrogativi di pressante attua­lità nel dibattito pubblico, co­me dimostra la vasta platea che gremisce, anche in orario sera­le, la Basilica di Santa Scolastica nell’omonimo monastero benedettino di Subiaco.
A catalizzare l’attenzione dei molti presenti su questi temi è il cardinale Angelo Scola, pa­triarca di Venezia, con una re­lazione su «Il Cristianesimo: u­na risorsa per il futuro dell’Eu­ropa », che apre i «Colloqui su­blacensi » promossi dall’Abba­zia di Subiaco e dalla Fonda­zione sublacense «Vita e Fami­glia ». A fare gli onori di casa l’a­bate di Subiaco dom Mauro Meacci, il sindaco Pierluigi An­gelucci e la Presidente della Fondazione «Vita e Famiglia», Luisa Santolini. In platea ci so­no anche il vescovo Giovanni Paolo Benotto, amministratore apostolico di Tivoli da poco e­letto alla cattedra di Pisa, e il vescovo di Aosta Giuseppe Anfossi, oltre a diversi espo­nenti politici.
Proprio qui il 1° aprile 2005 il cardinale Joseph Ratzinger ri­ceveva il premio «San Bene­detto » pochi giorni prima di es­sere eletto pontefice con il no­me di Benedetto XVI. La corni­ce benedettina è dunque delle più adatte, per discutere di cri­stianesimo e futuro dell’Euro­pa. E il patriarca di Venezia af­fronta il tema senza indugi, chiedendosi di «quali risorse disponiamo noi europei» per soddisfare quello che qualcu­no ha definito «desiderio ine­dito di socialità umana» e in­terrogando criticamente quan­ti vedono nell’interculturalità la prospettiva adeguata per ce­mentare le diversità delle na­zioni.
Ma per il cardinale Scola, se è vero che l’interculturalità «ap­partiene al dna europeo», è al­trettanto vero che essa ha se­gnato l’Europa proprio grazie «all’atteggiamento cristiano» che, imitando «l’atteggiamen­to romano», è stato connotato dalla «secondarietà», cioè «la capacità di comunicare non ciò che aveva prodotto ma ciò che aveva ricevuto». L’appro­do del discorso di Scola è chia­ro: sarebbe «l’inizio del tra­monto » dell’Occidente se esso «lasciasse comparire sulla sce­na nuovi attori» smarrendo però «la scena stessa». La via additata dal relatore è realiz­zata da due figure: una lettera­ria, l’Enea virgiliano, l’altra sto­rica, l’abate Benedetto, che «portò sulle spalle il meglio della cultura classica inne­standola sul nuovo».
Addentrandosi nella «natura essenzialmente secondaria del cristianesimo», Scola individua nella «differenziazione nell’u­nità », caratteristica della rive­lazione trinitaria nella storia, un ulteriore apporto della no­vità cristiana al futuro dell’Eu­ropa. Rimarcando come «il ne­gare alle religioni rilevanza pubblica» sia una «scelta de­bole », il porporato può con­cludere con due «idee-guida» per l’Europa di domani, che trovano nella fede cristiana u­na fonte di attuazione: il prin­cipio di sussidiarietà e «l’au­toesposizione della testimo­nianza ». Il rispetto della sussidiarietà, «l’unica che può garantire una convivenza senza egemonie», significa ad esempio che «in ambiti come quello del matri­monio, della famiglia e della vi­ta non è opportuno che l’at­tuale Parlamento europeo si pronunci in continuazione, fa­cendo, di fatto, pressioni con­dizionanti i singoli Paesi del­l’Unione così diversi quanto a sensibilità e cultura di popo­lo ». Paradigma prezioso resta, per Scola, quello della vita mo­nastica di Benedetto: l’Europa ne ha un profondo bisogno.
Il futuro dell’Europa? Nella «interculturalità» che rende possibile la «differenziazione nell’unità» alimentata dalla visione cristiana. Perciò – ha detto il patriarca di Venezia – è saggio riconoscere il ruolo pubblico delle fedi