martedì 8 aprile 2008

Nella rassegna stampa di oggi:

1) Così il New York Times racconta la lista pazza e il suo promotore
2) Parole del Papa al Memoriale dei Testimoni della Fede del XX e XXI secolo
3) E l’Ultima Cena diventa un’orgia gay, di Andrea Tornielli
4) Tra la Chiesa e gli ebrei, un dialogo ad intermittenza, di Sandro Magister
5) Medici contro l’obbligo della pillola del giorno dopo
6) Carlo Casini: occorre una revisione della legge sull’aborto



7 aprile 2008, da il Foglio.it
Tra virgolette - Oneri e onori
Così il New York Times racconta la lista pazza e il suo promotore
Pubblichiamo ampri stralci dell’articolo di Rachel Donadio su Giuliano Ferrara pubblicato sul New York Times, intitolato “L’ateo che esorta l’Italia a essere religiosa”.


Roma. Alle elezioni italiane del prossimo fine settimana, il carismatico miliardario e leader del centrodestra Silvio Berlusconi potrebbe riemergere nuovamente dalle ceneri, questa volta per sconfiggere Walter Veltroni, il baby-boomer fan del rock-and-roll che ha appena lasciato l’incarico di sindaco di Roma. Se vincesse, per Berlusconi sarebbe il terzo mandato. Per Veltroni sarebbe la prima volta. Ma non sono queste le figure più interessanti. Sono semplicemente i soliti sospetti di un panorama politico quasi del tutto incomprensibile a chi non lo conosce dal di dentro, in cui gli stessi politici salgono e scendono dalla ribalta del palcoscenico, promettendo riforme ma portando soltanto ristagno o addirittura declino.
Ma c’è un candidato diverso da tutti gli altri. E’ Giuliano Ferrara, un comunista diventato conservatore, l’intellettuale più dinamico e più provocatoriamente mercuriale nel panorama italiano. Direttore di un quotidiano ed ex ministro, Ferrara è noto soprattutto come conduttore televisivo, capace di combinare la teatralità politica di un Abbie Hoffman con la fantasia retorica di un William F. Buckley. La vita politica italiana è sempre stata assurda, ma il tocco teatrale infusole da Ferrara scuote qualcosa di più profondo. E’ una specie di barometro culturale, perfettamente in sintonia con la disperazione dell’umore nazionale. Anziché impegnarsi nelle schermaglie politiche dei principali candidati, Ferrara, con la sua insistenza sulle idee, risveglia le ansie italiane sul futuro dell’Europa, sul disfacimento dell’identità nazionale, sull’aumento dell’immigrazione e il declino della fede cristiana. Nell’ultima incarnazione, Ferrara si è candidato al Parlamento per una lista monotematica antiabortista. Ateo dichiarato, ha chiesto una “moratoria” sull’aborto per richiamare l’attenzione sul valore della vita.
“Vorrei vincere, sarebbe una cosa davvero straordinaria – ha dichiarato in un’intervista rilasciata poco tempo fa – Sono un uomo in cerca di idee, non di voti. Questo è soltanto un mezzo”. La campagna di Ferrara non ottiene riscontri positivi nei sondaggi, ma la sue manifestazioni hanno ricevuto grandi appoggi e suscitato parecchie proteste. La scorsa settimana, a Bologna, alcuni giovani manifestanti gli hanno lanciato pomodori e la polizia è dovuta intervenire per tenere a bada la folla. Ciononostante, Ferrara ha contribuito a porre sul tavolo della discussione importanti questioni sociali – con grande fastidio dei principali candidati, i quali temono che Ferrara possa polarizzare l’elettorato. Berlusconi, per esempio, si è rifiutato di accogliere Ferrara nella sua coalizione di centrodestra.
Ferrara, già da tempo tra i protagonisti della tragicommedia della politica italiana, è stato fino a poco tempo fa il conduttore di una trasmissione molto seguita, “Otto e mezzo”. Ha rinunciato alla conduzione per candidarsi, ma continua a essere direttore del Foglio, un “gadfly newspaper” (un quotidiano critico e puntiglioso, quasi un insetto fastidioso) da lui fondato nel 1996 grazie all’appoggio finanziario di Berlusconi. Il giornale mantiene una linea eclettica e rara in Italia: allo stesso tempo neocon, teocon e libertario; filoamericano e filoisraeliano, appoggia la guerra in Iraq; si scaglia contro il potere dei magistrati e si mostra amichevole nei confronti del Vaticano. Ha una spiccata tendenza a scioccare i suoi lettori: una volta ha pubblicato un’immagine a tutta pagina di un soggetto omosessuale fotografato da Robert Mapplethorpe.
Giuliano Ferrara, cinquantasei anni, ci ha accolto nella sua casa di Roma per parlare della sua evoluzione politica e della sua campagna elettorale. Era venerdì santo, e pioveva a dirotto (…). Ferrara è un uomo dal fisico corpulento, con una folta barba rossa e brillanti occhi azzurri, e potrebbe sembrare un cantante lirico, il quarto tenore. Persona dal carattere esuberante, quel giorno aveva la febbre e appariva visibilmente stanco. Seduto su una poltrona di pelle, si è acceso la prima di molte sigarette. “Candidarmi per l’incarico di primo ministro non mi interessa affatto”, ha dichiarato, aggiungendo: “E’ uno stress enorme”. Le idee sono un altro affare. Nato da una famiglia di comunisti della classe medio-alta, Ferrara ha trascorso parte della sua infanzia a Mosca, dove suo padre era corrispondente del quotidiano comunista L’Unità. A vent’anni è diventato il principale responsabile del Partito comunista nella fabbrica torinese della Fiat, quando i rapporti tra imprenditori e operai erano tesi e le Brigate Rosse cercavano di destabilizzare il paese. Ma è entrato in polemica con i comunisti più radicali e nel 1982 ha lasciato completamente il partito, diventando il suo più celebre e tenace apostata. Dopodiché ha scoperto e si è infatuato del filosofo politico Leo Strauss (…). Poi è arrivato il socialismo. Alla metà degli anni Ottanta Ferrara è diventato consigliere del leader socialista Bettino Craxi, il quale era convinto che sarebbe riuscito a riformare e trasformare il paese. Ma all’inizio degli anni Novanta Craxi è rimasto vittima di un enorme scandalo di corruzione. Il collasso del vecchio regime ha aperto la strada alla discesa in campo di Berlusconi, l’uomo più ricco d’Italia. Nel 1994 Ferrara è diventato così un fidato consigliere di Berlusconi e del suo partito Forza Italia, facendo anche il ministro nel primo breve governo Berlusconi. Nel 2003 Ferrara ha scatenato grande scompiglio rivelando, dalle colonne del Foglio, di essere stato negli anni Ottanta un informatore stipendiato dalla Cia, con il compito di spiegare all’agenzia le dinamiche della politica italiana.
Una traiettoria di questo genere poteva essere possibile soltanto in Italia, dove la linea di demarcazione tra politica e giornalismo, idee ed esibizionismo, apparenza e realtà, rimane confusa. Agli occhi dei suoi sostenitori, Ferrara ha saputo operare una trasformazione che il paese non è stato invece capace di realizzare: lo lodano per avere cercato di introdurre nuove idee nel regno machiavellico della politica. Per i suoi avversari è invece soltanto un opportunista, un consigliere continuamente alla ricerca di un nuovo principe, un misogino ficcanaso che cerca di sottrarre il voto cattolico alla sinistra.
“Sembra una specie di ping-pong, come un desiderio di spericolate avventure – ha detto Ferrara parlando della sua evoluzione politica – E invece è un segno di integrità. Sono una persona terribilmente noiosa. Le mie idee sono sostanzialmente le stesse, da quando ero un giovane comunista fino a oggi, che sono un anziano ratzingeriano”. La sostanza, ha spiegato, è rimasta la stessa: “Odio l’ipocrisia e la falsità”. E ha citato Churchill: “Preferisco avere ragione piuttosto che essere coerente”.
Per molti aspetti la campagna antiabortista di Ferrara appare sconcertante. Con tutti i problemi che deve affrontare l’Italia (…), il problema dell’aborto e della ricerca sugli embrioni dovrebbe essere l’ultima delle sue preoccupazioni. Ma un rapido sguardo sui principali candidati delle prossime elezioni può contribuire a spiegare l’impulso a fare gesti teatrali, se non addirittura le stesse idee di Ferrara.
Walter Veltroni, un ex comunista dalle buone maniere, ha adottato per la propria campagna lo slogan di Barack Obama, “Yes we can”. Ma probabilmente non è in grado di fare nulla. Non ha il carisma e lo slancio di Obama, e neppure il sostegno necessario per realizzare le riforme economiche di cui c’è assoluto bisogno. Non che Berlusconi appaia smanioso di fare riforme. Anzi, ha persino cercato di mettere insieme un gruppo di investitori (compresi i suoi figli) per acquistare l’Alitalia, che fino alla scorsa settimana sembrava destinata all’assorbimento da parte di Air France-Klm. “L’ipotesi che un possibile primo ministro acquisti la compagnia aerea nazionale e poi nomini il ministro dei Trasporti e delle Finanze è completamente assurda”, ha detto Ferrara. Se vince Berlusconi, ha aggiunto, la residenza del primo ministro, Palazzo Chigi, inizierà ad “assomigliare più alla Casa Rosada (la residenza di Peron in Argentina) che alla Casa Bianca”.
Chi non è italiano rimane spesso sconcertato dal fatto che Berlusconi possa rimanere allo stesso posto anche dopo essere stato giudicato colpevole, e poi prosciolto, in numerosi processi per corruzione. Ma il cinismo penetra nelle vene della cultura italiana: è opinione comune che i politici si facciano eleggere per poter arraffare più facilmente e che il sistema giudiziario sia esposto a ogni genere di manipolazione politica. Gli italiani sono anche restii al moralismo. (…) Ma, soprattutto, gli italiani non hanno saputo creare una coalizione sufficientemente forte per togliere di mezzo Berlusconi, l’incarnazione stessa di una cultura politica corrotta, nella quale tutti si trovano coinvolti.
Alla luce di tutto ciò, la campagna di Ferrara appare come una specie di appello alla vita in un paese minacciato dalla morte e dal declino. Ciononostante, la campagna può essere surreale. Quando, in seguito a un controllo sanitario, si è scoperto che era stato effettuato un aborto illegale su un feto con la sindrome di Klinefelter (tra i cui effetti vi è lo sviluppo di grandi mammelle e un’atrofia dei testicoli), Ferrara ha sostenuto che questo non era un motivo sufficiente per abortire, dichiarando che lui stesso potrebbe essere affetto dalla sindrome. Ma Ferrara non è certo la persona più giusta per una crociata antiabortista: ha ammesso che, quando era ancora giovane, tre sue partner hanno abortito. In effetti, nessuno sembra comprendere quali siano realmente le intenzioni di Ferrara. Ha avviato questa sua strana crociata proprio quando, grazie al suo programma “Otto e mezzo”, aveva conquistato una credibilità nazionale, riconosciutagli persino dalla sinistra. La campagna ha lasciato perplessi anche i suoi amici più stretti, come l’editorialista ed ex radicale di sinistra Adriano Sofri, che ha scritto un libro, intitolato “Contro Giuliano”, per chiedergli di riconsiderare la sua posizione.
Una domanda che sorge spontanea è se Ferrara non stia cercando di aprirsi una via verso la chiesa, ritenuta come l’ultima speranza per una politica delle idee. Ferrara rifiuta quest’ipotesi. “Non chiedo affatto il sostegno della chiesa. E naturalmente è altrettanto vero che non posso contare su di esso”. Tre autorevoli riviste cattoliche hanno criticato la campagna di Ferrara, sostenendo che le questioni di fede devono rimanere nella sfera privata. Ma in occasione di una recente visita in una chiesa nel quartiere in cui abita Ferrara, Papa Benedetto XVI gli ha stretto la mano. Ferrara ha dichiarato di avere una “relazione” con la chiesa, ma nessun legame politico. Molti italiani hanno osservato un ritorno del conservatorismo religioso dopo l’elezione di Benedetto XVI nel 2005. In quell’anno il governo Berlusconi ha approvato una legge per limitare le possibilità di fecondazione artificiale e la stampa cattolica è riuscita a convincere gli italiani a rifiutare un referendum per chiederne l’annullamento. In un articolo pubblicato su New Statesman nel 2006, il giornalista inglese esperto di cose italiane Tim Parks ha scritto che “il mutamento fondamentale” avvenuto nella vita italiana dopo il 2001 è stato “il collasso di ogni grande ideale politico”, cui si è accompagnata “la rinuncia alle proprie radici cristiane” da parte di tutti i politici. Da parte sua, Ferrara dice di rimanere un ateo. “Non mi sono convertito al cattolicesimo. Continuo a essere un non credente, anche se la mia concezione della ragione è quella di una ragione che è aperta al mistero”. Quali che siano le sue motivazioni, la sua nuova crociata è rivelatrice tanto della natura del potere in Italia quanto del vuoto di potere che si è aperto nel paese. Dopo tutto, come aveva osservato il critico Nicola Chiaromonte alla fine degli anni Quaranta, “in Italia la chiesa non offre il paradiso bensì protezione dai colpi della storia”.


Parole del Papa al Memoriale dei Testimoni della Fede del XX e XXI secolo

ROMA, lunedì, 7 aprile 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’omelia e il discorso pronunciati questo lunedì da Benedetto XVI, in occasione della sua visita alla Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, nel 40° anniversario della Comunità di Sant’Egidio.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
questo nostro incontro nell’antica basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina possiamo considerarlo come un pellegrinaggio alla memoria dei martiri del XX secolo, innumerevoli uomini e donne, noti e ignoti che, nell’arco del Novecento, hanno versato il loro sangue per il Signore. Un pellegrinaggio guidato dalla Parola di Dio che, come lampada per i nostri passi, luce sul nostro cammino (cfr Ps 119,105), rischiara con la sua luce la vita di ogni credente. Dal mio amato Predecessore Giovanni Paolo II questo tempio fu appositamente destinato ad essere luogo della memoria dei martiri del 900 e da lui affidato alla Comunità di Sant’Egidio, che quest’anno rende grazie al Signore per il quarantesimo anniversario dei suoi inizi. Saluto con affetto i Signori Cardinali e i Vescovi che hanno voluto partecipare a questa liturgia. Saluto il Prof. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, e lo ringrazio per le parole che mi ha rivolto; saluto il Prof. Marco Impagliazzo, Presidente della Comunità, l’Assistente, Mons. Matteo Zuppi, nonché Mons. Vincenzo Paglia, Vescovo di Terni-Narni-Amelia.
In questo luogo carico di memorie ci chiediamo: perché questi nostri fratelli martiri non hanno cercato di salvare a tutti i costi il bene insostituibile della vita? Perché hanno continuato a servire la Chiesa, nonostante gravi minacce e intimidazioni? In questa basilica, dove sono custodite le reliquie dell’apostolo Bartolomeo e dove si venerano le spoglie di S. Adalberto, sentiamo risuonare l’eloquente testimonianza di quanti, non soltanto lungo il 900, ma dagli inizi della Chiesa vivendo l’amore hanno offerto nel martirio la loro vita a Cristo. Nell’icona posta sull’altare maggiore, che rappresenta alcuni di questi testimoni della fede, campeggiano le parole dell’Apocalisse: "Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione" (Ap 7,13). Al vegliardo che chiede chi siano e donde vengano coloro che sono vestiti di bianco, viene risposto che sono quanti "hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello" (Ap 7,14). E’ una risposta a prima vista strana. Ma nel linguaggio cifrato del Veggente di Patmos ciò contiene un riferimento preciso alla candida fiamma dell’amore, che ha spinto Cristo a versare il suo sangue per noi. In virtù di quel sangue, siamo stati purificati. Sorretti da quella fiamma anche i martiri hanno versato il loro sangue e si sono purificati nell’amore: nell’amore di Cristo che li ha resi capaci di sacrificarsi a loro volta per amore. Gesù ha detto: "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Gv 15,13). Ogni testimone della fede vive questo amore "più grande" e, sull’esempio del divino Maestro, è pronto a sacrificare la vita per il Regno. In questo modo si diventa amici di Cristo; così ci si conforma a Lui, accettando il sacrificio fino all’estremo, senza porre limiti al dono dell’amore e al servizio della fede.
Facendo sosta presso i sei altari, che ricordano i cristiani caduti sotto la violenza totalitaria del comunismo, del nazismo, quelli uccisi in America, in Asia e Oceania, in Spagna e Messico, in Africa, ripercorriamo idealmente molte dolorose vicende del secolo passato. Tanti sono caduti mentre compivano la missione evangelizzatrice della Chiesa: il loro sangue si è mescolato con quello di cristiani autoctoni a cui era stata comunicata la fede. Altri, spesso in condizione di minoranza, sono stati uccisi in odio alla fede. Infine non pochi si sono immolati per non abbandonare i bisognosi, i poveri, i fedeli loro affidati, non temendo minacce e pericoli. Sono Vescovi, sacerdoti, religiose e religiosi, fedeli laici. Sono tanti! Il Servo di Dio Giovanni Paolo II, nella celebrazione ecumenica giubilare per i nuovi martiri, tenutasi il 7 maggio del 2000 presso il Colosseo, ebbe a dire che questi nostri fratelli e sorelle nella fede costituiscono come un grande affresco dell’umanità cristiana del ventesimo secolo, un affresco delle Beatitudini, vissuto sino allo spargimento di sangue. Ed era solito ripetere che la testimonianza di Cristo sino all’effusione del sangue parla con voce più forte delle divisioni del passato.
E’ vero: apparentemente sembra che la violenza, i totalitarismi, la persecuzione, la brutalità cieca si rivelino più forti, mettendo a tacere la voce dei testimoni della fede, che possono umanamente apparire come sconfitti della storia. Ma Gesù risorto illumina la loro testimonianza e comprendiamo così il senso del martirio. Afferma in proposito Tertulliano: "Plures efficimur quoties metimur a vobis: sanguis martyrum semen christianorum – Noi ci moltiplichiamo ogni volta che siamo mietuti da voi: il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani" (Apol., 50,13: CCL 1,171). Nella sconfitta, nell’umiliazione di quanti soffrono a causa del Vangelo, agisce una forza che il mondo non conosce: "Quando sono debole – esclama l’apostolo Paolo -, è allora che sono forte" (2 Cor 12,10). E’ la forza dell’amore, inerme e vittorioso anche nell’apparente sconfitta. E’ la forza che sfida e vince la morte.
Anche questo XXI secolo si è aperto nel segno del martirio. Quando i cristiani sono veramente lievito, luce e sale della terra, diventano anche loro, come avvenne per Gesù, oggetto di persecuzioni; come Lui sono "segno di contraddizione". La convivenza fraterna, l’amore, la fede, le scelte in favore dei più piccoli e poveri, che segnano l’esistenza della Comunità cristiana, suscitano talvolta un’avversione violenta. Quanto utile è allora guardare alla luminosa testimonianza di chi ci ha preceduto nel segno di una fedeltà eroica sino al martirio! E in questa antica basilica, grazie alla cura della Comunità di Sant’Egidio, è custodita e venerata la memoria di tanti testimoni della fede, caduti in tempi recenti. Cari amici della Comunità di Sant’Egidio, guardando a questi eroi della fede, sforzatevi anche voi di imitarne il coraggio e la perseveranza nel servire il Vangelo, specialmente tra i poveri. Siate costruttori di pace e di riconciliazione fra quanti sono nemici o si combattono. Nutrite la vostra fede con l’ascolto e la meditazione della Parola di Dio, con la preghiera quotidiana, con l’attiva partecipazione alla Santa Messa. L’autentica amicizia con Cristo sarà la fonte del vostro amore scambievole. Sostenuti dal suo Spirito, potrete contribuire a costruire un mondo più fraterno. La Vergine Santa, Regina dei Martiri, vi sostenga ed aiuti ad essere autentici testimoni di Cristo. Amen!


[LE PAROLE DEL PAPA AL TERMINE DELLA CELEBRAZIONE:]
Al termine dell’incontro di preghiera in memoria dei testimoni della fede dei tempi recenti, volentieri rivolgo un saluto a voi tutti, soprattutto a voi che avete seguito la liturgia sulla piazza o in collegamento radiotelevisivo. Nel venticinquesimo anniversario della Comunità, venendo a Santa Maria in Trastevere il Servo di Dio Giovanni Paolo II affidò alla Comunità di Sant’Egidio questa basilica di San Bartolomeo e nel 2000 stabilì che in essa si alimentasse il ricordo dei nuovi martiri.
Cari amici della Comunità di Sant'Egidio, voi avete mosso i primi passi proprio qui a Roma negli anni difficili dopo il ‘68. Figli di questa Chiesa che presiede nella carità, avete poi diffuso il vostro carisma in tante parti del mondo. La Parola di Dio, l’amore per la Chiesa, la predilezione per i poveri, la comunicazione del Vangelo sono state le stelle che vi hanno guidato testimoniando, sotto cieli diversi, l’unico messaggio di Cristo. Vi ringrazio per questa vostra opera apostolica; vi ringrazio per l’attenzione agli ultimi e per la ricerca della pace, che contraddistinguono la vostra Comunità. L'esempio dei martiri, che abbiamo ricordato, continui a guidare i vostri passi, perché siate veri amici di Dio e autentici amici dell’umanità. E non temete le difficoltà e le sofferenze che questa azione missionaria comporta: rientrano nella "logica" della coraggiosa testimonianza dell’amore cristiano.
Desidero, infine, rivolgere a voi e, tramite voi, a tutte le vostre Comunità sparse per il mondo il mio più cordiale augurio nel quarantesimo anniversario della vostra nascita. Estendo il mio saluto agli ammalati, al personale sanitario, ai religiosi e ai volontari dell’attiguo Ospedale Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina. Per tutti e per ciascuno assicuro un ricordo nella preghiera, mentre, invocando la materna protezione della Vergine Santa, imparto a tutti la Benedizione Apostolica.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]



«TRIBOLAZIONE» PER LA FEDE - IL MONDO NON FACCIA FINTA DI NIENTE
Avvenire, 8 aprile 2008
LUIGI GENINAZZI
Doveva essere un omaggio a quanti hanno pagato con la vi­ta la propria testimonianza di fede. Ma la visita di Benedetto XVI nel­l’antica basilica romana di San Bar­tolomeo non è stata semplicemen­te un gesto di memoria bensì un at­to di bruciante attualità. E questo perché il 'Memoriale dei martiri del nostro tempo', voluto da Giovanni Paolo II a ricordo di tutti coloro che nel Ventesimo secolo hanno versa­to il loro sangue per il Signore, si al­larga sempre di più diventando tra­gica cronaca quotidiana di perse­cuzioni ed uccisioni a danno dei cri­stiani nel mondo.
«Anche questo Ventunesimo seco­lo si è aperto nel segno del marti­rio » dice Papa Ratzinger e il pensie­ro corre immediatamente a don An­drea Santoro, ucciso da un fanatico in Turchia, ai cattolici condannati a morte in Indonesia, alla Chiesa in Iraq minacciata di sterminio e col­pita al cuore con il recente assassi­nio dell’arcivescovo caldeo di Mo­sul, monsignor Rahho, e la barbara esecuzione avvenuta tre giorni fa del sacerdote siro-ortodosso Yous­sef Adel. E così il «pellegrinaggio al­la memoria dei martiri del Ventesi­mo secolo» compiuto ieri pomerig­gio dal Santo Padre con le soste in preghiera presso i sei altari che ri­cordano i cristiani caduti sotto il co­munismo, il nazismo e quelli ucci­si nei diversi continenti, si allunga fino ai giorni nostri. Una Via Crucis interminabile, come l’ha definita Benedetto XVI lo scorso Venerdì Santo accennando ai Colossei che «si sono moltiplicati attraverso i se­coli, là dove i nostri fratelli, in varie parti del mondo, vengono ancora oggi duramente perseguitati».
Di fronte a questa lunga scia di san­gue innocente lo stesso Pontefice a­veva parlato, nel corso di un’udien­za dell’estate 2006, delle «immeri­tate sofferenze dei cristiani», giun­gendo a paragonare la situazione attuale con quella della Chiesa dei primi secoli. E con la stessa angoscia ieri ha constatato che «la conviven­za fraterna, l’amore, la fede, le scel­te in favore dei più piccoli e poveri, che segnano l’esistenza della co­munità cristiana, suscitano talvolta un’avversione violenta». A prima vi­sta è qualcosa d’incomprensibile che crea sconcerto e sbigottimento. «Uno scandalo per il mondo che ha fatto sua suprema legge il 'salva te stesso' gridato a Gesù sotto la cro­ce », ha osservato Andrea Riccardi, presidente della Comunità di Sant’Egidio alla quale Giovanni Pao­lo II aveva voluto affidare la custo­dia del Memoriale dei martiri del nostro tempo, riconoscimento di un carisma e al tempo stesso invito a u­na più grande responsabilità.
Papa Wojtyla aveva negli occhi la collina delle croci in Lituania ed i tanti campi di sterminio, nazisti e comunisti, disseminati in Europa ed in Siberia. Aveva in mente la lun­ga teoria dei martiri uccisi ad Au­schwitz, come padre Massimiliano Kolbe e suor Edith Stein, e di quelli trucidati nei gulag sovietici e cine­si. Il Papa polacco sapeva bene che sotto il comunismo, nell’Europa dell’Est, le persecuzioni erano l’i­nevitabile destino della gente di fe­de. Oggi, all’inizio del terzo millen­nio, continua l’Olocausto dei cre­denti. Non più in Europa, ma nel re­sto del mondo, a cominciare dal Me­dio Oriente dove i cristiani rischia­no di scomparire.
È tornato il tempo dei martiri, il tempo dei «testimoni della fede che umanamente possono apparire co­me gli sconfitti della storia», nota Benedetto XVI. È tornato il tempo della 'grande tribolazione', come diceva l’Apocalisse. Il mondo non può far finta di niente.


E l’Ultima Cena diventa un’orgia gay
Dopo ben otto giorni di esposizione e una bufera di critiche, il card. Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, l’ha fatta togliere, mentre il direttore del museo difende la scelta e ha detto che non si aspettava reazioni così indignate. Intanto altre opere blasfeme permangono nella mostra...
di Andrea Tornielli



Gli organizzatori della mostra sono caduti dalle nuvole e hanno detto che non si aspettavano una reazione così dura. Eppure non ci volevano certo improbabili doti da sensitivo per immaginare che l’esposizione di un’Ultima cena
con gli apostoli distesi sul tavolo che si masturbano a vicenda avrebbe provocato lo sconcerto, e le critiche, di tante persone. Soprattutto perché l’«opera» in questione (le virgolette sono d’obbligo) veniva esposta nientemeno che all’interno del Museo della cattedrale di Vienna.
È l’ennesima oltraggiosa ferita alla fede cristiana quella che è andata in scena nella capitale austriaca con l’iniziale compiacenza delle locali autorità, in un’Europa dove si deve portare il massimo rispetto verso ogni fede religiosa ad eccezione di quella che ha maggiormente contribuito alla nascita della sua stessa civiltà.
Questi i fatti. È stato esposto all’interno del Museo della cattedrale, nell’ambito di una mostra retrospettiva dedicata a uno dei grandi artisti austriaci, Alfred Hrdlicka, che ha appena compiuto 80 anni, un quadro intitolato Ultima cena di Leonardo, restaurata da Pier Paolo Pasolini. La scena è molto esplicita. Invece di un pasto consumato tra amici, nel cenacolo si assiste a un’orgia omosessuale, con scene di sesso esplicite.
Com’era prevedibile, in molti si sono indignati e la stampa austriaca ha paragonato la vicenda alle famose vignette su Maometto (anche se queste ultime non erano certo state esposte nei locali adiacenti a una moschea). Un vero e proprio tam tam è partito dai siti web cattolici, anche italiani, che hanno protestato vivamente criticando il direttore del museo e lo stesso cardinale arcivescovo di Vienna, Christoph Schoenborn.
I curatori della mostra, intitolata «Religione, carne e potere», pur sapendo che avrebbero dovuto affrontare malumori, non credevano che la protesta sarebbe stata così forte. E pensare che lo stesso Hrdlicka, l’autore, aveva definito la sua tela come «un’orgia omosessuale».
Alla fine il quadro è stato tolto, per intervento dell’arcivescovo, anche se sono rimaste altre opere dello stesso artista, raffiguranti ad esempio un Cristo flagellato con il carnefice che afferra i suoi genitali e un Crocifisso senza volto giudicati osceni. Il direttore del museo, Bernhard Boehler, non si è sentito in dovere di scusarsi, ma ha invece difeso sia l’Ultima Cena di Leonardo restaurata da Pier Paolo Pasolini, sia la decisione di esporla nelle sale della mostra, in un museo collegato con la Chiesa cattolica. «Crediamo che Hrdlicka abbia le credenziali per rappresentare le persone in questo modo così carnale, così drastico», ha detto. Boehler ha aggiunto che il museo non aveva intenzione di offendere nessuno, ma ha spiegato che l’arte serve anche per dare vita a un dibattito e discutere. L’ottantenne artista, dal canto suo, ha affermato che gli uomini dell’ultima cena sono stati rappresentati in questo modo perché «non ci sono donne nell’affresco di Leonardo da cui ho tratto ispirazione». Quello che è certo è che Pasolini, autore del Vangelo secondo Matteo, un film che continua a competere come bellezza con molte altre più recenti vite di Gesù, non avrebbe mai fatto qualcosa di simile.
In ogni caso, dall’inaugurazione della mostra sono passati otto giorni prima che le autorità diocesane si rendessero conto della gravità del fatto e facessero togliere la tela. È immaginabile che il cardinale non ne sapesse nulla. Ma è anche lecito chiedersi dove fossero tutti gli altri suoi collaboratori e soprattutto perché non abbiano pensato quanto sconveniente fosse esporre una tale rappresentazione dell’ultima cena nel museo diocesano.
Il Giornale n. 84 del 2008-04-08 pagina 1


Tra la Chiesa e gli ebrei, un dialogo ad intermittenza
Benedetto XVI sarà accolto amichevolmente in una sinagoga di New York. Ma a Roma il rabbino capo ha deciso "una pausa di riflessione" nei rapporti con le autorità cattoliche. In un'intervista, spiega perché


di Sandro Magister

ROMA, 8 aprile 2008 – Al programma del suo prossimo viaggio negli Stati Uniti Benedetto XVI ha aggiunto altri due incontri, entrambi con ebrei: il primo il 17 aprile a Washington, il secondo il 18 aprile a New York, nella sinagoga di Park East, in concomitanza con Pasqua ebraica.

La notizia dei due incontri aggiuntivi è stata confermata il 4 aprile dal direttore della sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi.

Lo stesso giorno la segreteria di stato vaticana ha diffuso un comunicato inteso a tranquillizzare quella parte della comunità ebraica che si era dichiarata offesa dalla nuova formulazione della preghiera per gli ebrei nella liturgia del Venerdì Santo secondo il rito antico, formulazione introdotta lo scorso 6 febbraio da Benedetto XVI.

Le proteste più forti erano state espresse da esponenti dell'ebraismo italiano. Il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni – successore di quel rabbino Elio Toaff che aveva accolto Giovanni Paolo II in sinagoga e aveva sviluppato con lui per anni un dialogo molto cordiale – è arrivato a sospendere l'agenda dei futuri incontri con le autorità della Chiesa di Roma.

Le proteste erano motivate dal fatto che, con la nuova formula, si invita a pregare per gli ebrei "affinché Dio e Signore nostro illumini i loro cuori perché riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini".

E poi si pronuncia questa orazione:

"Dio onnipotente ed eterno, che vuoi che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità, concedi nella tua bontà che, entrando la pienezza dei popoli nella tua Chiesa, tutto Israele sia salvo. Per Cristo nostro Signore. Amen".

A giudizio di alcuni ebrei è intollerabile che i cattolici preghino per la conversione di Israele alla fede in Gesù Cristo.

Altri ebrei non sono così intransigenti. Ad esempio, il celebre rabbino americano Jacob Neusner ha difeso la correttezza della formula di preghiera introdotta da Benedetto XVI e ha fatto notare che "anche Israele chiede a Dio di illuminare i gentili".

Il comunicato della segreteria di stato del 4 aprile ha inteso confermare che la nuova preghiera non segna nessun arretramento "nelle relazioni di amicizia tra gli ebrei e la Chiesa Cattolica in questi quarant’anni".

Alcuni esponenti ebrei hanno espresso soddisfazione per il chiarimento. Tra essi c'è il rabbino Jack Bemporad, che il 18 aprile accoglierà Benedetto XVI nella sinagoga di Park East di New York.

Non così, però, il rabbino Di Segni. "Il comunicato è molto bello ma non c'entra con l'oggetto del contendere", ha commentato. "Quello che avremmo voluto sentire nella dichiarazione è che la Chiesa non prega per la conversione degli ebrei".

Più sotto è riportata un'ampia intervista col rabbino Di Segni, nella quale egli spiega i motivi delle sue critiche alla Chiesa di Roma e conferma di volere "una pausa di riflessione" nel dialogo con le autorità cattoliche.

L'intervista è stata raccolta da Giovanni Cubeddu ed è uscita sull'ultimo numero della rivista internazionale "30 Giorni", diretta dal senatore Giulio Andreotti.

Ma, prima, è qui riprodotto il testo integrale del comunicato emesso il 4 aprile dalla segreteria di stato vaticana:


La segreteria di stato: "Nessun cambio nell"atteggiamento della Chiesa verso gli ebrei"

Comunicato del 4 aprile 2008


Dopo la pubblicazione del nuovo "Oremus et pro Iudaeis" per l’edizione del Missale Romanum del 1962, da alcuni settori del mondo ebraico è stato espresso dispiacere nel considerare che tale testo non risulterebbe in armonia con le dichiarazioni ed i pronunciamenti ufficiali della Santa Sede, riguardanti il popolo ebreo e la sua fede, che hanno segnato il progresso nelle relazioni di amicizia tra gli ebrei e la Chiesa cattolica in questi quarant’anni.

La Santa Sede assicura che la nuova formulazione dell’Oremus, con la quale sono state modificate alcune espressioni del Messale del 1962, non ha inteso, nel modo più assoluto, manifestare un cambio nell’atteggiamento che la Chiesa Cattolica ha sviluppato verso gli ebrei, soprattutto a partire dalla dottrina del Concilio Vaticano II, in particolare nella dichiarazione "Nostra aetate", la quale, secondo le parole pronunciate dal papa Benedetto XVI proprio nell’udienza ai rabbini capo di Israele del 15 settembre 2005, ha segnato "una pietra miliare sulla via della riconciliazione dei cristiani verso il popolo ebraico". Il permanere dell’atteggiamento presente nella dichiarazione "Nostra aetate" è evidenziato, del resto, dal fatto che l’Oremus per gli ebrei contenuto nel Messale Romano del 1970 resta in pieno vigore, ed è la forma ordinaria della preghiera dei cattolici.

Il documento conciliare, nel contesto di altre affermazioni – sulle Sacre Scritture (Dei Verbum 14) e sulla Chiesa (Lumen gentium 16) –, espone i principi fondamentali che hanno sostenuto e sostengono anche oggi le relazioni fraterne di stima, di dialogo, di amore, di solidarietà e di collaborazione fra cattolici ed ebrei. Proprio scrutando il mistero della Chiesa, la "Nostra aetate" ricorda il vincolo del tutto particolare con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato alla stirpe di Abramo e respinge ogni atteggiamento di disprezzo e di discriminazione verso gli ebrei, ripudiando con fermezza qualunque forma di antisemitismo.

La Santa Sede auspica che le precisazioni contenute nel presente comunicato contribuiscano a chiarire i malintesi, e ribadisce il fermo desiderio che i progressi verificatisi nella reciproca comprensione e stima tra ebrei e cristiani durante questi anni crescano ulteriormente.

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Il rabbino capo di Roma: "Ma noi chiediamo una pausa di riflessione"

Intervista con Riccardo Di Segni



D. – Rabbino Di Segni, quando riprenderà il dialogo interrotto da voi unilateralmente a motivo della nuova preghiera del Venerdì Santo per gli ebrei?

R. – Interruzione... Stiamo facendo una pausa di riflessione, cioè stiamo riflettendo insieme. Il che è diverso.

D. – Può chiarire le ragioni del dissenso?

R. – L’elemento più inquietante di questa vicenda non è tanto la preghiera in quanto tale, quanto la sua riproposizione misurata sul percorso storico compiuto e ancora in atto. Il percorso cioè del rapporto del mondo cristiano con gli ebrei, segnato nei secoli passati da varie forme di ostilità, e da una incomprensione di fondo. Quella per cui fin dalle origini il cristianesimo che nasce dall’ebraismo si chiede come mai gli ebrei, dal cui seno nasce Gesù, non l’abbiano accettato come Dio e Salvatore. Questa è l’incomprensione che si trascina da allora e che ha segnato sempre, in qualche modo, i nostri rapporti. E, non solo qualche volta, drammaticamente.

D. – Un cammino è stato compiuto, però.

R. – Nel momento in cui ebrei e cristiani si aprono a parlarsi, la prima richiesta degli ebrei è che non si discuta di questi problemi: non potete cioè chiederci di sciogliere questo nodo.

D. – Permane invece la richiesta di una vostra conversione.

R. – Nel momento in cui riconoscessimo Gesù Cristo non saremmo più ebrei. Questo voi lo considerate diversamente, perché, per voi, così facendo, noi ebrei coroneremmo, completeremmo, idealizzeremmo il nostro percorso ebraico. Questa è la vostra visione, ma la nostra è completamente differente. Su tali argomenti non c’è spazio per la discussione, perché inevitabilmente si finirebbe nell’inutilità sostanziale, almeno secondo noi. E si alzerebbero barriere, invece di parlare. Dobbiamo dialogare, sì, ma per cento altro motivi. Il discorso sottostante alla preghiera del Venerdì Santo non è un tema qualsiasi, ma è una sorta di ombra, di storica angoscia che noi ebrei ci portiamo dietro.

D. – Non si può certo negare che la Chiesa cattolica abbia mostrato una nuova sensibilità in questi ultimi decenni.

R. – È vero. Al punto che l’elemento simbolico dell’ostilità su questi aspetti, appunto la preghiera del Venerdì Santo, è stato progressivamente variato, smantellato, e oggi in tutte le chiese, nelle lingue locali, si chiede che gli ebrei, da un lato, mantengano fedeltà alla propria Alleanza, dall’altro abbiano la "pienezza della redenzione", cioè riconoscano Gesù. In termini ebraici, però, rimane con tale formula la possibilità di un equivoco, dato che anche per noi, sebbene con un significato diverso, esiste la preghiera "pienezza di redenzione", geullà shlemà… La questione perlomeno è rimasta nell’equivoco. Non soddisfacente, ma almeno diplomaticamente accettabile.

D. – Il testo latino proposto per emendare il Messale Romano preconciliare è inaccettabile?

R. – Ciò che ci ha turbato è che deviando da una strada percorsa assieme, che manifestava una presa di coscienza della sensibilità ebraica e la necessità di togliere dall’agenda delle nostre discussioni ciò che è di intralcio, si sia tornati a temi discutibili. E di fronte a questo ci chiediamo: ma allora, quale è il senso del nostro confronto? Non stiamo abbassando la saracinesca del dialogo? Noi ebrei che ci stiamo a fare? È possibile che ogni volta che un cristiano e un ebreo si incontrano, con tutte le cose che dovrebbero fare insieme, si ponga questo – cioè la nostra conversione – come primo argomento? È possibile che l’unica volta all’anno in cui la Chiesa prega per gli ebrei debba porsi questo problema? Che ci stiamo a fare noi ebrei in questo confronto? Penso che sia una domanda legittima. L’incidente odierno, che spero possa essere presto risolto, potrebbe essere benefico, se è servito a far riflettere tutti.

D. – E a questo punto si potrà ripartire.

R. – Noi che abbiamo in comune la visione biblica, rispetto al resto del mondo che non ce l’ha, dobbiamo – cito qui il grande rabbino Joseph Soloveitchik – essere pronti a dialogare su temi come "la pace e la guerra, i valori morali dell’uomo, la minaccia del secolarismo" – io non direi minaccia, ma piuttosto confronto con la visione laica –, "la tecnologia e i valori umani, idiritti civili, eccetera". Ne abbiamo a sufficienza, mi pare. Se pensiamo soltanto al dibattito politico in Italia, una visione religiosa fondata su valori biblici avrebbe tanto da dire.

D. – Dunque, se il confronto ebraico-cristiano si esprime sul piano pratico è facile, molto meno se lo si pone sul piano dalla fede o della speranza escatologica.

R. – Guardi, se il nostro parlare avvenisse, davvero, sul terreno della speranza escatologica, cioè della fine dei tempi, ci potremmo ancora stare. Voi sperate ciò che desiderate e noi ebrei pure. Il problema nasce quando qualcuno vuol portare quaggiù questa fine dei tempi, hic et nunc, qui ed ora. Magari fosse in gioco soltanto una speranza escatologica!

D. – Tali anticipazioni dei tempi si accompagnano al rischio della strumentalizzazione del fatto religioso?

R. – Questo è il rischio insito nelle dinamiche delle nostre fedi. Che sono messianiche. Cristianesimo ed ebraismo sono due fedi messianiche, e il cristianesimo, per il nome stesso che porta, lo è di più.

D. – Nel dialogo ebraico-cristiano odierno è corretta la percezione che ognuno ha dell’identità dell’interlocutore? O vince piuttosto un'immagine distorta?

R. – La distorsione è bilaterale. Nell’ebraismo c’è una certa mancanza di consapevolezza che il cristianesimo ha compiuto un suo percorso di rinnovamento. Vedo comunque da parte dei cristiani grande interesse per l’ebraismo moderno. Un esempio per tutti: il rito della cena ebraica pasquale. Ho visto che in varie parrocchie romane circolano i formulari della nostra Pesach, che viene assunta e celebrata nella vostra liturgia pasquale. E ho udito anche che su questa pratica circolano da parte cattolica avvertenze allarmate... Più in generale, molti gruppi cristiani, cattolici ed evangelici, si caratterizzano proprio per l’assunzione di temi fondamentalmente ebraici, ma tutto si realizza riportando il segno all’immagine cristiana. Il risultato è uno strano prodotto, dal punto di vista liturgico, del confronto ebraico-cristiano.

D. – E lei come giudica tali pratiche?

R. – È una domanda che mi viene rivolta spesso. Se noi ebrei dovessimo arrivare a protestare per tali “appropriazioni”, allora dovremmo cominciare dalla messa, che era ed è la cena ebraica pasquale, cambiata nel suo stile e significato. Piuttosto, nella ricerca della propria identità è quasi naturale per un cristiano sentire il fascino dell’ebraismo. Ricevo numerose lettere da parte di cristiani e di sacerdoti: c’è chi si dichiara estasiato dall’ebraismo, e chi continua a non capire per quale motivo l’ebraismo non debba fondersi col cristianesimo, visto che sono la stessa cosa... È un fascino del tutto particolare.

D. – Un episodio?

R. – Un giorno una suora con alcune sue discepole e amiche è venuta da me chiedendomi di assistere al rito in sinagoga. Ho detto certamente di sì, così un sabato mattina si sono presentate al tempio. Il servizio del sabato mattina inizia alle 8 e 30. La sinagoga si popola piano piano, la gente arriva un po’ per volta. Quella volta poi c’erano tanti bambini delle scuole, per cui tutto è stato molto chiassoso e molto allegro. Il servizio è terminato alle 11 e subito dopo il gruppo mi è venuto a salutare dicendo: "Questa mattina ci è sembrato di stare alle falde del monte Sinai". Tutto ciò un tempo non sarebbe stato possibile.

D. – Proclamare la sospensione del dialogo con la Chiesa cattolica implica il coraggio e la disponibilità di sottoporsi alle critiche, o no?

R. – Non abbiamo fatto un gesto estremo. Abbiamo chiesto una pausa di riflessione. Per chiederci che senso abbia questo dialogo.

D. – Come lei ha indicato, il primo campo del confronto ebraico-cristiano è “la pace e la guerra”. In proposito, lei non crede che più che per motivi teologiche gli ebrei vengono giudicati in base alla politica di Israele nei confronti dei palestinesi?

R. – Per le scelte politiche di Israele noi ebrei italiani ci sentiamo giudicati perennemente. E l’ufficio rabbinico di Roma è un osservatorio eccezionale. Arrivano non solo lettere di rimprovero. Alcuni ci consigliano pure di pensare a quello che stiamo facendo "con i Protocolli dei savi di Sion, perché sono veri" e alle nostre colpe per il massacro dei palestinesi. Tutto si lega insieme, un’unica linea logica perversa.

D. – In quale modo proporrebbe di riassorbire l’incomprensione con la Santa Sede circa la preghiera "pro Iudaeis"?

R. – Una possibilità di componimento, su cui si sta lavorando, è quella di affermare che tutto rimanga nell’ambito della speranza escatologica e che occorre riportare l’espressione della preghiera a qualcosa di più vicino al senso che può avere nel famoso passo della Lettera ai Romani in cui san Paolo si esprime sulla salvezza di Israele. Dove la "pienezza della redenzione" è rimandata alla fine dei tempi, cioè viene affidata al piano misterioso dei disegni imperscrutabili di Dio. E davvero di nessun altro. Per noi il dialogo non è finalizzato alla conversione dell’interlocutore.

D. – Ritorniamo così al punto cruciale...

R. – ... che è un tema fondamentale della "Dominus Iesus". Vede, se si intende “missione” come “testimonianza” alla verità alla quale si aderisce in coscienza – adesione alla quale nessuno dei due interlocutori si può, per onestà e per coerenza con la propria rispettiva fede, sottrarre – al limite si potrebbe anche accettare l’espressione che il dialogo è “missione”. Ma bisognerebbe spiegarne bene il senso. E comunque rimarrebbe il grosso rischio che la gente non capisca e fraintenda. Se la prima missione, nel rispetto delle nostre identità, è una testimonianza personale che ci permetta di parlare tra noi liberamente, per quello che siamo, cercando innanzitutto di avvicinarci di più a Dio, cioè convertire prima noi stessi, forse potrebbe anche essere accettabile. Ma la conversione va intesa nel senso ebraico letterale di teshuvà, che significa “risposta e ritorno”, non “passaggio altrove”. Se si leggessero le fonti attribuendo questo significato alla conversione-teshuvà sarebbe tutto molto diverso.

D. – Secondo lei la Chiesa, a livello popolare, la pensa in modo differente?

R. – A giudicare dalle lettere inviatemi in proposito c’è la convinzione che "noi cristiani dobbiamo presentarvi Cristo e farlo riconoscere anche a voi ebrei". Non so dire se un’altra idea di “missione” o di “testimonianza” sia comprensibile a livello popolare. Come dicevo, andrebbe molto meglio spiegata.

D. – Pur tenendo in considerazione tali lettere, ciò non basta ad affermare che oggi la Chiesa si concentri sulla conversione degli ebrei. Le difficoltà sono altre.

R. – Infatti, anche questo è un discorso che vorrei affrontare. Probabilmente non era necessario introdurre questa modifica alla preghiera del Venerdì Santo poiché la realtà dei fatti ci fa vedere che la Chiesa di oggi, quella che la gente conosce, non ti viene più a bussare alla porta. Una tale modifica risveglia solo realtà marginali.

D. – E che si preghi o no "pro Iudaeis", il perdere di vista Gesù è più un rischio per la Chiesa che per l’ebraismo.

R. – Sì, e noi vorremo restare fuori dalle questioni proprie della Chiesa cattolica di oggi. Se però l’occasione di questa nostra discussione serve a far capire che, mentre si avverte il bisogno di ritrovare le proprie radici, si riconosce di vivere in un momento di confusione, allora questa crisi è positiva.


Medici contro l’obbligo della pillola del giorno dopo
di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 7 aprile 2008 (ZENIT.org).- Continua a far discutere la vicenda di due giovani che avrebbero avuto difficoltà in Toscana a trovare un medico disponibile a prescrivere o a somministrare la ‘pillola del giorno dopo’.
A fronte delle pressioni del Ministro della Sanità, dell’Assessore alla Sanità della Toscana, al Presidente dell’Ordine dei Medici di Pisa, per costringere i medici a rinunciare all’obiezione di coscienza, si è scatenata una vera e propria rivolta.
Il dott. Giovanni Belcari, medico chirurgo di Pontedera ha scritto una lettera aperta, in cui sostiene che “né il ministro Livia Turco, né l’assessore regionale Enrico Rossi e nemmeno il presidente dell’Ordine dei medici di Pisa Giuseppe Figlini potranno mai imporre a un medico di assecondare la volontà della paziente, dando a lei la responsabilità di una scelta che quello stesso medico non ha compiuto in autonomia, e quindi in scienza e coscienza”.
Il dott. Belcari, fa riferimento al Codice deontologico dell’Ordine dei medici, ed in particolare agli articoli 3, 4, 13, 22 e 58, per difendere l’obiezione di coscienza.
“Una deontologia che si rispetti – ha scritto Belcari – mai può obbligare un medico alla prescrizione di un farmaco non salvavita”, per questo sia l’Ordine dei Medici che il Comitato nazionale per la Bioetica hanno “riconosciuto all’unanimità al medico la possibilità di rifiutare la prescrizione della pillola appellandosi alla clausola di coscienza”.
Il medico di Pontedera ha indirizzato la lettera al Direttore sanitario della Usl 5 di Pisa Rocco Damone e al Presidente dell’Ordine dei medici Figlini, ed ha chiesto il sostegno ai colleghi ginecologi, neonatologi, psichiatri, anestesisti, medici di guardia e del 118.
Interpellato da ZENIT, il dott. Belcari ha affermato che ha già raccolto più di 65 firme, tra cui quelle di diversi docenti universitari, e conta di arrivare a cento entro un paio di giorni.
Tra i primi firmatari della lettera aperta alcuni nomi di spicco come il professor Virgilio Facchini, ex Primario di Ginecologia, il professor Pietro Iacconi, in servizio al Dipartimento di Chirurgia generale al Santa Chiara di Pisa e il professor Massimo Ermini della Facoltà di Medicina e chirurgia.
Sullo stesso tema l’Associazione Nazionale Medicina & Persona, in un comunicato recapitato a ZENIT, ha ribadito che “una deontologia che si rispetti non può obbligare un professionista alla prescrizione di un farmaco ‘non salvavita’ in modo coercitivo”.
Perchè “sarebbe la fine del rapporto medico-paziente in cui la responsabilità e libertà di prescrizione, spettano solo al medico, che se ne assume la responsabilità, se non altro per rispetto delle competenze”.
In merito al diritto all’obiezione di coscienza, Medicina & Persona menziona in particolare alcune leggi esistenti nel nostro Paese (la 194/78, la legge 40/2004) e il Codice di Deontologia Medica del 2006 come “espressione di questo diritto inalienabile che intendiamo continuare a sostenere e tutelare”.
Il comunicato conclude con l'appello del Presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCEO), il dott. Amedeo Bianco, a “difendere il valore delle decisioni ‘in scienza e coscienza’ che fanno parte del dovere di ogni medico e che sono garantite oggi dal Codice di Deontologia Medica”.


Carlo Casini: occorre una revisione della legge sull’aborto
Il Presidente del Movimento per la Vita chiede di cambiare la 194

di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 7 aprile 2008 (ZENIT.org).- Nel corso di una conferenza stampa svoltasi lunedì alla Camera dei deputati, Carlo Casini, Presidente del Movimento per la Vita, ha chiesto una revisione della legge 194, che regola l’aborto in Italia.
Il Presidente del MpV ha affermato: “Siamo sicuri che il Parlamento che uscirà dalle urne si occuperà della legge 194, perché ormai sta per compiere 30 anni dalla sua emanazione ed ha bisogno di una revisione migliorativa”.
Casini ha ricordato che “lo stesso Giovanni Berlinguer promise, 30 anni fa, un ripensamento per una revisione del testo dopo l'avvio dell'applicazione della 194, ma purtroppo tale impegno non è stato mantenuto fino ad oggi”.
Per questo, “noi faremo appello a tutti i parlamentari eletti, perché si arrivi a una revisione che affermi il principio supremo che lo Stato si impegna in ogni modo a tutelare la vita".
Secondo Casini, “il principio da affermare è che occorre assolutamente dare la preferenza alle nascite”.
A questo proposito il Presidente del MpV ha ricordato gli oltre 90.000 bambini salvati dai Centri di Aiuto alla Vita (CAV), dal progetto Gemma e da SOS Vita.
In merito all’aborto Casini ha ribadito la totale sintonia con le parole del Pontefice Benedetto XVI, il quale ha sottolineato come l’interruzione volontaria di gravidanza lasci “segni profondi, talvolta indelebili nella donna che lo compie e nelle persone che la circondano” e produca “conseguenze devastanti sulla famiglia e sulla società anche per la mentalità materialistica di disprezzo della vita, che favorisce”.
Casini ha aggiunto che “l’esperienza dei nostri 300 Centri di Aiuto alla Vita che ogni anno incontrano oltre 30mila donne ci descrive spesso una devastazione morale e psicologica causata dall’aver scelto o subìto un aborto”.
E a proposito del lavoro dei volontari del MpV ha precisato: “Nessuna delle donne che invece sono state aiutate a superare le difficoltà che avrebbero potuto suggerire l’aborto, si è invece mai lamentata di aver scelto la vita ed il figlio”.
Circa la revisione della legge, ha quindi proposto che “nell’articolo 1 della legge si deve dire chiaramente che la vita inizia sin dal concepimento” e che gli altri primi articoli della 194 vanno rivisti nel senso di “un rafforzamento del ruolo in favore della vita dei consultori”.
Il Presidente del MpV ha infine sottolineato che “la legge 194 è ambigua poichè dice, nel titolo, di voler proteggere la maternità, ma in realtà si tratta di una normativa preoccupata solo di garantire l’esecuzione degli aborti”.