sabato 19 aprile 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa delude i liberal
2) Il papa all'ONU: "La persona umana è il punto più alto del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia"
3) Terzo giorno del papa negli USA. Con gli educatori cattolici, le altre religioni, gli ebrei
4) LA PERSONA HA TROVATO IL SUO PALADINO - IL RELATIVISMO SFERZATO DAL PODIO PIÙ ALTO
5) Il bullismo di certi intellettuali «Amici, l’unica scuola che funziona», di Davide Rondoni
6) Bagnasco: è la persona il criterio della scienza


18 aprile 2008
Dal Foglio.it
Anticipazione dal Foglio del 19 aprile
Il Papa delude i liberal

I diritti umani non sono costruzioni artificiali. La giustizia naturale supera la legge. Il dovere di intervento e la responsabilità di proteggere. L’imperativo etico guidi la scienza. Benedetto XVI alle Nazioni Unite
New York. Nessun riferimento all’Iraq, nessuna critica, nemmeno velata, all’unilateralismo americano. Niente appelli a ritirare le truppe, nemmeno una parola sulla guerra, non una parola di quelle che il mondo liberal americano si aspettava per tornare alla carica contro la politica estera e di sicurezza di George W. Bush.
Il discorso di Benedetto XVI alle Nazioni Unite, ieri mattina, è stato un manifesto in difesa dei diritti umani nella loro integralità e un invito all’Onu a far rispettare la Dichiarazione universale dei diritti umani sempre, comunque e in modo completo, evitando di commettere l’errore di adottare in presenza di violazioni “un approccio pragmatico, limitato a determinare un terreno comune, minimo sui contenuti e debole nei suoi effetti”. La promozione dei diritti umani, ha detto il Papa, è “la strategia più efficace” non solo “per eliminare le disuguaglianze”, ma anche per “aumentare la sicurezza”.
(continua sul Foglio quotidiano. Sul Foglio anche il discorso integrale di Benedetto XVI alle Nazioni Unite)


Il papa all'ONU: "La persona umana è il punto più alto del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia"
Discorso all’Assemblea Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, New York, 18 aprile 2008

di Benedetto XVI
Signor Presidente, Signore e Signori,
nel dare inizio al mio discorso a questa Assemblea, desidero anzitutto esprimere a Lei, Signor Presidente, la mia sincera gratitudine per le gentili parole a me dirette. Uguale sentimento va anche al Segretario Generale, il Signor Ban Ki-moon, per avermi invitato a visitare gli uffici centrali dell’Organizzazione e per il benvenuto che mi ha rivolto. Saluto gli Ambasciatori e i Diplomatici degli Stati Membri e quanti sono presenti: attraverso di voi, saluto i popoli che qui rappresentate. Essi attendono da questa Istituzione che porti avanti l’ispirazione che ne ha guidato la fondazione, quella di un "centro per l’armonizzazione degli atti delle Nazioni nel perseguimento dei fini comuni", la pace e lo sviluppo (cfr Carta delle Nazioni Unite, art. 1.2-1.4). Come il Papa Giovanni Paolo II disse nel 1995, l’Organizzazione dovrebbe essere "centro morale, in cui tutte le nazioni del mondo si sentano a casa loro, sviluppando la comune coscienza di essere, per così dire, una ‘famiglia di nazioni’" (Messaggio all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel 50° anniversario della fondazione, New York, 5 ottobre 1995, 14).

Mediante le Nazioni Unite, gli Stati hanno dato vita a obiettivi universali che, pur non coincidendo con il bene comune totale dell’umana famiglia, senza dubbio rappresentano una parte fondamentale di quel bene stesso. I principi fondativi dell’Organizzazione – il desiderio della pace, la ricerca della giustizia, il rispetto della dignità della persona, la cooperazione umanitaria e l’assistenza – esprimono le giuste aspirazioni dello spirito umano e costituiscono gli ideali che dovrebbero sottostare alle relazioni internazionali. Come i miei predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno osservato da questo medesimo podio, si tratta di argomenti che la Chiesa Cattolica e la Santa Sede seguono con attenzione e con interesse, poiché vedono nella vostra attività come problemi e conflitti riguardanti la comunità mondiale possano essere soggetti ad una comune regolamentazione. Le Nazioni Unite incarnano l’aspirazione ad "un grado superiore di orientamento internazionale" (Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, 43), ispirato e governato dal principio di sussidiarietà, e pertanto capace di rispondere alle domande dell’umana famiglia mediante regole internazionali vincolanti ed attraverso strutture in grado di armonizzare il quotidiano svolgersi della vita dei popoli. Ciò è ancor più necessario in un tempo in cui sperimentiamo l’ovvio paradosso di un consenso multilaterale che continua ad essere in crisi a causa della sua subordinazione alle decisioni di pochi, mentre i problemi del mondo esigono interventi nella forma di azione collettiva da parte della comunità internazionale.

Certo, questioni di sicurezza, obiettivi di sviluppo, riduzione delle ineguaglianze locali e globali, protezione dell’ambiente, delle risorse e del clima, richiedono che tutti i responsabili internazionali agiscano congiuntamente e dimostrino una prontezza ad operare in buona fede, nel rispetto della legge e nella promozione della solidarietà nei confronti delle regioni più deboli del pianeta. Penso in particolar modo a quei Paesi dell’Africa e di altre parti del mondo che rimangono ai margini di un autentico sviluppo integrale, e sono perciò a rischio di sperimentare solo gli effetti negativi della globalizzazione. Nel contesto delle relazioni internazionali, è necessario riconoscere il superiore ruolo che giocano le regole e le strutture intrinsecamente ordinate a promuovere il bene comune, e pertanto a difendere la libertà umana. Tali regole non limitano la libertà; al contrario, la promuovono, quando proibiscono comportamenti e atti che operano contro il bene comune, ne ostacolano l’effettivo esercizio e perciò compromettono la dignità di ogni persona umana. Nel nome della libertà deve esserci una correlazione fra diritti e doveri, con cui ogni persona è chiamata ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte, fatte in conseguenza dell’entrata in rapporto con gli altri. Qui il nostro pensiero si rivolge al modo in cui i risultati delle scoperte della ricerca scientifica e tecnologica sono stati talvolta applicati. Nonostante gli enormi benefici che l’umanità può trarne, alcuni aspetti di tale applicazione rappresentano una chiara violazione dell’ordine della creazione, sino al punto in cui non soltanto viene contraddetto il carattere sacro della vita, ma la stessa persona umana e la famiglia vengono derubate della loro identità naturale. Allo stesso modo, l’azione internazionale volta a preservare l’ambiente e a proteggere le varie forme di vita sulla terra non deve garantire soltanto un uso razionale della tecnologia e della scienza, ma deve anche riscoprire l’autentica immagine della creazione. Questo non richiede mai una scelta da farsi tra scienza ed etica: piuttosto si tratta di adottare un metodo scientifico che sia veramente rispettoso degli imperativi etici.

Il riconoscimento dell’unità della famiglia umana e l’attenzione per l’innata dignità di ogni uomo e donna trovano oggi una rinnovata accentuazione nel principio della responsabilità di proteggere. Solo di recente questo principio è stato definito, ma era già implicitamente presente alle origini delle Nazioni Unite ed è ora divenuto sempre più caratteristica dell’attività dell’Organizzazione. Ogni Stato ha il dovere primario di proteggere la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani, come pure dalle conseguenze delle crisi umanitarie, provocate sia dalla natura che dall’uomo. Se gli Stati non sono in grado di garantire simile protezione, la comunità internazionale deve intervenire con i mezzi giuridici previsti dalla Carta delle Nazioni Unite e da altri strumenti internazionali. L’azione della comunità internazionale e delle sue istituzioni, supposto il rispetto dei principi che sono alla base dell’ordine internazionale, non deve mai essere interpretata come un’imposizione indesiderata e una limitazione di sovranità. Al contrario, è l’indifferenza o la mancanza di intervento che recano danno reale. Ciò di cui vi è bisogno e una ricerca più profonda di modi di prevenire e controllare i conflitti, esplorando ogni possibile via diplomatica e prestando attenzione ed incoraggiamento anche ai più flebili segni di dialogo o di desiderio di riconciliazione.

Il principio della "responsabilità di proteggere" era considerato dall’antico ius gentium quale fondamento di ogni azione intrapresa dai governanti nei confronti dei governati: nel tempo in cui il concetto di Stati nazionali sovrani si stava sviluppando, il frate domenicano Francisco de Vitoria, a ragione considerato precursore dell’idea delle Nazioni Unite, aveva descritto tale responsabilità come un aspetto della ragione naturale condivisa da tutte le Nazioni, e come il risultato di un ordine internazionale il cui compito era di regolare i rapporti fra i popoli. Ora, come allora, tale principio deve invocare l’idea della persona quale immagine del Creatore, il desiderio di una assoluta ed essenziale libertà. La fondazione delle Nazioni Unite, come sappiamo, coincise con il profondo sdegno sperimentato dall’umanità quando fu abbandonato il riferimento al significato della trascendenza e della ragione naturale, e conseguentemente furono gravemente violate la libertà e la dignità dell’uomo. Quando ciò accade, sono minacciati i fondamenti oggettivi dei valori che ispirano e governano l’ordine internazionale e sono minati alla base quei principi cogenti ed inviolabili formulati e consolidati dalle Nazioni Unite. Quando si è di fronte a nuove ed insistenti sfide, è un errore ritornare indietro ad un approccio pragmatico, limitato a determinare "un terreno comune", minimale nei contenuti e debole nei suoi effetti.

Il riferimento all’umana dignità, che è il fondamento e l’obiettivo della responsabilità di proteggere, ci porta al tema sul quale siamo invitati a concentrarci quest’anno, che segna il 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Il documento fu il risultato di una convergenza di tradizioni religiose e culturali, tutte motivate dal comune desiderio di porre la persona umana al cuore delle istituzioni, leggi e interventi della società, e di considerare la persona umana essenziale per il mondo della cultura, della religione e della scienza. I diritti umani sono sempre più presentati come linguaggio comune e sostrato etico delle relazioni internazionali. Allo stesso tempo, l’universalità, l’indivisibilità e l’interdipendenza dei diritti umani servono tutte quali garanzie per la salvaguardia della dignità umana. È evidente, tuttavia, che i diritti riconosciuti e delineati nella Dichiarazione si applicano ad ognuno in virtù della comune origine della persona, la quale rimane il punto più alto del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia. Tali diritti sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e civiltà. Rimuovere i diritti umani da questo contesto significherebbe restringere il loro ambito e cedere ad una concezione relativistica, secondo la quale il significato e l’interpretazione dei diritti potrebbero variare e la loro universalità verrebbe negata in nome di contesti culturali, politici, sociali e persino religiosi differenti. Non si deve tuttavia permettere che tale ampia varietà di punti di vista oscuri il fatto che non solo i diritti sono universali, ma lo è anche la persona umana, soggetto di questi diritti.

La vita della comunità, a livello sia interno che internazionale, mostra chiaramente come il rispetto dei diritti e le garanzie che ne conseguono siano misure del bene comune che servono a valutare il rapporto fra giustizia ed ingiustizia, sviluppo e povertà, sicurezza e conflitto. La promozione dei diritti umani rimane la strategia più efficace per eliminare le disuguaglianze fra Paesi e gruppi sociali, come pure per un aumento della sicurezza. Certo, le vittime degli stenti e della disperazione, la cui dignità umana viene violata impunemente, divengono facile preda del richiamo alla violenza e possono diventare in prima persona violatrici della pace. Tuttavia il bene comune che i diritti umani aiutano a raggiungere non si può realizzare semplicemente con l’applicazione di procedure corrette e neppure mediante un semplice equilibrio fra diritti contrastanti. Il merito della Dichiarazione Universale è di aver permesso a differenti culture, espressioni giuridiche e modelli istituzionali di convergere attorno ad un nucleo fondamentale di valori e, quindi, di diritti. Oggi però occorre raddoppiare gli sforzi di fronte alle pressioni per reinterpretare i fondamenti della Dichiarazione e di comprometterne l’intima unità, così da facilitare un allontanamento dalla protezione della dignità umana per soddisfare semplici interessi, spesso interessi particolari. La Dichiarazione fu adottata come "comune concezione da perseguire" (preambolo) e non può essere applicata per parti staccate, secondo tendenze o scelte selettive che corrono semplicemente il rischio di contraddire l’unità della persona umana e perciò l’indivisibilità dei diritti umani.

L’esperienza ci insegna che spesso la legalità prevale sulla giustizia quando l’insistenza sui diritti umani li fa apparire come l’esclusivo risultato di provvedimenti legislativi o di decisioni normative prese dalle varie agenzie di coloro che sono al potere. Quando vengono presentati semplicemente in termini di legalità, i diritti rischiano di diventare deboli proposizioni staccate dalla dimensione etica e razionale, che è il loro fondamento e scopo. Al contrario, la Dichiarazione Universale ha rafforzato la convinzione che il rispetto dei diritti umani è radicato principalmente nella giustizia che non cambia, sulla quale si basa anche la forza vincolante delle proclamazioni internazionali. Tale aspetto viene spesso disatteso quando si tenta di privare i diritti della loro vera funzione in nome di una gretta prospettiva utilitaristica. Dato che i diritti e i conseguenti doveri seguono naturalmente dall’interazione umana, è facile dimenticare che essi sono il frutto di un comune senso della giustizia, basato primariamente sulla solidarietà fra i membri della società e perciò validi per tutti i tempi e per tutti i popoli. Questa intuizione fu espressa sin dal quinto secolo da Agostino di Ippona, uno dei maestri della nostra eredità intellettuale, il quale ebbe a dire riguardo al "Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te" che tale massima "non può in alcun modo variare a seconda delle diverse comprensioni presenti nel mondo" (De doctrina christiana, III, 14). Perciò, i diritti umani debbono esser rispettati quali espressione di giustizia e non semplicemente perché possono essere fatti rispettare mediante la volontà dei legislatori.

Signore e Signori,

mentre la storia procede, sorgono nuove situazioni e si tenta di collegarle a nuovi diritti. Il discernimento, cioè la capacità di distinguere il bene dal male, diviene ancor più essenziale nel contesto di esigenze che riguardano le vite stesse e i comportamenti delle persone, delle comunità e dei popoli. Affrontando il tema dei diritti, dato che vi sono coinvolte situazioni importanti e realtà profonde, il discernimento è al tempo stesso una virtù indispensabile e fruttuosa.

Il discernimento, dunque, mostra come l’affidare in maniera esclusiva ai singoli Stati, con le loro leggi ed istituzioni, la responsabilità ultima di venire incontro alle aspirazioni di persone, comunità e popoli interi può talvolta avere delle conseguenze che escludono la possibilità di un ordine sociale rispettoso della dignità e dei diritti della persona. D’altra parte, una visione della vita saldamente ancorata alla dimensione religiosa può aiutare a conseguire tali fini, dato che il riconoscimento del valore trascendente di ogni uomo e ogni donna favorisce la conversione del cuore, che poi porta ad un impegno di resistere alla violenza, al terrorismo ed alla guerra e di promuovere la giustizia e la pace. Ciò fornisce inoltre il contesto proprio per quel dialogo interreligioso che le Nazioni Unite sono chiamate a sostenere, allo stesso modo in cui sostengono il dialogo in altri campi dell’attività umana. Il dialogo dovrebbe essere riconosciuto quale mezzo mediante il quale le varie componenti della società possono articolare il proprio punto di vista e costruire il consenso attorno alla verità riguardante valori od obiettivi particolari. È proprio della natura delle religioni, liberamente praticate, il fatto che possano autonomamente condurre un dialogo di pensiero e di vita. Se anche a tale livello la sfera religiosa è tenuta separata dall’azione politica, grandi benefici ne provengono per gli individui e per le comunità. D’altro canto, le Nazioni Unite possono contare sui risultati del dialogo fra religioni e trarre frutto dalla disponibilità dei credenti a porre le propri esperienze a servizio del bene comune. Loro compito è quello di proporre una visione della fede non in termini di intolleranza, di discriminazione e di conflitto, ma in termini di rispetto totale della verità, della coesistenza, dei diritti e della riconciliazione.

Ovviamente i diritti umani debbono includere il diritto di libertà religiosa, compreso come espressione di una dimensione che è al tempo stesso individuale e comunitaria, una visione che manifesta l’unità della persona, pur distinguendo chiaramente fra la dimensione di cittadino e quella di credente. L’attività delle Nazioni Unite negli anni recenti ha assicurato che il dibattito pubblico offra spazio a punti di vista ispirati ad una visione religiosa in tutte le sue dimensioni, inclusa quella rituale, di culto, di educazione, di diffusione di informazioni, come pure la libertà di professare o di scegliere una religione. È perciò inconcepibile che dei credenti debbano sopprimere una parte di se stessi – la loro fede – per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti. I diritti collegati con la religione sono quanto mai bisognosi di essere protetti se vengono considerati in conflitto con l’ideologia secolare prevalente o con posizioni di una maggioranza religiosa di natura esclusiva. Non si può limitare la piena garanzia della libertà religiosa al libero esercizio del culto; al contrario, deve esser tenuta in giusta considerazione la dimensione pubblica della religione e quindi la possibilità dei credenti di fare la loro parte nella costruzione dell’ordine sociale. In verità, già lo stanno facendo, ad esempio, attraverso il loro coinvolgimento influente e generoso in una vasta rete di iniziative, che vanno dalle università, alle istituzioni scientifiche, alle scuole, alle agenzie di cure mediche e ad organizzazioni caritative al servizio dei più poveri e dei più marginalizzati. Il rifiuto di riconoscere il contributo alla società che è radicato nella dimensione religiosa e nella ricerca dell’Assoluto – per sua stessa natura, espressione della comunione fra persone – privilegerebbe indubbiamente un approccio individualistico e frammenterebbe l’unità della persona.

La mia presenza in questa Assemblea è un segno di stima per le Nazioni Unite ed è intesa quale espressione della speranza che l’Organizzazione possa servire sempre più come segno di unità fra Stati e quale strumento di servizio per tutta l’umana famiglia. Essa mostra pure la volontà della Chiesa Cattolica di offrire il contributo che le è proprio alla costruzione di relazioni internazionali in un modo che permetta ad ogni persona e ad ogni popolo di percepire di poter fare la differenza. La Chiesa opera inoltre per la realizzazione di tali obiettivi attraverso l’attività internazionale della Santa Sede, in modo coerente con il proprio contributo nella sfera etica e morale e con la libera attività dei propri fedeli. Indubbiamente la Santa Sede ha sempre avuto un posto nelle assemblee delle Nazioni, manifestando così il proprio carattere specifico quale soggetto nell’ambito internazionale. Come hanno recentemente confermato le Nazioni Unite, la Santa Sede offre così il proprio contributo secondo le disposizioni della legge internazionale, aiuta a definirla e ad essa fa riferimento.

Le Nazioni Unite rimangono un luogo privilegiato nel quale la Chiesa è impegnata a portare la propria esperienza "in umanità", sviluppata lungo i secoli fra popoli di ogni razza e cultura, e a metterla a disposizione di tutti i membri della comunità internazionale. Questa esperienza ed attività, dirette ad ottenere la libertà per ogni credente, cercano inoltre di aumentare la protezione offerta ai diritti della persona. Tali diritti sono basati e modellati sulla natura trascendente della persona, che permette a uomini e donne di percorrere il loro cammino di fede e la loro ricerca di Dio in questo mondo. Il riconoscimento di questa dimensione va rafforzato se vogliamo sostenere la speranza dell’umanità in un mondo migliore, e se vogliamo creare le condizioni per la pace, lo sviluppo, la cooperazione e la garanzia dei diritti delle generazioni future.

Nella mia recente Enciclica "Spe salvi", ho sottolineato "che la sempre nuova faticosa ricerca di retti ordinamenti per le cose umane è compito di ogni generazione" (n. 25). Per i cristiani tale compito è motivato dalla speranza che scaturisce dall’opera salvifica di Gesù Cristo. Ecco perché la Chiesa è lieta di essere associata all’attività di questa illustre Organizzazione, alla quale è affidata la responsabilità di promuovere la pace e la buona volontà in tutto il mondo. Cari amici, vi ringrazio per l’odierna opportunità di rivolgermi a voi e prometto il sostegno delle mie preghiere per il proseguimento del vostro nobile compito.

Prima di congedarmi da questa distinta Assemblea, vorrei porgere i miei saluti a tutte le Nazioni qui rappresentate nelle lingue ufficiali, in inglese, in francese, in spagnolo, in arabo, in cinese, in russo:

Pace e prosperità con l’aiuto di Dio!


Terzo giorno del papa negli USA. Con gli educatori cattolici, le altre religioni, gli ebrei
A proposito di dialogo interreligioso, Benedetto XVI dice che l'obiettivo maggiore non è la pace, ma "scoprire la verità". Che è Gesù. Il quale disse che "la salvezza viene dai giudei". Fuori programma, l'incontro con alcune vittime degli abusi sessuali
di Sandro Magister
ROMA, 19 aprile 2008 – Nella sua terza giornata trascorsa a Washington Benedetto XVI è tornato per la terza volta sullo scandalo degli abusi sessuali compiuti da preti cattolici su minori.
L'ha fatto nell'omelia della messa celebrata giovedì 17 aprile nel Nationals Stadium, gremito da 46 mila fedeli:
"È nel contesto della speranza nata dall’amore e dalla fedeltà di Dio che io prendo atto del dolore che la Chiesa in America ha provato come conseguenza dell’abuso sessuale di minorenni. Nessuna mia parola potrebbe descrivere il dolore e il danno recati da tale abuso. È importante che a quanti hanno sofferto sia riservata un’amorevole attenzione pastorale. Né posso descrivere in modo adeguato il danno verificatosi all’interno della comunità della Chiesa. Sono già stati fatti grandi sforzi per affrontare in modo onesto e giusto questa tragica situazione e per assicurare che i bambini – che il nostro Signore ama così profondamente (cfr Mc 10,14) e che sono il nostro tesoro più grande – possano crescere in un ambiente sicuro. Queste premure per proteggere i bambini devono continuare. Ieri ho parlato con i vostri vescovi di questa cosa. Oggi incoraggio ognuno di voi a fare quanto gli è possibile per promuovere il risanamento e la riconciliazione e per aiutare quanti sono stati feriti".

Nel pomeriggio dello stesso giorno, nella cappella della nunziatura, il papa ha incontrato un piccolo gruppo di persone vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti. Il gruppo era accompagnato dall'arcivescovo di Boston, cardinale Sean O'Malley. Un comunicato diffuso dalla Santa Sede ha aggiunto che "hanno pregato insieme al Santo Padre, il quale ha ascoltato i loro racconti personali, ha detto loro parole di incoraggiamento e di speranza e li ha assicurati della sua preghiera per le loro intenzioni, per le loro famiglie e per tutte le vittime di abuso sessuale" .

Un altro momento saliente della giornata è stato l'incontro del papa con gli insegnanti delle università e delle scuole cattoliche degli Stati Uniti.

Ad essi, Benedetto XVI ha detto che "l’identità cattolica [di una scuola] non dipende dalle statistiche. Neppure può essere semplicemente equiparata con l’ortodossia del contenuto dei corsi. Essa richiede ed ispira molto di più: e cioè che ogni aspetto delle vostre comunità di studio si riverberi nella vita ecclesiale di fede. Solo nella fede, infatti, la verità può farsi incarnata e la ragione veramente umana, capace di dirigere la volontà lungo il sentiero della libertà".

Più sotto sono riportati i passaggi chiave dell'importante discorso, che sviluppa temi già enunciati da Benedetto XVI nelle sue memorabili lezioni a Ratisbona e per l'Università di Roma.

Infine, verso sera, il papa ha incontrato circa 200 rappresentanti appartenenti a cinque comunità religiose presenti negli Stati Uniti: ebrei, musulmani, indù, buddisti e giainisti.

Ad essi, Benedetto XVI ha detto che il dialogo interreligioso "mira a qualcosa di più di un consenso per far progredire la pace". L'obiettivo maggiore del dialogo è "quello di scoprire la verità" e tener deste nel cuore di tutti gli uomini le domande più profonde ed essenziali.

Ebbene, ha proseguito Benedetto XVI:

"Messi di fronte a questi interrogativi più profondi riguardanti l'origine e il destino del genere umano, i cristiani propongono Gesù di Nazareth. Egli è – questa è la nostra fede – il Logos eterno, che si è fatto carne per riconciliare l'uomo con Dio e rivelare la ragione che sta alla base di tutte le cose. È Lui che noi portiamo nel forum del dialogo interreligioso. È l'ardente desiderio di seguire le sue orme che spinge i cristiani ad aprire le loro menti e i loro cuori al dialogo".

Ed ha aggiunto:

"Cari amici, nel nostro tentativo di scoprire i punti di comunanza, forse abbiamo evitato la responsabilità di discutere le nostre differenze con calma e chiarezza. [...] Il più importante obiettivo del dialogo interreligioso richiede una chiara esposizione delle nostre rispettive dottrine religiose".

Una conferma speciale di come egli concepisce il dialogo interreligioso Benedetto XVI l'ha data subito dopo, incontrando dei rappresentanti della comunità ebraica, nell'antivigilia della loro celebrazione della Pasqua.

Nel messaggio che ha loro consegnato – rivolto a agli ebrei di tutto il mondo – papa Joseph Ratzinger ha ribadito la prossimità unica che sussiste tra cristiani ed ebrei, entrambi cresciuti sullo stesso ceppo, entrambi "prigionieri della speranza" nella stessa salvezza offerta da Dio.

E ha così proseguito:

"Questo vincolo permette a noi cristiani di celebrare al vostro fianco, anche se in un modo nostro specifico, la Pasqua della morte e della risurrezione di Cristo, che noi consideriamo inseparabile dal vostro, avendo Gesù stesso detto: 'la salvezza viene dai Giudei' (Giovanni 4, 22). La nostra Pasqua e il vostro Pesah, sebbene distinti e differenti, ci uniscono nella comune speranza centrata su Dio e sulla Sua misericordia. Questo ci sprona a cooperare gli uni con gli altri e con tutti gli uomini e le donne di buona volontà per rendere migliore questo mondo per tutti, in attesa del compimento delle promesse di Dio".

Ecco qui di seguito i passaggi salienti delle parole rivolte dal papa agli insegnanti cattolici, ai rappresentanti delle religioni, agli ebrei.

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Agli educatori cattolici

di Benedetto XVI

Washington, Catholic University, giovedì 17 aprile 2008

[...] L’identità di un’università o di una scuola cattolica non è semplicemente una questione di numero di studenti cattolici. È una questione di convinzione. Crediamo noi veramente che solo nel mistero del Verbo fatto carne diventa veramente chiaro il mistero dell’uomo (cfr Gaudium et spes, 22)? Siamo noi veramente pronti ad affidare il nostro intero io – intelletto e volontà, mente e cuore – a Dio? Accettiamo noi la verità che Cristo rivela? Nelle nostre università e scuole la fede è “tangibile”? Le viene data fervida espressione nella liturgia, nei sacramenti, mediante la preghiera, gli atti di carità, la sollecitudine per la giustizia e il rispetto per la creazione di Dio? Solo in questo modo noi rendiamo realmente testimonianza sul senso di chi noi siamo e di ciò che noi sosteniamo.

Da questa prospettiva si può riconoscere che la contemporanea “crisi di verità” è radicata in una “crisi di fede”. Solo mediante la fede noi possiamo dare liberamente il nostro assenso alla testimonianza di Dio e riconoscerlo come il trascendente garante della verità che egli rivela. Ancora una volta, noi vediamo perché il promuovere l’intimità personale con Gesù Cristo e la testimonianza comunitaria alla sua verità che è amore è indispensabile nelle istituzioni formative cattoliche. Di fatto tutti noi vediamo, e osserviamo con preoccupazione, la difficoltà o la riluttanza che molte persone hanno oggi nell’affidare se stesse a Dio. È un fenomeno complesso, questo, sul quale rifletto continuamente. Mentre abbiamo cercato con diligenza di coinvolgere l’intelligenza dei nostri giovani, forse abbiamo trascurato la loro volontà. Di conseguenza, noi osserviamo con ansia che la nozione di libertà viene distorta. La libertà non è facoltà di disimpegno da; è facoltà di impegno per – una partecipazione all’Essere stesso. Di conseguenza, l’autentica libertà non può mai essere raggiunta nell’allontanamento da Dio. Una simile scelta significherebbe ultimamente trascurare la genuina verità di cui abbisogniamo per capire noi stessi. Perciò una particolare responsabilità per ciascuno di voi, e per i vostri colleghi, è di suscitare tra i vostri giovani il desiderio di un atto di fede, incoraggiandoli ad affidarsi alla vita ecclesiale che fluisce da questo atto di fede. È qui che la libertà raggiunge la certezza della verità. Nella scelta di vivere secondo tale verità, noi abbracciamo la pienezza della vita di fede che ci è data nella Chiesa.

Chiaramente, pertanto, l’identità cattolica non dipende dalle statistiche. Neppure può essere semplicemente equiparata con l’ortodossia naturalmente contenuta. Ciò richiede ed ispira molto di più: e cioè che ogni aspetto delle vostre comunità di studio si riverberi nella vita ecclesiale di fede. Solo nella fede la verità può farsi incarnata e la ragione veramente umana, capace di dirigere la volontà lungo il sentiero della libertà (cfr Spe salvi, 23). In questo modo le nostre istituzioni offrono un vitale contributo alla missione della Chiesa e servono efficacemente la società. Esse diventano luoghi in cui l’attiva presenza di Dio negli affari umani è riconosciuta e ogni giovane persona scopre la gioia di entrare nell’”essere per gli altri” di Cristo (cfr ibid., 28).

La missione, primaria nella Chiesa, di evangelizzare, nella quale le istituzioni educative giocano un ruolo cruciale, è in consonanza con l’aspirazione fondamentale della nazione di sviluppare una società veramente degna della dignità della persona umana. A volte, tuttavia, il valore del contributo della Chiesa al forum pubblico è posto in questione. È perciò importante ricordare che la verità della fede e quella della ragione non si contraddicono mai tra loro (cfr Concilio Ecumenico Vaticano I, costituzione dogmatica sulla fede cattolica Dei Filius, IV: DS 3017; S. Agostino, Contra Academicos, III, 20,43). La missione della Chiesa, di fatto, la coinvolge nella lotta che l’umanità sostiene per raggiungere la verità. Nell’esprimere la verità rivelata essa serve tutti i membri della società purificando la ragione, assicurando che essa rimanga aperta alla considerazione delle verità ultime. Attingendo alla divina sapienza, essa getta luce sulla fondazione della moralità e dell’etica umana, e ricorda a tutti i gruppi nella società che non è la prassi a creare la verità ma è la verità che deve servire come base della prassi. Lungi dal minacciare la tolleranza della legittima diversità, un simile contributo illumina la verità stessa che rende raggiungibile il consenso, ed aiuta a mantenere ragionevole, onesto ed affidabile il pubblico dibattito. Similmente la Chiesa mai si stanca di sostenere le categorie morali essenziali del giusto e dell’ingiusto, senza le quali la speranza può solo appassire, aprendo la strada a freddi calcoli pragmatici utilitaristici che riducono la persona a poco più di una pedina su di un’ideale scacchiera.

Rispetto al forum educativo, la "diakonia", il servizio della verità assume un elevato significato nelle società in cui l’ideologia secolaristica pone un cuneo tra verità e fede. Questa divisione ha portato alla tendenza di eguagliare verità e conoscenza e ad adottare una mentalità positivistica che, rigettando la metafisica, nega i fondamenti della fede e rigetta la necessità di una visione morale. Verità significa di più che conoscenza: conoscere la verità ci porta a scoprire il bene. La verità parla all’individuo nella sua interezza, invitandoci a rispondere con tutto il nostro essere. Questa visione ottimistica è fondata nella nostra fede cristiana, perché in tale fede è donata la visione del Logos, la creatrice Ragione di Dio, che nell’Incarnazione si è rivelata come Divinità essa stessa. Lungi dall’essere solo una comunicazione di dati fattuali – “informativa” – la verità amante del Vangelo è creativa e capace di cambiare la vita, è “performativa” (cfr Spe salvi, 2). Con fiducia gli educatori cristiani possono liberare i giovani dai limiti del positivismo e risvegliare la loro recettività nei confronti della verità, di Dio e della sua bontà. In questo modo voi aiuterete anche a formare la loro coscienza che, arricchita dalla fede, apre un sicuro cammino verso la pace interiore e il rispetto per gli altri.

Non costituisce una sorpresa, tuttavia, se non tanto le nostre stesse comunità ecclesiali ma la società in generale ha intense aspettative di educatori cattolici. Questo pone su di voi una responsabilità e vi offre un’opportunità. Un numero sempre maggiore di persone – in particolare di genitori – riconosce il bisogno di eccellenza nella formazione umana dei loro figli. Come "Mater et Magistra", la Chiesa condivide la loro preoccupazione. Quando nulla aldilà dell’individuo è riconosciuto come definitivo, il criterio ultimo di giudizio diventa l’io e la soddisfazione dei desideri immediati dell’individuo. L’obiettività e la prospettiva, che derivano soltanto dal riconoscimento dell’essenziale dimensione trascendente della persona umana, possono andare perdute. All’interno di un simile orizzonte relativistico gli scopi dell’educazione vengono inevitabilmente ridotti. Lentamente si afferma un abbassamento dei livelli. Osserviamo oggi una certa timidezza di fronte alla categoria del bene e un’inconsulta caccia di novità in passerella come realizzazione della libertà. Siamo testimoni della convinzione che ogni esperienza sia di uguale valore e della riluttanza ad ammettere imperfezioni ed errori. E particolarmente inquietante è la riduzione della preziosa e delicata area dell’educazione sessuale alla gestione del “rischio”, privo di ogni riferimento alla bellezza dell’amore coniugale.

Come possono rispondere gli educatori cristiani? Questi pericolosi sviluppi pongono in evidenza la particolare urgenza di ciò che potremmo chiamare “carità intellettuale”. Questo aspetto della carità chiede all’educatore di riconoscere che la profonda responsabilità di condurre i giovani alla verità non è che un atto di amore. In verità, la dignità dell’educazione risiede nel promuovere la vera perfezione e la gioia di coloro che devono essere guidati. In pratica, la “carità intellettuale” sostiene l’essenziale unità della conoscenza contro la frammentazione che consegue quando la ragione è staccata dal perseguimento della verità. Ciò guida i giovani verso la profonda soddisfazione di esercitare la libertà in relazione alla verità, e ciò spinge a formulare la relazione tra la fede e i vari aspetti della vita familiare e civile. Una volta che la passione per la pienezza e l’unità della verità è stata risvegliata, i giovani sicuramente gusteranno la scoperta che la questione su ciò che essi possono conoscere li apre alla vasta avventura di ciò che essi dovrebbero fare. Qui essi sperimenteranno “in chi” e “in che cosa” è possibile sperare e saranno ispirati a recare il loro contributo alla società in un modo che genera speranza negli altri. [...]

A proposito dei membri delle facoltà nei collegi universitari cattolici, desidero riaffermare il grande valore della libertà accademica. In virtù di questa libertà voi siete chiamati a cercare la verità ovunque l’attenta analisi dell’evidenza vi conduce. Tuttavia è anche il caso di ricordare che ogni appello al principio della libertà accademica per giustificare posizioni che contraddicono la fede e l’insegnamento della Chiesa ostacolerebbe o addirittura tradirebbe l’identità e la missione dell’università, una missione che sta al cuore del munus docendi della Chiesa e non è in qualche modo autonoma o indipendente da essa.

Insegnanti ed amministratori, sia nelle università che nelle scuole, hanno il dovere e il privilegio di assicurare che gli studenti ricevano un’istruzione nella dottrina e nella pratica cattolica. Questo richiede che la testimonianza pubblica al modo d’essere di Cristo, come risulta dal Vangelo ed è proposto dal magistero della Chiesa, modelli ogni aspetto della vita istituzionale sia all’interno che all’esterno delle aule scolastiche. Prendere la distanza da questa visione indebolisce l’identità cattolica e, lungi dal far avanzare la libertà, inevitabilmente conduce alla confusione sia morale che intellettuale e spirituale. [...]
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Ai rappresentanti di altre religioni di Benedetto XVI
Washington, John Paul II Cultural Center, giovedì 17 aprile 2008
[...] La libertà religiosa, il dialogo interreligioso e la fede mirano a qualcosa di più di un consenso volto a individuare vie per attuare strategie concrete per far progredire la pace. L'obiettivo più ampio di dialogo è quello di scoprire la verità. Qual è l'origine e il destino del genere umano? Che cosa sono bene e male? Che cosa ci attende alla fine della nostra esistenza terrena? Solo affrontando queste questioni più profonde potremo costruire una solida base per la pace e la sicurezza della famiglia umana: "dove e quando l'uomo si lascia illuminare dallo splendore della verità, intraprende quasi naturalmente il cammino della pace" (Messaggio 2006 per la Giornata Mondiale della Pace, 3).

Viviamo in un'epoca nella quale queste domande sono troppo spesso messe ai margini. Tuttavia, esse non potranno mai essere cancellate dal cuore umano. Nel corso della storia, gli uomini e le donne hanno cercato di collegare la loro inquietudine con questo mondo che passa. Nella tradizione giudaico-cristiana, i Salmi sono pieni di queste espressioni: "In me languisce il mio spirito" (Sal 143,4; cfr Sal 6,7; 31,11; 32,4; 38,8; 77,3); "Perché ti rattristi, anima mia, perché su di me gemi?" (Sal 42,6). La risposta è sempre di fede: "Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, lui, salvezza del mio volto e mio Dio" (ibidem; cfr Sal 62,6). I leaders spirituali hanno un particolare dovere, e potremmo dire una speciale competenza, a porre in primo piano le domande più profonde alla coscienza umana, a risvegliare l'umanità davanti al mistero dell'esistenza umana, a fare spazio in un mondo frenetico alla riflessione e alla preghiera.

Messi di fronte a questi interrogativi più profondi riguardanti l'origine e il destino del genere umano, i cristiani propongono Gesù di Nazareth. Egli è – questa è la nostra fede – il Logos eterno, che si è fatto carne per riconciliare l'uomo con Dio e rivelare la ragione che sta alla base di tutte le cose. È Lui che noi portiamo nel forum del dialogo interreligioso. L'ardente desiderio di seguire le sue orme spinge i cristiani ad aprire le loro menti e i loro cuori al dialogo (cfr Lc 10, 25-37; Gv 4, 7-26).

Cari amici, nel nostro tentativo di scoprire i punti di comunanza, forse abbiamo evitato la responsabilità di discutere le nostre differenze con calma e chiarezza. Mentre uniamo sempre i nostri cuori e le menti nella ricerca della pace, dobbiamo anche ascoltare con attenzione la voce della verità. In questo modo, il nostro dialogo non si ferma ad individuare un insieme comune di valori, ma si spinge innanzi ad indagare il loro fondamento ultimo. Non abbiamo alcun motivo di temere, perché la verità ci svela il rapporto essenziale tra il mondo e Dio. Siamo in grado di percepire che la pace è un "dono celeste", che ci chiama a conformare la storia umana all’ordine divino. Sta qui la "verità della pace" (cfr Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2006). [...]

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Agli ebrei
di Benedetto XVI
Messaggio in occasione della festa di Pesah, Washington, giovedì 17 aprile 2008

In occasione della vostra più solenne celebrazione, mi sento a voi particolarmente vicino, proprio per ciò che “Nostra Aetate” invita i cristiani a ricordare sempre: che cioè la Chiesa “ha ricevuto la rivelazione dell’Antico Testamento tramite quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia si è degnato di stringere l’Antica Alleanza e che si nutre dalla radice del buon ulivo su cui sono stati innestati i rami dell’oleastro dei Gentili” (n. 4). [...]

Al Sèder della Pasqua voi richiamate i santi patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe e le sante donne di Israele, Sara, Rebecca, Rachele e Lia, l’inizio della lunga generazione di figli e figlie dell’Alleanza. Con il passare del tempo l’Alleanza assume un valore sempre più universale, quando la promessa fatta ad Abramo prende forma: “Io ti benedirò e renderò grande il tuo nome, e diventerai una benedizione. In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (Genesi 12, 2-3). In effetti, secondo il profeta Isaia, la speranza della redenzione si estende all’intera umanità: “Verranno molti popoli e diranno: Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri" (Isaia 2, 3). In questo orizzonte escatologico viene offerta una reale prospettiva di fraternità universale sul cammino della giustizia e della pace, per preparare la via del Signore (cfr Isaia 62, 10).

Cristiani ed ebrei condividono questa speranza; infatti, noi siamo, effettivamente, come affermano i profeti, “prigionieri della speranza” (Zaccaria 9, 12). Questo vincolo permette a noi cristiani di celebrare al vostro fianco, anche se in un modo nostro specifico, la Pasqua della morte e della risurrezione di Cristo, che noi consideriamo inseparabile dal vostro, avendo Gesù stesso detto: “la salvezza viene dai giudei” (Giovanni 4, 22). La nostra Pasqua e il vostro Pesah, sebbene distinti e differenti, ci uniscono nella comune speranza centrata su Dio e sulla Sua misericordia. Questo ci sprona a cooperare gli uni con gli altri e con tutti gli uomini e le donne di buona volontà per rendere migliore questo mondo per tutti, in attesa del compimento delle promesse di Dio. [...]


LA PERSONA HA TROVATO IL SUO PALADINO - IL RELATIVISMO SFERZATO DAL PODIO PIÙ ALTO
Avvenire, 19 aprile 2008
FRANCESCO D’AGOSTINO
Il discorso di Benedetto XVI all’Assemblea ple­naria dell’Onu costituisce un esempio rilevan­te di come debba essere correttamente imposta­to un discorso antropologico. Il Papa comincia coll’elogiare i principi fondativi che stanno alla base delle Nazioni Unite: la pace e la giustizia, il rispetto per la persona, la cooperazione umanita­ria, l’assistenza, la sicurezza, lo sviluppo, la prote­zione dell’ambiente, la riduzione delle disugua­glianze. Principi elevati e nobili, facilmente con­divisibili da parte di tutti, ma di per sé - osserva ­non coincidenti con il 'bene comune totale' del­la famiglia umana. Per perseguirli adeguatamen­te, infatti, bisogna fare uno sforzo ulteriore, leggere questi principi in un contesto di libertà, al fine di riconoscere che la libertà vive soltanto nella cor­relazione tra diritti e doveri, nella relazionalità in­terpersonale, nell’assunzione del principio di re­sponsabilità, colpevolmente ignorato da quegli scienziati che pretendono di svincolare dall’'or­dine della creazione' il loro operato. In un conte­sto di responsabilità, quale quello auspicato dal Pa­pa, ciò che si impone è piuttosto la necessità di a­dottare metodi scientifici rispettosi degli impera­tivi etici.
Il tema della responsabilità richiede però un ulte­riore approfondimento, il cui primo passo è com­piuto da Benedetto XVI col richiamo al nuovo prin­cipio della 'responsabilità di proteggere' (spesso espresso tramite l’acronimo 'R2P'). Quando i sin­goli Stati si manifestano incapaci di difendere la dignità e i diritti dell’uomo, è necessario che di ta­le protezione si faccia carico la comunità interna­zionale (naturalmente attraverso il rigoroso ri­spetto dei mezzi giuridici previsti dalle stesse Na­zioni Unite). Il Papa è consapevole delle obiezio­ni che vengono mosse alla R2P e che si conden­sano nell’affermazione che essa si potrebbe tra­durre in una inaccettabile limitazione della so­vranità degli Stati. Sono però obiezioni superabi­li: di fronte alla violazione dei diritti, 'è l’indiffe­renza o la mancanza di intervento che recano dan­no reale'. Si noti la semplicità e insieme la forza di questa affermazione: i diritti non vivono nel cie­lo degli ideali, ma nella concretezza di questa ter­ra e chiedono di essere difesi concretamente.
Il discorso continua ad allargarsi. Se i diritti sono reali (e non mere e vaghe aspirazioni) e vanno tu­telati e promossi come tali, ne segue che è inac­cettabile leggerli in chiave puramente pragmati­ca o peggio ancora relativistica: questo infatti è un modo di indebolirli e alla lunga di negarli. Il pre­teso realismo di chi ritiene che i diritti, non aven­do una loro intrinseca 'verità', andrebbero con­tinuamente adattati a contesti culturali, etnici, re­ligiosi differenti, o ridotti al rango di meri princi­pi procedurali, produce inevitabilmente la loro e­rosione interna. Non si riesce più a comprendere, infatti, perché dovrebbero avere forza vincolante tante proclamazioni internazionali, qualora i di­ritti fossero ridotti a 'deboli proposizioni stacca­te dalla dimensione etica e razionale', avulsi dal radicamento nella giustizia.
Ma il discorso non può terminare qui: è necessa­rio compiere un ultimo passo, il più difficile, ma anche il più importante. Non basta affermare i di­ritti, non basta riconoscere che essi devono esse­re concretamente difesi, non basta nemmeno sta­bilirne un assoluto radicamento nella giustizia, se viene a mancare quell’indispensabile discerni­mento che consente, nel procedere della storia, di distinguere il bene dal male e di orientare conse­guentemente l’agire degli Stati, così come degli in­dividui. Per attivare tale discernimento, afferma il Papa, è indispensabile il riconoscimento del valore trascendente e in ultima istanza religioso di ogni essere umano. Spetta alle Nazioni Unite sostene­re, come esse effettivamente fanno, il dialogo in­terreligioso, così come spetta ai credenti propor­re la loro fede non in termini di violenza e intolle­ranza, ma di rispetto per la verità, di coesistenza, di riconciliazione. Il richiamo alla libertà religio­sa, che conclude la parte dottrinale del discorso del Papa, va ben al di là del richiamo al rispetto di un diritto umano fondamentale (anzi, del primo e del più importante di tutti i diritti): esso implica il ri­conoscimento del carattere individuale e al tem­po stesso comunitario dell’ unità della persona u­mana. La costruzione dell’ordine sociale ha biso­gno di ambedue questi pilastri; la dimensione del cittadino e quella del credente non possono as­solutamente essere confuse, ma tra le due non è nemmeno lecito erigere steccati, pena il rischio di smarrire la dimensione comunionale delle perso­ne e di favorire un approccio individualistico alla logica dei diritti, che inevitabilmente frammente­rebbe l’unità della persona. È un monito, questo del Papa, particolarmente grave, sul quale do­vrebbe concentrarsi l’attenzione di tutti coloro ai quali il bene umano sta sinceramente a cuore.


RECENSIONE SBALORDITIVA DELLA TRASMISSIONE DELLA DE FILIPPI
Il bullismo di certi intellettuali «Amici, l’unica scuola che funziona»

Avvenire, 19 aprile 2008
DAVIDE RONDONI
Ho scoperto che esistono non uno, ma due tipi di bullismo. Due tipi di teppismo contro la scuola. Quello sfacciato e patetico di certi ragazzi, e quello ben più violento e devastante di certi intellettuali. Esiste quello becero di certi studenti, sguaiato e maleducato fino a far tenerezza dopo aver fatto rabbia, e quello beneducato e più acido di certi intellettuali. Perché se è bullismo allagare le aule, fare scherzi di dubbio gusto, è bullismo ancora peggiore titolare, come fa la prima pagina del quotidiano La Stampa di ieri, che 'Amici' (il noto show televisivo condotto da Maria De Filippi) è «l’unica scuola che funziona».
Teppismo intellettuale e perciò più deleterio. A firma dello scrittore e filologo Walter Siti compare sul quotidiano del gruppo Fiat un inno alla trasmissione e alla sua conduttrice («madre dura ma giusta»), capaci di misurarsi con successo con 'la pedagogia'. E pur se nel finale del suo pezzo che esalta Platinette e la De Filippi come icone della educazione, Siti deve ammettere che il paragone con la scuola regge fino a un certo punto (in palio ci sono 300.000 euro e la mediocrità viene premiata in modo scandaloso) resta a mio avviso un’offesa per schiere di insegnanti il fatto che il loro quotidiano lavoro sia confrontato e svilito nel paragone con la trasmissione. Qui sta il bullismo in guanti di velluto dell’articolo, la perversione reale del suo banalissimo inno: nel voler considerare che 'Amici' e la scuola perseguano scopi simili, che la conduttrice abbia intenzioni lontanamente simili a quella che per poche centinaia di euro al mese muove ogni mattina tante brave persone (pur accanto a qualche scansafatiche) ad affrontare la prova dell’aula e dei ragazzi. Questo accostamento è offensivo. La scuola in quella trasmissione è una parodia irreale, funziona secondo regole volute dalla tv, e lo scopo che si persegue è il raggiungimento della fama e del successo.
Come se queste fossero le cose a cui tendere, come se la scuola dovesse servire a raggiungere fama e successo. Spacciando ormai come ovvia la verità che la riuscita della vita sta nel raggiungere successo e fama. 'Amici' e gli intellettuali che la blandiscono compiono uno dei peggiori atti di teppismo contro la scuola e la stessa vita dei ragazzi. È per questi continui atti di teppismo che viviamo in un’aria ormai satura e stordita dall’ideale del successo, in una cultura in cui la riuscita di una vita si misura da quanto è ripresa dai media. Si è ormai installato al centro della mente dei ragazzi e della pubblica piazza l’idolo e totem da adorare: la fama. La perversione di trasmissione come 'Amici', al pari di quanto accade spesso, sta nel cogliere un aspetto naturale e bello dei ragazzi (l’ambizione, il desiderio di essere riconosciuti, di essere valorizzati) e dirigerlo con potenza di mezzi e di seduzione come se ci fosse un unico sbocco adeguato: la fama, il successo. E non basta giustificarsi con il grande appeal di questa trasmissione anche presso cosiddetti vip, o presso i ragazzi: non molto altro offre la tv. Se l’alternativa che la tv offre è tra 'Amici' o dieci programmi simili o il 'Grande fratello' certo la gara è dura... Dei due bullismi uno – quello dei ragazzi – viene in genere indicato dai media come segno di maleducata preoccupante barbarie, e ha mosso in molti casi genitori e insegnanti a prender atto della emergenza educativa e della necessità di una rinnovata responsabilità.
Ma quest’altro bullismo provocherà almeno un segno di indignazione oltre al mio di poeta e padre, e qualcuno sentirà una responsabilità in più?


LA SANITÀ DI ECCELLENZA
Celebrati i 120 anni dell’ospedale Galliera di Genova dai cardinali Bagnasco e Tettamanzi Messaggio di saluto del cardinale Bertone Presenti anche le massime autorità civili
Il presidente della Cei: l’uomo deve essere il fine delle scelte La ragione può arrivare a identificare un’antropologia vera
Bagnasco: è la persona il criterio della scienza
Avvenire, 19 aprile 2008
DAL NOSTRO INVIATO A GENOVA PAOLO VIANA
S i chiama Ospedali Galliera, ma per i genovesi è «la Duchessa». Se dare il nome è un atto d’amore, questo è il segno della riconoscenza popolare tributata, per 120 anni, a una donna e alla sua intuizione. Che la cura dell’uo­mo sofferente accomuna Vangelo e mo­dernità: «La Duchessa di Galliera, Ma­ria Brignole Sale – ha spiegato ieri il car­dinale Angelo Bagnasco aprendo in pa­lazzo Ducale le celebrazioni dell’anni­versario – volle un luogo in cui tutti i malati, specie i meno abbienti, potes­sero trovare terapie attente e acco­glienza affettuosa nel passaggio storico verso la modernità. Un’ispirazione che nasceva dalla fede cristiana, che affina lo sguardo verso i bisogni dei tempi e sospinge a trovare le risposte adeguate per il bene della persona e della società intera». Questa spinta permette di ac­corciare anche la distanza tra fede e scienza, purché si ricordi che «il limite di ogni espressione umana e quindi an­che della ricerca scientifica è la perso­na umana, che diventa il criterio delle scelte» come ha ammonito Bagnasco, il quale come tutti gli arcivescovi geno­vesi presiede il consiglio d’amministra­zione dell’ospedale.
«Con il buon senso e l’aiuto della fede – ha detto – la ragione arriva a identifi­care una concezione antropologica ve­ra e completa e la bioetica, come ogni altro aspetto del progresso, ha come scopo quest’antropologia». Non c’è quindi alcun conflitto, a meno di non li­mitare il progresso a un solo aspetto della persona. Al contrario, «fede e ra­gione sono pienamente alleate» perché la prima aiuta la seconda a identificare il concetto di uomo e «la stimola verso il bene integrale».
«L’elemento religioso – ha aggiunto il cardinale Dionigi Tettamanzi, alla gui­da dell’arcidiocesi per oltre sette anni – non è un freno ma una garanzia per la ricerca. L’intelligenza non viene asso­pita dalla religiosità, che invece è un ri­chiamo forte a curare il malato, facen­do tesoro della ricerca e della tecnolo­gia e assicurando anche il servizio del cuore, un’attenzione scrupolosa, quasi una venerazione per ogni essere uma­no sofferente».
Parole che riflettono il clima di condi­visione in cui Genova festeggia que- st’anniversario. Infatti, sarà perché nel­le sale del Galliera sono passate un po’ tutte le famiglie liguri, come ha ricor­dato il presidente della Regione Claudio Burlando, o perché l’ospedale ha con­tribuito in modo significativo alla cre­scita del sistema sanitario ligure, ma al convegno su «Innovazione tecnologica e umanizzazione» erano tutti d’accor­do: il nuovo Galliera s’ha da fare e dev’essere all’altezza della sua tradi­zione. Costerà 160 milioni. Il progetto è stato approvato e il protocollo sarà sottoscritto nelle prossime settimane, hanno confermato Burlando, il sindaco Marta Vincenzi, l’assessore regionale al­la Salute Claudio Montaldo e il presi­dente della Provincia Alessandro Re­petto. Si parla di cantieri dal 2011, ca­deau genovese alle celebrazioni per l’U­nità d’Italia. «Sarà un ospedale più com­patto e più efficiente – ha assicurato Burlando – e rispetteremo la sua fun­zione. Vogliamo migliorare gli standard della sanità pubblica, che in Liguria pe­raltro sono già alti. Non importa chi pre­siede il consiglio d’amministrazione di un ospedale, quel che importa è avere una sanità cui possano accedere tutti». Esattamente quello che chiedeva la du­chessa di Galliera, che volle affidare la gestione dell’ospedale alla Chiesa per assicurargli «un certo stile di intensa u­manità evangelica che si doveva mani­festare nei gesti più decisivi come in quelli più piccoli e quotidiani» come ha spiegato Bagnasco, rammentando la sollecitudine dei suoi predecessori, dal cardinale Giuseppe Siri, al cardinale Giovanni Canestri, al Segretario di Sta­to, il cardinale Tarcisio Bertone, il cui messaggio di saluto ricorda che «dal ri­spetto e dalla difesa della vita dipende la qualità autenticamente umana della convivenza civile».
La Chiesa genovese considera lo stile Galliera «un imperativo mai concluso e da tutti desiderato» perché «nell’istan­za di umanizzazione dell’ospedale» si specchia quella della società, ha spie­gato il presidente della Cei, aggiungen­do che «quest’istanza di umanizzazio­ne dell’ospedale chiama in causa la di­mensione etica». Il cardinale ha ricor­dato che la morale discerne diritti e do­veri dell’uomo e che essi «si situano non solo all’interno della singola persona ma anche nei rapporti che intercorro­no tra le persone, determinando come prima esigenza morale quella della giu­stizia. È, questa, la virtù cardinale che esige di “dare a ciascuno il suo”, dove il primo e fondamentale “suo” è la dignità personale», la quale rappresenta una sfida sia per il malato che per chi lo cu­ra. Tuttavia, ha precisato, «il problema morale non può mai risolversi in un am­bito di interiorità e di privatezza del sin­golo individuo: esso assume sempre un significato e un peso profondamente sociale. L’istanza di umanizzazione del­l’ospedale riveste necessariamente u­na portata sociale e la morale, che cu­stodisce e tiene viva questa istanza, sprigiona una responsabilità sociale che sfocia in una serie coerente di decisio­ni, scelte, azioni concrete - da parte dei singoli e della comunità - che toccano direttamente la complessa problemati­ca delle strutture ospedaliere. L’ospe­dale è umano – ha concluso Bagnasco – quando riesce ad esprimere l’“assolu­tezza” della persona rispetto ad ogni al­tra cosa, e reciprocamente la “relatività” di ogni altra cosa alla persona». Per l’ap­punto, il «criterio».