mercoledì 2 aprile 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Wojtyla, quegli occhi fissi su Gesù, di Andrea Tornielli
2) Gli ultimi giorni nel ricordo filiale del cardinale Stanislaw Dziwisz , Pensai: l'ho accompagnato per quarant'anni E ora? Dall'altra parte, chi l'accompagna?
3) WOJTYLA, DOPO LA MORTE ABBIAMO IMPARATO A CONOSCERLO IN MODO DIVERSO
4) Il voto sarà anche utile, ma la campagna elettorale è vuota
5) COME E PERCHE’ IL CORRIERE DELLA SERA HA “CENSURATO” MAGDI ALLAM… , di Antonio Socci
6) Pisa, medici «accusati» da due donne


Wojtyla, quegli occhi fissi su Gesù
di Andrea Tornielli
Roma - «Ricordo ancora quando mi definì... un combattente». Monsignore Rino Fisichella, vescovo, rettore della Pontificia università lateranense, l’ateneo del Papa, nonché cappellano di Montecitorio sorride rievocando il primo incontro con Giovanni Paolo II. Oggi ricorre il terzo anniversario della morte del grande pontefice, del quale è in dirittura d’arrivo la causa di beatificazione: il postulatore, monsignor Slawomir Oder, ha completato il lavoro della Positio, e si prevede che entro il 2009 Papa Wojtyla possa essere elevato all’onore degli altari. Il Giornale ha chiesto al vescovo Fisichella qualche ricordo personale sui suoi incontri con il pontefice polacco.
Come definirebbe Giovanni Paolo II?
«Un Papa che ha segnato la storia della Chiesa con il suo carisma, un apologeta. Uso questa parola nel suo significato più importante e positivo: ha presentato la ricchezza della fede cristiana facendo guardare e tenere gli occhi fissi su Gesù. Ha presentato la fede in modo adeguato per gli uomini del nostro tempo, con una grande forza comunicativa».
Un apologeta. Immagine combattiva...
«Il primo incontro con lui avvenne quando io ero un prete trentenne e lui da poco era stato eletto Papa. Mi avvicinai per salutarlo, gli dissi che insegnavo alla Gregoriana, mi chiese di quale materia mi occupassi. Risposi che insegnavo teologia fondamentale. E lui: “Ah, benissimo! Colui che combatte”».
Lei ha avuto poi modo di collaborare, per ragioni di ufficio, con il pontefice. Che cosa la colpiva di più del suo atteggiamento?
«La capacità di ascolto. Giovanni Paolo II sapeva ascoltare. E sapeva interessarsi di tutto. Aveva anche un modo simpatico di far notare certe cose, perché fosse la persona stessa a capire... ».
A che cosa si riferisce in particolare?
«Penso a un episodio personale. Dopo la mia nomina a vescovo ausiliare di Roma, la sua diocesi, io continuai a insegnare, al contrario di quanto solitamente succedeva. Accompagnando insieme al cardinale Ruini il Papa verso la macchina, lui gli disse: “Eminenza, monsignore Fisichella è l’unico vescovo che continua a insegnare”. Lo disse col sorriso sulle labbra. Dopo due settimane, in occasione di un altro incontro, al quale era presente anche allora il cardinale Ruini, Giovanni Paolo II ripeté la stessa frase, con tono ironico. Allora io mi feci avanti e chiesi: “Santità, posso farlo? Posso continuare a insegnare?”. Lui, sorridendo, mi disse di sì. Gradiva però che io gli chiedessi il permesso di farlo».
È giusto parlare di «Papa mistico»?
«Credo proprio di sì. Tutte le volte che incontravamo il Papa per pranzo, prima di sederci a tavola facevamo una visita in cappella. Per noi tutti era appunto una visita, lo spazio di una breve preghiera. Per lui no. Giovanni Paolo II, quando pregava, non si rendeva conto del trascorrere del tempo, si immergeva completamente in Dio».
Ha colpito molto la sua accettazione della sofferenza e il modo con cui ha vissuto la malattia.
«Posso testimoniare che nonostante malattia e sofferenza si sottoponeva a veri e propri tour de force per non deludere le attese dei fedeli. Ricordo che durante la sua visita a Lodi, nella diocesi in cui sono nato, il Papa stava male. Nonostante tutto ha voluto rispettare alla lettera il programma».
Oggi c’è chi contrappone Benedetto XVI a Giovanni Paolo II. Che cosa ne pensa?
«Contrapporre le due figure è strumentale. Giovanni Paolo II ha sempre nutrito una grande stima nell’allora cardinale Ratzinger. L’ho sentito più volte, mentre parlava di lui, dire: “L’ho voluto io a Roma. L’ho voluto io!”. Ci teneva. Oggettivamente mi sento di poter dire che Joseph Ratzinger è stato davvero il principale collaboratore di Papa Wojtyla, il quale aveva la certezza di aver affidato alle mani più competenti e sicure un settore decisivo ed essenziale per la vita della Chiesa qual è la Congregazione per la dottrina della fede».


Gli ultimi giorni nel ricordo filiale del cardinale Stanislaw Dziwisz , Pensai: l'ho accompagnato per quarant'anni E ora? Dall'altra parte, chi l'accompagna?
Martedì 1 ° aprile alle ore 18, nella basilica romana di Santa Maria in Trastevere, si è svolto l'incontro "Ricordando Karol. A tre anni dalla scomparsa di Giovanni Paolo II" con la partecipazione dei cardinali Camillo Ruini, vicario di Roma, e Stanislaw Dziwisz, arcivescovo metropolita di Cracovia, di monsignor Slawomir Oder, postulare della causa di beatificazione e canonizzazione di Karol Wojtyla, dello storico Andrea Riccardi, docente all'università di Roma Tre, e del giornalista Gianfranco Svidercoschi,. già vicedirettore del nostro giornale. In occasione della pubblicazione dell'edizione tascabile Bur del libro di Dziwisz Una vita con Karol. Conversazione con Gianfranco Svidercoschi, l'attore Piotr Adamczyk ha letto alcune pagine del volume e sono state proiettate parti della docu-fiction tratta dal libro e prodotta da Tba. Pubblichiamo un estratto dell'ultimo capitolo nel quale il segretario personale di Giovanni Paolo II racconta gli ultimi giorni di vita del Papa.
di StanisLAw Dziwisz
Per la prima volta dall'inizio del pontificato, Giovanni Paolo II, pur tornato in Vaticano, non poté presiedere i riti del Triduo pasquale. Il Venerdì Santo volle comunque seguire la Via Crucis al Colosseo da uno schermo televisivo sistemato nella cappella privata. Alla quattordicesima stazione prese nelle mani il crocifisso, come per unire il suo volto a quello di Cristo, la sua sofferenza a quella del Figlio di Dio morto in croce.
Sentii che stava davvero arrivando il momento, il Signore lo chiamava...
A Pasqua, il Santo Padre desiderava almeno impartire la benedizione Urbi et orbi. Si era preparato con cura, poco prima della cerimonia aveva provato a ripetere la formula, e tutto sembrava andare bene. Ma poi, finito il discorso letto in piazza dal cardinale Sodano, il Papa alla finestra rimase come bloccato. Sarà stata la commozione, la sofferenza, ma non riuscì a dare la benedizione. Sussurrò: "Non ho voce", e quindi, sempre in silenzio, fece un triplice segno di croce, salutò la folla, infine con lo sguardo fece capire che voleva rientrare.
Era profondamente scosso, amareggiato, e, nello stesso tempo, come esausto per lo sforzo che aveva tentato inutilmente di fare. La gente, giù, era commossa, lo applaudiva, lo chiamava, ma lui sentiva tutto il peso di quel gesto di impotenza, di sofferenza. Mi guardò negli occhi: "Sarebbe forse meglio che muoia, se non posso compiere la missione affidatami". Cercai di replicare, ma lui aggiunse: "Sia fatta la tua volontà... Totus tuus". Non erano parole di disperazione, ma di sottomissione alla volontà divina.
Mercoledì 30 marzo, il Papa si affacciò di nuovo, in piazza c'erano cinquemila ragazzi dell'arcidiocesi di Milano venuti per la professione di fede. Pensavamo, io per primo, che dovesse dare solo la benedizione. Ma, dopo averla impartita, fece un gesto con la mano, un gesto deciso, per chiedere che gli avvicinassimo il microfono. Voleva dire qualche parola, anche solo una parola, un ringraziamento, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. Nell'allontanarsi dalla finestra, non ebbe neppure la reazione di insofferenza che aveva avuto a Pasqua. Ormai sapeva, era pronto...
Il giorno dopo, verso le 11, era in cappella per la celebrazione della Messa. All'improvviso il suo corpo venne squassato da qualcosa che gli era come scoppiato dentro. La febbre era quasi a quaranta, e i medici diagnosticarono subito che era subentrato un gravissimo shock settico con collasso cardiocircolatorio, dovuto a una infezione delle vie urinarie. Stavolta, però, niente ricovero. Ricordai al dottor Buzzonetti la ferma volontà del Papa di non tornare più in ospedale. Intendeva soffrire e morire a casa sua, presso la tomba di Pietro. E, a casa sua, i medici avrebbero potuto benissimo assicurargli le cure indispensabili.
Ora, perciò, Giovanni Paolo II era nella sua camera. Sulla parete di fronte al letto, un quadro di Cristo sofferente, legato con le corde. Una immagine della Madonna di Czestochowa. E, su un tavolino, la foto dei genitori. Al termine della Messa, celebrata lì, ci avvicinammo tutti a baciare la sua mano. "Stasiu", disse accarezzandomi la testa. Poi le suore della casa, che chiamò tutte per nome, e infine i medici, gli infermieri.
Il venerdì fu una giornata di preghiera: la Messa, la Via Crucis, l'Ora Terza dell'Ufficio divino, e alcuni brani della Scrittura letti da un altro grande amico di Karol Wojtyla, padre Tadeusz Styczen. Le condizioni generali erano di una estrema gravità. Il Papa riusciva ormai a dire solo poche sillabe, con difficoltà.
E siamo arrivati al 2 aprile, sabato.
Vorrei poter veramente ricordare tutto.
Nella stanza c'era grande serenità. Il Santo Padre benedisse le corone destinate alla Madonna di Czestochowa nelle Grotte Vaticane, e altre due da mandare a Jasna Góra. Poi si congedò dai suoi più stretti collaboratori, cardinali, monsignori della Segreteria di Stato, responsabili di uffici, e volle salutare Francesco, incaricato delle pulizie nell'appartamento.
Era ancora pienamente cosciente, perché pur esprimendosi a fatica chiese che gli venisse letto il Vangelo di san Giovanni. Non era stato un nostro suggerimento, l'aveva chiesto lui. Anche per l'ultimo giorno, come aveva fatto per tutta la vita, voleva nutrirsi della Sacra Scrittura.
Padre Styczen cominciò a leggere Giovanni, un capitolo dopo l'altro. Ne lesse nove. E nel libro, alla fine, rimarrà il segno nel punto in cui era arrivata la lettura: e, insieme, il segno di quando si era conclusa la sua esistenza.
Ecco, nell'estremo momento, il Santo Padre era tornato a essere quello che fondamentalmente era sempre stato, un uomo di preghiera. Era un uomo di Dio, un uomo in intima comunione con Dio, e quindi la preghiera costituiva incessantemente come il "basamento" della sua vita. Quando doveva incontrare qualcuno, o prendere una decisione importante, scrivere un documento, fare un viaggio, prima si rivolgeva sempre a Dio. Prima, pregava. E anche quel giorno, prima di intraprendere l'ultimo grande viaggio, anche quel giorno recitò, con l'aiuto dei presenti, tutte le preghiere quotidiane; fece l'adorazione, la meditazione, e anticipò perfino l'Officio delle letture per la domenica.
A un certo punto, suor Tobiana "sentì" i suoi occhi; si avvicinò con l'orecchio alla bocca, e lui, con voce debolissima, appena percettibile, disse: "Lasciatemi andare dal Signore". La religiosa uscì di corsa dalla camera, voleva raccontarcelo ma continuava a piangere.
Ci ho pensato soltanto dopo, ma è stato straordinario che le ultime parole le abbia dette a una donna.
Verso le 19 il Santo Padre entrò in coma. La stanza era illuminata solo da un piccolo cero acceso, che il Papa stesso aveva benedetto il 2 febbraio per la festa della Candelora.
Piazza San Pietro e tutte le strade adiacenti si erano andate affollando. C'era sempre più gente, e soprattutto c'erano sempre più giovani. Le loro grida - "Giovanni Paolo!", "Viva il Papa!" - arrivavano fin su al terzo piano. Io sono convinto che le abbia sentite anche lui. Non poteva non sentirle!
Erano ormai quasi le 20, e improvvisamente avvertii dentro di me come un imperativo categorico: dovevo celebrare la Messa! E così cominciai a fare, assieme al cardinale Jaworski, all'arcivescovo Rylko e a due sacerdoti polacchi, Styczen e Mokrzycki. Era la Messa prefestiva della domenica della Divina Misericordia, una solennità tanto cara al Papa. Il Vangelo era sempre quello di Giovanni: "Venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse "Pace a voi!.."". Alla Comunione, riuscii a dargli, come viatico, alcune gocce del sangue preziosissimo di Gesù.
Erano le 21.37. Ci eravamo accorti che il Santo Padre aveva smesso di respirare. Ma solo in quel preciso momento "vedemmo" sul monitor che il suo grande cuore, dopo aver continuato a battere per qualche istante, si era fermato.
Il dottor Buzzonetti si chinò su di lui e alzando appena lo sguardo mormorò: "È passato alla casa del Signore".
Qualcuno intanto aveva bloccato le lancette dell'orologio su quell'ora.
E noi, come se lo avessimo deciso tutti insieme, ci mettemmo a cantare il Te Deum. Non il Requiem, perché non era un lutto, ma il Te Deum, come ringraziamento a Dio per il dono che ci aveva dato, il dono della persona del Santo Padre, di Karol Wojtyla.
Piangevamo. Come si faceva a non piangere! Erano, insieme, lacrime di dolore e di gioia. E fu allora che si accesero tutte le luci della casa...
Poi, non ricordo più. Era come se fosse calato improvvisamente il buio. Il buio sopra di me, dentro di me. Sapevo bene quello che era successo, ma era come se, dopo, non riuscissi ad accettarlo. O non riuscissi a capirlo. Mi mettevo nelle mani del Signore, ma quando pensavo di avere il cuore sereno ripiombava il buio...
Finché è arrivato il momento del congedo.
C'era tutta quella gente. Tutte quelle persone importanti venute da lontano. Ma, soprattutto, c'era il suo popolo. C'erano i suoi giovani. C'erano quelle scritte, così significative e così impazienti. In piazza San Pietro c'era una grande luce. E adesso era tornata anche dentro di me.
Concludendo l'omelia, il cardinale Ratzinger ha fatto quell'accenno alla finestra, e ha detto che lui stava sicuramente là, a vederci, a benedirci. Anch'io mi sono voltato, non ho potuto fare a meno di voltarmi, ma non ce l'ho fatta a guardare in su.
Alla fine, quando sono arrivati sul sagrato, i sediari che portavano la bara l'hanno lentamente girata. Come per permettergli l'ultimo sguardo verso la sua piazza. Il congedo definitivo dagli uomini, dal mondo.
Ma anche da me?
No, da me no. In quel momento, non ho pensato a me. L'ho vissuto insieme con tutti gli altri. E tutti erano scossi, turbati. Ma per me è stata una cosa che non potrò mai dimenticare.
Intanto, il corteo stava entrando in basilica, dovevano portare la bara giù nella tomba.
E allora, proprio allora, mi è venuto di pensare...
L'ho accompagnato per quasi quarant'anni, prima dodici a Cracovia, poi ventisette a Roma. Sono stato sempre con lui, accanto a lui.
Ora, nel momento della morte, lui è andato da solo.
L'ho sempre accompagnato, ma da qui è andato da solo. E questo fatto, di non averlo potuto accompagnare, mi ha colpito tanto.
Sì, certo, lui non ci ha lasciati. Sentiamo la sua presenza, e anche le tante grazie ottenute tramite lui. E poi, io l'ho accompagnato fino a questo punto della Chiesa.
Ma, da qui, è andato da solo. E ora? Dall'altra parte, chi lo accompagna?
(©L'Osservatore Romano - 2 aprile 2008)


In Papa Wojtyla la liturgia è stata comunicazione con il mistero cristiano, Quel colloquio interiore che precedeva ogni messa
Konrad Krajewski
Cerimoniere Pontificio
Ho conosciuto di persona Giovanni Paolo II nel 1998, anno in cui ho iniziato a lavorare nell'Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice.
Quando era il mio turno di assisterlo durante le celebrazioni, insieme con il maestro monsignor Piero Marini, rimanevo sempre colpito da ciò che accadeva nella sagrestia prima e dopo la celebrazione. Quando il Papa veniva nella sagrestia e restavamo soltanto noi due, si metteva in ginocchio o, negli ultimi anni del Pontificato, rimaneva sulla sua sedia, e pregava in silenzio. Questa preghiera durava dieci, quindici o anche venti minuti e, durante i viaggi apostolici, perfino di più. Sembrava che il Pontefice non fosse presente tra di noi. Quando il momento di preghiera sembrava protrarsi troppo a lungo, entrava monsignor Stanislaw Dziwisz, tentando di suggerire al Papa di prepararsi: spesso il Pontefice non rispondeva a questa chiamata. A un certo momento, alzava la mano destra, e noi ci avvicinavamo per cominciare a vestirlo in assoluto silenzio. Sono convinto che Giovanni Paolo II, prima di rivolgersi alla gente, si rivolgeva - o, per dire meglio, parlava - a Dio. Prima di rappresentarLo, chiedeva a Dio di poter essere la Sua immagine vivente davanti agli uomini. Lo stesso accadeva dopo la celebrazione: appena deposte le vesti sacre, si metteva in ginocchio nella sagrestia, e pregava. Avevo sempre la stessa impressione, che non fosse presente tra di noi.
Di tanto in tanto, durante i viaggi, entrava il suo segretario e sfiorandolo con delicatezza lo esortava a uscire dalla sagrestia, perché la gente lo aspettava per salutarlo (presidenti, sindaci, autorità...), ma quasi mai il Papa reagiva: rimaneva sempre in profonda preghiera e di nuovo, a un certo momento, si alzava da solo, o dava a noi un segnale per essere aiutato. Questi momenti di preghiera, prima e dopo l'azione liturgica, mi colpivano sempre profondamente. Quando lo assistevo, ponevo la mitra, passavo il fazzoletto, ero sicuro di toccare una persona non solo straordinaria, ma veramente santa.
Negli ultimi anni del Pontificato ero cerimoniere stabile del Pontefice: seguivo tutte le celebrazioni stando accanto al Papa, vedevo la sua sofferenza e le sue difficoltà in ogni movimento. Una volta, quando egli stava molto male, durante una celebrazione sul sagrato della basilica di San Pietro, inchinandomi, mi sono permesso di dire: "Santità, posso aiutarla in qualche modo? Forse qualcosa le fa male?". Egli mi ha risposto: "Ormai tutto mi fa male, ma deve essere così...". Ero sicuro e profondamente convinto che assistevo e toccavo una persona santa.
Mi sentivo così indegno di stare accanto a quest'uomo e di servirlo, che negli ultimi anni del suo Pontificato, prima di ogni celebrazione, andavo a confessarmi, anche se avevamo due o tre celebrazioni alla settimana. Così facevo un po' arrabbiare i confessori della basilica di San Pietro, ma sentivo profondamente il bisogno di essere totalmente "pulito" quando mi avvicinavo al Papa. Dopo tanti anni di servizio, e dodici viaggi all'estero, sono giunto a questa conclusione: tanti milioni di persone che partecipavano alle celebrazioni liturgiche presiedute dal Pontefice accorrevano per incontrare Gesù, che era rappresentato da Giovanni Paolo II, e presente proprio in lui, nella sua parola predicata, nei suoi gesti e nei suoi atteggiamenti liturgico-mistici. Per questo motivo la gente piangeva. Diceva: "Ha parlato solo a me, ha guardato me, ha cambiato la mia vita...". Come era possibile ciò, quando qualcuno durante la celebrazione stava lontano dal Pontefice centinaia di metri o, addirittura, chilometri (come succedeva durante i viaggi)? Come poteva dire: "Ha visto me", "ha parlato proprio a me"?
Anch'io, personalmente, devo testimoniare che la mia vita sacerdotale è cambiata totalmente, da quando ho cominciato a lavorare accanto a Giovanni Paolo II.
Vorrei ancora sottolineare alcuni momenti molto significativi, che mi hanno colpito profondamente durante l'ultima celebrazione del Corpus Domini presieduta dal Papa.
Ormai il Pontefice non camminava più. Il maestro delle celebrazioni e io lo abbiamo issato con la sedia sulla piattaforma della macchina appositamente preparata per la processione: davanti al Papa, sull'inginocchiatoio, era posto l'ostensorio con il Santissimo Sacramento. Durante la processione il Pontefice si è rivolto a me in polacco, chiedendo di potersi inginocchiare. Sono rimasto imbarazzato da tale domanda, perché fisicamente il Papa non era in grado di farlo. Con grande delicatezza, ho suggerito l'impossibilità di inginocchiarsi, poiché la macchina oscillava durante il percorso, e sarebbe stato molto pericoloso compiere un gesto simile. Il Papa ha risposto con il suo famoso dolce "mormorio". Trascorso un po' di tempo, all'altezza della Pontificia Università "Antonianum", ha ripetuto di nuovo: "Voglio inginocchiarmi!", e io, con grande difficoltà nel dover ripetere il rifiuto, ho suggerito che sarebbe stato più prudente tentare di farlo nelle vicinanze di Santa Maria Maggiore; e di nuovo ho sentito quel "mormorio". Tuttavia, dopo qualche istante, giunti alla curia dei padri Redentoristi, ha esclamato con determinazione, e quasi gridando, in polacco: "Qui c'è Gesù! Per favore...". Non era più possibile contraddirlo. Il maestro è stato testimone di quei momenti. I nostri sguardi si sono incontrati, e, senza dire nulla, abbiamo cominciato ad aiutarlo a inginocchiarsi. Lo abbiamo fatto con grande difficoltà, e quasi lo abbiamo messo di peso sull'inginocchiatoio. Il Papa si aggrappava al bordo dell'inginocchiatoio e cercava di sorreggersi; tuttavia le ginocchia non lo reggevano più, e abbiamo dovuto subito rimetterlo sulla sedia, tra difficoltà che non erano solo fisiche, ma erano dovute anche all'ingombro dei paramenti liturgici.
Avevamo assistito a una grande dimostrazione di fede: anche se il corpo non rispondeva più alla chiamata interiore, la volontà rimaneva salda e forte. Il Pontefice aveva mostrato, nonostante la sua grande sofferenza, la forza interiore della fede, che voleva manifestarsi attraverso il gesto di inginocchiarsi. Non contavano nulla i nostri suggerimenti di non compiere quel gesto. Il Papa ha sempre ritenuto che, davanti a Cristo presente nel Santissimo Sacramento, bisogna essere molto umili ed esprimere questa umiltà attraverso il gesto fisico.
Infine, voglio sottolineare che, attraverso il mio semplice servizio al Romano Pontefice, anch'io sono diventato migliore, come uomo e come sacerdote. Egli ci ha insegnato che "il vero amico è colui grazie al quale io divento migliore": allora posso dire che, secondo tale definizione, Giovanni Paolo II era il mio vero amico.
Attraverso la sua testimonianza mi sono avvicinato ancora di più a quel Dio, che veniva rappresentato da Giovanni Paolo II. Ho potuto vedere come, durante la sua vita, egli si dedicava e si abbandonava totalmente a Dio in occasione delle celebrazioni liturgiche, e in tale stato di dedizione si è spento.
Quando è morto, io camminavo nelle logge vaticane, esercitando la mia funzione di Cerimoniere Pontificio, e piangevo. Forse per la prima volta nella mia vita di adulto non mi vergognavo delle lacrime. Tuttavia erano lacrime per me stesso: perché non sono come lui, perché non sono un santo sacerdote, perché non mi sono offerto fino in fondo al Signore, perché non sono totus tuus...
Non ricordo completamente che cosa pensavo portando l'evangeliario davanti alla semplice bara di Giovanni Paolo II. Volevo solo portarlo con dignità, così come si porta il più importante libro della vita: il libro della vita di Giovanni Paolo II.
Questo libro l'ho deposto con il maestro sulla bara, e sentivo come ero indegno di questo gesto. Mi sentivo così piccolo e così peccatore... Pregavo il Signore di poter portare il libro del Vangelo nella mia vita, così come lo aveva portato Giovanni Paolo II. E di non chiuderlo mai.
Da quando Giovanni Paolo II è tornato alla casa del Padre, ogni giorno vado a confessare nella chiesa di Santo Spirito in Sassia alle 15, l'"ora della misericordia" nella quale tanta gente canta la coroncina della misericordia e segue la Via Crucis. Mi è capitato parecchie volte di suggerire a diverse persone di andare alla tomba del servo di Dio Giovanni Paolo II a pregare. Perché egli superava se stesso. Superava il proprio corpo, le proprie sofferenze. Quando si affacciava alla finestra, e ormai aveva smesso di parlare, tutti sapevamo che cosa avrebbe voluto dirci. Quando alzava con difficoltà la mano, facevamo subito il segno della croce, perché sempre lui ci benediceva. Mentre finivo di dire queste parole, tanti mi rispondevano: "Ma io vengo proprio dalle Grotte Vaticane, dalla tomba di Giovanni Paolo II, e perciò mi confesso. Non sapevo neppure che a quest'ora ci si potesse confessare...".
(©L'Osservatore Romano - 2 aprile 2008)


WOJTYLA, DOPO LA MORTE ABBIAMO IMPARATO A CONOSCERLO IN MODO DIVERSO
Avvenire, 2 aprile 2008
LUIGI GENINAZZI
Quando venne sottratto per sem­pre al nostro sguardo terreno il mondo si sentì improvvisa­mente orfano e un’ondata di com­mozione, di dolore e al tempo stes­so di gratitudine, invase il cuore di milioni di persone. Ci manca, Karol Wojtyla, nonostante che il suo suc­cessore, l’amato Benedetto XVI, riempia pienamente la scena ponti­ficale. Sono passati tre anni ma con­tinua a mancarci tantissimo: lo di­ciamo sottovoce, con un certo pu­dore, come si fa coi sentimenti più veri e profondi che si vorrebbero te­nere nascosti, al riparo da occhi in­discreti.
Giovanni Paolo II manca a tutti co­loro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo personalmente, e anche a moltissima gente che ha avuto oc­casione di sfiorarlo, vederlo e ascol­tarlo durante i suoi viaggi. C’è chi ha fatto notare che papa Wojtyla è co­lui che si è incontrato con il maggior numero di essere umani, primo pontefice 'globale', riconosciuto co­me la più grande autorità morale an­che dai non credenti. Giovanni Pao­lo II è stato un papa pellegrino che cercava l’uomo. Non aspettava che la gente andasse da lui, era lui che le andava incontro, testimone della misericordia di Dio che salva. Nel corso del suo pontificato, uno dei più lunghi della storia, si è fatto vi­cino a tutti divenendo un personag­gio familiare anche nei luoghi più sperduti del mondo. E così, quand’e­ra in vita, pensavamo di conoscerlo bene, anche perché i mass-media ce lo raccontavano in ogni dettaglio, fi­no a scavare con le telecamere im­pietose dentro le pieghe della sua sofferenza e malattia.
Ma in questi ultimi anni, dopo la sua morte, incominciamo a conoscerlo in un modo diverso. Col passare del tempo i ricordi inevitabilmente sbia­discono, diventano roba d’archivio. Oggi stiamo imparando a guardare alla vita ed alle opere di Karol Wojty­la in altro modo, con gli occhi della fe­de. Proprio perché ci manca voglia­mo andare alla sua ricerca, sapendo bene che questa volta non saranno né i giornali né le tv a raccontarcelo per davvero. Non ci soffermiamo più sui singoli fotogrammi, adesso ci si mostra in tutta la sua evidenza il sen­so della trama che ha intessuto la sua vita ed ha cambiato la storia. «Gio­vanni Paolo II si è mosso ed ha agito come se desiderasse aprire dapper­tutto delle vie d’accesso a Cristo, co­me se desiderasse rendere percorri­bile ad ogni uomo il varco verso la vi­ta vera, verso il vero amore», è la sin­tesi efficace che ne ha fatto Benedet­to XVI, legato da un affetto persona­le oltre che da una lunga consuetu­dine di lavoro al suo predecessore.
Così tanta gente oggi riscopre Gio­vanni Paolo II come il papa della vi­ta, il papa dell’amore, il papa della fa­miglia. È quanto ci ha confermato l’ex segretario di Wojtyla, il cardina­le Dziwisz, lui stesso sorpreso dai moltissimi casi del dono di un figlio a coppie, ritenute sterili, che si sono inginocchiate in preghiera sulla tomba di Giovanni Paolo II. Se non vogliamo affrettarci a chiamarli mi­racoli diciamo che si tratta di grazie ricevute, di segni di santità che le persone semplici sanno immedia­tamente riconoscere.
In Polonia circola insistente la voce secondo cui Karol Wojtyla verrà bea­tificato il prossimo 16 ottobre, tren­tesimo anniversario della sua ele­zione al soglio pontificio. È il desi­derio di tanta gente che 'scopre' nella santità di Giovanni Paolo II un rinnovato motivo di familiarità con lui. Soffia ancora il vento di Wojtyla, il vento che faceva sfogliare le pagi­ne del Vangelo durante i suoi fune­rali e oggi continua ad avvolgere i nostri cuori.


Il voto sarà anche utile, ma la campagna elettorale è vuota
Anestetizzati da una contesa sonnacchiosa e opaca nei contenuti, gli italiani rifuggono i dibattiti in tivù, percepiscono uno scarso agonismo tra programmi elettorali e si trascinano verso un voto stanco e incerto…
Il voto del 13 e 14 aprile potrebbe essere segnato da un astensionismo da primato, complici la noia e il torpore della campagna elettorale. Lo ha scritto Avvenire, lo ha confermato Aldo Grasso sul Corriere, lo pensano due accademici e osservatori della politica come Angelo Panebianco e Alessandro Campi.
Anestetizzati da una contesa sonnacchiosa e opaca nei contenuti, gli italiani rifuggono i dibattiti in tivù, percepiscono uno scarso agonismo tra programmi elettorali e si trascinano verso un voto stanco e incerto. Domenica scorsa lo ha scritto Avvenire; citando - con ironia - la soap opera intorno al duello televisivo tra Silvio Berlusconi e Walter Veltroni come il momento più elettrizzante dell'intera fiction elettorale: l'unico tema ad aver offerto ai quotidiani il brivido di una quasi notizia. "E' scontro sul duello" titolò Repubblica con (involontario?) gusto del paradosso. Persino Veltroni sembra essere d'accordo con l'idea di una campagna vuota, priva di attrattive, che sfugge alla realtà e ai problemi del paese. Il segretario del Pd ha raccolto con un gesto di assenso il giudizio critico di Avvenire, "sebbene - ha specificato - le osservazioni non coinvolgono direttamente me". Eppure c'è chi punta il dito proprio contro Veltroni e il favorito vincitore Berlusconi. "Sono in gara da anni, tutti loro: Fini, D'Alema, Fassino, Bossi, Veltroni e Berlusconi - dice il professor Campi – Non hanno più né lo slancio né la freschezza di chi è ancora capace di emozionarsi e di crederci".
Vota, vota, vota, ma la campagna elettorale è vuota. Così sul Corriere della Sera Aldo Grasso espone gli impietosi flop delle tribune elettorali, dei talk show, dei dibattiti politici. Il problema - dice il professore - è che i candidati non esprimono opinioni, non si espongono, "ma recitano un copione sempre uguale". Che annoia. Venerdì, per esempio, Matrix è stato il programma più visto. Ma solo perché non c'erano politici. Bensì, a commentare, erano invitati Edmondo Berselli e Nando Pagnoncelli. Dunque opinioni precise e sondaggi, quello che gli spettatori cercano con ansia. Volete sapere, qual è il momento più seguito di Ballarò? "L'incipit di Maurizio Crozza - rivela Grasso- Il giullare che può permettersi di dire qualcosa di significativo sulla politica. Dateci un punto di vista, per favore: questo chiede la gente": Ma insomma perché i leader non parlano chiaro, perché i politici non discutono? Campi dice che Pd e Pdl sono due soggetti talmente giovani da essere stati costretti a puntare tutto sulla presentazione dei nuovi marchi di fabbrica, a discapito dei contenuti: "Per usare un'espressione berlusconiana - dice - hanno dovuto imporre il brand. E dunque niente politica estera, niente temi sensibili, poca dialettica". Le caratteristiche della legge elettorale proporzionale (senza preferenze), poi, non stimolano la contrapposizione tra candidati. Specie nei collegi e sul territorio. Così, dove le elezioni politiche non coincidono con quelle amministrative, non si vedono neppure i manifesti elettorali, la propaganda, la pubblicità con i volti dei candidati in effige. "Non ci sono facce, non ci sono comizi, non ci sono dibattiti - prosegue Campi - nessun tipo di manifestazione tra candidati appartenenti a schieramenti contrapposti. Insomma non si percepisce il clima elettorale, ma trionfa un piattume sonnolento che corrisponde a una carenza progettuale". Deficienza della politica - dice Campi - ma colpa anche della legge elettorale. Panebianco - per esempio - ritiene positivo il carattere pacato ("non fracassone") di questa ultima competizione, ma aggiunge uno schiaffone al così detto porcellum. "Permette a molta gente di essere eletta senza mettersi veramente in gioco - spiega - E questo annulla la vivacità della competizione e offre una sensazione di vuoto, perché delega il dibattito alla sola parola dei leader". Ecco. Non è un caso che domenica, al Sistina di Roma, la risata più fragorosa che il pubblico ha regalato all'Edipo rivisitato da Enrico Brignano fosse per questa battuta: "La tragedia, Giocasta, non è quella del tuo figlio marito (che adesso s'è pure accecato). La vera tragedia è che nun sapemo per chi dovemo votà".
Il Foglio 01 aprile 2008


COME E PERCHE’ IL CORRIERE DELLA SERA HA “CENSURATO” MAGDI ALLAM… , di Antonio Socci
29.03.2008 Perché il Corriere della sera ha “censurato” Magdi Allam? Dico “censurato” con le virgolette perché si tratta “solo” di un taglio (circa un terzo) del suo articolo. Tuttavia stupisce scoprire che quella “lettera aperta al Direttore” sul suo battesimo amministrato dal Papa (un fatto che sta facendo il giro del mondo e sta suscitando un vespaio di polemiche), domenica scorsa non è stata pubblicata “nella sua versione integrale”, ma “solo parzialmente”, come lo stesso Allam segnala nel suo sito. Francamente sembra una gaffe storica, un incidente memorabile. Oltretutto la parte “omessa” è molto significativa (come vedremo) e avrebbe colorato diversamente l’evento. Cosa ha motivato la scelta del Corriere? Diranno che è stata solo una decisione tecnica, per la lunghezza dell’articolo. Ma è poco credibile perché normalmente sul Corriere escono articoli – assai meno importanti – di maggiore lunghezza. Faccio un esempio. L’articolo di Allam è lungo 7.800 battute. Se fosse stato pubblicato integrale sarebbe arrivato a 11.697.

Troppo? No. Proprio il 23 marzo, lo stesso giorno in cui non si è trovato lo spazio per pubblicare integralmente le 11 mila battute dell’eccezionale documento di Allam, il Corriere dedicava due intere pagine a un articolo di Alessandro Perissinotto su un delitto del 1958 per complessive 13.117 battute. Sinceramente non sembra che quel delitto (un uomo accoltellato nella bottega di un calzolaio) sia di grande attualità (è successo 50 anni fa) e sia oggi sulla bocca di tutti. Il caso non sta facendo il giro del mondo. Eppure ha avuto due pagine.

Nel filone delitti e misteri d’altronde il Corriere dedica abitualmente questo spazio a ciascun giallo (e sarebbe da studiare il motivo di questo dilagare della cronaca nera, anche in tv). Ricordo ancora due intere pagine riempite, il 22 dicembre scorso, da un articolo di Alessandro Piperno sul delitto di Perugia (in tutto 13.374 battute). Il pezzo non era precisamente di quelli che finiranno in un’antologia letteraria (per non dire delle ripetute paginate dedicate dal Corriere al volumetto di Sergio Luzzatto contro padre Pio).

Insomma, evocare l’eccessiva lunghezza per motivare il taglio dell’articolo del vicedirettore obiettivamente non è credibile. Anche perché la parte “omessa” è significativa e senza di essa la vicenda del giornalista assume un taglio diverso, che si presta a letture troppo politiche. Peraltro è curioso che il Corriere abbia chiamato due suoi editorialisti, Claudio Magris e Vittorio Messori (entrambi un po’ critici su quell’articolo di Allam), a commentare un testo uscito “parzialmente scremato”.

Ma cosa dice dunque la parte “censurata” dell’articolo reperibile sul sito del giornalista? E’ quella più personale e religiosa: senza di essa l’articolo ha accentuato l’aspetto politico e polemico. In quel brano oltretutto l’autore fa capire che la sua conversione non è avvenuta tanto (o soltanto) dall’islam al cattolicesimo, ma anche (e forse soprattutto) dall’ateismo occidentalizzante al cristianesimo.

Magdi racconta che la madre Safeya, musulmana praticante, “per il primo della serie di ‘casi’ che si riveleranno essere tutt’altro che fortuiti bensì parte integrante di un destino divino a cui tutti noi siamo assegnati – mi affidò (a quattro anni) alle cure amorevoli di suor Lavinia dell’Ordine dei Comboniani” (le religiose italiane erano presenti al Cairo con la loro opera).

Più avanti Magdi frequenta il collegio dei salesiani “che mi ha complessivamente trasmesso non solo la scienza del sapere ma soprattutto la coscienza dei valori”. Lì respira una mentalità per cui “la persona creata a immagine e somiglianza di Dio è chiamata a svolgere una missione che s’inserisce nel quadro di un disegno universale ed eterno volto alla risurrezione interiore dei singoli su questa terra e dell’insieme dell’umanità nel Giorno del Giudizio, che si fonda nella fede in Dio e nel primato dei valori, che si basa sul senso della responsabilità individuale e sul senso del dovere nei confronti della collettività”.

E’ grazie a questa “educazione cristiana” e a questa amicizia con dei religiosi cattolici “che io ho sempre ricercato la certezza della verità nei valori assoluti e universali”. Negli anni Sessanta sua madre lo avvicina all’Islam “che ho periodicamente praticato sul piano cultuale e a cui ho creduto sul piano spirituale secondo un’interpretazione che all’epoca corrispondeva sommariamente a una fede rispettosa della persona e tollerante nei confronti del prossimo”. Era l’Egitto di Nasser “dove prevaleva il principio laico della separazione della sfera religiosa da quella secolare”.

Infatti “del tutto laico era mio padre Mahmoud al pari di una maggioranza di egiziani che avevano l’Occidente come modello sul piano della libertà individuale, del costume sociale e delle mode culturali ed artistiche, anche se purtroppo il totalitarismo politico di Nasser e l’ideologia bellicosa del panarabismo che mirò all’eliminazione fisica di Israele portarono alla catastrofe l’Egitto e spianarono la strada alla riesumazione del panislamismo, all’ascesa al potere degli estremisti islamici e all’esplosione del terrorismo islamico globalizzato”.

Ma Magdi ricorda che gli anni passati fra i religiosi cattolici gli avevano fatto conoscere da vicino la Chiesa e sentire il fascino di Cristo: “Già da allora leggevo la Bibbia e i Vangeli ed ero particolarmente affascinato dalla figura umana e divina di Gesù. Ho avuto modo di assistere alla santa messa ed è anche capitato che, una sola volta, mi avvicinai all’altare e ricevetti la comunione. Fu un gesto che evidentemente segnalava la mia attrazione per il cristianesimo e la mia voglia di sentirmi parte della comunità religiosa cattolica”.

Ed ecco l’ultima confessione: “Successivamente, al mio arrivo in Italia all’inizio degli anni Settanta tra i fumi delle rivolte studentesche e le difficoltà all’integrazione, ho vissuto la stagione dell’ateismo sventolato come fede, che tuttavia si fondava anch’esso sul primato dei valori assoluti e universali. Non sono mai stato indifferente alla presenza di Dio anche se solo ora sento che il Dio dell’Amore, della Fede e della Ragione si concilia pienamente con il patrimonio di valori che si radicano in me”.

Questa pagina fa capire assai meglio il cammino di Magdi, che non è quello di un musulmano praticante, d’improvviso folgorato, che rinnega la precedente fede. E’ piuttosto la storia di un uomo del nostro tempo, che nella sua giovinezza ha vissuto forse più dentro le ideologie laiche occidentali, che non dentro l’arcaico mondo islamico. E poi ha scoperto Gesù.

Perché questo racconto è stato tagliato? E chi può “tagliare” in un giornale l’articolo di un vicedirettore? Forse questa pagina è stata ritenuta meno interessante perché non è politica, mentre resiste tuttora la mentalità sessantottina per cui “tutto è politica” e in fondo “la politica è tutto”. La religione interessa solo in quanto ha risvolti o ricadute politiche. Ma forse la vera notizia – più e prima dello scontro con l’Islam – è proprio questa capacità di attrazione di Gesù Cristo che anche oggi si manifesta pure con episodi clamorosi. Qualche mese fa c’è stata la conversione di Tony Blair. Nei giorni scorsi si è saputo che Mikhail Gorbacev è stato “sorpreso” mentre, nella Basilica di San Fracesco, ad Assisi, stava pregando intensamente con la figlia.

Certo se l’ultimo segretario del Pcus si fosse convertito quando era ancora al potere la notizia sarebbe stata esplosiva, ma il fatto in sé non resta stupefacente? E’ solo la punta dell’iceberg. Nonostante i limiti del mondo cattolico e un ceto ecclesiastico spesso scalcagnato, Cristo continua ad attrarre. Forse questo suo potere presente è più interessante da indagare – anche per i giornalisti laici – di quello dei politici. Forse è Lui la vera notizia?

Antonio Socci

Da “Libero” 27 marzo 2008


Pillola del giorno dopo Obiettori sotto tiro
Pisa, medici «accusati» da due donne

Avvenire, 2.4.2008
DA PISA ANDREA BERNARDINI
M edici obiettori di coscienza sotto attacco. Accade a Pisa, dove due ragazze in cerca di un camice bianco pronto a prescri­vere loro una confezione di Norlevo, meglio conosciuta come la pillola del giorno dopo, hanno dovuto faticare qualche ora per trovarlo. Secondo quanto riportato dal quotidiano «Il Tirreno», una di loro si sarebbe reca­ta a notte fonda insieme al fidanza­to alla guardia medica del villaggio «I Passi», dove però i due non avreb­bero trovato nessuno, bensì un car­tello che recitava «non si prescrive la pillola del giorno dopo. Entro 72 ore (la pillola, per avere l’effetto sperato, deve essere infatti assunto entro le 72 ore dall’atto sessuale, ndr) rivol­gersi al medico curante, privato, con­sultorio, pronto soccorso»; la ricerca sarebbe proseguita, appunto, al pronto soccorso dove però sarebbe stata ricevuta da un medico alle 6 del mattino, qualche ora dopo. Del tut­to normale, ribattono al «Santa Chia­ra »: la prestazione rientra tra i codi­ci bianchi e dunque, se la paziente si presenta di notte, quando l’ambula­torio dei codici bianchi è chiuso, bi­sogna attendere che vengano smal­tite le urgenze del pronto soccorso.
L’altra ragazza racconta invece di es­sersi recata direttamente al pronto soccorso, ma di non aver saputo a­spettare né di aver avuto soddisfa­zione dalla guardia medica; finché, per prendere in fretta la pillola – se­condo la ricostruzione del «Tirreno», l’amica avrebbe tirato giù dal letto il parente medico che le avrebbe pre­scritto il Norlevo. «Non ci risulta – si legge in una nota della Azienda Usl 5 che ha avviato un’inchiesta inter­na sul comportamento delle guardie mediche che mira ad accertare l’e­satto svolgimento dei fatti – la don­na è arrivata alle 18 del pomeriggio e, codice bianco, ha ricevuto a tem­po debito la pillola in ospedale».
La vicenda ripropone la questione: l’obiezione di coscienza è applicabi­le anche alla «pillola del giorno do­po »? Secondo Giuseppe Figlini, pre­sidente dell’Ordine provinciale dei medici di Pisa il Norlevo «è un anti­concezionale e come tale va pre­scritto, sempre. In questo caso ap­pellarsi all’obiezione di coscienza non si può». Non ne sono affatto con­vinti i medici dell’associazione «Scienza&Vita» di Pisa e Livorno: «Il meccanismo d’azione di Norlevo – spiega Renzo Puccetti – non è cono­sciuto con precisione, come am­mette la ditta produttrice nel bu­giardino. Ciò che si sa con precisio­ne è che con l’uso di questa pillola a ovulazione avvenuta – quindi a zi­gote già formato nel caso sia avve­nuta una fecondazione – l’embrione potrebbe non riuscire a impiantarsi nella mucosa uterina. E l’azione an­ti- nidatoria del farmaco pone pro­blemi etici a un gran numero di me­dici ».
Del resto il Comitato nazionale per la bioetica ha stabilito il diritto del me­dico ad appellarsi alla clausola di co­scienza. Che – ha stabilito la Federa­zione nazionale degli ordini dei me­dici – è assimilabile al diritto all’o­biezione di coscienza stabilita dalla 194. «Quindi, quando il medico si è dichiarato obiettore dopo l’atto di i­scrizione all’Ordine, è a posto e nul­l’altro dovrebbe dichiarare alla a­zienda sanitaria». Scienza&Vita si di­ce preoccupata del «clima intimida­torio che sta montando intorno ai medici obiettori. La donna che chie­de la pillola abortiva ha diritto di es­sere accolta, visitata e informata. Ma non può pretendere che un medico agisca contro la sua coscienza».