Nella rassegna stampa di oggi:
1) Un errore emarginare i cattolici dalla politica
2) Christ our hope – nostra speranza
3) Il caso Formigoni raccontato dall’interno, dalle viscere - Versione integrale - Il governatore intrappolato dalla prepotenza leghista e dalle astuzie del Cav. (storia inquieta di una leadership cattolica)
4) «Così do un nome alle vittime dei Gulag»
Un errore emarginare i cattolici dalla politica
IlSussidiario.net
Giorgio Vittadini28/04/2008
Autore(i): Giorgio Vittadini. Pubblicato il 28/04/2008 - Letto 157
Il Papa, nell’omelia di domenica 20 aprile allo Yankee Stadium di New York, è tornato a sottolineare il grande contributo che i cattolici possono dare alla costruzione della vita pubblica e del bene comune. "In questa terra di libertà e di opportunità, la Chiesa ha unito greggi molto diversi nella professione di fede e, attraverso le sue molte opere educative, caritative e sociali, ha contribuito in modo significativo anche alla crescita della società americana nel suo insieme… In questa terra di libertà religiosa i cattolici hanno trovato non soltanto la libertà di praticare la propria fede, ma anche di partecipare pienamente alla vita civile, recando con sé le proprie convinzioni morali nella pubblica arena, cooperando con i vicini nel forgiare una vibrante società democratica".
L’apporto dei cattolici alla vita pubblica non è difesa corporativa di interessi particolari, ma è possibilità di costruire opere che rispondano al desiderio non ridotto di tutti gli uomini e di concepire una politica che sia fatta per la difesa e lo sviluppo di questa operatività sociale e quindi per un incremento del bene comune. E’ lo stesso tema toccato nell’intervento del cardinale Scola in Università Cattolica nell’incontro promosso giovedì 18 aprile dalla Fondazione Europa e Civiltà sul concetto di laicità. E' un tema di stretta attualità, anche politica, perché i cattolici rischiano di essere emarginati dalla vita politica italiana. Nello schieramento di centro sinistra l'indifferenza e, in certi casi, l'ostilità verso i principi non negoziabili ha emarginato contenuti e persone di orientamento cattolico. Il centro si pone in alternativa rispetto allo schieramento, più che per il contenuto originale. Il centro destra può correre il rischio di privilegiare le sue componenti più “muscolari” non valorizzando chi, proprio in nome di una esperienza cattolica, ha mostrato esempi di buongoverno. Tuttavia, se questo avvenisse, ci perderebbe di più proprio chi potrebbe avvalersi di questo apporto. Se si consolidasse questa tendenza, sarebbe sempre più fragile e vecchia la politica italiana nel suo complesso, come dimostra la crisi dei partiti di centro destra ormai culturalmente laicisti come il Partito popolare spagnolo.
L’emarginazione dei cattolici dalla politica non sarebbe tuttavia il male peggiore. Infatti, più che un potere non intelligente ciò che sarebbe negativo è, nel lungo periodo, la perdita di originalità, quella che ha reso certi cattolici insipidi e clientelari ai tempi della DC, altri, cattocomunisti, ridotti a stampella morale della sinistra, e altri ancora, liberisti senza spessore nel centro destra. Se, invece, pur di fronte a un potere che non dà spazio, si continua a costruire in laboratori locali in collaborazione con altre realtà culturali e politiche mosse dalla sussidiarietà, dal rispetto della persona, dalla ricerca del bene comune, in stretta connessione e al servizio di realtà sociali, produttive, movimenti, luoghi di creazione di un nuovo sapere, il tempo giocherà a favore. L'esempio virtuoso delle aree più sviluppate del Paese e una nuova classe di politici idealmente motivati potrà contribuire a risolvere la grave crisi del Paese che nessun mediocre yes man potrà risolvere.
Christ our hope – nostra speranza
Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
domenica 27 aprile 2008
Sono tante le immagini rimaste in cuore di questo bellissimo viaggio del Papa in terra americana. Dall’inginocchiatoio bianco nel silenzio carico della presenza del “Dio dell’amore, della compassione e della riconciliazione” invocato a Ground Zero, all’agitarsi commosso delle folle nei due stadi che hanno ospitato le celebrazioni liturgiche, ai 3000 delegati dell’ONU in piedi ad applaudire il suo discorso. Benedetto XVI non ha tradito nessuna delle aspettative che potevano riversarsi su questo viaggio ma ancora una volta le ha superate. Umile e determinato, ha abbracciato con lo sguardo della sua fede i problemi e gli scandali vissuti dalla Chiesa. “È nel contesto della speranza nata dall’amore e dalla fedeltà di Dio che io prendo atto del dolore che la Chiesa in America ha provato come conseguenza dell’abuso sessuale di minorenni”, ha detto a Washington nell’omelia, davanti a 50.000 persone. Ha ribadito che solo l’amore di Dio può sanare le ferite, ha incoraggiato chi ha compiuto e compie grandi sforzi per affrontare questa tragica situazione, per proteggere i bambini “che sono il nostro tesoro più grande”. Nessuna paura di fronte al male ma la certezza che è già stato sconfitto. Ai giovani e ai seminaristi a New York ha parlato delle tenebre che si oppongono alla speranza. La droga, la violenza, la povertà e la degradazione “che hanno in comune un atteggiamento mentale avvelenato che si manifesta nel trattare le persone come oggetti, che porta a deridere la dignità data da Dio ad ogni persona umana”. O le tenebre frutto di una manipolazione della verità che distorce la nostra percezione della realtà. Il Papa invita i giovani a riflettere: “avete notato quanto spesso la rivendicazione della libertà viene fatta senza mai fare riferimento alla verità della persona umana?” E spiega, questo papa non più giovane che conosce la giovinezza del cuore, quella della preghiera che il sacerdote recitava salendo all’altare, “al Dio che allieta la mia giovinezza”. Spiega loro il relativismo che considera la verità fonte di divisioni, che svincola la libertà dalla coscienza. La verità “è la scoperta di Uno che non tradisce mai, di Uno di cui possiamo fidarci sempre. È una persona: Gesù Cristo. Per questo la libertà è una scelta di impegno”. Ed è un grande impegno quello chiesto all’ ONU. Ha ancorato i diritti umani alla legge naturale scritta nei cuori “ e presente nelle diverse culture e civiltà”, superiore ai diritti positivi e alle leggi dei singoli stati. I diritti “si applicano ad ognuno in virtù della comune origine della persona, la quale rimane il punto più alto del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia.” Universalità dei diritti e della persona, “soggetto di questi diritti”. Promuovere i diritti umani è per il Papa la strategia migliore per rimuovere le diseguaglianze. Infine un’indicazione: “il rinnovamento della chiesa in America e nel mondo dipende dal rinnovamento della prassi della penitenza e dalla crescita nella santità: ambedue vengono ispirate e realizzate da questo Sacramento” (Washington, omelia al National Stadium).
27 aprile 2008
Tempi lombardi
Il caso Formigoni raccontato dall’interno, dalle viscere - Versione integrale - Il governatore intrappolato dalla prepotenza leghista e dalle astuzie del Cav. (storia inquieta di una leadership cattolica)
La Lega, a oggi, non è la soluzione, ma parte del problema Nord. Nonostante il suo notevole radicamento e un personale politico in crescendo, la sua specializzazione nella difesa del territorio, il suo etnocentrismo, il suo colorito e franco linguaggio, la sua lotta all’immigrazione e i muscoli delle ronde e guardie padane, tutto ciò è anche il suo limite. In realtà il fenomeno leghista non ha nulla della storica svolta thatcheriana e reaganiana. E’ stata la pazzesca politica antinordista di Vincenzo Visco e Giuliano Amato, oltre che l’astuzia strategica di Umberto Bossi, la sua sincera identificazione di leader tra il popolo e per il popolo, a rompere la diga che conteneva il perenne malumore zittito dal tirare la carretta tanto dell’operaio quanto del piccolo e medio imprenditore lombardo-veneto. Parla come mangia, il Senatur, e i sui più grandi alleati sono stati Romano Prodi, il cattolicesimo disincarnato e, al di là delle buona fede, devastante per la vita, di quell’eroe della zona grigia che è il cardinale Carlo Maria Martini. Il quale ha guidato una diocesi – la più grande del mondo – dove il concetto di Benedetto XVI, che tra fede e vita, fede e politica non ci può essere dicotomia, è corso nel sangue delle sue genti per secoli, prima di essere snobbato per più di vent’anni da un’impostazione pastorale che nemmeno Karl Barth avrebbe condiviso. Arrivando poi il cardinale Dionigi Tettamanzi, né più e né meno, a ereditare l’identitico retroterra curiale, oggi responsabile di scelte inopinate, come quella di radicare i seminari nella sociologia e nella parola, fumogeni di una storia che, basta leggere le memorie del cardinale Giacomo Biffi, non lascia né passato dietro di sé, né prepara un futuro davanti.
Una cosa giusta l’ha detta Adriano Sofri – di cui non condivido quasi niente del suo estatico pensiero e la strana sonorità femminile espressi in una lingua sfavillante e microparticolarissima – l’idea, mi metteva in guardia Adriano in un lontano colloquio in carcere, della protestatizzazione avanzante col leghismo. “Mi pare che i leghisti peschino esattamente nelle parrocchie, in quel tipo umano lì. State attenti è il contrario del cattolicesimo giussaniano e non faranno del bene all’Italia”. E infatti le parrocchie lombarde, in cui s’è diffuso il verbo martiniano e che in questi vent’anni hanno continuato a produrre quel genere di prete moralista e innocuo, poco pratico di gioventù e senz’altro più attivo nella pubblicistica, sono oggi profondamente divise. Tra il declinante cattolico buonista e l’incazzato leghista. Figure di un medesimo equivoco e, soprattutto, della debolezza di un pensiero che, grazie al cardinale Camillo Ruini, per esempio, non ha influenzato il cattolico capitolino, nemmeno nelle sue punte, vedi Sant’Egidio, apparentemente più legate alla teologia martiniana. Ne ha ben donde però il parrocchiano. Dopo che sentì parlare per anni di un Gesù da papiro egizio e di poveri come trauma universale, adesso che ci si accorge che pure i poveri, nel loro piccolo, non sono né angeli né creature in cui si specchia il nostro narcisismo, ma possono essere demoni e abbassarsi alla disumanità come noi; adesso che almeno si capisce un po’ di più perché Gesù diceva: “I poveri li avrete sempre con voi”, adesso che i poveri sono rom o albanesi, i parrocchiani passano di punto in bianco dalla Caritas di don Virgilio Colmegna alle guardie padane di Bossi.
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Il Veneto è più ruspante, ma comunque collegato all’esperienza del cattolicesimo lombardo. Ce lo ha spiegato con intelligenza storica il notaio Giuseppe Camadini, quando ad esempio con la Cattolica Assicurazioni, alla fine del Diciottesimo secolo per una volta lombardo-veneti ed emiliano-romagnoli fecero insieme. Anche oggi questo sodalizio tra lombardi e veneti prosegue. Fatto salvo che il centro rimane Milano, non Venezia. I veneti hanno quel più di inventiva e laboriosità. Piantano capannoni in capo alla campagna più remota e ci producono cose che arrivano alla Nasa. Ne sappiamo qualcosa noi di Tempi che ogni settimana raccontiamo l’Italia che lavora. Ma la Lombardia, a cominciare da Brescia, rimane il centro del motore di sviluppo. Se adesso, come ci diceva un grande imprenditore padovano, c’è un treno che in novanta minuti collega a Milano, senza fermate intermedie, è normale che le aziende lascino le attività produttive in loco e trasferiscano i quartieri generali, marketing, commerciale, sviluppo qui a Milano. Ancor di più nella prospettiva dell’Expo 2015 e delle grandi opere infrastrutturali previste.
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Per venire al caso Formigoni. Tatticamente parlando è tutto chiaro. Conviene a Silvio Berlusocni non lasciare sguarnita la castellanìa che domina il paesaggio italiano e che rappresenta la sua personale ricchezza. Conviene alla Lega aspettare che si liberi il posto di governatore e non provocare elezioni anticipate. Politicamente parlando invece, non è da poco non portare a Roma l’unico protagonista della novità che è andata avanti sotto i bombardamenti di tangentopoli e che ha costitutivo un modello straordinario. Se fosse uno stato indipendente la Lombardia avrebbe le sue belle dimensioni. Altro che Slovacchia o Slovenia. Sarebbe il numero otto in Europa per popolazione e superficie. E darebbe la birra a parecchi in termini di produzione, servizi eccetera. Dunque Berlusconi avrebbe bisogno come il pane di un’esperienza così. Con tutto il rispetto per gli Angelino Alfano e gli Elio Vito, non ne ha un altro, così che gli porterebbe in dote un’esperienza di amministrazione movimentista che è di lungo corso. Giustamente è stato detto che Roberto Formigoni ha sessant’anni ed era troppo giovane per i tempi della Dc; per il Pdl, tra tre anni potrebbe essere troppo vecchio. Non solo, la delusione covata nell’animo potrebbe amareggiarlo e sospingerlo a diventare, con tutto il rispetto, un Galan qualsiasi. Non vogliamo apparire, come dice quel giornale un po’ troppo fricchettone che è Libero, copertura di Roberto. Gli siamo amici da trent’anni, personalmente amici, che non esiste apparire cortigiani (per di più a Libero dovrebbero essere più precisi quando confondono Antonio Intiglietta con Massimo Ferlini) che lo coprono. In un nostro calcolo egoistico – sentito fare da tanti amici professionisti che sono la base sociale e, al tempo stesso, la base operativa del miracolo lombardo, ci sta assolutamente bene che Formigoni rimanga al suo posto. Eviteremo di fare i conti con i metodi spicci della Lega e, con buona pace di Bossi, con la sua aggressiva politica di occupazione delle poltrone a cui corrisponde, talvolta e anche spesso, un legame non molto sano con il capo. A un cenno del quale, come un leader barbarico, si annientano carriere e si alzano sugli scudi bottini e teste (chiedete ad Alessandro Cè, ad Alberto Brambilla o a Domenico Comino che fine si fa, dalle stelle alle stalle). Dunque non è una bella prospettiva mettersi nelle mani di un partito ubriaco dei propri successi e, come dice Sofri, protestante e tendenzialmente anticattolico. E sostanzialmente astuto ma che dovrebbe sgonfiarsi una volta che l’emergenza sicurezza e immigrati dovesse rientrare. La Lega, infatti è un fenomeno, di per sé positivo, che urge alla modernizzazione del paese. Una volta raggiunto il federalismo fiscale rimarrebbero due strade: o quella della liberazione delle energie della società, la sussidiarietà, una democrazia più matura, all’americana; o, pericolo non da escludere, il rischio di un indurimento dirigista statalista, questa volta non più sotto il tallone di Roma, come piace dire ai leghisti, ma sotto il tallone di sindaci e amministratori dell’ideologia etnocentrica. Il che sarebbe addirittura peggio. Perché, come sanno gli imprenditori del Nord, fino a che Roma è lontana, poco male. Non è la lontananza o l’indifferenza di Roma che ha fatto perdere la sinistra. E’ che, con Prodi e Visco, Roma è apparsa per la prima volta ostile. E’ questo che ha fatto vincere il leghismo. Ora, aspettandosi un ritorno alla normalizzazione e considerato che alla sinistra occorrerano dei begli anni per capire che cosa è successo (Filippo Penati è bravo, ma, come si vede, Walter Veltroni da questo orecchio proprio non ci sente), Bossi che non è fesso avrà capito che deve radicarsi nelle istituzioni e che solo così il suo movimento avrà un futuro. Cosa non facile. Primo perché essendo la Lega un fenomeno politico per eccellenza, fondato sul carisma del capo, la guerra e la distribuzione del bottino, come direbbe Gianfranco Miglio, che le diede manforte ideologica e da cui Bossi deve aver imparato molto. In realtà poi Miglio si disse deluso da Cl perché pensava che fosse proprio il movimento di don Giussani la vera lega del nord. “Avete un’educazione e una cultura di livello. Sapete stare al mondo. Siete ortodossi e la chiesa vi riconoscerà presto come suoi figli prediletti. Vedo per voi un futuro di classe dirigente e avanguardie che, superata la Dc, guideranno l’Italia. Però dovete entrare in politica e dare battaglia”. Su questo si ruppe il rapporto con don Giussani. Poiché il prete di Desio pur comprendendo bene l’urgenza e pur essendo stato lui il primo che negli anni Sessanta raccomandava ai suoi di farsi strada nella politica e segnalandoli ad Amintore Fanfani (anni Sessanta) piuttosto che ad Aldo Moro (anni Settanta), non acconsentì mai che il caso Formigoni divenisse norma.
Formigoni veniva da lontano, se l’era trovato come vocazione acquisita. Aveva studiato alla Sorbona e nei primi anni Settanta aveva dato vita all’organizzazione di base utopico-politica del movimento. La sua prima foto pubblica – e non so se questo è uno scoop – lo ritrae in conferenza stampa (1972) in un posto sconosciuto in compagnia di quelli che diventeranno i maggiori gruppi terroristici europei. Ira, Eta e separatisti di tutta Europa convenuti. Formigoni era l’unico a non essere incappucciato. Era fratello di sangue di Sante Bagnoli, l’editore simil Feltrinelli che ha stampato il primo libro (“Noi accusiamo”, Vincenzo Nardella) che già nel gennaio 1970, tre mesi dopo piazza Fontana, parlava di strage di stato; che aveva rapporti unici, come nessuno allora al mondo, con i baathisti di Saddam Hussein e il libico Gheddafi, con l’Mpla angolano e Kim il Sung in Corea del Nord, con Fidel Castro e i Tupamaros. Insomma Formigoni era un antiamericano di primo pelo, che volantinava contro l’agente dell’imperialismo Henry Kissinger e con Nicola Zitara parlava del colonialismo piemontese al Sud. Insomma un caposcuola di tutto l’internazionalismo, che faceva impallidire i cretinetti di Mario Capanna, ancorché nelle manifestazione del primo maggio aggredissero noi di Cl. Per non parlare degli autonomi che facevano piangere al Palalido Francesco De Gregori ma anche il nostro Alan Stivell, cantautore nordirlandese. Dunque se la Cia mise qualche zampino, non lo mise certo per il movimento a cui apparteneva Formigoni, ma, forse, per altri movimenti a lui ostili. In effetti si seppe dopo che non la Cia, ma forse il Kgb era implicato nella campagna di delegittimazione e attacco a Cl. Sì, perché l’internazionalismo formigoniano non era affatto monodimensionale, era davvero libertario. E, fatta evidentemente salva la buona fede, non frequentò il marxismo rivoluzionario se non per superarlo a sinistra, come si vede dall’enorme ingaggio che ebbe con la dissidenza dell’Est Europa ben prima che ci arrivassero i socialisti italiani assieme a quelli francesi e ai nouveau filosophe parigini di stampo solgenitziano. Vaclav Havel (futuro presidente cecoslovacco) fu pubblicato e aiutato da Cl. Così la rivoluzione di Solidarnosc ebbe in Cl un valido apporto (ancorché poi Giovanni Paolo II si mise in prima linea). E se il Papa polacco venne a Rimini e si prese la briga di sdoganare defintitivamente Cl, se poi a lui seguì Lech Walesa, sempre al Meeting di Rimini, è perché entrambi riconobbero in Cl una possente forza cattolica (forse l’unica) che aveva capito “Il potere dei senza potere” (così si intitolava il libro di Havel). Capito e dato manforte, fatto circolare i libri, aiutato le persone, accolto i figli in fuga.
Formigoni viene da quel lungo apprendistato in trincea, sulle piazze, nella guerra ideologica e delle manifestazioni. E’ vero che don Giussani rientrò di corsa alla guida di Cl dopo che Formigoni e Angelo Scola l’avevavano guidata per un buon triennio (tra il 31 marzo 1973, giorno di nascita ufficiale della sigla Comunione e liberazione al Palalido di Milano, in prima fila c’era Aldo Moro, e il 1976, giorni di lutto e guerra civile). Vi rientrò perché pur riconoscendo a quei due la stoffa dei leader (Scola è l’attuale Patriarca di Venezia) e valorizzandone l’apporto di intelligenza e generosità, vi aveva scorto una pratica deriva verso la politica. Pose la questione della presenza contro l’utopia, piantò i suoi giovani “islamici” nelle scuole e nelle università contribuendo a salvare la democrazia in Italia (i soliti Bocca e Scalfari ci odiano da allora) e gridò alle gerarchie la richiesta di una copertura. Paolo VI ebbe parole di conforto e stese il suo manto. Intanto il cattolicesimo progressista si faceva dirigere e digerire dal Pci e cominciava la lunga parabola del cattolicesimo democratico, che si concluderà il 15 aprile 2008 (non si dimenticherà mai che i giovani aclisti intervenivano nelle assemblee per fiancheggiare l’estremismo di sinistra e ci fu almeno un caso, il mio all’istituto Ettore Molinari di Milano, dove i ciellini vennero stesi a cazzotti, a dozzine contro due, proprio sull’onda dell’interveto di un giovane aclino che vendette i suoi confratelli per “fascisti” durante una tumultuosa assemblea).
Ecco, in quegli anni don Giussani imprimerà a Cl una rotta diversa da quella dell’oggi cardinal Scola e dell’oggi governatore Formigoni, ma i due rimasero suoi prediletti. E da allora non ci fu incoerenza o critica che potesse essere mossa a Formigoni che non trovasse don Giussani schierato a difesa totale del “nostro Roberto”.
Dunque Formigoni fu un lusso per la Dc. Un lusso per il Parlamento europeo di cui divenne vicepresidente negli anni Ottanta e che lo vide protagonista fino alla prima guerra del Golfo di Bush senior, con la famosa vicenda degli ostaggi che lui andò a recuperare a Baghdad grazie alle amicizie che aveva da un ventennio. Altro che Oil for food. Pensare che ci fosse un sottofondo di interesse bieco, questo lo lasciamo dire a certi americani. Quelli che, in effetti, come il buon Kissinger, conoscono a menadito la doppiezza nel fare il mestiere. O è forse un caso che durante la prima guerra del Golfo gli americani si siano fermati sotto il 33° parallelo e non siano entrati a Baghdad per spodestare il tiranno? Scrissi allora un pezzo per il Sabato, dopo un viaggio di Natale e Capodanno tra Baghdad e Bassora, che c’era sì la fame, l’embargo, le malattie e la mancanza di medicine. Ma la Baghdad in cui i dollari e il lusso si sprecavano, la Baghdad ricca dei commercianti e della casta militare, delle lunghe file di camion che violavano l’embargo Onu e che avevo visto con occhi miei alla frontiera tra Iraq e Giordania, non la raccontava troppo giusta sull’inimicizia radicale tra Bush I e Saddam. Doveva essere successo qualcosa tra la garanzia kissingeriana a Saddam e la successiva risolutezza bushiana, E’ un fatto comunque che si è resa necessaria una seconda guerra. Quando, giusta o non giusta, ne sarebbe bastata una sola per spazzare via il dittatore.
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Conclusa la Prima Repubblica nel modo barbaro e manomesso com’è s’è conclusa (e Veltroni è ancora lì a onorare a Tonino Di Pietro una cambiale che invece sarebbe dovuta scadere da un pezzo, dopo quello che si è visto dal 1996 ad oggi), Formigoni partecipa al drammatico de profundis della Dc, transitata dall’ultimo segretario, Mino Martinazzoli, non proprio un tulipano, in due tronconi cattolicodemocratico, o cattocomunista come dice il volgo, e doroteo (Cdu), col povero Rocco Buttiglione che inciampa nella conta delle tessere e via via negli spezzettamenti successivi. Poi Formigoni si affrancherà anche dall’amico Rocco per approdare al vecchio amico Berlusconi, ora sceso in politica.
Qui si dovrebbe aprire la lunga parentesi. In raltà i due si conoscono e si stimano da almeno trentadue anni. Fu Berlusconi che finanziò il primo Sabato, che diede spazio e strumenti al Movimento popolare, che ebbe con Formigoni un’immediata simpatia e consentaneità per il suo impegno politico. Quando Berlusconi scese in campo fu normale che Formigoni guardasse lui. Da lì cominciarono gli anni di presidenza della Lombardia. Non un accrocchio di potere come il giornalismo interessato e sciacquino racconta. Non per piazzare i propri uomini dappertutto. Non per costruire la roccaforte dei dollari. Fosse stato così oggi di ciellini in politica sarebbe piena l’Italia. E invece no. Come sa tutta la burocrazia, al Pirellone Formigoni non inaugurò lo spoyls sistem. Né fu una continuazione con altre armi della politica democristiana che ebbe in Bruno Tabacci, ultimo presidente dc al pirellone, l’epilogo più trasformista e intruppato col potere reale. No, di Formigoni tutti possono ricordare che prospettò chiaramente alla sua burocrazia, fosse di Rifondazione o fascista, che il suo metodo erano i risultati per il bene comune. Chi lavorava avrebbe preso di più. Chi no si sarebbe convinto che quello non era il suo posto. E così accadde. Formigoni ha ridotto la burocrazia della regione Lombardia da 6.000 a 3.500 dipendenti. Ha fatto questo e quello. Non stiamo qui a ripetere, dovremmo citarvi gli ultimi venti numeri di Tempi. Ha fatto grande la Lombardia, con cose che non esistono neanche in Svezia, il buono e la dote scuola, per esempio. Il mix statale privato sociale non solo in sanità, ma anche nell’assistenza degli anziani. Tante cose, insomma, non con colpi di mano o brusche rivoluzioni. Ma con la paziente tessitura di un dialogo e con un fondamentale amore e buon umore come metodo di lavoro. Con dimensioni non politichesi strette, di tessere e coagulo di clientele (come a tutt’oggi funziona qualunque ente, comune, provincia e regione italiana), ma portando la positività di un lavoro.
Non sono certo tutte rose e fiori dal 1994 a oggi. Non è vero che Formigoni è il cavaliere senza macchia e senza paura. Ha i suoi limiti, come una certa propensione al fighettismo, o un certo limite lecchese di freddezza nei rapporti, o certa sua generosità che poi viene riempita di calcolo altrui. O il non aver ampliato la cerchia degli amici fidandosi non soltanto dei coscritti. I suoi limiti ci sono tutti. Però è anche simbolo di un’impresa, dello sviluppo e della maturazione in senso moderno, sussidiario, non grettamente imitatore dello stile City applicato all’amministrazione di cui una volta si vantarono gli yuppisti falliti degli anni Ottanta e in cui oggi ricascano i sostenitori acritici di un modello per cui se non hai studiato alla Columbia o alla London School, non puoi mica fare le riforme che necessitano al paese. In questo Formigoni si differenzia dal processo di crescita del partito di Bossi, venuto su dal varesotto e dalle valli bergamasche in perfetto stile comunista (come d’altronde era Bossi prima di inventarsi la Lega) e venuto su con ostinazione e tenacia, grazie anche al contributo di visione del già citato Miglio.
Ci fu un momento, come dicevamo, in cui Miglio vide bene che Lega e Cl si fondessero insieme, almeno sul versante dell’impresa politica, almeno per salvare il salvabile della Dc agonizzante e venduta a Eugenio Scalfari da Ciriaco De Mita. Ma il risoluto diniego di don Giussani e, certamente, l’indifferenza totale di Bossi (che la cattolicità a lui dice tutt’al più lo schema Federico Barbarossa alleato col Papa romano) non se ne fece niente. A tal punto che la Lega, anzi prese una strada che la portò prima verso l’invenzione (a mo’ dei baschi) delle radici mitico-celtiche e all’adorazione del dio Po, e poi, visto che la realtà è testarda e Bossi capisce al volo l’antifona, a una svolta più ragionevole. Quella che ha fatto resistere Lega durante gli anni del dopo ribaltone, mantenere le sedi con militanza tenace e, alla fine della traversata nel deserto in cui già si vedeva tramontare all’orizzonte come l’ultimo ciack, fare bingo con lo sprovveduto e afasico governo Prodi. Un governo che sembrava fatto apposta per reinventersi il leghismo e, come avvertirono inutilmente i libri di Ricolfi, Illy e Diamanti, per perdere definitivamente il Nord Italia.
C’è stato un epilogo interessante nella lunga cavalcata formigoniana che ora sembra fermarsi ad Arcore. Ed è la vicenda della lista Ferrara. Che come ha ricordato il direttore del Foglio è stata lì lì per diventare una lista vera, non con una sigla dura e incomprensibile all’elettore d’oggi (come s’è visto) di un “Aborto? No, grazie”. Come ha scritto Ferrara, se Formigoni avesse confermato la sua implicazione, come sulle prime aveva fatto, chiaramente la lista si sarebbe allargata ad altre tematiche e avrebbe avuto i connotati anche grafico-simbolici di una formazione pro life liberale movimentista, inclusiva di tematiche che vanno dall’aborto, appunto, alla sussidiarietà, alla scuola eccetera. Insomma nel segno di un riformismo illuminato e libero dalle vischiosità vecchie e clientelari dell’ultima sfortunata e accattona Udc. Sarebbe stata allora una formazione che, Formigoni leader e Ferrara ideologo e speaker, avrebbe potuto mietere consensi non irrilevanti, almeno così pensiamo, e con cui certamente Berlusconi non avrebbe potuto evitare di apparentarsi. Vi immaginate allora un Pdl vincente apparentato con Lega e una Lista ForFe? Crediamo che certamente in Lombardia (ma anche in Veneto) avrebbe ridimensionato il successo della Lega e avrebbe dato oggi a Formigoni uno strumento di formidabile pressione (non diciamo di ricatto perché i due si vogliono troppo bene) sul Berlusconi. Ma siccome il Cavaliere è l’uomo più brillante e furbo che c’è, insieme a quell’astuto di Bossi si sono messi a brindare per l’ennesima volta sullo scalpo del governatore (la prima volta fu tre anni fa, quando in occasione delle elezioni per il rinnovo del suo quarto mandato in Lombardia, Formigoni si vide dire no al suo listino riformista che, legato al suo nome, prometteva di allargare la maggioranza della regione ai riformisti di sinistra).
Cosa fatta, capo ha. Sfumata l’occasione ora Formigoni si ritrova senza sue truppe e, come dice la Bibbia, con il passato steso davanti ai suoi occhi. Non ha perduto nulla, in verità. Ha sessant’anni e Berlusconi settantuno. I suoi concorrenti possono essere quanto di più giovane possa esistere, ma una leadership non ce la si inventa dal nulla. Non si inventa la trincea, i paesi baschi, i tupamaros, Saddam, Kissinger, la vicepresidenza del Parlamento europeo, un movimento di persone e la maggioranza dei lombardi che ti riconosce come sua guida, e ti vuole bene. Bisogna tenere la barra diritta e, forse, solo limare un po’ il carattere fighettista. Gli attributi ci sono, gli amici pure. Se scende un attimo dal palco della storia e si arrischia di imbossire un po’, vedrete che non ce ne sarà per nessuno. Dopo Berlusconi, a Dio e alla Fortuna piacendo, c’è solo il ragazzo di Lecco.
di Luigi Amicone
«Così do un nome alle vittime dei Gulag»
Intervista ad Anatolij Razumov, l’uomo che in vent’anni di ricerche ha raccolto e documentato i casi di due milioni e mezzo di persone stritolate dalla repressione stalinista…
«Avrei voluto chiamarle tutte per nome». Questo verso di Anna Achmatova, riferito alle vittime del regime sovietico, probabilmente è scolpito a caratteri cubitali nel cuore di Anatolij Razumov, direttore del Centro «Nomi restituiti» di San Pietroburgo e animatore del cimitero-memoriale di Levašovo. In quasi vent’anni di ricerche ha raccolto e documentato - praticamente da solo - i casi di due milioni e mezzo di persone stritolate dagli ingranaggi della macchina repressiva. Un’impresa immane: tutte queste storie sono confluite in otto «volumi della memoria» (ma il progetto prevede di arrivare a quindici entro i prossimi anni), ognuno dei quali conta quasi mille pagine. Non è un caso se recentemente Solgenicyn, preparando una nuova edizione del suo Arcipelago Gulag con l’aggiunta (per la prima volta) dell’indice dei nomi, si è rivolto proprio a Razumov. Col materiale da lui raccolto è stato lanciato anche un vero e proprio «libro elettronico della memoria», consultabile sul sito «Nomi restituiti» (www.vi.krsk.ru, purtroppo per ora solo in russo), che in tre anni ha visto triplicare il numero di visitatori.
Nei giorni scorsi Anatolij Razumov era in Italia per un ciclo di incontri e convegni sulla memoria dei Giusti, invitato dallo scrittore Gabriele Nissim. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare che cosa lo spinge oggi, in una Russia che vede il proprio passato come un pericoloso scheletro nell’armadio, a combattere perché la memoria rimanga viva.
Che cosa l’ha portata a questo progetto?
«Fin da giovane mi ha sempre appassionato la storia del periodo sovietico. Pur essendo originario della Bielorussia, ho voluto trasferirmi nel 1972 a Leningrado per frequentare la facoltà di storia dell’Università. Quel che m’ha mosso è stata proprio la crescita di un’autocoscienza, il rifiuto interiore di ogni forma di violenza e il desiderio di poter rispondere alle tante domande che avevo: perché, a esempio, nella società sovietica si pensa una cosa e se ne afferma un’altra?».
Come le è venuta l’idea di un libro della memoria?
«Dopo la laurea sono stato assunto alla Biblioteca Nazionale, dove lavoro da trent’anni. Quando è salito al potere Gorbacëv si è aperto uno spiraglio e i giornali hanno potuto pubblicare gli elenchi dei condannati; abituato a lavorare coi libri, ho iniziato giorno dopo giorno a raccogliere questi ritagli costruendomi un archivio personale. È nata così l’idea di un libro che raccogliesse le storie di tutte le vittime. Un’impresa quasi disperata, visto che fino al 1995 non avevo nemmeno un computer! Ho avuto subito chiaro che questo libro non avrebbe avuto un unico autore, ma sarebbe stato un libro corale della memoria, scritto in nome di tutto un popolo. In Urss si parlava sempre delle centinaia di milioni di cittadini sovietici, ma nessuno ha potuto evitare che fossero sterminati. Vorrei che si salvasse almeno la memoria del nome di queste persone, o una loro parola».
Il Kgb le avrà messo i bastoni tra le ruote...
«In realtà ormai aveva capito che era arrivato il momento di uscire allo scoperto. Nel 1989 il governo sovietico ha deciso che bisognava rendere pubbliche le liste delle fucilazioni di massa. Così dal gennaio 1990 il giornale Vecernyj Leningrad iniziò a ospitare una colonna dedicata alle liste dei fucilati, dal titolo “Il martirologio di Levašovo”. Spettava agli archivi del Kgb fornire ai quotidiani i nomi da pubblicare di volta in volta... Naturalmente gli elenchi erano incompleti, riportavano solo nome, cognome, patronimico, anno di nascita, professione e il fatidico “fucilato”. Non si diceva chi e quando aveva eseguito la condanna, dove era avvenuta, chi aveva emesso il verdetto, in base a quale articolo... Inoltre le liste partivano dal 1937, anno di inizio del Grande Terrore, ma che fine avevano fatto le vittime precedenti?».
Nell’autunno del 1991 lei è stato uno dei primi in Russia a entrare negli archivi del Kgb, che fino allora erano rimasti top secret...
«Quel giorno ho avuto per la prima volta in mano il dossier di un condannato. Sono rimasto così impressionato che non sono riuscito ad aprire nessun’altra cartella. Quando sfoglio i dossier ho davanti a me delle persone vive, con tutto il loro destino: fra i dati asettici che venivano pubblicati e la tragedia che ognuna di queste persone ha vissuto, c’è un abisso».
In questi giorni sta ultimando l’ottavo volume dei suoi libri della memoria, dedicato a sei mesi del 1938 (le vittime del Grande Terrore sono così tante, che il solo 1938 occupa due volumi della serie). Quali scoperte ha fatto?
«Ho raccolto le prove di un’estrema crudeltà, che documentano tante situazioni paragonabili al totalitarismo nazista. I condannati venivano condotti praticamente senza sensi alle fosse dove avvenivano le fucilazioni. A Mosca, per esempio, i sovietici avevano ideato delle specie di “camere a gas”: i detenuti, trasportati in furgoni appositi, soffocavano respirando i fumi del tubo di scappamento deviati all’interno. Ecco perché, durante gli scavi nel poligono di Butovo (il territorio nei sobborghi di Mosca adibito dal Kgb alle fucilazioni di massa, ndr), in una fossa comune abbiamo ritrovato circa 50 crani di cui solo tre forati dalla pallottola: se i condannati arrivavano già morti, infatti, che bisogno c’era di sprecare proiettili? Abbiamo inoltre trovato delle prove di torture non solo durante gli interrogatori, ma anche nei confronti di chi era stato già condannato e avrebbe dovuto essere solo fucilato. Questi episodi di sadismo sono il vero motivo dell’incompletezza delle schede rese pubbliche: dietro l’impressione di “legalità” dei dati riportati dalle liste, ci sono atrocità addirittura maggiori di quelle del nazismo».
Il suo lavoro ha un valore inestimabile non solo per la documentazione storica: è vero che tanti la cercano per avere notizie dei propri cari?
«Tanti non sanno ancora dove sono sepolti i loro familiari, così mi scrivono (a decine, ogni giorno) chiedendo qualche informazione. In Russia oggi si pensa che il tema della memoria non sia più attuale, mentre io vedo in continuazione quanto sia importante e necessario per il nostro futuro. Il mio lavoro può aiutare i russi a comprendere il proprio passato, offrendo un contributo importante per la coscienza della società. Io e i miei colleghi non ci chiediamo se il nostro lavoro è utile, non stiamo nemmeno a guardare quanti ostacoli troviamo... Continuiamo solo ad andare avanti, cercando di fare il più possibile; il resto non conta. Ecco il mio credo».
Il Giornale n. 100 del 2008-04-26
1) Un errore emarginare i cattolici dalla politica
2) Christ our hope – nostra speranza
3) Il caso Formigoni raccontato dall’interno, dalle viscere - Versione integrale - Il governatore intrappolato dalla prepotenza leghista e dalle astuzie del Cav. (storia inquieta di una leadership cattolica)
4) «Così do un nome alle vittime dei Gulag»
Un errore emarginare i cattolici dalla politica
IlSussidiario.net
Giorgio Vittadini28/04/2008
Autore(i): Giorgio Vittadini. Pubblicato il 28/04/2008 - Letto 157
Il Papa, nell’omelia di domenica 20 aprile allo Yankee Stadium di New York, è tornato a sottolineare il grande contributo che i cattolici possono dare alla costruzione della vita pubblica e del bene comune. "In questa terra di libertà e di opportunità, la Chiesa ha unito greggi molto diversi nella professione di fede e, attraverso le sue molte opere educative, caritative e sociali, ha contribuito in modo significativo anche alla crescita della società americana nel suo insieme… In questa terra di libertà religiosa i cattolici hanno trovato non soltanto la libertà di praticare la propria fede, ma anche di partecipare pienamente alla vita civile, recando con sé le proprie convinzioni morali nella pubblica arena, cooperando con i vicini nel forgiare una vibrante società democratica".
L’apporto dei cattolici alla vita pubblica non è difesa corporativa di interessi particolari, ma è possibilità di costruire opere che rispondano al desiderio non ridotto di tutti gli uomini e di concepire una politica che sia fatta per la difesa e lo sviluppo di questa operatività sociale e quindi per un incremento del bene comune. E’ lo stesso tema toccato nell’intervento del cardinale Scola in Università Cattolica nell’incontro promosso giovedì 18 aprile dalla Fondazione Europa e Civiltà sul concetto di laicità. E' un tema di stretta attualità, anche politica, perché i cattolici rischiano di essere emarginati dalla vita politica italiana. Nello schieramento di centro sinistra l'indifferenza e, in certi casi, l'ostilità verso i principi non negoziabili ha emarginato contenuti e persone di orientamento cattolico. Il centro si pone in alternativa rispetto allo schieramento, più che per il contenuto originale. Il centro destra può correre il rischio di privilegiare le sue componenti più “muscolari” non valorizzando chi, proprio in nome di una esperienza cattolica, ha mostrato esempi di buongoverno. Tuttavia, se questo avvenisse, ci perderebbe di più proprio chi potrebbe avvalersi di questo apporto. Se si consolidasse questa tendenza, sarebbe sempre più fragile e vecchia la politica italiana nel suo complesso, come dimostra la crisi dei partiti di centro destra ormai culturalmente laicisti come il Partito popolare spagnolo.
L’emarginazione dei cattolici dalla politica non sarebbe tuttavia il male peggiore. Infatti, più che un potere non intelligente ciò che sarebbe negativo è, nel lungo periodo, la perdita di originalità, quella che ha reso certi cattolici insipidi e clientelari ai tempi della DC, altri, cattocomunisti, ridotti a stampella morale della sinistra, e altri ancora, liberisti senza spessore nel centro destra. Se, invece, pur di fronte a un potere che non dà spazio, si continua a costruire in laboratori locali in collaborazione con altre realtà culturali e politiche mosse dalla sussidiarietà, dal rispetto della persona, dalla ricerca del bene comune, in stretta connessione e al servizio di realtà sociali, produttive, movimenti, luoghi di creazione di un nuovo sapere, il tempo giocherà a favore. L'esempio virtuoso delle aree più sviluppate del Paese e una nuova classe di politici idealmente motivati potrà contribuire a risolvere la grave crisi del Paese che nessun mediocre yes man potrà risolvere.
Christ our hope – nostra speranza
Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
domenica 27 aprile 2008
Sono tante le immagini rimaste in cuore di questo bellissimo viaggio del Papa in terra americana. Dall’inginocchiatoio bianco nel silenzio carico della presenza del “Dio dell’amore, della compassione e della riconciliazione” invocato a Ground Zero, all’agitarsi commosso delle folle nei due stadi che hanno ospitato le celebrazioni liturgiche, ai 3000 delegati dell’ONU in piedi ad applaudire il suo discorso. Benedetto XVI non ha tradito nessuna delle aspettative che potevano riversarsi su questo viaggio ma ancora una volta le ha superate. Umile e determinato, ha abbracciato con lo sguardo della sua fede i problemi e gli scandali vissuti dalla Chiesa. “È nel contesto della speranza nata dall’amore e dalla fedeltà di Dio che io prendo atto del dolore che la Chiesa in America ha provato come conseguenza dell’abuso sessuale di minorenni”, ha detto a Washington nell’omelia, davanti a 50.000 persone. Ha ribadito che solo l’amore di Dio può sanare le ferite, ha incoraggiato chi ha compiuto e compie grandi sforzi per affrontare questa tragica situazione, per proteggere i bambini “che sono il nostro tesoro più grande”. Nessuna paura di fronte al male ma la certezza che è già stato sconfitto. Ai giovani e ai seminaristi a New York ha parlato delle tenebre che si oppongono alla speranza. La droga, la violenza, la povertà e la degradazione “che hanno in comune un atteggiamento mentale avvelenato che si manifesta nel trattare le persone come oggetti, che porta a deridere la dignità data da Dio ad ogni persona umana”. O le tenebre frutto di una manipolazione della verità che distorce la nostra percezione della realtà. Il Papa invita i giovani a riflettere: “avete notato quanto spesso la rivendicazione della libertà viene fatta senza mai fare riferimento alla verità della persona umana?” E spiega, questo papa non più giovane che conosce la giovinezza del cuore, quella della preghiera che il sacerdote recitava salendo all’altare, “al Dio che allieta la mia giovinezza”. Spiega loro il relativismo che considera la verità fonte di divisioni, che svincola la libertà dalla coscienza. La verità “è la scoperta di Uno che non tradisce mai, di Uno di cui possiamo fidarci sempre. È una persona: Gesù Cristo. Per questo la libertà è una scelta di impegno”. Ed è un grande impegno quello chiesto all’ ONU. Ha ancorato i diritti umani alla legge naturale scritta nei cuori “ e presente nelle diverse culture e civiltà”, superiore ai diritti positivi e alle leggi dei singoli stati. I diritti “si applicano ad ognuno in virtù della comune origine della persona, la quale rimane il punto più alto del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia.” Universalità dei diritti e della persona, “soggetto di questi diritti”. Promuovere i diritti umani è per il Papa la strategia migliore per rimuovere le diseguaglianze. Infine un’indicazione: “il rinnovamento della chiesa in America e nel mondo dipende dal rinnovamento della prassi della penitenza e dalla crescita nella santità: ambedue vengono ispirate e realizzate da questo Sacramento” (Washington, omelia al National Stadium).
27 aprile 2008
Tempi lombardi
Il caso Formigoni raccontato dall’interno, dalle viscere - Versione integrale - Il governatore intrappolato dalla prepotenza leghista e dalle astuzie del Cav. (storia inquieta di una leadership cattolica)
La Lega, a oggi, non è la soluzione, ma parte del problema Nord. Nonostante il suo notevole radicamento e un personale politico in crescendo, la sua specializzazione nella difesa del territorio, il suo etnocentrismo, il suo colorito e franco linguaggio, la sua lotta all’immigrazione e i muscoli delle ronde e guardie padane, tutto ciò è anche il suo limite. In realtà il fenomeno leghista non ha nulla della storica svolta thatcheriana e reaganiana. E’ stata la pazzesca politica antinordista di Vincenzo Visco e Giuliano Amato, oltre che l’astuzia strategica di Umberto Bossi, la sua sincera identificazione di leader tra il popolo e per il popolo, a rompere la diga che conteneva il perenne malumore zittito dal tirare la carretta tanto dell’operaio quanto del piccolo e medio imprenditore lombardo-veneto. Parla come mangia, il Senatur, e i sui più grandi alleati sono stati Romano Prodi, il cattolicesimo disincarnato e, al di là delle buona fede, devastante per la vita, di quell’eroe della zona grigia che è il cardinale Carlo Maria Martini. Il quale ha guidato una diocesi – la più grande del mondo – dove il concetto di Benedetto XVI, che tra fede e vita, fede e politica non ci può essere dicotomia, è corso nel sangue delle sue genti per secoli, prima di essere snobbato per più di vent’anni da un’impostazione pastorale che nemmeno Karl Barth avrebbe condiviso. Arrivando poi il cardinale Dionigi Tettamanzi, né più e né meno, a ereditare l’identitico retroterra curiale, oggi responsabile di scelte inopinate, come quella di radicare i seminari nella sociologia e nella parola, fumogeni di una storia che, basta leggere le memorie del cardinale Giacomo Biffi, non lascia né passato dietro di sé, né prepara un futuro davanti.
Una cosa giusta l’ha detta Adriano Sofri – di cui non condivido quasi niente del suo estatico pensiero e la strana sonorità femminile espressi in una lingua sfavillante e microparticolarissima – l’idea, mi metteva in guardia Adriano in un lontano colloquio in carcere, della protestatizzazione avanzante col leghismo. “Mi pare che i leghisti peschino esattamente nelle parrocchie, in quel tipo umano lì. State attenti è il contrario del cattolicesimo giussaniano e non faranno del bene all’Italia”. E infatti le parrocchie lombarde, in cui s’è diffuso il verbo martiniano e che in questi vent’anni hanno continuato a produrre quel genere di prete moralista e innocuo, poco pratico di gioventù e senz’altro più attivo nella pubblicistica, sono oggi profondamente divise. Tra il declinante cattolico buonista e l’incazzato leghista. Figure di un medesimo equivoco e, soprattutto, della debolezza di un pensiero che, grazie al cardinale Camillo Ruini, per esempio, non ha influenzato il cattolico capitolino, nemmeno nelle sue punte, vedi Sant’Egidio, apparentemente più legate alla teologia martiniana. Ne ha ben donde però il parrocchiano. Dopo che sentì parlare per anni di un Gesù da papiro egizio e di poveri come trauma universale, adesso che ci si accorge che pure i poveri, nel loro piccolo, non sono né angeli né creature in cui si specchia il nostro narcisismo, ma possono essere demoni e abbassarsi alla disumanità come noi; adesso che almeno si capisce un po’ di più perché Gesù diceva: “I poveri li avrete sempre con voi”, adesso che i poveri sono rom o albanesi, i parrocchiani passano di punto in bianco dalla Caritas di don Virgilio Colmegna alle guardie padane di Bossi.
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Il Veneto è più ruspante, ma comunque collegato all’esperienza del cattolicesimo lombardo. Ce lo ha spiegato con intelligenza storica il notaio Giuseppe Camadini, quando ad esempio con la Cattolica Assicurazioni, alla fine del Diciottesimo secolo per una volta lombardo-veneti ed emiliano-romagnoli fecero insieme. Anche oggi questo sodalizio tra lombardi e veneti prosegue. Fatto salvo che il centro rimane Milano, non Venezia. I veneti hanno quel più di inventiva e laboriosità. Piantano capannoni in capo alla campagna più remota e ci producono cose che arrivano alla Nasa. Ne sappiamo qualcosa noi di Tempi che ogni settimana raccontiamo l’Italia che lavora. Ma la Lombardia, a cominciare da Brescia, rimane il centro del motore di sviluppo. Se adesso, come ci diceva un grande imprenditore padovano, c’è un treno che in novanta minuti collega a Milano, senza fermate intermedie, è normale che le aziende lascino le attività produttive in loco e trasferiscano i quartieri generali, marketing, commerciale, sviluppo qui a Milano. Ancor di più nella prospettiva dell’Expo 2015 e delle grandi opere infrastrutturali previste.
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Per venire al caso Formigoni. Tatticamente parlando è tutto chiaro. Conviene a Silvio Berlusocni non lasciare sguarnita la castellanìa che domina il paesaggio italiano e che rappresenta la sua personale ricchezza. Conviene alla Lega aspettare che si liberi il posto di governatore e non provocare elezioni anticipate. Politicamente parlando invece, non è da poco non portare a Roma l’unico protagonista della novità che è andata avanti sotto i bombardamenti di tangentopoli e che ha costitutivo un modello straordinario. Se fosse uno stato indipendente la Lombardia avrebbe le sue belle dimensioni. Altro che Slovacchia o Slovenia. Sarebbe il numero otto in Europa per popolazione e superficie. E darebbe la birra a parecchi in termini di produzione, servizi eccetera. Dunque Berlusconi avrebbe bisogno come il pane di un’esperienza così. Con tutto il rispetto per gli Angelino Alfano e gli Elio Vito, non ne ha un altro, così che gli porterebbe in dote un’esperienza di amministrazione movimentista che è di lungo corso. Giustamente è stato detto che Roberto Formigoni ha sessant’anni ed era troppo giovane per i tempi della Dc; per il Pdl, tra tre anni potrebbe essere troppo vecchio. Non solo, la delusione covata nell’animo potrebbe amareggiarlo e sospingerlo a diventare, con tutto il rispetto, un Galan qualsiasi. Non vogliamo apparire, come dice quel giornale un po’ troppo fricchettone che è Libero, copertura di Roberto. Gli siamo amici da trent’anni, personalmente amici, che non esiste apparire cortigiani (per di più a Libero dovrebbero essere più precisi quando confondono Antonio Intiglietta con Massimo Ferlini) che lo coprono. In un nostro calcolo egoistico – sentito fare da tanti amici professionisti che sono la base sociale e, al tempo stesso, la base operativa del miracolo lombardo, ci sta assolutamente bene che Formigoni rimanga al suo posto. Eviteremo di fare i conti con i metodi spicci della Lega e, con buona pace di Bossi, con la sua aggressiva politica di occupazione delle poltrone a cui corrisponde, talvolta e anche spesso, un legame non molto sano con il capo. A un cenno del quale, come un leader barbarico, si annientano carriere e si alzano sugli scudi bottini e teste (chiedete ad Alessandro Cè, ad Alberto Brambilla o a Domenico Comino che fine si fa, dalle stelle alle stalle). Dunque non è una bella prospettiva mettersi nelle mani di un partito ubriaco dei propri successi e, come dice Sofri, protestante e tendenzialmente anticattolico. E sostanzialmente astuto ma che dovrebbe sgonfiarsi una volta che l’emergenza sicurezza e immigrati dovesse rientrare. La Lega, infatti è un fenomeno, di per sé positivo, che urge alla modernizzazione del paese. Una volta raggiunto il federalismo fiscale rimarrebbero due strade: o quella della liberazione delle energie della società, la sussidiarietà, una democrazia più matura, all’americana; o, pericolo non da escludere, il rischio di un indurimento dirigista statalista, questa volta non più sotto il tallone di Roma, come piace dire ai leghisti, ma sotto il tallone di sindaci e amministratori dell’ideologia etnocentrica. Il che sarebbe addirittura peggio. Perché, come sanno gli imprenditori del Nord, fino a che Roma è lontana, poco male. Non è la lontananza o l’indifferenza di Roma che ha fatto perdere la sinistra. E’ che, con Prodi e Visco, Roma è apparsa per la prima volta ostile. E’ questo che ha fatto vincere il leghismo. Ora, aspettandosi un ritorno alla normalizzazione e considerato che alla sinistra occorrerano dei begli anni per capire che cosa è successo (Filippo Penati è bravo, ma, come si vede, Walter Veltroni da questo orecchio proprio non ci sente), Bossi che non è fesso avrà capito che deve radicarsi nelle istituzioni e che solo così il suo movimento avrà un futuro. Cosa non facile. Primo perché essendo la Lega un fenomeno politico per eccellenza, fondato sul carisma del capo, la guerra e la distribuzione del bottino, come direbbe Gianfranco Miglio, che le diede manforte ideologica e da cui Bossi deve aver imparato molto. In realtà poi Miglio si disse deluso da Cl perché pensava che fosse proprio il movimento di don Giussani la vera lega del nord. “Avete un’educazione e una cultura di livello. Sapete stare al mondo. Siete ortodossi e la chiesa vi riconoscerà presto come suoi figli prediletti. Vedo per voi un futuro di classe dirigente e avanguardie che, superata la Dc, guideranno l’Italia. Però dovete entrare in politica e dare battaglia”. Su questo si ruppe il rapporto con don Giussani. Poiché il prete di Desio pur comprendendo bene l’urgenza e pur essendo stato lui il primo che negli anni Sessanta raccomandava ai suoi di farsi strada nella politica e segnalandoli ad Amintore Fanfani (anni Sessanta) piuttosto che ad Aldo Moro (anni Settanta), non acconsentì mai che il caso Formigoni divenisse norma.
Formigoni veniva da lontano, se l’era trovato come vocazione acquisita. Aveva studiato alla Sorbona e nei primi anni Settanta aveva dato vita all’organizzazione di base utopico-politica del movimento. La sua prima foto pubblica – e non so se questo è uno scoop – lo ritrae in conferenza stampa (1972) in un posto sconosciuto in compagnia di quelli che diventeranno i maggiori gruppi terroristici europei. Ira, Eta e separatisti di tutta Europa convenuti. Formigoni era l’unico a non essere incappucciato. Era fratello di sangue di Sante Bagnoli, l’editore simil Feltrinelli che ha stampato il primo libro (“Noi accusiamo”, Vincenzo Nardella) che già nel gennaio 1970, tre mesi dopo piazza Fontana, parlava di strage di stato; che aveva rapporti unici, come nessuno allora al mondo, con i baathisti di Saddam Hussein e il libico Gheddafi, con l’Mpla angolano e Kim il Sung in Corea del Nord, con Fidel Castro e i Tupamaros. Insomma Formigoni era un antiamericano di primo pelo, che volantinava contro l’agente dell’imperialismo Henry Kissinger e con Nicola Zitara parlava del colonialismo piemontese al Sud. Insomma un caposcuola di tutto l’internazionalismo, che faceva impallidire i cretinetti di Mario Capanna, ancorché nelle manifestazione del primo maggio aggredissero noi di Cl. Per non parlare degli autonomi che facevano piangere al Palalido Francesco De Gregori ma anche il nostro Alan Stivell, cantautore nordirlandese. Dunque se la Cia mise qualche zampino, non lo mise certo per il movimento a cui apparteneva Formigoni, ma, forse, per altri movimenti a lui ostili. In effetti si seppe dopo che non la Cia, ma forse il Kgb era implicato nella campagna di delegittimazione e attacco a Cl. Sì, perché l’internazionalismo formigoniano non era affatto monodimensionale, era davvero libertario. E, fatta evidentemente salva la buona fede, non frequentò il marxismo rivoluzionario se non per superarlo a sinistra, come si vede dall’enorme ingaggio che ebbe con la dissidenza dell’Est Europa ben prima che ci arrivassero i socialisti italiani assieme a quelli francesi e ai nouveau filosophe parigini di stampo solgenitziano. Vaclav Havel (futuro presidente cecoslovacco) fu pubblicato e aiutato da Cl. Così la rivoluzione di Solidarnosc ebbe in Cl un valido apporto (ancorché poi Giovanni Paolo II si mise in prima linea). E se il Papa polacco venne a Rimini e si prese la briga di sdoganare defintitivamente Cl, se poi a lui seguì Lech Walesa, sempre al Meeting di Rimini, è perché entrambi riconobbero in Cl una possente forza cattolica (forse l’unica) che aveva capito “Il potere dei senza potere” (così si intitolava il libro di Havel). Capito e dato manforte, fatto circolare i libri, aiutato le persone, accolto i figli in fuga.
Formigoni viene da quel lungo apprendistato in trincea, sulle piazze, nella guerra ideologica e delle manifestazioni. E’ vero che don Giussani rientrò di corsa alla guida di Cl dopo che Formigoni e Angelo Scola l’avevavano guidata per un buon triennio (tra il 31 marzo 1973, giorno di nascita ufficiale della sigla Comunione e liberazione al Palalido di Milano, in prima fila c’era Aldo Moro, e il 1976, giorni di lutto e guerra civile). Vi rientrò perché pur riconoscendo a quei due la stoffa dei leader (Scola è l’attuale Patriarca di Venezia) e valorizzandone l’apporto di intelligenza e generosità, vi aveva scorto una pratica deriva verso la politica. Pose la questione della presenza contro l’utopia, piantò i suoi giovani “islamici” nelle scuole e nelle università contribuendo a salvare la democrazia in Italia (i soliti Bocca e Scalfari ci odiano da allora) e gridò alle gerarchie la richiesta di una copertura. Paolo VI ebbe parole di conforto e stese il suo manto. Intanto il cattolicesimo progressista si faceva dirigere e digerire dal Pci e cominciava la lunga parabola del cattolicesimo democratico, che si concluderà il 15 aprile 2008 (non si dimenticherà mai che i giovani aclisti intervenivano nelle assemblee per fiancheggiare l’estremismo di sinistra e ci fu almeno un caso, il mio all’istituto Ettore Molinari di Milano, dove i ciellini vennero stesi a cazzotti, a dozzine contro due, proprio sull’onda dell’interveto di un giovane aclino che vendette i suoi confratelli per “fascisti” durante una tumultuosa assemblea).
Ecco, in quegli anni don Giussani imprimerà a Cl una rotta diversa da quella dell’oggi cardinal Scola e dell’oggi governatore Formigoni, ma i due rimasero suoi prediletti. E da allora non ci fu incoerenza o critica che potesse essere mossa a Formigoni che non trovasse don Giussani schierato a difesa totale del “nostro Roberto”.
Dunque Formigoni fu un lusso per la Dc. Un lusso per il Parlamento europeo di cui divenne vicepresidente negli anni Ottanta e che lo vide protagonista fino alla prima guerra del Golfo di Bush senior, con la famosa vicenda degli ostaggi che lui andò a recuperare a Baghdad grazie alle amicizie che aveva da un ventennio. Altro che Oil for food. Pensare che ci fosse un sottofondo di interesse bieco, questo lo lasciamo dire a certi americani. Quelli che, in effetti, come il buon Kissinger, conoscono a menadito la doppiezza nel fare il mestiere. O è forse un caso che durante la prima guerra del Golfo gli americani si siano fermati sotto il 33° parallelo e non siano entrati a Baghdad per spodestare il tiranno? Scrissi allora un pezzo per il Sabato, dopo un viaggio di Natale e Capodanno tra Baghdad e Bassora, che c’era sì la fame, l’embargo, le malattie e la mancanza di medicine. Ma la Baghdad in cui i dollari e il lusso si sprecavano, la Baghdad ricca dei commercianti e della casta militare, delle lunghe file di camion che violavano l’embargo Onu e che avevo visto con occhi miei alla frontiera tra Iraq e Giordania, non la raccontava troppo giusta sull’inimicizia radicale tra Bush I e Saddam. Doveva essere successo qualcosa tra la garanzia kissingeriana a Saddam e la successiva risolutezza bushiana, E’ un fatto comunque che si è resa necessaria una seconda guerra. Quando, giusta o non giusta, ne sarebbe bastata una sola per spazzare via il dittatore.
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Conclusa la Prima Repubblica nel modo barbaro e manomesso com’è s’è conclusa (e Veltroni è ancora lì a onorare a Tonino Di Pietro una cambiale che invece sarebbe dovuta scadere da un pezzo, dopo quello che si è visto dal 1996 ad oggi), Formigoni partecipa al drammatico de profundis della Dc, transitata dall’ultimo segretario, Mino Martinazzoli, non proprio un tulipano, in due tronconi cattolicodemocratico, o cattocomunista come dice il volgo, e doroteo (Cdu), col povero Rocco Buttiglione che inciampa nella conta delle tessere e via via negli spezzettamenti successivi. Poi Formigoni si affrancherà anche dall’amico Rocco per approdare al vecchio amico Berlusconi, ora sceso in politica.
Qui si dovrebbe aprire la lunga parentesi. In raltà i due si conoscono e si stimano da almeno trentadue anni. Fu Berlusconi che finanziò il primo Sabato, che diede spazio e strumenti al Movimento popolare, che ebbe con Formigoni un’immediata simpatia e consentaneità per il suo impegno politico. Quando Berlusconi scese in campo fu normale che Formigoni guardasse lui. Da lì cominciarono gli anni di presidenza della Lombardia. Non un accrocchio di potere come il giornalismo interessato e sciacquino racconta. Non per piazzare i propri uomini dappertutto. Non per costruire la roccaforte dei dollari. Fosse stato così oggi di ciellini in politica sarebbe piena l’Italia. E invece no. Come sa tutta la burocrazia, al Pirellone Formigoni non inaugurò lo spoyls sistem. Né fu una continuazione con altre armi della politica democristiana che ebbe in Bruno Tabacci, ultimo presidente dc al pirellone, l’epilogo più trasformista e intruppato col potere reale. No, di Formigoni tutti possono ricordare che prospettò chiaramente alla sua burocrazia, fosse di Rifondazione o fascista, che il suo metodo erano i risultati per il bene comune. Chi lavorava avrebbe preso di più. Chi no si sarebbe convinto che quello non era il suo posto. E così accadde. Formigoni ha ridotto la burocrazia della regione Lombardia da 6.000 a 3.500 dipendenti. Ha fatto questo e quello. Non stiamo qui a ripetere, dovremmo citarvi gli ultimi venti numeri di Tempi. Ha fatto grande la Lombardia, con cose che non esistono neanche in Svezia, il buono e la dote scuola, per esempio. Il mix statale privato sociale non solo in sanità, ma anche nell’assistenza degli anziani. Tante cose, insomma, non con colpi di mano o brusche rivoluzioni. Ma con la paziente tessitura di un dialogo e con un fondamentale amore e buon umore come metodo di lavoro. Con dimensioni non politichesi strette, di tessere e coagulo di clientele (come a tutt’oggi funziona qualunque ente, comune, provincia e regione italiana), ma portando la positività di un lavoro.
Non sono certo tutte rose e fiori dal 1994 a oggi. Non è vero che Formigoni è il cavaliere senza macchia e senza paura. Ha i suoi limiti, come una certa propensione al fighettismo, o un certo limite lecchese di freddezza nei rapporti, o certa sua generosità che poi viene riempita di calcolo altrui. O il non aver ampliato la cerchia degli amici fidandosi non soltanto dei coscritti. I suoi limiti ci sono tutti. Però è anche simbolo di un’impresa, dello sviluppo e della maturazione in senso moderno, sussidiario, non grettamente imitatore dello stile City applicato all’amministrazione di cui una volta si vantarono gli yuppisti falliti degli anni Ottanta e in cui oggi ricascano i sostenitori acritici di un modello per cui se non hai studiato alla Columbia o alla London School, non puoi mica fare le riforme che necessitano al paese. In questo Formigoni si differenzia dal processo di crescita del partito di Bossi, venuto su dal varesotto e dalle valli bergamasche in perfetto stile comunista (come d’altronde era Bossi prima di inventarsi la Lega) e venuto su con ostinazione e tenacia, grazie anche al contributo di visione del già citato Miglio.
Ci fu un momento, come dicevamo, in cui Miglio vide bene che Lega e Cl si fondessero insieme, almeno sul versante dell’impresa politica, almeno per salvare il salvabile della Dc agonizzante e venduta a Eugenio Scalfari da Ciriaco De Mita. Ma il risoluto diniego di don Giussani e, certamente, l’indifferenza totale di Bossi (che la cattolicità a lui dice tutt’al più lo schema Federico Barbarossa alleato col Papa romano) non se ne fece niente. A tal punto che la Lega, anzi prese una strada che la portò prima verso l’invenzione (a mo’ dei baschi) delle radici mitico-celtiche e all’adorazione del dio Po, e poi, visto che la realtà è testarda e Bossi capisce al volo l’antifona, a una svolta più ragionevole. Quella che ha fatto resistere Lega durante gli anni del dopo ribaltone, mantenere le sedi con militanza tenace e, alla fine della traversata nel deserto in cui già si vedeva tramontare all’orizzonte come l’ultimo ciack, fare bingo con lo sprovveduto e afasico governo Prodi. Un governo che sembrava fatto apposta per reinventersi il leghismo e, come avvertirono inutilmente i libri di Ricolfi, Illy e Diamanti, per perdere definitivamente il Nord Italia.
C’è stato un epilogo interessante nella lunga cavalcata formigoniana che ora sembra fermarsi ad Arcore. Ed è la vicenda della lista Ferrara. Che come ha ricordato il direttore del Foglio è stata lì lì per diventare una lista vera, non con una sigla dura e incomprensibile all’elettore d’oggi (come s’è visto) di un “Aborto? No, grazie”. Come ha scritto Ferrara, se Formigoni avesse confermato la sua implicazione, come sulle prime aveva fatto, chiaramente la lista si sarebbe allargata ad altre tematiche e avrebbe avuto i connotati anche grafico-simbolici di una formazione pro life liberale movimentista, inclusiva di tematiche che vanno dall’aborto, appunto, alla sussidiarietà, alla scuola eccetera. Insomma nel segno di un riformismo illuminato e libero dalle vischiosità vecchie e clientelari dell’ultima sfortunata e accattona Udc. Sarebbe stata allora una formazione che, Formigoni leader e Ferrara ideologo e speaker, avrebbe potuto mietere consensi non irrilevanti, almeno così pensiamo, e con cui certamente Berlusconi non avrebbe potuto evitare di apparentarsi. Vi immaginate allora un Pdl vincente apparentato con Lega e una Lista ForFe? Crediamo che certamente in Lombardia (ma anche in Veneto) avrebbe ridimensionato il successo della Lega e avrebbe dato oggi a Formigoni uno strumento di formidabile pressione (non diciamo di ricatto perché i due si vogliono troppo bene) sul Berlusconi. Ma siccome il Cavaliere è l’uomo più brillante e furbo che c’è, insieme a quell’astuto di Bossi si sono messi a brindare per l’ennesima volta sullo scalpo del governatore (la prima volta fu tre anni fa, quando in occasione delle elezioni per il rinnovo del suo quarto mandato in Lombardia, Formigoni si vide dire no al suo listino riformista che, legato al suo nome, prometteva di allargare la maggioranza della regione ai riformisti di sinistra).
Cosa fatta, capo ha. Sfumata l’occasione ora Formigoni si ritrova senza sue truppe e, come dice la Bibbia, con il passato steso davanti ai suoi occhi. Non ha perduto nulla, in verità. Ha sessant’anni e Berlusconi settantuno. I suoi concorrenti possono essere quanto di più giovane possa esistere, ma una leadership non ce la si inventa dal nulla. Non si inventa la trincea, i paesi baschi, i tupamaros, Saddam, Kissinger, la vicepresidenza del Parlamento europeo, un movimento di persone e la maggioranza dei lombardi che ti riconosce come sua guida, e ti vuole bene. Bisogna tenere la barra diritta e, forse, solo limare un po’ il carattere fighettista. Gli attributi ci sono, gli amici pure. Se scende un attimo dal palco della storia e si arrischia di imbossire un po’, vedrete che non ce ne sarà per nessuno. Dopo Berlusconi, a Dio e alla Fortuna piacendo, c’è solo il ragazzo di Lecco.
di Luigi Amicone
«Così do un nome alle vittime dei Gulag»
Intervista ad Anatolij Razumov, l’uomo che in vent’anni di ricerche ha raccolto e documentato i casi di due milioni e mezzo di persone stritolate dalla repressione stalinista…
«Avrei voluto chiamarle tutte per nome». Questo verso di Anna Achmatova, riferito alle vittime del regime sovietico, probabilmente è scolpito a caratteri cubitali nel cuore di Anatolij Razumov, direttore del Centro «Nomi restituiti» di San Pietroburgo e animatore del cimitero-memoriale di Levašovo. In quasi vent’anni di ricerche ha raccolto e documentato - praticamente da solo - i casi di due milioni e mezzo di persone stritolate dagli ingranaggi della macchina repressiva. Un’impresa immane: tutte queste storie sono confluite in otto «volumi della memoria» (ma il progetto prevede di arrivare a quindici entro i prossimi anni), ognuno dei quali conta quasi mille pagine. Non è un caso se recentemente Solgenicyn, preparando una nuova edizione del suo Arcipelago Gulag con l’aggiunta (per la prima volta) dell’indice dei nomi, si è rivolto proprio a Razumov. Col materiale da lui raccolto è stato lanciato anche un vero e proprio «libro elettronico della memoria», consultabile sul sito «Nomi restituiti» (www.vi.krsk.ru, purtroppo per ora solo in russo), che in tre anni ha visto triplicare il numero di visitatori.
Nei giorni scorsi Anatolij Razumov era in Italia per un ciclo di incontri e convegni sulla memoria dei Giusti, invitato dallo scrittore Gabriele Nissim. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare che cosa lo spinge oggi, in una Russia che vede il proprio passato come un pericoloso scheletro nell’armadio, a combattere perché la memoria rimanga viva.
Che cosa l’ha portata a questo progetto?
«Fin da giovane mi ha sempre appassionato la storia del periodo sovietico. Pur essendo originario della Bielorussia, ho voluto trasferirmi nel 1972 a Leningrado per frequentare la facoltà di storia dell’Università. Quel che m’ha mosso è stata proprio la crescita di un’autocoscienza, il rifiuto interiore di ogni forma di violenza e il desiderio di poter rispondere alle tante domande che avevo: perché, a esempio, nella società sovietica si pensa una cosa e se ne afferma un’altra?».
Come le è venuta l’idea di un libro della memoria?
«Dopo la laurea sono stato assunto alla Biblioteca Nazionale, dove lavoro da trent’anni. Quando è salito al potere Gorbacëv si è aperto uno spiraglio e i giornali hanno potuto pubblicare gli elenchi dei condannati; abituato a lavorare coi libri, ho iniziato giorno dopo giorno a raccogliere questi ritagli costruendomi un archivio personale. È nata così l’idea di un libro che raccogliesse le storie di tutte le vittime. Un’impresa quasi disperata, visto che fino al 1995 non avevo nemmeno un computer! Ho avuto subito chiaro che questo libro non avrebbe avuto un unico autore, ma sarebbe stato un libro corale della memoria, scritto in nome di tutto un popolo. In Urss si parlava sempre delle centinaia di milioni di cittadini sovietici, ma nessuno ha potuto evitare che fossero sterminati. Vorrei che si salvasse almeno la memoria del nome di queste persone, o una loro parola».
Il Kgb le avrà messo i bastoni tra le ruote...
«In realtà ormai aveva capito che era arrivato il momento di uscire allo scoperto. Nel 1989 il governo sovietico ha deciso che bisognava rendere pubbliche le liste delle fucilazioni di massa. Così dal gennaio 1990 il giornale Vecernyj Leningrad iniziò a ospitare una colonna dedicata alle liste dei fucilati, dal titolo “Il martirologio di Levašovo”. Spettava agli archivi del Kgb fornire ai quotidiani i nomi da pubblicare di volta in volta... Naturalmente gli elenchi erano incompleti, riportavano solo nome, cognome, patronimico, anno di nascita, professione e il fatidico “fucilato”. Non si diceva chi e quando aveva eseguito la condanna, dove era avvenuta, chi aveva emesso il verdetto, in base a quale articolo... Inoltre le liste partivano dal 1937, anno di inizio del Grande Terrore, ma che fine avevano fatto le vittime precedenti?».
Nell’autunno del 1991 lei è stato uno dei primi in Russia a entrare negli archivi del Kgb, che fino allora erano rimasti top secret...
«Quel giorno ho avuto per la prima volta in mano il dossier di un condannato. Sono rimasto così impressionato che non sono riuscito ad aprire nessun’altra cartella. Quando sfoglio i dossier ho davanti a me delle persone vive, con tutto il loro destino: fra i dati asettici che venivano pubblicati e la tragedia che ognuna di queste persone ha vissuto, c’è un abisso».
In questi giorni sta ultimando l’ottavo volume dei suoi libri della memoria, dedicato a sei mesi del 1938 (le vittime del Grande Terrore sono così tante, che il solo 1938 occupa due volumi della serie). Quali scoperte ha fatto?
«Ho raccolto le prove di un’estrema crudeltà, che documentano tante situazioni paragonabili al totalitarismo nazista. I condannati venivano condotti praticamente senza sensi alle fosse dove avvenivano le fucilazioni. A Mosca, per esempio, i sovietici avevano ideato delle specie di “camere a gas”: i detenuti, trasportati in furgoni appositi, soffocavano respirando i fumi del tubo di scappamento deviati all’interno. Ecco perché, durante gli scavi nel poligono di Butovo (il territorio nei sobborghi di Mosca adibito dal Kgb alle fucilazioni di massa, ndr), in una fossa comune abbiamo ritrovato circa 50 crani di cui solo tre forati dalla pallottola: se i condannati arrivavano già morti, infatti, che bisogno c’era di sprecare proiettili? Abbiamo inoltre trovato delle prove di torture non solo durante gli interrogatori, ma anche nei confronti di chi era stato già condannato e avrebbe dovuto essere solo fucilato. Questi episodi di sadismo sono il vero motivo dell’incompletezza delle schede rese pubbliche: dietro l’impressione di “legalità” dei dati riportati dalle liste, ci sono atrocità addirittura maggiori di quelle del nazismo».
Il suo lavoro ha un valore inestimabile non solo per la documentazione storica: è vero che tanti la cercano per avere notizie dei propri cari?
«Tanti non sanno ancora dove sono sepolti i loro familiari, così mi scrivono (a decine, ogni giorno) chiedendo qualche informazione. In Russia oggi si pensa che il tema della memoria non sia più attuale, mentre io vedo in continuazione quanto sia importante e necessario per il nostro futuro. Il mio lavoro può aiutare i russi a comprendere il proprio passato, offrendo un contributo importante per la coscienza della società. Io e i miei colleghi non ci chiediamo se il nostro lavoro è utile, non stiamo nemmeno a guardare quanti ostacoli troviamo... Continuiamo solo ad andare avanti, cercando di fare il più possibile; il resto non conta. Ecco il mio credo».
Il Giornale n. 100 del 2008-04-26