sabato 12 aprile 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Così uccisi un bimbo Down – Dal Foglio.it
2) La cultura statunitense e la «sfida» di Ratzinger
3) La Regione Liguria scrive al Galliera, presieduto da Bagnasco - L'ordine all'ospedale del cardinale: prescriva la pillola del giorno dopo
4) 17 ANNI, SCHIACCIATO DAL CAMION - MALE INNOCENTE. LO SCANDALO CI AMMUTOLISCE, di Marina Corradi


11 aprile 2008
Dal Foglio di venerdì 11 aprile
Così uccisi un bimbo Down – Dal Foglio.it“Aveva due mesi, si scelse il soffocamento. Il primo tentativo fallisce, allora gli abbiamo messo sul viso un sacchetto di plastica”. Testimonianza uscita su Le Temps Modernes, la rivista di Sartre, nel 1974. Non successe nulla
Tra i molti meriti dell’ultimo libro della storica e femminista Anna Bravo, c’è quello di aver riportato alla memoria un episodio estremo ma significativo di come il rifiuto del limite, variamente teorizzato negli anni dei movimenti, abbia partorito mostruosità. La vicenda alla quale la Bravo ha deciso di dedicare un intero capitolo del suo “A colpi di cuore. Storie del Sessantotto”, appena uscito per Laterza, è quella dell’uccisione casalinga di un bambino Down, decisa e realizzata dai genitori e dai loro amici più stretti. Raccontata nei dettagli (si può dire rivendicata) dai protagonisti, nascosti dietro semplici iniziali, apparve sul numero di aprile-maggio del 1974 di Les Temps Modernes, la rivista di Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Claude Lanzmann. Era un numero speciale del bimestrale, che presentava testimonianze di donne, scritte “perché nessuna faccia più la loro stessa esperienza” e collocate in una sezione intitolata molto sartrianamente “Désires-Délires”. Desideri e deliri presentati senza alcun commento, se non quello implicito nell’assenza di qualsiasi commento. Storie politicamente esemplari, da cui trarre lezioni e indicazioni ideali e di lotta. Dell’infanticidio non si parla né nella post fazione al fascicolo, né nella presentazione, affidata a Simone de Beauvoir. La quale si augura solo che la rivista “semini turbamento”.
L’assassinio del bambino, un neonato di due mesi che era stato appena consegnato ai genitori dopo un periodo passato nell’incubatrice, è, scrive Anna Bravo, “eseguito con la partecipazione di tutti, studiato ‘tecnicamente e tatticamente’ perché sia un delitto perfetto”. C’è qualche tentativo di informarsi su terapie che non esistono, c’è l’amica che consiglia di usare l’anestetico e di cercare un medico disposto a firmare il certificato di morte (“il bambino non soffrirebbe e noi non avremmo corso alcun rischio dal lato giustizia”).
Tutti i medici rifiutano, e allora si sceglie il soffocamento. Il primo tentativo, fatto con un cuscino e delle coperte, fallisce. Scrivono i congiurati su Les Temps Modernes: “All’alba non era ancora morto, respirava tranquillamente nel suo fagotto. La notte aveva strillato spesso ma non era mai l’ultimo pianto. Allora abbiamo aperto il fagotto nel quale dormiva e gli abbiamo messo sul viso un sacchetto di plastica; è stato necessario tenerlo ben stretto e controllare che tutto finisse come doveva. E’ morto soffocato quasi immediatamente”. Doveva essere ucciso e allora “lo si è fatto insieme, eravamo tristi ma sicuri di essere nel giusto. Non abbiamo commesso un delitto, abbiamo fatto soltanto una cosa necessaria”. Necessaria perché un medico non ha voluto sentir parlare dell’amniocentesi, un altro ha rianimato il bambino in sala parto anche se c’era la certezza che fosse Down, altri medici si sono rifiutati di sopprimerlo. L’esperienza da cui si dice di voler proteggere “le altre donne”, commenta Anna Bravo, non è dunque “l’uccisione del figlio, è la necessità di farlo in prima persona. Infatti si chiede a ‘quelli che hanno la competenza tecnica e il potere giuridico per farlo impediscano a di neonati mongoloidi di vivere in piena coscienza, piuttosto che chi si trova a vivere con un bambino sia obbligato (corsivo della Bravo) a ucciderlo, a lasciarlo in un istituto, a diventare genitori anormali di bambini anormali’. Lo stato è messo sotto accusa per mancata politica eugenetica”.
Una storia atroce, per la quale non basta evocare l’infinita catena che va da Medea agli infanticidi per miseria o a quelli per follia. Una vicenda, dice Anna Bravo che “sta fra la Cina e il Terzo Reich”. C’è il rifiuto della creatura sbagliata (in Cina sono sempre sbagliate le femmine, abortite o soppresse alla nascita) e c’è anche la convinzione di essere nel giusto, “per Hitler il diritto a un popolo superiore, per la madre a avere un figlio ‘normale’”. C’è soprattutto quel ripugnante ricorso a giustificazioni sedicenti politiche da parte degli assassini, i quali si applicano a spiegare che “i mongoloidi” non sono degni di vivere perché mai avranno “la possibilità di rivoltarsi, di lottare per vivere meglio, perché nascendo sono totalmente dipendenti da chi se ne prende cura e tali resteranno”.
E’ qui che la vicenda, che di per sé non è figlia né del femminismo né di altri movimenti, dice Anna Bravo – ma semmai rimanda “in parte a una mai morta concezione proprietaria della maternità” – rivela “tristissimi incroci fra il rivoluzionarismo e il mondo contro cui si pensa di lottare… a cominciare dal richiamo alla politica, dove tutto è gerarchizzato: vite stroncate ingiustamente contro vite ingiustamente create; la possibilità di lottare come condizione per vivere; il collettivo come fonte di legittimazione superiore all’assunzione della responsabilità personale”. E poi c’è il primato del desiderio, il mito dell’autonomia che si stravolge “nell’orrore della dipendenza, mentre sparisce il limite come argine all’ideologia secondo cui senza una gloriosa integrità non vale la pena di stare al mondo”. Non manca nemmeno l’appello alla compassione. Scriveva la madre assassina: “Sì, ti amavo, piccolo mio, quando ti guardavo dietro i vetri del reparto prematuri; poi quando ti abbiamo portato a casa, ti sono stata accanto giorno e notte sapendo in ogni momento che il solo atto d’amore che potevamo fare per te, per noi, per la vita, era darti la morte, e potevo vivere questo amore e questa determinazione quasi con serenità perché non ero sola, perché eravamo in tanti a volere la stessa cosa”.
Dopo la pubblicazione di quella testimonianza su Les Temps Modernes, non succederà assolutamente niente. Non se ne parlerà sui numeri successivi né altrove, nulla accadrà nemmeno alla ripubblicazione in un libro di quello e degli altri racconti di vita vissuta di “Désires-Délires”, un anno dopo. Nessuno commenterà mai la vicenda. Di quel macigno, conclude Anna Bravo, si è avuto paura. Si è avuto paura di riconoscervi l’atto di guerra “dei grandi/ sani/ uniti contro l’imperfetto/ piccolo/ solo”.


La cultura statunitense e la «sfida» di Ratzinger
DA NEW YORK
ELENA MOLINARI
Avvenire, 11 aprile 2008
Come si colloca la cultura americana all’interno delle sfide che la Chiesa cattolica ha di fronte? Ad invertire i termini della questione rispetto alla tendenza dei media Usa a chiedersi «cosa aspettarsi dalla visita del Papa» è il teologo Lorenzo Albacete. E con lui una compagine di autori e filosofi del pensiero religioso, riuniti alla Co­lumbia University di New York per scardinare la cornice entro la quale è stato troppo stretta­mente inquadrato l’arrivo di Be­nedetto XVI.
Primo compito di religiosi e pen­satori in questi giorni di vigilia, allora, è ampliare la prospettiva dell’attesa. Renderla «infinita», nella volontà degli organizzatori della serata di discussione, il cen­tro culturale Crossroads, fonda­to a New York da una manciata di membri di Comunione e Libera­zione, che hanno chiamato il convegno «Solo l’infinito ba­sterà ». «Papa Benedetto non ci­terà necessariamente specifiche situazioni internazionali – ha e­sordito Celestino Migliore, os­servatore permanente della San­ta sede all’Onu che ospiterà Jo­seph Ratzinger alla nunziatura di New York – ma ricorderà che il fu­turo delle Nazioni Unite si può solo basare sulla ricerca dell’u­manità comune che unisce tutti i suoi membri».
Per aiutare il pubblico america- no a capire il messaggio che il Pontefice porterà negli Stati U­niti, Richard Neuhaus, fondato­re e direttore del giornale First things e presidente dell’Istituto per la religione nella vita pubbli­ca, ha invece sottolineato la ra­dice agostiniana del pensiero di Benedetto XVI, e il processo che lo ha portato a proporre un «nuovo umanesimo». «Al fune­rale di Luigi Giussani, l’allora car­dinale Ratzinger ebbe a dire che il cristianesimo non è una rac­colta di dogmi, né solo un siste­ma di precetti morali – ha spiegato – ma soprattutto un even­to, un incontro con il volto umano di Dio».
Un incontro che secondo Neuhaus il Papa porta dentro di sé, traendone una «palpabile tranquillità interiore». Di qui l’intento rivoluzionario, la proposta profetica che Benedetto XVI presenta al mondo e con la quale vuole sfidare anche gli americani: l’invito a superare le divisioni dell’illuminismo e a unire l’imminente e il trascendente, fede e ragione, carne e spirito.
Con questo richiamo a una via migliore e più completa di vivere e di testimoniare l’esperien­za cristiana il Papa vuole offrire un modo di superare «il tor­mento dell’inefficacia del cri­stianesimo », ha spiegato Carl Anderson, cavaliere supremo dei Cavalieri di Colombo, citan­do parole che il teologo Ratzin­ger pronunciò all’inizio della sua carriera universitaria. Dun- que il rischio di un «cristianesi­mo sganciato dall’umanità di Cristo – ha aggiunto monsignor Albacete – che diventa un’astra­zione, impotente di fronte alle sfide della modernità».
Esiste questo rischio nella società americana contemporanea?
David Schindler, rettore dell’Isti­tuto Giovanni Paolo II per il Ma­trimonio e la vita familiare e di­rettore della rivista Communio, fondata dallo stesso Ratzinger, ha fatto notare che in America non si verifica quella che Benedetto XVI identifica come la causa principale dei mali del mondo, vale a dire la «dimenticanza di Dio». L’America è una società religiosa, eppure moderna. «L’assioma che la modernità porti con sé l’assenza di Dio qui non si applica» – ha sottoli­neato Schindler –. D’altra parte, però, la cultura americana, che pervade anche le sue comunità religiose, è radicata nella centra­lità dell’io, in un falso senso di au­tonomia e di libertà. «Invece – ha continuato Schindler – la teologia di Benedetto è costruita attorno all’idea che l’io non nasce da se stesso ma dall’altro. E che la ra­gione è il dialogo dell’io con Dio. Quindi il matrimonio di moder­nità e religiosità in America è in­completo. Ha allontanato Dio dal dibattito pubblico. Ha dimenti­cato che nessun atto, pubblico o provato, del singolo o di uno Sta­to, può prescindere dal Creatore e rimanere neutrale».
La società americana dunque non può che attendere gli inse­gnamenti del Papa pellegrino sulla sua terra come un’opportu­nità di trasformazione culturale. Una trasformazione non indolo­re, ma che non respinge le con­quiste raggiunte dall’America in termini di rispetto dei diritti e del­le libertà individuali. Al contra­rio, parte dai loro successi per ag­giungervi la dimensione cristia­na. E rivelare che quell’inquietu­dine che anima la società statu­nitense e la muove a «cercare la felicità», come si legge nella sua Costituzione, non è altro che il desiderio di amare Dio e gli altri e di esserne amati.


La Regione Liguria scrive al Galliera, presieduto da Bagnasco - L'ordine all'ospedale del cardinale: prescriva la pillola del giorno dopo
Il caso dopo la denuncia di alcune donne sull'impossibilità di ottenere il farmaco. L'ospedale: verificheremo


GENOVA — «L'ospedale Galliera deve assicurare la prescrizione della pillola del giorno dopo, come tutte le Asl liguri, non ci sono eccezioni », l'assessore alla sanità della Regione Liguria, Claudio Montaldo (Pd), sta scrivendo un nuovo capitolo dei rapporti tra la Regione e l'ospedale presieduto dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei. E' successo che alcune donne abbiano segnalato la difficoltà di ottenere la prescrizione presso il Galliera. L'assessore ha chiesto spiegazioni e ha avuto dal direttore sanitario del nosocomio una risposta che, spiega Montaldo, «in sostanza attribuisce la responsabilità a un infermiere che a chi chiedeva di vedere il medico ha risposto di rivolgersi altrove. E questo perché il medico di turno era obiettore di coscienza e avrebbe rifiutato la pillola». In fondo l'infermiere cercava solo di evitare alla donna una perdita di tempo. Nella schermaglia con l'assessorato, il Galliera ha inviato ieri mattina una lettera in cui spiega di aver aperto «una verifica interna» sull'episodio e di aver rinnovato le disposizioni affinché le donne vengano in ogni caso indirizzate dal medico che «farà le valutazioni necessarie ». In questo gioco di fioretto, però, l'assessore non ci sta a passare da ingenuo: «Ho mandato una lettera al Galliera con cui in sintesi dico che devono garantire la presenza di un medico non obiettore di coscienza in ogni turno. Nella lettera chiedo che il Galliera mi informi su come intende attuare questa direttiva regionale che è valida per tutte le Asl». Al di fuori del linguaggio burocratico con cui sono stilate tutte le comunicazioni fra assessorato e ospedale, il succo è che il Galliera deve organizzarsi per dotare il pronto soccorso di un ginecologo non obiettore che possa prescrivere — sempre salve le valutazioni sanitarie — la pillola del giorno dopo. L'assessore non aspetta un sì o un no, la direttiva impegna il Galliera a dare seguito alle disposizioni della Regione, l'ospedale deve ora informare l'assessorato su «come » intende attuarle. Fino a pochissimo tempo fa il Galliera non aveva ginecologi non obiettori di coscienza, solo ultimamente sono stati assunti due medici non obiettori ma la politica dell'ospedale, il cui consiglio di amministrazione è presieduto dal cardinale Bagnasco e che ha avuto come ex presidenti Tettamanzi e Bertone, è contraria all'interruzione di gravidanza. Non è la prima volta che le linee guida della Curia si scontrano con la politica sanitaria regionale in tema di applicazione della 194 e di fecondazione assistita. La soluzione attuale, per le interruzioni di gravidanza, è di praticarle altrove e con personale di un altro ospedale, l'Evangelico. «Ma il Galliera — dice l'assessore— è convenzionato con il servizio sanitario pubblico e non può di fatto negare la possibilità di prescrizione della pillola del giorno dopo».
Erika Dellacasa


17 ANNI, SCHIACCIATO DAL CAMION - MALE INNOCENTE. LO SCANDALO CI AMMUTOLISCE
Avvenire, 11 aprile 2008
MARINA CORRADI
« È stata una fatalità», dice il presi­de del liceo di Torre del Greco do­ve Giovanni, 17 anni, spinto sulla strada mentre cercava di sedare una zuffa fra compagni, è morto travolto da un ca­mion. «È stata una disgrazia», mormora­no i coetanei, atterriti come la prima vol­ta che si incontra la morte: avendo visto un amico cadere a terra, in un istante già lontano, irraggiungibile alle voci che lo chiamavano indietro.
E si vuole credere a quel preside acca­sciato dietro alla sua scrivania come sot­to un gran peso. Non bullismo, come nel­la concitazione si era pensato, né l’in­tento di spingere di proposito un com­pagno sull’asfalto proprio mentre arri­vava un camion carico di ghiaia. Una li­te, parole grosse, spintoni per una cosa da poco, e la piccola folla di adolescenti davanti a una scuola ondeggia, oscilla, si allarga sulla carreggiata. Il camion, arri­vava in quel preciso momento.
E il fatto che a terra sia rimasto fra tutti proprio il ragazzo che cercava di mettere pace, è un’aggiunta di dolore. 'Non si può morire così a 17 anni', si ribellano quelli che davanti al liceo Nobel vanno come in un pellegrinaggio. Non si può, eppure accade. E la parola 'fatalità' inasprisce gli animi di chi sta a guardare. Non cerchiamo, forse, istintivamente, un colpevole per una fine come questa? Ci deve pur essere un colpevole, per u­na morte così.
Ma, se si accerterà che davvero è stata disgrazia, i compa­gni di Giovanni si troveranno di fronte a una di quelle mor­ti ai nostri occhi as­surde: come il bam­bino sano che soffo­ca in culla, il calcia­tore che si accascia in campo, mentre sta per far gol, per un nascosto e imprevedibile aneurisma. La morte senza preavviso e senza ragione, di tutte è quella che più irrimediabilmente ci scandalizza e ammutolisce. Anche fra cristiani, non restiamo in tanti incapaci di qualsiasi parola di fronte a morti così? Fatalità, diciamo, con un’espressione che allude a un Fato, a un Caso pagano che si abbatte sugli uomini secondo la ca­pricciosità di Dèi lontani e indifferenti. Non ci domanderebbe forse, un figlio bambino, davanti alla tragedia del ra­gazzo della IV B, perché a 17 anni, e per­ché è morto proprio quello che cercava di mettere pace? Non lo chiederebbe for­se con già nella voce un sospetto, e un principio di rivolta: come può permette­re questo, un Dio buono?
Lo scandalo del male colpisce e incrina dall’eternità. A volte, singolarmente, pro­prio chi ne è più da vicino colpito sa ri­cominciare a sperare - come se insieme a un terribile dolore fosse data anche la forza per sopportarlo. Come se la verità fosse nella fede de 'I Promessi sposi', là dove Manzoni scrive di un Dio «che non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per una gioia più certa e più grande».
Ma noi, che stiamo a guardare, noi spet­tatori di tg che ogni sera ci rovesciano ad­dosso più disgrazie di quante ne sappia­mo fronteggiare, facilmente restiamo in quello scandalo, e in un dubbio che ro­de come un tarlo. L’immagine di un Dio buono vacilla. Non è forse, morire così a 17 anni, il segno di un Destino scellera­tamente sbadato? Vogliamo spiegazioni, giustificazioni, colpevoli da condannare. Eppure è scritto: «Le mie vie non sono le vostre vie, i miei pensieri non sono i vo­stri pensieri». Pretendiamo di capire, e non capendo cominciamo a sentirci figli del Nulla. Il salto, folle agli occhi del mon­do, sta nel non capire, e tuttavia fidarsi. Ma bisognerebbe, per questo, essere u­mili. «È così semplice, obbedire», scrive­va Claudel ne 'L’annuncio a Maria'. Ma­ledettamente difficile invece per noi cri­stiani del XXI secolo, con la pretesa di ca­pire tutto, ma ammutoliti davanti al te­legiornale.