mercoledì 16 aprile 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa arriva a Washington e riconosce il modello positivo di laicità statunitense
2) Il Sabato santo di Joseph Ratzinger - Non è questo in maniera impressionante il nostro giorno?
3) Tony Blair convertito sulla via di Medjugorje, di Antonio Socci
4) Dopo la sconfitta pazza - Lettera di amicizia ai compagni di lista, a chi ha speso soldi, tempo, energia... , di Giuliano Ferrara
5) Oggi il Papa negli Usa; il cardinale George: ci rinnoverà
6) A dieci anni dalla morte di William Congdon - «Io dipingo Cristo crocifisso nella mia carne», da L’Osservatore Romano
7) L’antica simpatia del Papa per la democrazia americana


Il Papa arriva a Washington e riconosce il modello positivo di laicità statunitense
Il Presidente Bush gli offre un benvenuto senza precedenti

WASHINGTON, martedì, 15 aprile 2008 (ZENIT.org).- Benedetto XVI, che ha ricevuto un'accoglienza senza precedenti negli Stati Uniti da parte del Presidente George W. Bush, ha riconosciuto il modello positivo di laicità offerto dal Paese.
Bush, accompagnato dalla moglie Laura e da una delle figlie, è andato per la prima volta a ricevere un Capo di Stato che atterrava all'aeroporto, come aveva detto giorni fa, a causa del rispetto che merita il Papa.
Il boeing 777 dell'Alitalia, lo "Shepherd One", è atterrato alla base aerea di Andrews (Andrews Air Force Base) verso le 16.00 ora locale, le 22.00 di Roma.
Poco prima, a bordo dell'aereo, il Papa aveva spiegato rispondendo alle domande dei giornalisti che il rapporto tra laicità dello Stato e fede negli Stati Uniti è un modello "fondamentale", da imitare anche in Europa.
Il Vescovo di Roma ha elogiato "il concetto positivo di laicità" che vi è negli Stati Uniti, perché nasce per dare "autenticità e libertà alla fede".
Il motto della visita del Papa negli USA, che culminerà il prossimo 20 aprile e nel corso della quale visiterà Washington e New York - e in questa città la sede delle Nazioni Unite -, è "Cristo, nostra speranza".
La cerimonia di benvenuto è stata semplice, senza discorsi. Questi avranno luogo mercoledì mattina, quando Bush riceverà Benedetto XVI alla Casa Bianca nel giorno in cui il Santo Padre compirà 81 anni.
Tra le personalità che hanno dato il benvenuto al Pontefice c'erano il Cardinale Francis E. George, presidente della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti, l'Arcivescovo di Washington monsignor Donald William Wuerl e la nuova ambasciatrice degli Stati Uniti in Vaticano, Mary Ann Glendon.
In seguito, il Papa si è trasferito in auto dall'aeroporto della Andrews Air Force Base alla Nunziatura Apostolica di Washington, dove viene ospitato.
Il Pontefice inizierà la giornata del suo compleanno celebrando la Messa privata nella Cappella della Nunziatura Apostolica.
Alle 10.30 riceverà il benvenuto alla Casa Bianca da parte di Bush. Dopo i discorsi, ci sarà un colloquio privato nello Studio Ovale.
Il Papa pranzerà alle 13.00 con i Cardinali statunitensi, il Praesidium della Conferenza dei Vescovi cattolici degli Stati Uniti d'America (USCCB) e il Seguito papale nella Nunziatura Apostolica di Washington.
Alle 17.00 si dirigerà al Santuario Nazionale dell'Immacolata Concezione di Washington per presiedere la celebrazione dei Vespri e incontrare i Vescovi degli Stati Uniti.


Il Sabato santo di Joseph Ratzinger - Non è questo in maniera impressionante il nostro giorno?
Il 16 aprile 1927 Joseph Ratzinger nasceva a Marktl sull'Inn. Era un Sabato santo. Come omaggio per il suo compleanno pubblichiamo uno stralcio di una delle sue meditazioni contenute nel volume Il sabato della storia scritto insieme a William Congdon e pubblicato nel 1998 (Jaca Book).
di Joseph Ratzinger
Il mistero terribile del Sabato santo, il suo abisso di silenzio, ha acquistato nel nostro tempo una realtà schiacciante. Giacché questo è il Sabato santo: giorno del nascondimento di Dio, giorno di quel paradosso inaudito che noi esprimiamo nel Credo con le parole "disceso agli inferi", disceso dentro il mistero della morte.
Il Venerdì santo potevamo ancora guardare il trafitto. Il Sabato santo è vuoto, la pesante pietra del sepolcro nuovo copre il defunto, tutto è passato, la fede sembra essere definitivamente smascherata come fanatismo. Nessun Dio ha salvato questo Gesù che si atteggiava a Figlio suo. Si può essere tranquilli: i prudenti che prima avevano un po' titubato nel loro intimo se forse potesse essere diverso, hanno avuto invece ragione.
Sabato santo: giorno della sepoltura di Dio; non è questo in maniera impressionante il nostro giorno? Non comincia il nostro secolo ad essere un grande Sabato santo, giorno dell'assenza di Dio, nel quale anche i discepoli hanno un vuoto agghiacciante nel cuore che si allarga sempre di più, e per questo motivo si preparano pieni di vergogna ed angoscia al ritorno a casa e si avviano cupi e distrutti nella loro disperazione verso Emmaus, non accorgendosi affatto che colui che era creduto morto è in mezzo a loro?
Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso: ci siamo propriamente accorti che questa frase è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana e che noi spesso nelle nostre vie crucis abbiamo ripetuto qualcosa di simile senza accorgerci della gravità tremenda di quanto dicevamo? Noi lo abbiamo ucciso, rinchiudendolo nel guscio stantio dei pensieri abitudinari, esiliandolo in una forma di pietà senza contenuto di realtà e perduta nel giro delle frasi devozionali o delle preziosità archeologiche; noi lo abbiamo ucciso attraverso l'ambiguità della nostra vita che ha steso un velo di oscurità anche su di lui: infatti che cosa avrebbe potuto rendere più problematico in questo mondo Dio se non la problematicità della fede e dell'amore dei suoi credenti?
L'oscurità divina di questo giorno, di questo secolo che diventa in misura sempre maggiore un Sabato santo, parla alla nostra coscienza. Anche noi abbiamo a che fare con essa. Ma nonostante tutto essa ha in sé qualcosa di consolante. La morte di Dio in Gesù Cristo è nello stesso tempo espressione della sua radicale solidarietà con noi. Il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più chiaro di una speranza che non ha confini. Ed ancora una cosa: solo attraverso il fallimento del Venerdì santo, solo attraverso il silenzio di morte del Sabato santo, i discepoli poterono essere portati alla comprensione di ciò che era veramente Gesù e di ciò che il suo messaggio stava a significare in realtà. Dio doveva morire per essi perché potesse realmente vivere in essi. L'immagine che si erano formata di Dio, nella quale avevano tentato di costringerlo, doveva essere distrutta perché essi attraverso le macerie della casa diroccata potessero vedere il cielo, lui stesso, che rimane sempre l'infinitamente più grande. Noi abbiamo bisogno del silenzio di Dio per sperimentare nuovamente l'abisso della sua grandezza e l'abisso del nostro nulla che verrebbe a spalancarsi se non ci fosse lui.
C'è una scena nel Vangelo che anticipa in maniera straordinaria il silenzio del Sabato santo e appare quindi ancora una volta come il ritratto del nostro momento storico. Cristo dorme in una barca che, sbattuta dalla tempesta, sta per affondare. Il profeta Elia aveva una volta irriso i preti di Baal, che inutilmente invocavano a gran voce il loro dio perché volesse far discendere il fuoco sul sacrificio, esortandoli a gridare più forte, caso mai il loro dio stesse per dormire. Ma Dio non dorme realmente? Lo scherno del profeta non tocca alla fin fine anche i credenti del Dio di Israele che viaggiano con lui in una barca che sta per affondare? Dio sta a dormire mentre le sue cose stanno per affondare, non è questa l'esperienza della nostra vita? La Chiesa, la fede, non assomigliano ad una piccola barca che sta per affondare, che lotta inutilmente contro le onde e il vento, mentre Dio è assente? I discepoli gridano nella disperazione estrema e scuotono il Signore per svegliarlo, ma egli si mostra meravigliato e rimprovera la loro poca fede. Ma è diversamente per noi?
Quando la tempesta sarà passata ci accorgeremo di quanto la nostra poca fede fosse carica di stoltezza. E tuttavia, o Signore, non possiamo fare a meno di scuotere te, Dio che stai in silenzio e dormi e gridarti: svegliati, non vedi che affondiamo? Destati, non lasciar durare in eterno l'oscurità del Sabato santo, lascia cadere un raggio di Pasqua anche sui nostri giorni, accompagnati a noi quando ci avviamo disperati verso Emmaus perché il nostro cuore possa accendersi alla tua vicinanza. Tu che hai guidato in maniera nascosta le vie di Israele per essere finalmente uomo con gli uomini, non ci lasciare nel buio, non permettere che la tua parola si perda nel gran sciupio di parole di questi tempi. Signore dacci il tuo aiuto, perché senza di te affonderemo.
(©L'Osservatore Romano - 16 aprile 2008)


Tony Blair convertito sulla via di Medjugorje
L’ex premier inglese folgorato dal culto della Madonna della città bosniaca. Come lui Gorbacev, Reagan e Kennedy
Di Antonio Socci
Seguire le sue tracce nella storia e nella cronaca è sorprendente… Vi parrà bizzarro, ma l’evento più interessante di questa campagna elettorale, per me, è accaduto domenica scorsa a Milano al Palasharp. Sebbene fossero presenti 25 mila persone nessuno ne ha dato notizia. In apparenza non c’entra con le elezioni, ma, come vedremo, non è così.
Quell’immensa folla è arrivata lì senza alcuna campagna pubblicitaria. Dalle 8.30 del mattino fino alle ore 21 hanno pregato, meditato, adorato, ascoltato testimonianze con il carismatico padre Jozo Zovko, che era parroco di Medjugorje all’inizio delle apparizioni della Madonna in quell’ormai celebre villaggio, nel giugno 1981 (il francescano fu poi arrestato dalla polizia comunista, torturato e detenuto per quasi due anni).
All’incontro – organizzato da “Mir I Dobro”, l’associazione di volontariato (nata a Varese) – erano presenti anche due dei sei veggenti: Ivan Dragicevic e Jakov Colo. Il primo ha ancora oggi le apparizioni quotidiane e puntualmente alle ore 18 la Madonna è arrivata, in un silenzio impressionante, nell’emozione generale. E’ rimasta circa 10 minuti a pregare con i presenti, specialmente sugli ammalati e sui sacerdoti. Poi, tramite Ivan, ha lasciato a tutti un messaggio: “Una madre prega per i suoi figli e io ho pregato mio Figlio per voi”

Particolarmente toccante è stata la testimonianza di Silvia, una ragazza di 19 anni, che era gravemente malata (una paraplegia alle gambe). Andando in pellegrinaggio a Medjugorje a un certo punto, sulla collina delle apparizioni, è svenuta e si è poi risvegliata con un forte pianto e con tremore, scoprendosi guarita:” Sono guarita! Cammino!”

Sono fatti eccezionali, ma nient’affatto isolati. Padre Jozo nella sua meditazione ha invitato a seguire gli insegnamenti del Santo Padre anche per quando riguarda la tutela della famiglia (in vista delle prossime elezioni ha fatto una speciale “preghiera per l’Italia”). E ha citato Tony Blair, l’ex premier britannico, recentemente convertitosi al cattolicesimo. Si dà il caso infatti che Medjugorje c’entri (anche) con questa conversione. Non solo perché la moglie, cattolica da sempre, segue le apparizioni da tempo. Padre Jozo lo ha incontrato qualche anno fa. In Inghilterra c’è un vero sommovimento medjugorjano che ha al centro un personaggio molto influente, Robert Hutley, convertitosi a Medjugorje con la moglie. Questo è il terreno su cui è fiorita la conversione di Blair.

Proprio il 4 aprile scorso la “Repubblica” ha lanciato in prima pagina una conferenza dell’ex premier su “Fede e globalizzazione” tenuta il 3 aprile nella cattedrale di Westminster davanti a circa 1.600 persone. Blair ha sottolineato l’importanza della religione per il destino dell’umanità. E ha messo in guardia dal laicismo. Infine ha riferito di aver dato vita alla “Fondazione Tony Blair per la Fede” (Tony Blair Faith Foundation).

E’ immaginabile una cosa del genere per i leader politici italiani? Peraltro Blair – come ha rivelato The Guardian – è in corsa per diventare il Presidente dell’Unione europea (carica istituita l’anno scorso a Lisbona).

Anche di un’altra (controversa) conversione hanno recentemente parlato i giornali, quella dell’ultimo leader dell’Urss Mikhail Gorbacev sorpreso in preghiera nella basilica di Assisi. Pure lui ha avuto a che fare con Medjugorje. Ho già raccontato su queste colonne come è accaduto che, nell’ottobre 1987, il presidente Reagan si sia messo in contatto con la veggente Marija Pavlovic, due mesi prima della firma del Trattato di Washington con l’Urss, il primo per l’eliminazione delle armi nucleari che mise fine allo scontro sugli euromissili e fu preludio al crollo incruento dell’Urss. Ho riferito l’entusiasmo e la commozione di Reagan che si sentì spronato a proseguire sulla via del disarmo. Addirittura, con la moglie Nancy, decise di fare le preghiere e il digiuno chiesti dalla Madonna “Reagan volle che, fra i documenti da portare con sé ai colloqui con Gorbacev, ci fosse pure la mia lettera” racconta Marija. “So che lui ne parlò a Gorbacev e poi hanno firmato tutto. In seguito mi è arrivata una busta con la foto del presidente e il suo ringraziamento, scritto di suo pugno. E anche Gorbacev ha voluto quella mia lettera”.

La Madonna di Medjugorje deve averlo illuminato, se lo stesso Gorbacev nella storica visita in Vaticano del 1° dicembre 1989, nello studio privato di Giovanni Paolo II, si inginocchiò davanti a lui chiedendo perdono per i crimini del comunismo (il papa lo abbracciò). La clamorosa notizia fu rivelata la prima volta da suor Lucia, la veggente di Fatima e confermata da lei anche dopo la smentita dalla Sala stampa vaticana, il 2 marzo 1998. Pochi mesi fa ha confermato la notizia addirittura il Segretario di Stato vaticano, cardinal Bertone, in un suo libro. Nel mondo cattolico si diffonde la sensazione – esplicitata quattro mesi fa a Lourdes dal cardinale Ivan Dias - che in questa generazione la Madonna protegga in modo speciale la Chiesa e il mondo. E’ evidente proprio dalle sue apparizioni e dal grande pontificato mariano di Giovanni Paolo II.

Nei prossimi giorni Benedetto XVI andrà negli Stati Uniti. Parlare al popolo americano è un evento storico, come quando san Pietro venne a Roma, la capitale dell’Impero. Ma anche qui la strada di papa Ratzinger è stata preparata. Non solo dal predecessore. La presenza silenziosa e misteriosa di Maria lo ha preceduto già dentro la Casa Bianca dove il Papa incontrerà il presidente Bush. Infatti, racconta Marija Pavlovic, a margine della vicenda del 1987, “seppi che il Presidente Reagan aveva personalmente fatto comprare una statuina della Madonna, facendola portare alla Casa Bianca”. Era l’immagine della Madonna di Fatima. E di nuovo nulla appare casuale. Non solo per il legame fra Medjugorje e Fatima, ma anche per una notizia che è venuta alla luce solo di recente. E che riguarda proprio la Casa Bianca e Fatima.

Siamo nel 1959. Papa Giovanni XXIII legge il testo del “terzo segreto di Fatima” che per volere della Madonna doveva essere reso pubblico nel 1960. Contiene, come scopriremo nel 2000, il preannuncio di una immane catastrofe planetaria e di una grande prova per la Chiesa.

Papa Roncalli decide di segretarlo. L’11 ottobre 1962 apre il Concilio Vaticano II irridendo i “profeti di sventura” e affermando: “non siamo alla fine del mondo”. Anzi esaltò il “nuovo ordine di rapporti” mondiali che “volgono inaspettatamente” al meglio. Esattamente quattro giorni dopo il mondo precipita sull’orlo di una guerra nucleare mai vista. Il 14 ottobre infatti un aereo americano fotografa 162 testate nucleari sovietiche nell’isola di Cuba puntate sugli Stati Uniti. Il 15 le foto sono sul tavolo del presidente Kennedy che deve decidere cosa fare. Decise – anche su accorato invito del Papa - di non invadere e alla fine di trattare. Qualcuno dal Vaticano aveva fatto pervenire alla Casa Bianca una descrizione dello scenario apocalittico tracciato dalla Madonna a Fatima (ora si capisce perché doveva essere svelato nel 1960).

In una recentissima intervista Robert McNamara, segretario alla Difesa di Kennedy, ha riferito, con un moto di orrore, che nel 1992 “noi venimmo a sapere per la prima volta da ex ufficiali sovietici che loro erano pronti alla guerra nucleare nel caso di un’invasione americana di Cuba”. Il mondo dunque fu salvato dalla decisione di Kennedy di non invadere. Sarà un caso, ma Kennedy fu il primo (e unico) presidente americano di fede cattolica. Quindi più di chiunque altro era sensibile a un messaggio che arrivava dalla Santa Sede e dalla Madonna di Fatima. Fu provvidenziale che proprio in quel momento gli Stati Uniti avessero un presidente cattolico. Kennedy, era nato nel maggio 1917 (quando iniziarono le apparizioni di Fatima) ed ebbe la “nomination” per la Casa Bianca nel 1960: il 13 luglio. Lo stesso giorno in cui – anni prima – la Madonna consegnò ai tre pastorelli il Segreto. L’ennesimo caso?

Antonio Socci

Da “Libero”, 12 aprile 2008


16 aprile 2008
Dopo la sconfitta pazza - Lettera di amicizia ai compagni di lista, a chi ha speso soldi, tempo, energia... , di Giuliano Ferrara
Oggi scrivo io. Scrivo alle amiche e agli amici che hanno speso il loro tempo, il loro denaro, le loro energie, la loro faccia nella battaglia elettorale per la vita e contro l’aborto. Li ringrazio e voglio loro un gran bene. So che continueranno come continuerò io a pensare le cose che ci siamo dette in tante riunioni belle e che valeva la pena di tenere. Ci siamo detti che altri fanno giustamente la campagna elettorale per vincere le elezioni e noi, invece, ci siamo presentati alle elezioni per fare la campagna culturale contro il maltrattamento e la disumanizzazione della vita, tema buono per il secolo: per questo eravamo e ci consideravamo bizzarri, ed era vero. Scrivo nel segno del perfetto buonumore e di una perfetta amarezza: il buonumore è per la buona battaglia, che continua, l’amarezza è per il disastro nelle urne. La sconfitta è indubitabile, la si deve riconoscere senza riserve, senza rifugi, senza vittimismi e senza sentimentalismi. In altro contesto e totalmente diverso, beffardo e tutto e solo politico-moralistico, feci così anche nel Mugello, dove certo non ero andato a sfidare l’eroe di mani pulite per un seggio di senatore nel luogo politicamente più blindato d’Italia, e altrettanto in solitaria: quando si perde si perde, punto e basta, niente scuse. Questione di raziocinio e di stile, due cose importanti. E’ tutta mia, la piccola catastrofe della lista, e lo dico senza alcun narcisismo alla rovescia. Lo dico perché è così. Dopo il gentile rifiuto di Formigoni, una personalità politica assai meno controversa e divisiva di quanto non sia io, più capace di raccogliere uova e bombe carta e sedie che non voti, io che poi non sono da molti decenni un leader politico bensì un chiacchierone e un agitatore professionale, avrei dovuto fermarmi. Dopo lo scaltro rifiuto di Berlusconi, che se si fosse apparentato con me, “Signor Testone”, visti i fatti di campagna e il risultato, avrebbe rischiato grosso, avrei dovuto fermarmi. Parlo della lista, sia chiaro, non delle idee in cui crediamo e che sono lì da elaborare, perfezionare, adattare alla campagna di cultura e di civiltà più importante che mai. Che sono lì e che sono la stoffa di cui sarà fatto il confronto, lo scontro politico e civile dei prossimi anni. Vorrei che questo giudizio non suonasse come la sconfortante presa d’atto di una batosta, come un segno di resa. Perché non è così. Recuperate le forze, con calma e nei tempi lunghi, ma da subito, tutto è ancora da fare, c’è sempre un’intuizione da salvare, un silenzio da rompere, una intera cultura diffusa da scardinare, e anche il tempo rumoroso e inefficace della lista elettorale risulterà tutt’altro che sprecato. Ma della lista come progetto non si può salvare niente. Chiuderò l’associazione che l’ha promossa, il residuo (non molto) di bilancio lo destineremo al centro di aiuto alla vita della Mangiagalli, quello della splendida Paola Bonzi. Le donne e i giovani che hanno fatto bella questa battaglia in tante regioni e città possono cercare di mantenere un coordinamento, se lo credano, o inventarsi qualcosa di nuovo se pensino che c’è stata una semina e si deve raccogliere, oppure possono tornare alla routine, che per molti di loro è un impegno serio e generoso di lunga data sul tema della vita umana. Una cosa è per me certa. Non siamo stati battuti dal destino cinico e baro: siamo stati battuti dall’aborto. Nei tre decenni dalla sua legalizzazione in occidente, l’aborto è diventato un diritto a cui una immensa maggioranza tiene, che pochissimi vogliono vedere messo in discussione in qualunque forma, anche salvando la finale libertà di scelta delle donne, un diritto che risolve situazioni personali e che si incunea negli incubi di gravidanze considerate una malattia e un ricatto della natura, se indesiderate. E’ questa idea, primitiva e barbarica a nostro modo di vedere, che prevale e che si oppone a qualunque forza contraria. Finché si fa campagna culturale, si può sopravvivere a stento a questa spinta difensiva e d’attacco, che naturalmente è fondata anche su un ancestrale senso di colpa, ma buttarla in politica, animare il sospetto che si voglia separare il mondo secolare da questo suo compagno segreto, sia pure nella libertà di scelta, è esiziale. Lo fu nel 1981, in una contesa in cui erano impegnati il Papa e la Dc, lo è stato nella piccola scaramuccia elettorale del 2008, con noi modesti e artigianali protagonisti. E solitari.



Oggi il Papa negli Usa; il cardinale George: ci rinnoverà
L’arcivescovo di Chicago: linfa per le nostre sfide

DANEW YORK
ELENA MOLINARI
Inizia da Washington per poi toccare New York il viaggio di Benedetto XVI. II presidente dei vescovi statunitensi: «Difficile annunciare il messaggio di libertà di Gesù a una società che si considera, a torto o a ragione, la società più libera della Terra»

Sono state settimane intense per Francis George, arcivescovo di Chicago e presidente della Con­ferenza episcopale statunitense. I dettagli organizzativi legati alla visi­ta di Benedetto XVI, che atterrerà a Washington questa sera alle 22, ora i­taliana, sono stati innumerevoli. Ma il cardinale è stato soprattutto impe­gnato ad aiutare i vescovi e le par­rocchie americane a prepararsi spi­ritualmente a un viaggio pastorale che, spiega, rappresenta un’oppor­tunità unica di rinnovamento per u­na Chiesa che ha di fronte a sé non poche sfide.
Cardinale George, quali sono le sfi­de che la Chiesa cattolica america­na deve affrontare?
Sono variegate. I cattolici sono una minoranza negli Stati Uniti, folta, ma pur sempre una minoranza. L’immi­grazione dall’America Latina lo ha re­so un gregge ancora più eterogeneo. Ai vescovi spetta il compito di man­tenerne l’unità attorno al messaggio del Vangelo. Ma la stessa proclama­zione della verità di Cristo a una so­cietà come quella americana rap­presenta una sfida. Significa annun­ciare il messaggio di libertà di Cristo a una società che si considera, a tor­to o a ragione, la più libera della Ter­ra. E fare capire ai cristiani che c’è un’enorme differenza fra la libertà in­tessuta nel Vangelo e la libertà sanci­ta dalla Costituzione americana.
Come riassumerebbe questa diffe­renza?
La libertà americana è fatta di una serie di diritti inviolabili. Sono fon­damentali e importanti, ma posso­no diventare totalitaristici quando vengono intesi come libertà di scel­ta illimitata. Questo tipo di percezio­ne, individualistica, della libertà, ri­schia di vedere il messaggio del Van­gelo e i principi morali che ne deri­vano come un ostacolo al proprio pieno compimento.
Può fare un esempio?
L’esempio più lampante è quello del­la moralità in materia sessuale an­nunciata dalla Chiesa cattolica. Nel­la società americana viene spesso vi­sta come un limite, un ostacolo alla propria libertà di scegliere il com­portamento sessuale che più aggra­da. La sfida di noi pastori è far capi­re che l’etica sessuale insegnata dal­la Chiesa libera dalla egoistica ricer­ca del piacere individuale. Ma ci so­no altri esempi. Nella società ameri­cana, infatti, si assistono a tanti mo­di di violare la santità della vita. Non solo con l’aborto. Anche con la vio­lenza, la pena di morte, la mancan za di un sistema sanitario accessibi­le ai più poveri. Sono tutti campi di sfida per la Chiesa che fa del rispetto della vita un punto di partenza im­prescindibile del suo messaggio e che rifugge i tentativi esterni di politiciz­zare le sue posizioni.
A differenza di alcune realtà euro­pee, in America le chiese sono piene, la fede è palpabile.
È vero, negli Stati Uniti la religiosità è molto diffusa. Ma è il risultato di un percorso storico diverso da quello eu­ropeo. Di certo la nostra retorica pub­blica è ben più ricca di riferimenti a Dio di quella comune nella maggior parte dei Paesi dell’Europa occiden­tale. Ma noi non abbiamo la storia di civilizzazione cristiana che pervade il Vecchio mondo. Questo risulta nel fatto che da noi sono riconosciute ben poche festività religiose. Inoltre in America la separazione di fede e ragione, quella stessa che Papa Be­nedetto denuncia come pericolosa, è a mio parere più profonda che in molti altri Paesi occidentali. Anche negli Stati Uniti il secolarismo è dif­fuso, anche se forse in modo meno aggressivo che in Europa. Forse an­che grazie al fatto che le Scritture fan­no parte integrante del dibattito pub­blico, in un modo che non sarebbe permesso dalle consuetudini euro­pee e che credo sia un lascito del­l’importanza che il protestantesimo attribuisce alla lettura e alla inter­pretazione individuale della Bibbia.
Uno dei discorsi più attesi di Bene­detto XVI è quello di giovedì agli e­ducatori cattolici. Che tipo di co­munità si troverà di fronte?
Non parlerà solo ai responsabili del­le università cattoliche, ma anche ai rappresentanti di scuole elementari, medie e superiori. Lo ascolterà una comunità variegata, e in cerca di i­spirazione per un compito non faci­le. Ma per loro fortuna questo è un Papa educatore, che conosce le loro difficoltà. Inoltre il Papa parlerà ai giovani seminaristi ed è l’unico in­contro che il Papa ha espressamen­te chiesto di avere. Questo perché de­sidera indicare loro personalmente la bellezza della fede e la libertà che possono trovare in Cristo, indipen­dentemente dalla società in cui vi­vono.
Come sarà ricevuto il Papa in Ame­rica?
Con cortesia e calore. Anche chi non è d’accordo con lui mostrerà rispet­to per la sua presenza. Non escludo proteste a margine di qualche even­to, ma ce ne sono sempre in occa­sione di visite importanti, fanno par­te della natura americana. Soprat­tutto però mi aspetto tantissimo en­tusiasmo da parte dei cattolici. An­che se Benedetto XVI non è ancora ben conosciuto qui negli Usa, c’è sempre grande amore per il succes­sore di Pietro. E sono convinto che la gentilezza di Benedetto XVI conqui­sterà facilmente sia i cattolici che i non cattolici.
Avvenire 15-4-2008


A dieci anni dalla morte di William Congdon - «Io dipingo Cristo crocifisso nella mia carne» di Michael John Zielinski Vice-Presidente della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa
Il 15 aprile di dieci anni fa moriva all'età di ottantasei anni il pittore americano William Congdon, esponente della Scuola di New York nel cui ambito aveva mosso i suoi primi passi, tra il 1948 e il 1949, insieme con Mark Rothko, Barnett Newman e Jackson Pollock. Pochi mesi dopo la sua morte, usciva un volume, Il Sabato della storia, in cui le immagini e le riflessioni dell'artista erano accostate alle meditazioni sul Venerdì e sul Sabato Santo dell'allora cardinale Joseph Ratzinger. Questo evento dice molto sulla vicenda davvero singolare di questo artista, convertitosi al cattolicesimo ad Assisi nel 1959 e da allora vissuto in un discreto ma operoso ritiro - dal 1980 il suo studio-abitazione era collocato accanto a un monastero benedettino nella Bassa lombarda. Congdon, in effetti, ha condiviso con tanti artisti della sua generazione una forte tensione religiosa e spirituale, ma questa, nel suo caso, ha raggiunto un livello di coscienza difficilmente verificabile nel panorama artistico del secondo Novecento.
Già prima della conversione, la sua pittura è come magnetizzata dal sacro, come testimoniano le sue immagini di città e di monumenta, tra cui spiccano le strepitose vedute della basilica marciana di Venezia - siamo nei primi anni Cinquanta - sorta di icone, nelle quali la pittura di Congdon pare voler rivestire il sacro di uno splendente abito nuziale. La chiesa-sposa in questa prima grande stagione della sua pittura è davvero inizio e nello stesso tempo meta di una ricerca che in lui ha un carattere profondamente emotivo, non in termini sentimentalistici, ma, appunto, della e-mozione, della uscita di sé, di un esodo permanente che lo porterà a peregrinare, anche in senso fisico, per le strade del mondo, con una tensione a tratti davvero titanica.
"Io gravitavo verso i luoghi per storia e per tradizione carichi di significato - dice l'artista stesso in una sua conferenza del 1987 - e così dipingevo il carico di memoria di questi luoghi (...) Mi tuffai nei simboli redentivi di altri popoli, mi impadronivo di quei templi per possederli, quasi nell'illusione che, nel possedere le religioni di altri, potessi esonerarmi dall'arrendermi ad una".
Quindi, la ricerca inesausta di un uomo che cerca Dio. Non a caso, già a partire dalla metà degli anni Cinquanta, gli scritti di sant'Agostino sono per lui la compagnia più assidua. E il corso successivo della sua vita si configura come una serie di tappe o di svolte - con-versioni - che via via approfondiscono e sviluppano le intuizioni degli inizi.
La conversione nel 1959 lo porta a cimentarsi con i temi della liturgia. Poi, soprattutto con la figura del Cristo crocefisso, per un arco di tempo che copre quasi vent'anni. Sono immagini che, se sconvolgono l'iconografia tradizionale, non lo fanno per gusto di originalità, ma per una profonda partecipazione al dramma della Croce: "Io non dipingo il Crocifisso - scrive ancora Congdon - ma Cristo crocifisso nella mia carne". Come ha scritto Enzo Bianchi: "Congdon non ha sostato sotto la croce o davanti alla croce, ma si è sentito certamente attraverso il crocefisso appeso alla croce: è salito in Cristo sulla croce! Ecce homo e la Croce: fatti uno".
E in tutto ciò egli rimane profondamente umile, riconoscendo che le sue immagini mai potrebbero entrare nello spazio della chiesa come servizio alla liturgia. La sua arte, senza esser "del" mondo, al mondo rimane così consegnata, destinata. I suoi dipinti non sono icone, ma, come ha suggerito Massimo Cacciari in un suo saggio su Congdon, "analogia dell'icona", quasi sua immagine rovesciata: "Quella di Congdon non è perciò icona, ma la più "perfetta" analogia dell'icona che un pittore del nostro "tempo del bisogno" possa immaginare".
Analogia dell'icona, quindi, ove il fondo oro della gloria è sostituito dal quel fondo nero che fa da supporto a quasi tutti i dipinti del pittore americano. Ecco perché i suoi ultimi Crocefissi sono in fondo una rappresentazione del Sabato santo - cioè di ciò che per definizione non potrebbe essere rappresentato. E tutta la sua pittura vive in un certo senso nello spazio di questo Sabato, di questa tenebra da cui sta per scattare la luce. Del resto, in tutta la sua lunga vicenda umana e artistica, Congdon ha saputo guardare negli angoli più bui della storia così come della sua vita personale, ma perché sostenuto dalla grazia di una speranza. Come ben scrisse Maritain, egli fu un uomo ferito, vulnerabile "di fronte a tutti gli strali spirituali, non solo quelli provenienti dalle angustie di questo mondo e dalla bellezza che ferisce i nostri sensi, ma anche dagli strali delle sfere ultraterrene".
La sua pittura, il suo gesto portano tutti i segni di un tormento febbrile, eppure ciò che lo sottende è la volontà di restaurare un'armonia, un ordine. Ed è quanto si documenta nella sua ultima stagione, dal 1979 alla morte. Ma perché ciò avvenisse era davvero necessario che egli si radicasse nella realtà sacramentale della Chiesa. È qui che davvero, come ha osservato Olivier Clément, "si iscrivono, nel destino del pittore, quei luoghi privilegiati della comunione dei santi che si chiamano Assisi e Subiaco. Assisi: non più la città sulle acque, ma la città ri-nata dalle acque battesimali (...) Subiaco: non più il sole nero nella luce caotica e smorta della febbre, ma la luna chiara in un mondo pacificato della notte fidente(...) riflesso del sole cristico, la luna, simbolo della chiesa per i primi cristiani". All'importanza dell'incontro con la spiritualità benedettina accenna anche Timothy Verdon, quando, a proposito dei notturni sublacensi di Congdon, cita un brano della Vita di san Benedetto di Gregorio Magno, che riferisce di una visione di luce notturna da cui il santo fu investito negli ultimi anni della sua vita. E certamente non è un caso che, come si è accennato, dopo i soggiorni a Subiaco negli anni Sessanta e Settanta, Congdon abbia scelto di vivere l'ultima stagione sua vita accanto a un monastero benedettino nella Bassa milanese. L'equilibrio profondo dell'ora et labora, non ha potuto non infondere nella sua ultima pittura una inaspettata serenità, una capacità di aderire alle scansioni oggettive del cielo, della terra e dei campi, ritrovando davvero una misura e un ordine che non lasciano più intendere un antagonismo tra l'oggetto e il soggetto, ma quella dimensione nuziale, sponsale già intuita come segno nelle opere degli inizi.
Ora, come scrive ancora Clément, "il gesto della mano prolungata dalla spatola non è più gesto di superbia demiurgica, è gesto nuziale che ritrova, sposa, trascrive il gesto creatore di Dio (...) Le ultime pitture di Congdon, quelle della Bassa milanese, sono a un tempo straordinariamente forti e straordinariamente pacificate (e pacificanti): tutta l'ampiezza, tutta la gioia della terra offerta al cielo". La materia non è più tormentata, ma lasciata levitare e trasfigurarsi in luce, in colore-luce, senza cessare di esser quello che è, materia, terra e campo.
Dopo dieci anni, la memoria di questo grande pittore rimane più che mai viva, ancora da esplorare nel ricco corpus della sua pittura e dei suoi scritti.


(©L'Osservatore Romano - 16 aprile 2008)


L’antica simpatia del Papa per la democrazia americana
Avvenire, 16 aprile 2008
DAVIDE RONDONI
A rrivando negli Stati Uniti il Papa incontra la nazione che più di ogni altra ha fatto coincidere la propria identità, il proprio messaggio e persino la propria missione perseguita con ogni forza con la parola: democrazia. L’America dice di coincidere e di amare sopra ogni cosa la democrazia, e di questo ha fatto la sua bandiera. Nei suoi film come nei suoi scandali, nelle sue guerre come nelle crisi sociali, nell’immaginario come nelle sue leggi, l’America dice di essere il cuore pulsante e la testa della democrazia. Lo dicono in modo diverso e scontrandosi le sue forze politiche, le sue razze, le lobby, i pensatori, liberals o conservatives. E sullo stato di salute di lei, sul rispetto, o sull’eventuale sfregio di lei, si misurano le opposizioni, gli scandali, le lotte anche feroci. Si potrebbe dire quasi che è una specie di idolo, la democrazia. Nel senso che è per rispetto a lei che si devono rispettare tante cose, persino arrivando a certi eccessi grotteschi del politically correct, o a certe sconfortanti ipocrisie. Arrivando a compiere certi riti che a noi spesso paiono quasi ridicoli. Benedetto XVI ha dedicato da tempo attenzione, anche quando non era ancora salito al Soglio, ai temi della salute della democrazia. Che è minacciata da nemici esterni, come l’avanzata di regimi fondamentalisti, quando pure sappiano mascherarsi con l’ossequio alle regole del consenso; e come lo spostamento del potere reale nelle mani di organismi non eletti o di forze economiche transnazionali. E che è minacciata da nemici interni. Come lo svuotamento di ogni riferimento ad una piattaforma antropologica, ad un insieme di valori che ancorino la democrazia al suo scopo: servire il meglio possibile il bene dell’uomo, e non appena essere un insieme di regole per vivere con meno disordine possibile. Ridotta a pura procedura, slegata da ciò che la tradizione religiosa e culturale di un popolo assicura come riferimento comune, la democrazia diviene solo un vuoto meccanismo di gestione dei consensi, che possono coagularsi anche intorno a pratiche politiche dannose per le persone.
Questo non è un allarme, ma un fatto già successo, e non poche volte. Non è uno scrupolo da anziano prete che teme per la sua perdita di raggio d’azione, no: è tanto sangue già corso, tanti soprusi orrendi già testimoniati, tanti guai del passato e che si profilano. È un papa realista, il nostro. Non fa della democrazia un idolo. L’ammirazione con cui Benedetto XVI ha parlato più volte delle pagine con cui l’europeo de Tocqueville analizza la democrazia americana indicano la rotta principale del suo pensiero su quel che l’America dice di amare. In quella democrazia, posta a confronto con quella che veniva profilandosi nella sua Francia e in Europa, de Tocqueville vede che il fondamento riconosciuto e onorato di una comune tradizione cristiana­protestante, in quel caso. Questo assicurava che l’ordinamento non implodesse sotto le tensioni degli scontri di opinione. L’esercizio di una libertà per tutti poteva coincidere con una tensione al bene comune che non si frastagliasse nella ricerca del consenso nei confronti di ciascun possibile arbitrio. Benedetto sa bene che il nemico interno della mancanza a qualsiasi riferimento antropologico comune è ciò che rende la democrazia non solo 'rischiosa' per chi vi abita, in balia delle opinioni della maggioranza anche per ciò che riguarda diritti fondamentali. Ma sa anche che i nemici interni la indeboliscono proprio contro le sfide che i nemici esterni stanno portando, alzando sempre di più il tiro e forse usando anche certi virus per indebolirla e trasformarla in un fantoccio. O in un circo delle opinioni, dove infine l’imperatore può tornare ad essere adorato.