Nella rassegna stampa di oggi:
1) Discorso di Benedetto XVI a George Bush alla Casa Bianca - Religione e moralità, "sostegni indispensabili per la prosperità politica"
2) Il Papa anticipa ai giornalisti l'obiettivo della missione negli Stati Uniti e all'Onu - Una nuova coscienza dei diritti umani - Un richiamo alla comune responsabilità delle Chiese e dei credenti
3) L’attesa degli educatori cattolici americani
4) Il sogno americano
5) I sacramenti negli Stati Uniti, generazioni a confronto
6) Oltre il mal di pancia, lo spirito di Assago, di Giorgio Vittadini
7) CHIESA CATTOLICA: per il cardinale Ruini la Chiesa è vista con sfavore nei media
8) La «via americana» al cattolicesimo tracciata da Orestes Augustus Brownson nel diciannovesimo secolo - L'eterno ritorno del diritto naturale
9) «Follia tutt’altro che inutile» - Casini (Mpv) a Ferrara: la vita è entrata in politica
10) Quel vizio antico di ritenersi i migliori, di Marina Corradi
11) Protestano per chiedere libertà di parola o di espressione religiosa. E pagano per questo, con il carcere. Sono le punte di un gigantesco iceberg presente in molti Paesi del continente. Di cui l’Occidente si dimentica troppo facilmente
Discorso di Benedetto XVI a George Bush alla Casa Bianca - Religione e moralità, "sostegni indispensabili per la prosperità politica"
WASHINGTON, mercoledì, 16 aprile 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso rivolto da Benedetto XVI al Presidente George W. Bush questo mercoledì mattina, durante la cerimonia di benvenuto alla Casa Bianca di Washington.
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Signor Presidente,
grazie per le gentili espressioni di benvenuto formulatemi a nome del popolo degli Stati Uniti d'America. Apprezzo profondamente il Suo invito a visitare questo grande Paese. La mia venuta coincide con un momento importante della vita della Comunità cattolica in America, cioè la celebrazione del secondo centenario della elevazione a metropolia arcidiocesana della prima diocesi del Paese, Baltimora, e la fondazione delle sedi di New York, Boston, Filadelfia e Louisville. Sono inoltre felice di essere ospite di tutti gli Americani. Vengo come amico e annunciatore del Vangelo, come uno che rispetta grandemente questa vasta società pluralistica. I cattolici americani hanno offerto, e continuano ad offrire, un eccellente contributo alla vita del loro Paese. Nell'accingermi a dare inizio alla mia visita, confido che la mia presenza possa essere fonte di rinnovamento e di speranza per la Chiesa negli Stati Uniti e rafforzi la determinazione dei cattolici a contribuire ancor più responsabilmente alla vita della Nazione, della quale sono fieri di essere cittadini.
Sin dagli albori della Repubblica, la ricerca di libertà dell'America è stata guidata dal convincimento che i principi che governano la vita politica e sociale sono intimamente collegati con un ordine morale, basato sulla signoria di Dio Creatore. Gli estensori dei documenti costitutivi di questa Nazione si basarono su tale convinzione, quando proclamarono la "verità evidente per se stessa" che tutti gli uomini sono creati eguali e dotati di inalienabili diritti, fondati sulla legge di natura e sul Dio di questa natura. Il cammino della storia americana evidenzia le difficoltà, le lotte e la grande determinazione intellettuale e morale che sono state necessarie per formare una società che incorporasse fedelmente tali nobili principi. Lungo quel processo, che ha plasmato l'anima della Nazione, le credenze religiose furono un'ispirazione costante e una forza orientatrice, come ad esempio nella lotta contro la schiavitù e nel movimento per i diritti civili. Anche nel nostro tempo, particolarmente nei momenti di crisi, gli Americani continuano a trovare la propria energia nell'aderire a questo patrimonio di condivisi ideali ed aspirazioni.
Nei prossimi giorni, attendo con gioia di incontrare non soltanto la comunità cattolica d'America, ma anche altre comunità cristiane e rappresentanze delle molte tradizioni religiose presenti in questo Paese. Storicamente, non solo i cattolici, ma tutti i credenti hanno qui trovato la libertà di adorare Dio secondo i dettami della loro coscienza, essendo al tempo stesso accettati come parte di una confederazione nella quale ogni individuo ed ogni gruppo può far udire la propria voce. Ora che la Nazione deve affrontare sempre più complesse questioni politiche ed etiche, confido che gli americani potranno trovare nelle loro credenze religiose una fonte preziosa di discernimento ed un'ispirazione per perseguire un dialogo ragionevole, responsabile e rispettoso nello sforzo di edificare una società più umana e più libera.
La libertà non è solo un dono, ma anche un appello alla responsabilità personale. Gli americani lo sanno per esperienza - quasi ogni città di questo Paese possiede i suoi monumenti che rendono omaggio a quanti hanno sacrificato la loro vita in difesa della libertà, sia nella propria terra che altrove. La difesa della libertà chiama a coltivare la virtù, l'autodisciplina, il sacrificio per il bene comune ed un senso di responsabilità nei confronti dei meno fortunati. Esige inoltre il coraggio di impegnarsi nella vita civile, portando nel pubblico ragionevole dibattito le proprie credenze religiose e i propri valori più profondi. In una parola, la libertà è sempre nuova. Si tratta di una sfida posta ad ogni generazione, e deve essere costantemente vinta a favore della causa del bene (cfr Spe salvi, 24). Pochi hanno compreso ciò così lucidamente come Papa Giovanni Paolo II, di venerata memoria. Nel riflettere sulla vittoria spirituale della libertà sul totalitarismo nella sua natia Polonia e in Europa orientale, egli ci ricordò come la storia evidenzi, in tante occasioni, che "in un mondo senza verità, la libertà perde il proprio fondamento" e una democrazia senza valori può perdere la sua stessa anima (cfr Centesimus annus, 46). Queste parole profetiche fanno eco in qualche modo alla convinzione del Presidente Washington, espressa nel suo discorso d'addio, che la religione e la moralità costituiscono "sostegni indispensabili" per la prosperità politica.
La Chiesa, per parte sua, desidera contribuire alla costruzione di un mondo sempre più degno della persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio (cfr Gn 1, 26-27). Essa è convinta che la fede getta una luce nuova su tutte le cose, e che il Vangelo rivela la nobile vocazione e il sublime destino di ogni uomo e di ogni donna (cfr Gaudium et spes, 10). La fede, inoltre, ci offre la forza per rispondere alla nostra alta vocazione e la speranza che ci ispira ad operare per una società sempre più giusta e fraterna. La democrazia può fiorire soltanto, come i vostri Padri fondatori ben sapevano, quando i leader politici e quanti essi rappresentano sono guidati dalla verità e portano la saggezza, generata dal principio morale, nelle decisioni che riguardano la vita e il futuro della Nazione.
Da ben oltre un secolo, gli Stati Uniti d'America hanno svolto un ruolo importante nella comunità internazionale. Venerdì prossimo, a Dio piacendo, avrò l'onore di rivolgere la parola all'Organizzazione delle Nazioni Unite, dove spero di incoraggiare gli sforzi in atto per rendere quella istituzione una voce ancor più efficace per le legittime aspettative di tutti i popoli del mondo. A questo riguardo, nel 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, l'esigenza di una solidarietà globale è più urgente che mai, se si vuole che tutti possano vivere in modo adeguato alla loro dignità, come fratelli e sorelle che abitano in una stessa casa, attorno alla mensa che la bontà di Dio ha preparato per tutti i suoi figli. L'America si è sempre dimostrata generosa nel venire incontro ai bisogni umani immediati, promuovendo lo sviluppo e offrendo sollievo alle vittime delle catastrofi naturali. Ho fiducia che tale preoccupazione per l'ampia famiglia umana continuerà a trovare espressione nel sostenere gli sforzi pazienti della diplomazia internazionale volti a risolvere i conflitti e a promuovere il progresso. Così, le generazioni future saranno in grado di vivere in un mondo dove la verità, la libertà e la giustizia possano fiorire - un mondo dove la dignità e i diritti dati da Dio ad ogni uomo, donna e bambino, vengano tenuti in considerazione, protetti e promossi efficacemente.
Signor Presidente, cari amici: mentre mi accingo a dar inizio alla visita negli Stati Uniti, voglio esprimere ancora una volta la mia gratitudine per l'invito formulatomi, la gioia di essere in mezzo a voi, e la mia fervente preghiera che Dio Onnipotente confermi questa Nazione e il suo popolo nelle vie della giustizia, della prosperità e della pace. Dio benedica l'America!
[Traduzione dall'originale inglese distribuita dalla Santa Sede
© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
L’attesa degli educatori cattolici americani
Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
mercoledì 16 aprile 2008
Uno dei discorsi più attesi di Benedetto XVI è quello di giovedì 17 aprile agli educatori cattolici. “Non parlerà solo ai responsabili delle università cattoliche, ma anche ai rappresentanti di scuole elementari, medie e superiori. Lo ascolterà una comunità variegata, e in cerca di ispirazione per un compito non facile. Ma per loro fortuna questo è un Papa educatore, che conosce le loro difficoltà. Inoltre il Papa parlerà ai giovani seminaristi ed è l’unico incontro che il Papa ha espressamente chiesto di avere. Questo perché desidera indicare loro personalmente la bellezza della fede e la libertà che possono trovare in Cristo, indipendentemente dalla società in cui vivono…La stessa proclamazione della verità di Cristo a una società come quella americana rappresenta una sfida. Significa annunciare il messaggio di libertà di Cristo a una società che si considera, a torto o a ragione, la più libera della Terra. E far capire ai cristiani che c’è una enorme differenza fra la libertà intessuta nel Vangelo e la libertà sancita dalla Costituzione americana. La libertà americana è fatta di una serie di diritti inviolabili. Sono fondamentali e importanti, ma possono divenire totalitaristici quando vengonop intesi come libertà di scelta illimitata. Questo tipo di percezione individualistica, della liberà, rischia di vedere il messaggio del Vangelo e i principi morali che ne derivano come un ostacolo al proprio pieno compimento. L’esempio più lampante è quello della moralità in materia sessuale annunciata dalla Chiesa cattolica. Nella società americana viene spesso vista come un limite, un ostacolo alla propria libertà di scegliere il comportamento sessuale che più aggrada. La sfida di noi pastori è far capire che l’etica sessuale insegnata dalla Chiesa libera dalla egoistica ricerca del piacere individuale. Ma ci sono altri esempi. Nella società americana, infatti, si assistono a tanti modi di violare la santità della vita. Anche con la violenza, la pena di morte, la mancanza di un sistema sanitario accessibile ai poveri. Sono tutti campi di sfida per la Chiesa che fa del rispetto della vita umana un punto di partenza imprescindibile del suo messaggio e che rifugge i tentativi esterni di politicizzare le sue posizioni” (Intervista pubblicata su Avvenire del 16 aprile 2008 a Francio Gorge, arcivescovo di Chicago e presidente della Conferenza episcopale statunitense).
Richard Neuhaus, teologo, direttore della rivista First Things e presidente dell’Istituto per la religione nella vita pubblica, in una intervista su Il Foglio Quotidiano del 16 aprile 2008, afferma che tra tomisti agostiniani e agostiniani tomisti c’è la posizione tipica di Ratzinger/Benedetto su come evangelizzare, come educare alla fede oggi. “Benedetto – sempre Neuhaus –aveva già riassunto buona parte di quanto sto dicendo nel discorso pronunciato in occasione del funerale di don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e liberazione”. Allora aveva detto nel Duomo di Milano sostanzialmente questo: il cristianesimo non è un sistema intellettuale né una raccolta di dogmi o un sistema morale dedotto da una dottrina. Il cristianesimo è originariamente e continuamente innanzitutto l’avvenimento di un incontro, una storia d’amore, un evento, una persona viva e presente: Gesù Cristo, il crocefisso risorto che si fa presente sacramentalmente qui e ora per incontrarsi con il desiderio originario, immanente di ogni uomo di vedere Dio. Perché avvenga questo ingresso di Cristo in noi, tale per cui siamo trasformati in Lui, viviamo in Lui nel noi della Chiesa attraverso vere amicizie e viviamo di Lui infonde ciò che di più intimo, di più proprio c’è in Lui, il suo stesso Spirito filiale che unico realizza l’incontro dell’uomo con il Verbo incarnato, crocifisso e risorto. Tutta la conseguente costruzione intellettuale di principi e idee fondamentali, ordinate sistematicamente in una interpretazione complessiva della realtà, capace di essere comunicata alla ragione di ogni persona si fonda su una comprensione squisitamente storica, così come su una interpretazione personale e anche su quella che oggi definiremmo una comprensione psicologica dell’esperienza umana che aspira nella sua immanenza alla trascendenza, a Dio, senza alcun dualismo. “Tu ci hai creato per Te, o Signore, e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in Te” esprimono perfettamente l’aspirazione al divino in un volto umano. E questo è Dio, mentre le essenze trascendentali sono il bene, la verità e la bellezza esperite personalmente in quello che Benedetto definisce “il volto umano di Dio, Gesù Cristo”, come ha ricordato nel suo messaggio preliminare ai cattolici americani sulla sua visita. Ecco perché Benedetto XVI è un uomo di grande gentilezza, di profonda intensità spirituale, di grande curiosità intellettuale e, soprattutto, di serena tranquillità interna, sgorgante dalal gioia di essere parte del mistero divino-umano dei fini redentivi di Dio attraverso Cristo e la sua Chiesa.
Una via più eccellente
E per approfondire il percorso pastorale, pedagogico, educativo dell’attuale evangelizzazione è utile riandare all’enciclica “Redemptoris missio” di Giovanni Paolo II, dedicata al tema dell’evangelizzazione, di cui Ratzinger ha avuto un ruolo importante. Dopo essersi detto consapevole che oggi molte persone ritengono illegittima l’idea dell’evangelizzazione, in quanto presuppone che si sia in possesso di una verità da imporre alle altre persone, Giovanni Paolo II dice: “La chiesa non impone nulla; si limita a proporre”. Ma ritiene e testimonia che quanto propone sia la verità, e gli esseri umani attendono, hanno il diritto dell’annuncio della verità che la chiesa propone, come un amante l’oggetto del suo amore; propone sempre e di nuovo, senza mai stancarsi, con persistenza e grande capacità persuasiva. E la Catechesi tradendae dice che non si può ridurre la catechesi alla spiegazione delle verità di fede ma la loro conoscenza deve rifarsi all’esperienza personale e comunitaria dell’incontro esistenziale con Cristo. E Benedetto XVI, alla luce del Vaticano II, propone “una via più eccellente”, come dicono le meravigliose parole di san Paolo nella prima lettera ai Corinzi, capitolo 12, nel quale affronta i problemi incontrati allora nella Chiesa di Corinto e così attuali anche oggi. E problemi ce n’erano anche nella chiesa primitiva. Erano uno contro l’altro; c’erano fazioni, rivalità, gelosie. E san Paolo Scrive: per favore, non fate così e ce lo ripete alla vigilia dell’anno paolino per il bimillenario della sua nascita. Poi, alla fine del capitolo 12, dice: “Lasciate che vi mostri una via migliore”. A questo punto inizia il capitolo 13, il sublime inno alla carità: “Anche se io parlassi con la lingua degli uomini e degli angeli, e non avessi la carità…fede, speranza, carità, queste tre cose sono eterne, ma la più grande di tutte è la carità”. Ed è proprio quello che Benedetto si prepara a dire ai ragazzi, ai giovani, ai seminaristi giovedì 17 aprile. Ed è ciò che ha fatto per tutta la su avita di cattolico, come prete, poi come vescovo e ora come Papa: proporre una “via migliore”, una via umana eccellente. Ciò che propone è un umanesimo profondamente cristiano. In Spe Salvi invita sia l’illuminismo moderno e sia il cristianesimo moderno a una reciproca revisione critica, come ha proposto il Vaticano II, e lo fa in America che “si considera, a torto o a ragione, la più libera della Terra. E fare capire ai cristiani che c’è una enorme differenza fra la libertà intessuta nel Vangelo e la liberà sancita dalla Costituzione americana”, come afferma il Presidente della Conferenza episcopale americana. E’ la sola alternativa all’ormai esausto illuminismo laico, il quale, per ragioni perfettamente comprensibili, riteneva di doversi ribellare contro ogni forma di autoritarismo, compreso quello ecclesiastico. E lo scopo era quello, come spiega Benedetto in Spe Salvi, di stabilire i valori fondamentali della libertà umana e della ragione. In questo senso, l’illuminismo, è stato necessario. Proprio così, e questo vale anche per l’illuminismo militante e fortemente anticristiano e anticattolico. Ma ora, sostiene Benedetto in una revisione reciproca, dopo più di trecento anni, è giunto il momento di ripartire di nuovo per dare nuovo slancio alla cultura del nostro tempo e per restituire in essa alla fede cristiana cittadinanza. Diversamente da quanto dice l’illuminismo laicista, non c’è nessun conflitto tra la religione e la scienza, tra fede e ragione, tra calcolo razionale e immanente aspirazione alla trascendenza e all’infinito dal volto umano presente risorto nella sua Chiesa per tutti e per tutto. Questo è l’annuncio, la proposta alla libertà di ogni persona, fatta anche oggi con tanta fiducia in un umanesimo profetico che propone una via migliore per gli esseri umani per riunire dopo tutte le vicissitudini attraverso le quali siamo passati fin da Bacone, fede e ragione, immanenza e trascendenza, finito e infinito. “Una proposta – conclude Richard Neuhaus – che cozza contro buona parte dei presupposti della nostra cultura. Ma è anche un invito, un invito a riflettere nuovamente sulla proposta cristiana. Non, come ha detto Benedetto al funerale di Luigi Giussani, in quanto sistema intellettuale (anche se è la più ricca tradizione intellettuale che l’uomo abbia mai conosciuto) e nemmeno come sistema morale (anche se il più umano e completo); bensì come “un incontro, una storia d’amore, un evento, l’infinita avventura di una vita vissuta come risposta al volto umano di Dio in Gesù Cristo, una vita vissuta nella sua totalità come amore in risposta all’amore”.
Il Papa anticipa ai giornalisti l'obiettivo della missione negli Stati Uniti e all'Onu - Una nuova coscienza dei diritti umani - Un richiamo alla comune responsabilità delle Chiese e dei credenti
Due gli obiettivi dichiarati della visita di Benedetto XVI negli Stati Uniti d'America e il Papa li ha evidenziati non appena l'aereo è decollato da Roma, nel consueto momento d'incontro con i giornalisti al seguito. Il primo è di natura religiosa, pastorale ed ecumenica. Lo porterà a prendere contatto con la dimensione cattolica americana e a incontrare i responsabili di altre chiese e confessioni cristiane e i rappresentanti di altre religioni per riflettere insieme nell'ottica "di quella comune responsabilità" che proprio le religioni hanno nella costruzione della pace nel mondo.
Il secondo obiettivo, ha ricordato ai giornalisti, è la celebrazione del sessantesimo anniversario della Dichiarazione dei Diritti umani, nel Palazzo delle Nazioni Unite. In questa dichiarazione "sono confluite diverse tradizioni culturali, soprattutto un'antropologia che riconosce nell'uomo un soggetto di diritto precedente a tutte le istituzioni". Si tratta dunque di diritti umani fondamentali "che esprimono valori non negoziabili che precedono tutte le istituzioni" e ne costituiscono il fondamento perché si tratta di valori "iscritti nello stesso essere uomo". E le Nazioni Unite, se vogliono continuare a svolgere veramente la loro funzione pacificatrice, ha aggiunto il Papa, devono riscoprire il loro fondamento in quei "comuni valori che poi si esprimono in diritti" che tutti devono osservare. Confermare questa concezione "fondamentale e fondante" e aggiornarla per quanto possibile "è un obiettivo - ha aggiunto Benedetto XVI - della mia missione". Le domande dei giornalisti hanno poi spaziato su altri argomenti. Gli è stato chiesto di esprimersi sullo scandalo degli abusi sessuali che ha sconvolto la Chiesa americana nel recente passato. Benedetto XVI ha risposto con chiarezza usando parole forti, quali "vergogna", di sofferenza personale, di incredulità di fronte ai casi di preti coinvolti. Ma poi ha illustrato un piano di decisi interventi, quali "ispezione nei seminari", "esclusione dal sacramento del sacerdozio", maggiore "severità nel discernimento" perché "è molto più importante avere buoni sacerdoti - ha detto - che averne molti".
Sulla questione degli immigrati dall'America latina, spesso costretti a dover affrontare forme di discriminazione e di precarietà, Benedetto XVI ha mostrato di conoscere a fondo la situazione e di averla particolarmente a cuore. Ha assicurato di volerne parlare con il presidente Bush con un suggerimento: affrontare e risolvere il problema a monte, aiutando cioè i Paesi di provenienza in modo tale da evitare che le persone vadano a cercare all'estero quelle chance di sopravvivenza che non hanno in casa propria. Dal punto di vista pastorale gli immigrati di lingua spagnola costituiscono per la Chiesa negli Stati Uniti d'America una ricchezza e, al tempo stesso, una sfida. Una ricchezza, ha spiegato Benedetto XVI, perché vanno ad incrementare il numero della popolazione cattolica statunitense. Una sfida perché hanno bisogno di una cura particolare, minacciati come sono persino nelle fondamenta dell'istituto familiare, concretamente esposto al rischio di sgretolarsi. Altro argomento della conversazione con i giornalisti è stato poi il raffronto tra Stati Uniti ed Europa sul valore pubblico della religione. Il Papa, confermata la diversità della storia delle due grandi realtà, ha voluto presentarla come occasione di reciproco arricchimento. Oggi gli Stati Uniti d'America possono rappresentare il modello "di un concetto nuovo di laicità", un modello che "io trovo affascinante" ha aggiunto il Papa. Era un popolo nuovo, ha spiegato Benedetto XVI, composto da comunità e persone fuggite dalle Chiese di Stato; voleva avere uno stato laico, secolare, che aprisse a tutte le confessioni, per tutte le forme di esercizio religioso. "Così è nato - ha concluso il Papa - uno Stato volutamente laico", ma laico "per amore della religione nella sua autenticità, che può essere vissuta solo liberamente".
(©L'Osservatore Romano - 17 aprile 2008)
Il sogno americano
Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
mercoledì 16 aprile 2008
Mi accingo a scrivere mentre sta cominciando il viaggio del Papa negli Stati Uniti d’America. Il tema riecheggia l’enciclica “Spe salvi”: Cristo nostra speranza. “Gesù Cristo è la speranza per gli uomini e le donne di ogni lingua, razza, cultura e condizione sociale”. Gli americani attendono con impazienza di conoscere il papa, ha detto l’ambasciatrice americana in Italia, di sentire parole di speranza e di incoraggiamento. La particolare storia dell’America porrà al centro delle riflessioni del pontefice il tema della libertà e della laicità. Nell’intervista concessa ai giornalisti durante il volo negli States, il papa ha ricordato che gli Stati Uniti sono nati volutamente laici: erano contrari ad una Chiesa di Stato, occorreva dare spazio a tutte le confessioni religiose per dare autenticità alla religione, fuori dai vincoli delle Chiese di Stato nate dal famoso principio “cuis regio eius religio” delle nazioni europee protestanti. Una laicità, quindi, espressa positivamente, che ha fatto dell’America una nazione religiosa e moderna. Salutando il presidente Bush al suo arrivo alla Casa Bianca, Benedetto XVI ha affermato che “la libertà è sempre nuova”, non è un dato acquisito una volta per tutte, un diritto soggettivo chiuso, che esclude l’altro, la condivisione con chi ci è prossimo. Citando Giovanni Paolo II, ha ricordato che in un mondo senza verità la libertà perde il proprio fondamento. In attesa di conoscere i contenuti che verranno svolti nel viaggio, in particolare il discorso all’assemblea delle Nazioni Unite, possiamo formulare alcune riflessioni utili a interrogare il presente. Si discute spesso di laicità nel nostro paese ma nel dibattito non ci si discosta dall’ interpretazione della laicità come contrapposizione tra religione e spazio pubblico, secondo una visione illuminista radicale che fa della separazione fede-ragione un dogma. Una visione rigida, che toglie spessore morale all’agire politico e sociale, privato di fondamenti ideali. Come inevitabile conseguenza, anche la libertà di pensiero e la libertà religiosa vengono limitate all’interno di “una confusa cultura della libertà”. Guardare al modello positivo di laicità americana, che deve essere sicuramente integrato e rinvigorito, può favorire un approccio più libero, meno ideologico al problema. La nostra cultura ha bisogno di respirare libertà, di rinvigorire il pensiero sulle solide basi di un umanesimo vero. Il papa nella patria del sogno americano porta la Grazia di un Dio che ha mostrato il suo volto umano. Recita un gospel: “nella nostra storia spezzata c’è una nuova realtà, se tu sei più consapevole di quanto osarono i sognatori, vieni e condividi la nostra libertà, seguici e vedrai una nazione, una nuova creazione.” Questa promessa è dono di Dio. Di Lui parlerà il Papa. Qualcuno sulla stampa americana l’ha scritto: “lo guardiamo negli occhi e vi leggiamo Dio”.
Oltre il mal di pancia, lo spirito di Assago
Autore: Vittadini, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
martedì 15 aprile 2008
Questo voto, più degli altri, è il voto del popolo contro l’establishment.
Due anni fa molti intellettuali e alcuni dei più importanti giornalisti italiani inneggiavano al cambiamento dell’Italia, che sarebbe stato portato da una coalizione progressista, egemonizzata culturalmente dalla Rosa nel pugno. Finalmente, dicevano, si sarebbe assistito alla fine dell’Italia delle appartenenze ideali, per permettere l’avvento di una posizione culturale “zapateriana” sul piano dei diritti della persona, imperniata su un solido statalismo nel welfare e nell’istruzione e su uno stravolgimento delle caratteristiche economiche del nostro Paese rendendolo pedina coloniale di un sistema internazionale governato dalla grande finanza.
Il Governo Prodi è stato invece un disastro e ha smentito clamorosamente tutte queste previsioni: la mentalità radical chic ha tentato di introdurre leggi su matrimoni invisi a una cultura popolare per quanto secolarizzata; lo statalismo ha ostacolato in tutti i modi i tentativi di ripresa del mondo produttivo italiano (che continua a incrementare le esportazioni, ma è bloccato da lacci e laccioli enormi); l’ostinazione nell’opporsi ad autonomia e parità ha peggiorato ancor di più la qualità della scuola; la pressione fiscale non accompagnata da una riduzione della spesa pubblica clientelare ha compresso i salari e reso più difficile la situazione economica di tutti; il centralismo burocratico ha impedito l’avvento di un welfare sussidiario, mortificato ulteriormente il Nord, non risolto alcun problema al Sud.
Di fronte a tutto questo è riemerso un voto di reazione contro chi opprime un’Italia che non è solo l’Italia dei consumatori, ma è anche l’Italia dei produttori e di chi genera nuove iniziative; un’Italia del Nord che non vuole dividersi dal Sud, ma vuole poter produrre senza essere vessata; un’Italia che non è quella degli evasori, ma di quelli che costruiscono e che vogliono tasse eque; l’Italia della scuola libera e autonoma, contro chi, dalle colonne di certi giornali, bolla da sempre la libertà di educazione come il principale fattore che limita la possibilità di una vera cultura.
Per questo è stato punito chi è l’anima di questo tentativo: la sinistra radicale, giustificata moralmente da un certo cattocomunismo, e gli intellettuali e opinionisti che volevano imporre la loro ideologia al popolo italiano considerato incapace di scegliere il suo destino. Per questo gli italiani non hanno voluto fare del nuovo centro post democristiano, l’ago della bilancia, perché pone la novità sullo schieramento e non capisce questa necessità di cambiamento nei contenuti della politica. Per questo l’importante e coraggiosa scelta di Veltroni di far correre il PD da solo senza la sinistra radicale non è stata premiata dagli elettori, perché insieme a personalità portatrici di un reale cambiamento, forti sono, nel suo partito, legami con quel vecchio mondo politico, protagonista del recente passato statalista. Per questo il successo del centrodestra è stato di proporzioni impensate non solo per la Lega, ma anche per Regioni come la Lombardia dove tale schieramento non è solo il punto di sfogo dei mal di pancia, ma un esempio di un nuovo modo di governare suggellato dalla conquista dell’Expo e da una vera svolta sussidiaria per lo sviluppo e la solidarietà, attraverso personalità come il governatore Formigoni e il sindaco Moratti. Proprio la Lombardia, con la sua politica sussidiaria, i “voucher”, le “doti”, le piccole e medie imprese che vanno all’estero, le infrastrutture che cominciano a funzionare, le persone anziane che invece di finire in un pensionato possono vivere con la famiglia, la formazione professionale che non è più clientelare, la possibilità che la scuola cominci a offrire quella opportunità di scelta che le famiglie desiderano, la sanità “mista”, ai vertici internazionali per la qualità, può essere l’esempio che trasforma un voto di protesta in una possibile svolta.
Non basta infatti al centrodestra aver vinto le elezioni: senza un cambiamento antropologico e culturale si finirebbe per rendere scontenti ancora gli italiani, come lo sono stati per il precedente governo Berlusconi. Occorre a livello popolare la ripresa dell’educazione a una fede e a valori ideali che hanno dato al nostro Paese le motivazioni e l’intelligenza per superare ogni crisi. Occorre una svolta culturale che mostri, nello spirito di quanto disse Don Giussani al congresso della Dc lombarda di Assago nel 1987, che la politica non salva l’uomo, ma può aiutare un cambiamento che nasce dalla società e dai suoi movimenti e, ancor di più, dal desiderio non sopito del cuore dell’uomo.
Questo e non qualche demiurgo o, peggio, le grida di quei giornali ciechi alle devastazioni di una finanza e di un mercato selvaggi, potranno aiutare il futuro governo a non sprecare ancora una volta la fiducia accordata dagli italiani. In questo senso è necessario un disegno riformatore largamente condiviso, come auspicato dagli italiani nelle risposte al Rapporto 2007 “Sussidiarietà e riforme istituzionali”. La semplificazione delle forze parlamentari lo favorisce e le prime dichiarazioni di Berlusconi che propone riforme condivise riesumando la bicamerale per le riforme, sono di buono auspicio in questo senso.
Infine, perché tutto questo si avveri, è necessario un rinnovamento della compagine ministeriale, che si allontani da ciò che si è visto in liste elettorali decise dalle segreterie dei partiti e popolate spesso da personaggi che gli italiani non avrebbero mai mandato a Roma se avessero potuto sceglierli. Occorrono personalità che scommettano realmente sul primato della società e di ciò che sussidiariamente ne nasce. Diversamente, una volta di più, una rondine non farà primavera, con risultati disastrosi per tutti.
I sacramenti negli Stati Uniti, generazioni a confronto
Una recente ricerca svolta negli Stati Uniti dal Center for applied research in the apostolate della Georgetown University, ha evidenziato grandi differenze tra i cattolici delle diverse generazioni riguardo l'importanza che i sacramenti hanno nella loro vita…
Una recente ricerca svolta negli Stati Uniti dal Center for applied research in the apostolate (Cara) della Georgetown University, ha evidenziato grandi differenze tra i cattolici delle diverse generazioni riguardo l'importanza che i sacramenti hanno nella loro vita. Ad esempio, alla domanda su quale fosse il sacramento più significativo, il 39 per cento ha risposto il battesimo, il 26 il matrimonio e il 25 l'eucaristia. Ma tra le persone che partecipano alla messa una o più volte alla settimana il 52 per cento ha affermato che il sacramento più importante nella loro vita è l'eucaristia.
Lo studio ha diviso le persone interpellate in quattro generazioni, prendendo come riferimento il Concilio Vaticano II: pre-Concilio, comprendente tutte le persone nate prima del 1943; Concilio, con persone nate tra il 1953 e il 1960; post-Concilio, nate tra il 1961 e il 1981; cattolici del millennio, nati dopo il 1981. Mentre gli appartenenti alle prime tre generazioni hanno posto l'eucaristia come sacramento per loro più significativo, il 43 per cento dei cattolici del millennio ha scelto il matrimonio.
La ricerca, svolta su 1.007 adulti cattolici che si sono autodefiniti tali, è stata commissionata dal dipartimento delle comunicazioni della United States conference of catholic bishops (Usccb) e pubblicata alcuni giorni fa. Ha rilevato, ad esempio, che per ogni generazione successiva la percentuale di quanti hanno ricevuto la prima comunione e il primo sacramento della riconciliazione e di coloro che hanno ricevuto il sacramento della confermazione, diminuisce. E solo il 2 per cento dei cattolici di tutte le generazioni ha detto di ricevere il sacramento della riconciliazione una o più volte al mese.
La relazione del Cara, intitolata "I sacramenti oggi: fede e pratica tra i cattolici statunitensi", riassume le risposte a una vasta gamma di domande sull'atteggiamento dei cattolici verso la messa, i sacramenti e la partecipazione agli stessi, oltre a quelle sulla loro conoscenza della fede cattolica, la loro opinione sulla guida e sugli insegnamenti della Chiesa; se recitano il rosario, se portano con sé oggetti religiosi o hanno appeso l'immagine di Maria nelle loro case. L'arcivescovo di San Francisco, George Hugh Niederauer, che quale presidente del comitato episcopale per le comunicazioni ha autorizzato la ricerca, avverte che i risultati serviranno come orientamento ai responsabili della Chiesa. "Rivelano buona volontà, atteggiamenti sani verso il prossimo e apertura verso la Chiesa tra i giovani cattolici", ha detto monsignor Niederauer, il quale tuttavia sottolinea "anche la necessità di compiere maggiori sforzi nell'educazione sia degli adulti sia dei giovani".
Il Centro per la ricerca applicata all'apostolato ha rilevato che il 69 per cento dei cattolici pre-Concilio concorda fermamente con la dichiarazione "sono orgoglioso di essere cattolico", ma che questa percentuale diminuisce con ogni successiva generazione. "È incoraggiante che così tanti sono fieri di dirsi cattolici" ha affermato l'arcivescovo di San Francisco, per il quale "la sfida per le guide della Chiesa è ora di aiutarli a capire che cosa significa veramente essere cattolici".
Cattolici statunitensi in gran parte d'accordo, inoltre, con l'affermazione "nel decidere ciò che è moralmente accettabile riguardo agli insegnamenti della Chiesa e alle dichiarazioni del Papa e dei vescovi per formare la mia coscienza". Quasi un quarto (23 per cento) dei cattolici che hanno partecipato alla ricerca ha dichiarato di partecipare alla messa almeno una volta a settimana, un dato che, secondo il Cara, è rimasto invariato negli ultimi cinque anni. La conoscenza della fede cattolica, in generale, è risultata più elevata tra le generazioni anziane rispetto a quelle giovani, ma la ricerca ha rilevato che l'approfondimento della Bibbia è più presente tra i giovani che fra gli adulti. Tra i giovani e i più anziani è anche cresciuto il numero di quanti dichiarano di astenersi dalla carne il venerdì e durante la Quaresima e di ricevere normalmente le Ceneri nel corso delle celebrazioni del mercoledì rispetto alle generazioni del Concilio e del post-Concilio.
Non è considerato sorprendente poi che il Center for applied research in the apostolate abbia rilevato che "la frequenza della partecipazione alla messa è un forte indicatore dell'importanza generale che il cattolicesimo ha nella vita di una persona e del suo impegno a vivere la fede". In generale - afferma la relazione - "più una persona va a messa e partecipa con frequenza ad altre attività ecclesiastiche o religiose, più è grande la sua conoscenza della fede cattolica, la consapevolezza degli avvenimenti attuali nella Chiesa e l'adesione agli insegnamenti".
(©L'Osservatore Romano - 17 aprile 2008)
La «via americana» al cattolicesimo tracciata da Orestes Augustus Brownson nel diciannovesimo secolo - L'eterno ritorno del diritto naturale
di Roberto de Mattei
Professore di Storia moderna all'Università di Cassino e Coordinatore del corso di laurea in Scienze Storiche presso l'Università Europea di Roma
Il mondo cattolico americano ha radici profonde e vanta ricche tradizioni di dottrina e di apostolato, ma anche legami con la Chiesa di Roma non secondi a nessuno, nonostante, o forse grazie, al regime di privatizzazione in cui si trova a operare. Non va dimenticata in questo ambito la "via americana" al cattolicesimo tracciata da Orestes Augustus Brownson (1803-1876), una delle figure del pensiero statunitense più atipiche e meno conosciute in Europa.
Nato nel Vermont da una famiglia di origine inglese, Brownson partecipò attivamente al dibattito religioso, filosofico e costituzionale del suo tempo, ma non fu teologo, né filosofo, né giurista, né tanto meno uomo politico. Più difficile ancora definire la sua posizione ideologica. Arthur Schlesinger jr. ha definito Brownson un "marxista prima di Marx"; Christopher Lasch gli assegna un ruolo di primo piano nella storia del pensiero progressista; Russell Kirk lo ha considerato come uno dei padri del pensiero conservatore. Questa differenza di letture si deve anche al complesso itinerario intellettuale di Brownson. Egli passò infatti attraverso le principali forme del protestantesimo, dal presbiterianesimo al congregazionalismo; fu attratto dagli ambienti massonici ed esoterici; fu fra i primi esponenti del movimento sociale nascente; fece parte dei circoli trascendentalisti di Boston. Finalmente, nel 1844, sotto l'influenza del vescovo di Boston John Bernard Fitzpatrick, si convertì al cattolicesimo. Da allora, fino alla morte, fu il principale sostenitore della Chiesa di Roma negli Stati Uniti.
Brownson può essere dunque definito un intellettuale cattolico militante, forse il maggior intellettuale cattolico americano dell'Ottocento. Egli tuttavia, come ha osservato Arthur Schlesinger jr., nella biografia che gli dedicò nel 1939, non appartiene soltanto ai cattolici, ma fa parte del "patrimonio nazionale" americano. La sua opera più significativa, è The American Republic: Its constitution, tendencies, and destiny, pubblicata a New York nel 1865, che fu giudicata dal futuro presidente Woodrow Wilson, nelle sue lezioni universitarie, come l'opera più importante sulla costituzione americana dopo The Federalist, di Alexander Hamilton. È tradotta anche in italiano a cura di Dario Caroniti (Gangemi, Roma 2000), e merita oggi di essere riproposta.
Il saggio nacque da una riflessione sulla guerra civile, che dilaniò l'America, tra il 1861 e il 1865. Un evento tragico, in cui Brownson, unionista, perse due figli, ma mantenne un atteggiamento di profondo rispetto per i confederati, sforzandosi di comprenderne le ragioni. Per lui il problema di fondo era la natura della costituzione americana. La dottrina dominante nel diciannovesimo secolo era quella contrattualistica, declinata in varie versioni sotto il diverso influsso di Hobbes, di Locke o di Rousseau. Per Brownson, al contrario, la società precede l'uomo, che entra in essa come conseguenza della sua natura e non della sua volontà. È la tesi di Aristotele e di san Tommaso d'Aquino, ripresa nel diciannovesimo secolo da Edmund Burke, Joseph de Maistre, Juan Donoso Cortés, autori che Brownson conosce e a cui può essere ricollegato.
Gli Stati Uniti per Brownson sono una polis atipica di cui egli intende svelare la natura. La chiave del mistero si trova nell'espressione "Stati Uniti", che non è il nome del Paese, che in realtà è "America", ma l'espressione della sua organizzazione politica. Non si tratta di un espediente semantico: il fatto è che in America non c'è un popolo politico senza Stati e non vi sono Stati senza Unione. Gli Stati Uniti, prima di essere uno Stato, sono un popolo: un popolo che era tale prima del 1776. Questo popolo non è stato creato dalla Dichiarazione di Indipendenza, esisteva anteriormente a Filadelfia, sotto il sovrano inglese. Ciò significa che nella nuova Repubblica americana, la sovranità non risiede né nel governo centrale né in quelli degli Stati, ma negli Stati Uniti nel loro complesso.
Nella nuova democrazia che nasce dal sangue della Guerra civile Brownson vede trasparire una missione provvidenziale, che scaturisce dalla stessa Costituzione americana. Per lui ogni nazione è un organismo vivente che ha un'idea da realizzare, assegnatale dalla Provvidenza, mediante gli eventi storici o le cause naturali. Gli Stati Uniti hanno come missione di realizzare l'armonia fra la Chiesa e lo Stato, fra i principi religiosi e quelli politici.
La visione di Brownson non è però confessionale. Negli Stati Uniti la religione di Stato è impossibile, ma la separazione tra la Chiesa e lo Stato non è separazione dei principi su cui essi si fondano. Si tratta di organizzare lo Stato secondo i principi della Chiesa senza sancire sul piano giuridico alcuna alleanza fra la Chiesa e lo Stato. Ciò può avvenire sulla base della legge naturale. Il popolo americano, per Brownson, è storicamente e strutturalmente ispirato ai principi della legge naturale e divina e rifiuta quell'antagonismo che caratterizza non solo i Paesi laici ma anche molti Paesi cattolici dove non basta un concordato a fare cristiano un popolo che non lo è. L'unione fra Chiesa e Stato si realizzerà così in maniera intima e convinta, e non sulla base di istituzioni o di principi estrinseci.
La teoria della società che Brownson espone in The American Republic coincide per molti versi con quella di padre Luigi Taparelli d'Azeglio, che conobbe il pensiero dello scrittore americano e lo lodò nel suo Esame critico degli Ordini rappresentativi della società moderna (1854). Le radici filosofiche di Brownson, affondavano però in un ambiguo ontologismo, nutrito delle letture di Victor Cousin e Vincenzo Gioberti. Dell'abate piemontese, che auspicava l'unità italiana, su base federativa sotto la bandiera di un Papato "riformato", egli criticò però l'operato politico "rivoluzionario". L'omaggio reso al Papato da Gioberti, per il quale l'Italia diventava il "nuovo Israele" e il Pontefice il suo redentore, parve a Brownson puramente strumentale. Dei due fondamenti del pensiero giobertiano, la religione e la nazione, la prima era subordinata alla seconda. Sotto questo aspetto vi sono singolari assonanze tra il pensiero di Brownson e quello di Augusto Del Noce, che in alcune penetranti pagine ha mostrato come in Gioberti il Risorgimento era uno strumento di riforma religiosa dell'Italia all'interno di una filosofia della storia che accettava i postulati dell'immanentismo moderno.
Oggi Brownson va riletto in un nuovo contesto storico in cui il pluralismo ideologico e religioso, anche in Europa, è un fatto storico che tende a diventare principio, trasformandosi in relativismo ideologico e morale. Contro questo relativismo, il principale legato di Brownson è il suo richiamo alla legge naturale. La tradizione a cui Brownson si richiama non è la scuola del diritto naturale moderna, fondata su premesse contrattualistiche, che separa la lex aeterna dalla lex naturalis, ma quella classica e cristiana che ha conosciuto nel Novecento una nuova fioritura e sviluppo e a cui Benedetto XVI si richiama di frequente nei suoi discorsi. Per Brownson legge naturale non è la pura forza della natura, ma quella legge che può essere conosciuta, attraverso la ragione, da tutti gli uomini. Essa è stata trasmessa, da Adamo fino a noi, attraverso due canali: la ragione che è in ogni uomo, e lo jus gentium comune a tutte le nazioni civilizzate.
Nel corso degli ultimi secoli la legge naturale è stata spesso considerata morta e sepolta, ma ha sempre conosciuto una rinascita, soprattutto nelle epoche di crisi. Per questo in un'epoca come quella che attraversiamo, in cui il relativismo culturale e morale investe l'intero Occidente, al di qua e al di là dell'Oceano, la conoscenza delle opere di Orestes Brownson può offrire un utile contributo alla rinascita della philosophia perennis e dell'ordine sociale naturale e cristiano.
(©L'Osservatore Romano - 17 aprile 2008)
IL PAESE INCONTRATO
LA GRANDEZZA UNITA AL SENSO DEL LIMITE
VITTORIO E. PARSI
Sincerità e amicizia. Si potrebbe sintetizzare in questi due concetti la chiave di lettura del discorso pronunciato dal Papa al suo sbarco negli Stati Uniti, in un Paese che conosce e che ammira per la capacità dimostrata fin dalla sua stessa origine di perseguire nel pluralismo una verità che non può essere mai relativa. Diverse possono essere le vie attraverso le quali gli individui e le comunità ricercano – come sottolinea Benedetto XVI – quella «verità evidente per se stessa che tutti gli uomini sono creati eguali e dotati di inalienabili diritti, fondati sulla legge di natura e sul Dio di questa natura». Ma l’eguaglianza degli esseri umani, e il suo sostanziarsi (ancora più e meglio del suo declinarsi) in diritti, non può essere creduta vera che come assoluto. In tal senso la libertà è, contemporaneamente, un bene in sé (un fine ultimo) e uno strumento, attraverso il quale è possibile illuminare, nel dibattito e nel ragionamento, nella pratica e nella coerenza, la via che conduce alla verità. Alla politica è consegnato il compito di apparecchiare le norme e le istituzioni che consentono ai tanti e diversi discorsi sulla libertà di incontrarsi e vicendevolmente arricchirsi, senza che le buone ragioni di ognuno vengano brandite come armi nei confronti degli altri, argomentando piuttosto che contrattando.
In questa prospettiva, pochi sistemi politici come quello americano hanno offerto una lezione migliore. Proprio la consapevolezza della fragilità della natura umana se comparata alla grandezza degli ideali politici che i Padri Fondatori si danno e danno alla 'Grande Nazione' è ciò che permette la costruzione di un edificio maestoso e umile. Libertà religiosa e diritti di proprietà sono le colonne su cui poggia l’intero edificio della repubblica. La libertà religiosa è posta a fondamento e bastione della forma più intima della irriducibile unicità di ogni essere umano: che la vogliate chiamare anima o coscienza non cambia nulla, perché la sua tutela è scudo anche per chi scelga di rifiutare qualunque credo religioso. I diritti di proprietà sono ciò che consente agli individui riuniti in società di preservare la propria indipendenza dalla benevolenza del principe, per quanto illuminato possa essere, di rammentare a tutti e ad ognuno che la sola possibile fonte di legittima sovranità siamo 'Noi, il popolo'.
Una delle cose che più colpisce, guardando a quella straordinaria intrapresa politica che è stata la fondazione degli Stati Uniti, è proprio la capacità di sintetizzare grandezza e senso del limite. Nel momento in cui si accingono a realizzare una operazione senza precedenti, 'l’impero della libertà', qualcosa che grida in faccia ai contemporanei e ai posteri la maestà del genere umano, il suo prometeico coraggio, i Padri Fondatori, tra i quali c’erano teisti e atei, si affidano a Dio, e ancorano alla sua regia la naturalità di diritti, che bisogna iniziare a implementare e tutelare. Quasi che, mentre si accinge alla sua opera creatrice, e la politica è creazione, l’uomo si volga a cercare il conforto di un’altra Creazione e di un altro Creatore, a cui immagine, pure, anch’egli è fatto.
Ben consapevole di tutto questo il Papa, ieri, ha cominciato a incontrare l’America, che l’ha accolto – per voce dei suoi rappresentanti – con un’amicizia e una sincerità altrettanto aperte. Grata a questo testimone del Vangelo dell’amore e della speranza, e attenta a ciò che è venuto a dirle. E a ricordare a tutti. Per quanti errori e soprusi siano stati commessi nella lunga storia degli Stati Uniti, anche nel nome della libertà, e per quante volte succederà ancora che la libertà sia evocata per giustificare egoismi e opportunismi, oggi come duecentotrentadue anni fa, dovremmo avere molta più paura per la libertà che della libertà, dovremmo innanzitutto temere di perdere la libertà, piuttosto che aver paura di sbagliare perché siamo liberi.
«Follia tutt’altro che inutile» - Casini (Mpv) a Ferrara: la vita è entrata in politica
Caro Giuliano, ogni giorno della campagna elettorale appena terminata ho ammirato il tuo coraggio e la tua intelligenza. Ho provato anche un vivo sentimento di rammarico per non essere accanto a te nelle piazze e nei teatri d’Italia. Ma tu conosci bene, perché ne abbiamo parlato più volte a voce e perché le ho anche esposte per iscritto, quali sono le ragioni per cui gli organi dirigenti nazionali del Movimento per la Vita, all’unanimità, hanno ritenuto che il Movimento come tale non potesse prendere posizione a favore della tua suggestiva 'lista pazza'. Alcuni del Movimento che hanno ritenuto di candidarsi con te, lo hanno fatto a titolo personale, per altro ben conoscendo che non avrebbero potuto contare su un consenso strutturato dell’associazione da me presieduta. Mi preme però dirti che, nonostante tutto, la tua avventura è stata tutt’altro che inutile.
Intanto bisogna decisamente respingere i commenti 'alla Bonino', secondo cui lo scarso consenso alla lista 'Aborto? No Grazie' dimostrerebbe l’ormai consolidata abitudine alla cultura abortista e dunque l’impossibilità di cambiarla in cultura della vita. Non è così. È esattamente il contrario. La ragione principale per la quale non vi è stata un’adesione di massa alla tua lista, sebbene il cuore di molti battesse per essa, è stata il timore di contribuire, paradossalmente, al successo di quanti, se avessero vinto, avreb- bero immediatamente perseguito e probabilmente realizzato tutti gli obiettivi contrari a ciò che tu ed io desideriamo. Il tuo grande merito è quello di aver introdotto impetuosamente nella politica il tema del diritto alla vita, che i più volevano tenere nascosto nelle nebbie della coscienza individuale, intesa come spazio della opinabilità e degli scrupoli religiosi.
Proprio la tua presenza ha imposto a una parte dell’elettorato di tener presente anche la questione dell’aborto come criterio di scelta dei partiti e degli schieramenti. Sono convinto che non pochi abbiano allontanato il loro voto da Veronesi, dalla Bonino, dagli altri radicali e più in generale da quanti nella sinistra sostengono come conquista di civiltà la distruzione di massa dei più piccoli e poveri tra gli esseri umani, proprio perché c’era la lista Ferrara a farli riflettere. Non hanno messo il segno sopra il simbolo 'Aborto? No Grazie' proprio perché convinti da quel simbolo e dai tuoi interventi a fare tutto il possibile per non far vincere i tuoi principali avversari, anche quelli che in piazza tiravano pomodori e uova. Essi non hanno voluto ipotizzare il benché minimo rischio che il loro voto potesse aiutarli. Insomma credo che il risultato finale, con lo spostamento di voti che esso suppone, si debba anche al tuo coraggio.
Aggiungo che senza la tua parola nessuno avrebbe parlato del diritto alla vita durante la campagna elettorale se non in modo sbiadito od offuscabile. I cattolici, certo, avrebbero parlato, ma l’opinione pubblica considera scontato il loro discorso, mentre il tuo ha scosso le menti e i cuori. La cultura della vita è certamente cresciuta. E c’è un altro aspetto molto bello al quale desidero che tu pensi. Io so che la parola può uccidere, ma può anche salvare. Sono certo perciò che alcuni bambini nascono e nasceranno perché le loro mamme ti hanno ascoltato e hanno sentito rifiorire in loro coraggio, libertà, giovinezza.
In ogni caso nella prossima legislatura si continuerà a discutere di diritto alla vita e anche della legge 194, di cui ricorre quest’anno il trentennio dalla sua approvazione. Ormai la vita è entrata nella politica e ci resterà. È anche tuo il merito. Cerchiamo dunque di unire le forze e andiamo avanti con fiducia, come del resto tu hai già detto. L’idea della grande moratoria, intesa come l’iscrizione formale del riconoscimento del diritto alla vita fin dal concepimento tra i diritti umani, è formidabile. Essa va tradotta anche al livello europeo e italiano. Da tempo stiamo preparando iniziative in questa direzione. Sono certo che non mancherà l’apporto del tuo coraggio e della tua intelligenza.
Cordialmente,
Carlo Casini
Presidente Movimento per la Vita
Quel vizio antico di ritenersi i migliori
Avvenire, 17 aprile 2008
MARINA CORRADI
D opo il vertice del Pd, l’ex ministro Gentiloni sintetizza l’analisi del voto: «Non abbiamo intercettato il consenso del Nord perché è prevalso un sentimento diffuso di risentimento soprattutto nei confronti dei provvedimenti del governo, che non sono stati capiti». Dove ciò che colpisce, e che d’altronde ricorre con qualche variante come un leit motiv nei commenti politici, è che quelli che «non hanno capito» sono sempre gli elettori. Non hanno capito Prodi, e nemmeno Veltroni; o, lamenta la Sinistra Arcobaleno, «ci hanno interpretati come un residuato ». Errori di 'interpretazione', equivoci,
misundertanding,
per la sinistra sconfitta stanno tutti dalla parte degli elettori. Che, pare di comprendere, in certe valli e città del Nord – e anche del Sud – devono essere un po’ ottusi.
O peggio. Le lettere su 'Repubblica', trasudano amarezza. «Accorgersi che l’ignoranza è il più letale dei mali, e che in Italia abbonda, e che l’Italia ha trovato qualcosa di più divertente da fare che onorare i valori della Resistenza», geme una lettrice. «Mi aspettavo più coscienza. Credo che tutti abbiano votato chi prometteva più furberie, più scappatoie», scrive un’altra. Come a dire che la maggioranza degli italiani si è rivelata, il 13 aprile, ignorante, incosciente, fascista e furbetta. La supponenza di essere – cultura e politica della sinistra – superiore, per definizione e per sempre. A fronte di ciò, il pessimo risveglio davanti alla vittoria di Berlusconi, e all’esplosione addirittura della Lega. Incredibile. Nei giornali giusti, fra le grandi firme, non se ne era avuto sentore. Anzi: Eugenio Scalfari, grande maestro del giornalismo democratico e corretto, aveva annunciato un suo presentimento: «Con avversari di questo livello non si può perdere.
Gli elettori cominciano a capirlo. Io sono pronto a scommetterci». Intanto, gli elettori andavano convincendosi esattamente del contrario.
Le maggiori testate italiane da molto tempo sono ispirate da un pensiero pressoché unico. È un fatto anche generazionale: buona parte degli uomini e delle donne che oggi dirigono questi giornali o ne firmano i commenti più autorevoli, si sono formati negli anni Settanta. Magari poi da quella cultura hanno preso le distanze, ma ne mantengono un imprinting
indelebile: sinistra è bello, democratico, giusto. Destra, è fascista e ignorante. Cattolico poi è, ovviamente, oscurantista – a meno che non sia cattolico 'democratico' e progressista, meglio ancora se in conflitto con le gerarchie della Chiesa.
Questo spiega lo sbalordimento collettivo dopo il referendum sulla legge 40. E anche un po’ quello di oggi, quando si scopre che in certi paesi veneti o lombardi han preso il 20, 30, anche 40% quegli 'zotici' della Lega. Che sono sempre stati considerati – ammette 'l’Unità' – «commercianti in odore di evasione, valligiani spaesati, capitalisti molecolari terrorizzati dalla globalizzazione». Ma che devono essersi allargati, se han preso il 10% a Sesto San Giovanni, la ex Stalingrado d’Italia. E che, se pure a guardarli dai salotti corretti sono dei poveri selvaggi, tuttavia devono avere delle ragioni che non sono state comprese.
Un’informazione allineata sulle sue certezze ideologiche non aiuta a capire la realtà. Serve piuttosto a confortare, in uno specchio autoreferenziale, la classe politica cui fa riferimento.
Che a sua volta vuol credere che gli editoriali di Scalfari siano il pensiero degli italiani. Lunedì sera ci è venuta in mente la Conferenza nazionale sulla famiglia promossa dal governo Prodi, a Firenze, un anno fa. « Question time
con le domande delle famiglie», fu annunciato. Ma non era che uno si alzava, e domandava al premier ciò che voleva. Gli interventi e le domande erano stati preventivamente preparati. Un garbato dibattito fra amici. Nessuno in aperto dissenso.
Poi, le famiglie italiane sono andate a votare.
Protestano per chiedere libertà di parola o di espressione religiosa. E pagano per questo, con il carcere. Sono le punte di un gigantesco iceberg presente in molti Paesi del continente. Di cui l’Occidente si dimentica troppo facilmente
In molti Paesi del continente si perpetrano violazioni di principi fondamentali
Avvenire, 17 aprile 2008
DI STEFANO VECCHIA
Il cinese Wo Weihan, il birmano Ohn Than e l’indonesiano Johan Teterisa condividono a latitudini diverse il fatto di essere nati e cresciuti in un clima di repressione e di sospetto. Diritti civili, umani e religiosi sono rispettivamente negati ai tre – diversi per origine, estrazione sociale, impegno e fede – e insieme si intrecciano nelle loro vicende. Tre personaggi, tre storie di ordinaria ingiustizia in altrettanti Paesi dell’Asia, continen te che fatica a conciliare sviluppo e diritti civili, benessere e giustizia.
Troppi sono gli Stati che, al di là della facciata che mostrano alla comunità internazionale, denunciano seri problemi di tenuta democratica. In alcuni le costituzioni sono state sospese in seguito a colpi di stato militari, in altri il loro dettato viene continuamente eroso, quando non ignorato del tutto. In altri ancora, infine, le carte costituzionali si sono svuotate di senso davanti a crisi sociale, sottosviluppo e interessi contrapposti, lasciando i più deboli senza protezione.
Come sottolineano continuamente gli attivisti per i diritti umani, gli standard del diritto in vigore in molte realtà asiatiche, a partire da quelle in via di sviluppo, risultano assolutamente inadeguati rispetto a quelli internazionali. Il risultato è la grave crisi interna in molti Paesi, dove il primato della legge arriva al collasso e dove si verificano gravi violazioni dei diritti umani. L’eguaglianza di ciascuno davanti alla legge, il diritto di ognuno ad essere tutelato dalla legge e il diritto di chiedere giustizia davanti a palesi violazioni dei diritti umani sono perlopiù negati. Vengono così a perpetuarsi la situazioni di impunità e di rischio, soprattutto per i settori più poveri delle società, ovvero per la maggioranza della popolazione nel Sudest asiatico e nell’Asia meridionale. Tipico esempio del collasso dello stato di diritto è lo Sri Lanka, nazione teatro di un devastante conflitto interetnico, ma le esecuzione extragiudiziali – da tutti nominalmente condannate – sono una norma anche nelle meno turbolente Filippine e in Thailandia. Per non parlare di Paesi come Afghanistan e Pakistan, dove intere regioni sono sottratte agli strumenti del diritto, oppure realtà come Myanmar e Corea del Nord in cui i diritti umani e le libertà civili subiscono serie limitazioni. Non diversa è la condizione della Cina Popolare, il cui diritto di veto in sede Onu e le dimensioni economiche e demografiche rendono più «difficile » la pressione internazionale per un cambiamento reale. E non va dimenticato che è anche il diritto di pratica religiosa ad essere seriamente compromesso in molte realtà «democratiche» o «popolari », dall’India al Vietnam, dal Pakistan alla Malaysia e, ancora, alla Cina.