Nella rassegna stampa di oggi:
1) Papa: a 29 nuovi sacerdoti, portate al mondo la gioia di Cristo
2) «Con il pensiero di Cristo testimoni, non militanti» - Scola ai «portaparola»: fede e vita, non c’è dualismo
3) La risoluzione sull'aborto del Consiglio d'Europa. Un'affermazione contraria ai diritti umani, di Elio Sgreccia Presidente della Pontificia Accademia per la Vita
4) «Cantavamo Dio è morto»: la contestazione cattolica
5) SCUOLA/ La proposta. Detrarre dalle tasse fino al 50% delle rette scolastiche private. Un modello praticabile?
6) Mario Canessa, giusto tra le nazioni
7) Un 25 aprile disastroso, Le secessioni incalzano: il buffone, i faziosi, i fischiatori. Tutti in piazza, di Giuliano Ferrara
27/04/2008 12:32 VATICANO
Papa: a 29 nuovi sacerdoti, portate al mondo la gioia di Cristo
Un appello di Benedetto XVI per Somalia, Darfur e Burundi, il ricordo dell’appena compiuto viaggio negli Stati Uniti e gli auguri agli ortodossi che oggi celebrano la Pasqua
Città del Vaticano (AsiaNews) – La gioia che è insita nell’ordinazione di ogni nuovo sacerdote ed il dolore per le notizie di violenze che continuano ad arrivare dal’Africa tormentata hanno segnao l’odierna giornata di Benedetto XVI che stamattina nella basilica di San Pietro ha conferito l’ordinazione a 29 diaconi della diocesi di Roma. Del rito il Papa ha poi parlato prima della recita del Regina Caeli, quando ha anche lanciato un appello per la Somalia, il Darfur ed il Burundi. Benedetto XVI ha anche ricordato la “missione” compiuta negli Statai Uniti ed ha inviato gli auguri per la Pasqua che gli ortodossi celebrano oggi, rinnovando la speranza di una piena unità.
“Dove Cristo è predicato con la forza dello Spirito Santo ed è accolto con animo aperto, la società, pur piena di tanti problemi, diventa "città della gioia" – come suona il titolo di un celebre libro riferito all’opera di Madre Teresa a Calcutta”. Questo l’augurio Benedetto XVI ha rivolto ai preti novelli ed anche il tema centrale della sua omelia, ricordata poi alle 40mila persone presenti in piazza San Pietro per la recita del Regina Caeli, prendendo spunto dal capitolo VIII degli Atti degli Apostoli che narra la missione del diacono Filippo in Samaria, là dove di parla di “grande gioia in quella città” (At 8,8), convertitasi alla nuova fede.
“Cari amici – ha detto ai 29 diaconi - questa è anche la vostra missione: recare il Vangelo a tutti, perché tutti sperimentino la gioia di Cristo e ci sia gioia in ogni città. Che cosa ci può essere di più bello di questo? Che cosa di più grande, di più entusiasmante, che cooperare a diffondere nel mondo la Parola di vita, che comunicare l’acqua viva dello Spirito Santo? Annunciare e testimoniare la gioia: è questo il nucleo centrale della vostra missione”.
Il Papa si è poi soffermato sul gesto della imposizione delle mani, che si compie durante il rito. “E’ – ha sottolineato - un segno inseparabile dalla preghiera, della quale costituisce un prolungamento silenzioso. Senza dire parole, il vescovo consacrante e dopo di lui gli altri sacerdoti pongono le mani sul capo degli ordinandi, esprimendo così l’invocazione a Dio perché effonda il suo Spirito su di loro e li trasformi rendendoli partecipi del Sacerdozio di Cristo. Si tratta di pochi secondi, un tempo brevissimo, ma carico di straordinaria densità spirituale”. “In quella preghiera silenziosa – ha aggiunto - avviene l’incontro tra due libertà: la libertà di Dio, operante mediante lo Spirito Santo, e la libertà dell’uomo”.
Una ultima sottolieatura il Papa ha dedicato alla frase evangelica "Se mi amate". “Cari amici – ha detto - queste parole Gesù le ha pronunciate durante l’Ultima Cena nel momento in cui contestualmente istituiva l’Eucaristia e il Sacerdozio. Pur rivolte agli Apostoli, esse, in un certo senso, sono indirizzate a tutti i loro successori e ai sacerdoti, che sono i più stretti collaboratori dei successori degli Apostoli. Noi le riascoltiamo quest’oggi come un invito a vivere sempre più coerentemente la nostra vocazione nella Chiesa: voi, cari Ordinandi, le ascoltate con particolare emozione, perché proprio oggi Cristo vi rende partecipi del suo Sacerdozio. Accoglietele con fede e con amore! Lasciate che si imprimano nel vostro cuore, lasciate che vi accompagnino lungo il cammino dell’intera vostra esistenza. Non dimenticatele, non smarritele per la strada! Rileggetele, meditatele spesso e soprattutto pregateci su. Rimarrete così fedeli all’amore di Cristo e vi accorgerete con gioia sempre nuova di come questa sua divina Parola "camminerà" con voi e "crescerà" in voi”.
“Carissimi – ha concluso - ecco il mio augurio in questo giorno per voi tanto significativo: che la speranza radicata nella fede possa diventare sempre più vostra! E possiate voi esserne sempre testimoni e dispensatori saggi e generosi, dolci e forti, rispettosi e convinti”.
Alla folla riunita in piazza San Pietro, poco dopo, il Papa ha ricordato che “oggi molte Chiese Orientali celebrano, secondo il calendario giuliano, la grande solennità della Pasqua. Desidero esprimere a questi nostri fratelli e sorelle la mia fraterna vicinanza spirituale. Li saluto cordialmente, pregando il Dio uno e trino di confermarli nella fede, di riempirli della luce splendente che emana dalla risurrezione del Signore e di confortarli nelle non facili situazioni in cui spesso devono vivere e testimoniare il Vangelo. Invito tutti ad unirvi a me nell'invocare la Madre di Dio, affinché la strada da tempo intrapresa del dialogo e della collaborazione porti presto ad una più completa comunione tra tutti i discepoli di Cristo, perché siano un segno sempre più luminoso di speranza per tutta l'umanità”.
L’appello per i drammi africani ha concluso la lunga mattina del Papa. “Le notizie che giungono da alcuni Paesi africani – ha detto - continuano a essere motivo di profonda sofferenza e viva preoccupazione. Vi chiedo di non dimenticare queste tragiche vicende e i fratelli e le sorelle che vi sono coinvolti! Vi chiedo di pregare per loro e di farvi loro voce! In Somalia, specialmente a Mogadiscio, aspri scontri armati rendono sempre più drammatica la situazione umanitaria di quella cara popolazione, da troppi anni oppressa sotto il peso della brutalità e della miseria. Il Darfur, nonostante qualche momentaneo spiraglio, rimane una tragedia senza fine per centinaia di migliaia di persone indifese e abbandonate a sé stesse. Infine il Burundi. Dopo i bombardamenti dei giorni scorsi che hanno colpito e terrorizzato gli abitanti della capitale Bujumbura e raggiunto anche la sede della Nunziatura Apostolica, e di fronte al rischio di una nuova guerra civile, invito tutte le parti in causa a riprendere senza indugio la via del dialogo e della riconciliazione. Confido che le Autorità politiche locali, i responsabili della comunità internazionale e ogni persona di buona volontà non tralasceranno sforzi per far cessare la violenza e onorare gli impegni presi, in modo da porre solide fondamenta alla pace e allo sviluppo. Affidiamo le nostre intenzioni – ha concluso - a Maria, Regina dell'Africa”.
Scola: attrezzarsi a un tempo di svolta
Avvenire, 27 aprile 2008
Un cristianesimo capace di superare il dualismo tra fede e pensiero e di mettere in gioco nella storia la propria libertà. Facendo proprio il «pensiero di Cristo», per essere «testimoni, non militanti»: è l’invito rivolto ieri dal patriarca di Venezia, Angelo Scola, ai partecipanti al primo «Forum nazionale degli animatori della cultura e della comunicazione» che si chiude oggi a Bibione
«Con il pensiero di Cristo testimoni, non militanti» - Scola ai «portaparola»: fede e vita, non c’è dualismo
«Siete giornalisti e voglio proprio vedere cosa scriverete domani, perché anche noi cristiani a volte ci chiediamo cosa mai interessi al lettore la Trinità ». Il ragionamento è iperbolico, visto che a ragionare con i portaparola, ieri mattina, era il cardinale Angelo Scola. Il patriarca di Venezia ha proposto a Bibione un efficacissimo spaccato teologico su «problemi comuni e giudizio cristiano» da cui emerge che la teologia appassiona, almeno a giudicare dall’intensità degli applausi raccolti, e che, contrariamente a quel che si pensa, la Trinità entra nella vita di tutti i giorni, dandoci più che un motivo per accettare le differenze culturali e religiose come per considerare «insuperabile» la differenza sessuale tra uomo e donna… Vediamo perché.
Transizione e pensiero di Cristo. Scola parte da vicino: «le elezioni rivelano che è in atto una svolta culturale decisiva» e se la tentazione può essere quella di liquidare la memoria, al contrario, dice il patriarca, «per affrontare una nuova fase bisogna farne la bussola». Solo così, «la Chiesa può essere un attore decisivo del cambiamento: a condizione di vivere la memoria nella sua verità eucaristica. Non cioè come ricordo e ripetitività, ma presenza che continua a trapiantare l’essenza dell’antico sul nuovo».
Il cardinale sollecita una «forma eucaristica» dell’esistenza cristiana che annunci (primo mandato per i portaparola ndr) che «non c’è dualismo o giustapposizione tra fede e vita». Ma occorre avere il pensiero di Cristo – ossia «essere in rapporto con tutta la realtà a partire dall’incontro personale con Gesù nella comunità, cercando di immedesimarsi col suo stile di rapportarsi alle cose, quello del possesso nel distacco» – ed esistono tre condizioni per averlo. La prima è «immergersi nella Traditio, stando dentro la comunità cristiana dove Gesù è reperibile per tutti e rispetto alla quale io devo poter dire a chiunque: vieni e vedi». Non si pensa come Cristo se non si vivono in profondità Eucaristia e sacramenti, in un’esperienza personale e comunitaria, in cui l’appartenenza precede la competenza e la proposta è rivolta «a tutti, instancabilmente» anche se solo «con quelli che rispondono» si può «andare a fondo delle dimensioni della vita cristiana». Seconda condizione per avere il pensiero di Cristo: «riconoscere che non c’è contrapposizione tra esperienza e pensiero.
Quando l’uomo separa il sapere dall’esperienza, parte per la tangente dell’intellettualismo ed è vittima di un dualismo». Terza condizione: che il cammino del cristiano sia sostenuto dal paragone a 360° di tutto l’io con tutta la realtà. Chi ha il pensiero di Cristo parte «dai problemi comuni, come ha fatto Gesù. Con lo stile del discepolo di Cristo che valuta ogni cosa e trattiene ciò che è buono, che non si conforma alla mentalità dominante, ma ama la persona che ha davanti».
Mistero e implicazione. Per offrire ai cristiani la possibilità di «avere il pensiero di Cristo», ogni comunità «deve essere àmbito in cui i misteri della vita di Cristo siano assimilati fino a scoprire le loro implicazioni nell’umana esistenza. Qui sta la radice profonda del progetto culturale – commenta il porporato ricordando che «parlare dei problemi comuni con un giudizio cristiano implica il saper vedere il nesso tra i misteri della vita di Cristo e l’umana esperienza sempre storicamente situata e perciò non dominabile. Questo lavoro chiama in causa la libertà. Il vostro lavoro (secondo mandato ai portaparola ndr) risulta dall’insieme di questi tre pilastri: l’annuncio del mistero, l’assunzione delle sue implicazioni e il gioco della libertà. Ci vogliono tutti e tre».
L’interpretazione culturale della fede è inevi- tabile, ma «lavorare sulle implicazioni dei misteri cristiani significa proporre una interpretazione della fede che non cade né nella religione civile, né nella cripto-diaspora» spiega il cardinale, che fa dell’implicazione il baricentro del suo ragionamento. Se infatti «l’atto di fede non si ferma all’enunciazione ma deve raggiungere la realtà» se «la res dell’Eucaristia è la comunità cristiana», che «l’Eucaristia tende a generare» e se «la comunità cristiana nasce dalla forma eucaristica della mia vita» allora «il senso dell’Eucaristia domenicale è che io impari lì la logike latreia (il culto ragionevole - Rm 12, 2) modulata sul dono che Cristo fa di sé. Il culto ragionevole è affrontare tutta la vita donando tutto me stesso; e questo genera la comunità cristiana».
Aderire al mistero eucaristico implica che «la mia libertà si giochi nella storia, rischiando nel qui ed ora, con i miei fratelli», con forti implicazioni antropologiche. «Se io vivo fino in fondo il mistero della Trinità divento consapevole che mai in sé e per sé la differenza è un negativo. Per il cristianesimo non c’è contraddizione tra identità e differenza e la differenza è un positivo». Come respingere l’immigrato quando «la differenza massima esiste in Dio?». E la differenza sessuale? «Insuperabile» per Scola: «Riflettiamo sulla nostra nascita, sul senso originario della relazione di paternità e di maternità, per capire come l’uomo-donna è l’accesso più immediato e più naturale all’altro come costitutivo dell’io. Ma questa relazione altro non è se non il riflesso della grande relazione che vive in sé la Trinità. Anche lì c’è l’uno e l’altro (il Padre e il Figlio) e l’unità dei due (lo Spirito Santo). C’è quindi una differenza nell’unità che si esplica nel dono totale di sé aperto alla vita: la triade costitutiva del mistero nuziale si trova già nel mistero trinitario ».
Ideale e testimonianza. Il pensiero di Cristo si accompagna ad alcuni atteggiamenti. Il primo è un’educazione all’ideale e non all’utopia, «il nemico più subdolo di un cristiano». L’ideale invece «è la verità del reale, è rintracciabile nell’esperienza dell’uomo, in forma incompiuta, frammentaria, ma esiste. Se correttamente perseguito potrà realizzarsi sempre di più». Il cristiano di Scola è «un soggetto integrale – personale e sociale – in azione con umiltà, senza presunzione, comunitariamente, sensibile a testimonianze profetiche» che «sceglie l’ideale della vita buona e non cade nella tentazione dell’egemonia sociale». Ed è «qualitativamente un’altra cosa rispetto al cristiano militante» perché la testimonianza è «gratuito e spontaneo comunicarsi di una vita cambiata per grazia. È la missione che implica parresìa di dottrina e di azione».
La risoluzione sull'aborto del Consiglio d'Europa. Un'affermazione contraria ai diritti umani, di Elio Sgreccia Presidente della Pontificia Accademia per la Vita
L'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ha approvato il 16 aprile scorso la risoluzione 1607 che invita i 47 Stati membri a orientare, laddove necessario, la propria legislazione in maniera da garantire effettivamente alle donne "il diritto di accesso all'aborto sicuro e legale". Il documento è stato approvato con 102 voti a favore, 69 contrari e 14 astenuti, dopo un lungo dibattito che ha deciso sull'inclusione nel testo provvisorio di ben 72 emendamenti proposti in precedenza.
La risoluzione approvata inizia ribadendo il principio che in nessuna circostanza l'aborto deve essere inteso come un mezzo di pianificazione familiare e che, nei limiti del possibile, esso deve essere evitato (cfr n. 1). A tal fine, la risoluzione raccomanda che sia messo in atto ogni mezzo, purché compatibile con i diritti delle donne, per ridurre sia le gravidanze indesiderate che gli aborti stessi. Sembra dunque che, almeno in linea di principio, l'introduzione del documento riconosca e affermi chiaramente che l'aborto è una realtà in se stessa negativa, da evitare nei limiti del possibile con ogni sforzo.
Nel testo viene poi ricordata la presenza nella maggior parte degli Stati membri di dispositivi di legge che, sotto precise condizioni e circostanze, "permettono" l'aborto nei casi previsti. È qui che la risoluzione manifesta una preoccupazione concreta: il pericolo che in alcuni dei Paesi del Consiglio europeo dove l'aborto è permesso, di fatto, non possa essere garantito alle donne che lo richiedessero "un effettivo accesso ai servizi per l'aborto che siano sicuri, sostenibili, accettabili ed appropriati" (n. 2), e ciò a causa di condizioni eccessivamente restrittive previste dalle apposite disposizioni legislative, che finirebbero per provocare effetti discriminatori tra le donne.
Ed è proprio a questo punto che nel testo spunta la parola "diritto", riferito all'effettivo accesso all'aborto. Ciò stupisce in quanto è la prima volta che in un documento ufficiale del Consiglio d'Europa - così come in quelli delle Nazioni Unite - si parla dell'aborto come di un "diritto". Dal punto di vista legislativo, infatti, una cosa è permettere o depenalizzare l'aborto effettuato in determinate circostanze, altro è definirlo come un "diritto", a cui dovrebbe logicamente corrispondere anche un "dovere" di tutela del medesimo. Ma è davvero possibile postulare fondatamente un "diritto all'aborto"? Su quali basi si potrebbe giustificare il diritto di interrompere la vita di un essere umano innocente e, per di più, debole e indifeso? A meno di adottare criteri antropologici discriminatori e arbitrari, che non riconoscano a ogni essere umano uguale dignità e diritti fondamentali, questa pretesa è del tutto infondata e arrogante; essa può essere giustificata solo da impostazioni di pensiero fortemente ideologiche e parziali, che non pongono la persona umana - o almeno, non ogni singola persona umana - come fine ultimo e misura della vita sociale, e quindi della regolazione legislativa.
Anche l'affermazione che "l'aborto non deve essere vietato entro limiti gestazionali ragionevoli" (n. 4) suscita domande e perplessità. La ragionevolezza cui si fa riferimento, infatti, sembra essere commisurata su motivi riguardanti esclusivamente la salute della donna ed i costi sociali. Nulla si dice invece sulla realtà dell'essere umano (embrione) da abortire, la cui dignità essenziale è legata alla sua stessa natura, al fatto stesso di appartenere alla specie umana e non alle tappe del suo sviluppo biologico. In relazione al suo "diritto" di tutela della vita, dunque, non esistono e non possono esistere "limiti gestazionali ragionevoli" entro i quali sia possibile derogare a tale diritto fondamentale, poiché la vita umana individuale possiede il suo valore peculiare ed inalienabile in ogni momento della sua storia personale.
Nella stessa direzione, proseguendo nella lettura della risoluzione 1607, un altro elemento crea forti perplessità; si tratta della riaffermazione (cfr n. 6), di per sé opportuna e giusta, del diritto di ogni essere umano - e non si capisce perché il testo senta il bisogno di specificare "incluse le donne", cosa che appare del tutto scontata e, quindi, offensiva nei confronti delle donne stesse - al rispetto della propria integrità fisica e alla libertà della gestione del proprio corpo. Sulla base di questa affermazione, il testo conclude che "la decisione ultima di ricorrere o no all'aborto è una questione che appartiene alla donna interessata, la quale deve avere i mezzi per esercitare questo diritto in maniera efficace". La conclusione non sembra del tutto coerente con l'affermazione di principio iniziale. Se, infatti, viene riconosciuto il diritto alla tutela dell'integrità corporea di ogni essere umano, ciò va rivendicato appunto per tutti gli esseri umani, senza distinzione; ora, nel caso dell'aborto, la donna è solo uno degli esseri umani direttamente coinvolti, non l'unico. Anche il figlio, embrione o feto, lo è. Se è sacrosanto rivendicare il rispetto per l'integrità corporea della madre, altrettanto lo è affermare e rivendicare quella del figlio, tanto più che quest'ultimo non è in condizioni di reclamare e difendere da solo i propri interessi. Nel caso dell'aborto, da questo punto di vista vi sono due fronti d'interesse da far convergere e tutelare insieme: la salute della madre e quella del figlio. Il concepito non può certo essere ridotto a "parte del corpo della donna gravida", come ormai dimostra senza alcuna ragionevole incertezza la più moderna embriologia. La risoluzione 1607 glissa troppo velocemente su questo fondamentale aspetto, tentando di far passare come del tutto scontate affermazioni di significato antropologico e valoriale che sono invece del tutto discutibili, se non altro in nome di quel pluralismo di pensiero tanto rivendicato proprio dai sostenitori di queste affermazioni. Di conseguenza, è del tutto artificiale e "populistica" la reiterata accusa, mossa alla Chiesa cattolica da parte di alcuni parlamentari in sede di discussione del documento, di agire e parlare col fine di "privare le donne del loro diritto più fondamentale: quello di disporre del loro corpo". Un'idea del genere è assolutamente estranea all'insegnamento e agli intenti della Chiesa, ma soprattutto rappresenta una palese riduzione distorsiva della realtà: l'aborto volontario non può essere ridotto a una mera questione di gestione del corpo della donna; esso, infatti, include allo stesso tempo la drammatica scelta di distruggere una vita umana, quella del figlio, il cui valore di fondo è pari a quello della madre.
Un ultimo rilievo bisogna fare circa le possibili soluzioni che il documento prospetta per eliminare il più possibile il fenomeno dell'aborto. A tal fine si fa riferimento ad appropriate politiche di "salute sessuale e riproduttiva", ma soprattutto all'esigenza di rendere "obbligatoria" una educazione sessuale e relazionale (modulata sull'età e sul "genere" del soggetto) rivolta ai giovani. L'offerta di una proposta educativa sul piano della sessualità e della relazionalità è senz'altro un valore, che costituisce peraltro un dovere degli adulti nei confronti dei più giovani, soprattutto da parte dei genitori nei confronti dei propri figli; allo stesso tempo, per i genitori questo impegno rappresenta anche un diritto, da esercitare nella libertà di scelta dei valori e dei significati da trasmettere alla propria discendenza. Sembra invece molto difficile immaginare che possa essere la società nel suo insieme - la scuola? altre strutture? - a svolgere questo tipo di funzione educativa, poiché occorrerebbe scegliere e inevitabilmente imporre un modello valoriale e interpretativo, violando la libertà di scelta dei genitori stessi. Oppure pensare, come fa un po' "ingenuamente" la risoluzione 1607, che sia possibile dare su tali fondamentali tematiche semplici informazioni "neutre", senza valori etici, senza punti di riferimento antropologici. Non a caso, infatti, il documento riafferma l'importanza di diffondere in larga misura conoscenze e strumenti di contraccezione tra le popolazioni, con la convinzione che così facendo si otterrà una forte diminuzione del fenomeno dell'aborto. Sulla base di statistiche ufficiali e convincimenti antropologici del tutto diversi, riteniamo di dover riproporre la via dell'impegno per un'integrale educazione al valore della vita umana, all'amore e all'affettività (che comprende anche la sessualità), soprattutto a carico dei genitori verso i figli, come principale ed efficace strada per allontanare la piaga dell'aborto, legale o clandestino che sia. Pensiamo anche che la società tutta, e in particolare coloro che ne portano la responsabilità di guida, debbano agire efficacemente per tentare di rimuovere ogni difficoltà concreta (materiale, sanitaria, psicologica, economica, sociale e così via) che spinga una donna a ricorrere all'aborto.
Concludendo, l'affermazione relativa al "diritto di aborto" introdotta contro la logica della prevenzione e dell'educazione, verrebbe in ogni caso ad annullare il diritto alla vita del bambino concepito e rappresenta un'interpretazione selettiva e soggettivistica del diritto stesso, contraria all'originaria accezione dei diritti umani in cui il diritto alla vita è originario, fondamentale e preliminare rispetto a tutti gli altri diritti dell'uomo.
(©L'Osservatore Romano - 27 aprile 2008)
«Cantavamo Dio è morto»: la contestazione cattolica
DI ANDREA GALLI
Un libro di Roberto Beretta sul ruolo dei cattolici negli anni della protesta e nel movimento studentesco
Certo, che la scintilla decisiva per la contestazione sia partita dall’Università Cattolica, che Mario Capanna fosse arrivato dall’Umbria nell’ateneo milanese con lettera di raccomandazione del vescovo, monsignor Luigi Ciccutini, e del parroco (che in un’intervista descrisse il suo pupillo come «il migliore della parrocchia, una fede come pochi altri»), che Margherita Cagol detta Mara, moglie di Renato Curcio e morta da guerrigliera in un violentissimo scontro a fuoco coi carabinieri, il 5 giugno del ’75, avesse un curriculum fatto di scoutismo, gruppo missionario Mani Tese e animazione delle Messe post-conciliari, certo, sono cose note. Ma proprio per questo è curioso che gli studi sul lato prettamente cattolico del Sessantotto – e sul Sessantotto si è detto e scritto di tutto – siano assai pochi.
Cantavamo Dio è morto. Il ’68 dei cattolici (Piemme, pagine 222, euro 13,50) del giornalista di Avvenire Roberto Beretta ha il merito, in questo quarantennale di rievocazioni, di colmare un po’ il vuoto in materia. La sua è una rivisitazione dove il piano ecclesiale, con il fermento del post-Concilio, e quello politico, con l’influenza del marxismo e delle ideologie liberazioniste, si sovrappongono fino a risultare spesso inseparabili. E dove una delle varie angolature scelte, e tra le più efficaci, per comprendere il bailamme cattolico di quegli anni è quella di seguire il comportamento del Pontefice stesso. Paolo VI che osserva con attenzione i fatti della Cattolica e pensa di scendere a Milano per parlare direttamente con quei giovani surriscaldati (viene poi sconsigliato dal farlo per timore di un clamoroso oltraggio al Vicario di Cristo).
Paolo VI che il 20 dicembre del ’68 invia una lettera autografa a don Enzo Mazzi, leader della rivolta dell’Isolotto, il quartiere popolare di Firenze, invitandolo a cercare una riconciliazione con l’arcivescovo, il cardinale Ermenegildo Florit. Paolo VI che tra il dicembre ’67 e il maggio ’70 scrive ben sessantanove discorsi sulla contestazione nella Chiesa, con un crescendo di intransigenza che arriverà all’ipotesi, confidata in un colloquio a monsignor Ferdinando Antonelli, di chiudere per sempre l’Università Cattolica, e soprattutto al famoso discorso sul «fumo di Satana» entrato nel Tempio di Dio, nel giugno del ’72.
Vicende tormentate quelle del Sessantotto «bianco», i cui danni – perdita di fede di innumerevoli protagonisti, anche clericali, impazzimento dottrinale, fine tragica nella lotta armata per alcuni – furono grandi. È però anche vero, come fa notare Beretta, ed è una delle tesi portanti del libro, che il Sessantotto cattolico non fu solo apologia di Camillo Torres, il mitologico prete col mitra, ubriacatura di teologia della liberazione in salsa cinese, liturgie blasfeme e catechismo olandese. Fu anche una «rottura» da cui nacquero o maturarono realtà come Comunione e Liberazione, Bose, Sant’Egidio, numerose comunità di accoglienza, dalla Comunità di Capodarco al Ceis di don Mario Picchi, in un certo senso anche la comunità Giovanni XXIII di don Oreste Benzi. Per cui oggi ci sarebbe lo spazio, volendo, dopo una dovuta e impietosa analisi delle derive, per una riflessione sul positivo che venne da quegli anni «formidabili ». E su ciò che si sarebbe potuto o dovuto salvare in quel vociare esaltato di «protagonismo dei laici » e «purificazione della Chiesa».
Avvenire 24-4-2008
SCUOLA/ La proposta. Detrarre dalle tasse fino al 50% delle rette scolastiche private. Un modello praticabile?
IlSussidiario.net
Vincenzo Silvano26/04/2008
Autore(i): Vincenzo Silvano. Pubblicato il 26/04/2008 - Letto 82
In un mio precedente intervento mi sono soffermato sui meriti e le difficoltà della Dote, sistema geniale ed innovativo introdotto dalla Regione Lombardia per il sostegno del sistema di istruzione e della Formazione Professionale. Alcuni commenti all’articolo inseriti da lettori, come pure numerosi dialoghi informali di questi giorni sull’argomento, mi spingono ora a lanciare una proposta che riguarda non più solo la regione lombarda, ma tutto il territorio nazionale. È evidente, infatti, che la Dote costituisce una innovazione positiva sotto molteplici profili; tuttavia, come un fenomenale corridore che lascia il vuoto dietro di sé, accresce anche la già enorme distanza che caratterizza il confronto fra la Lombardia e le altre regioni italiane.
Se le famiglie e le scuole della Lombardia possono (e devono) sicuramente rallegrarsi per il nuovo passo in avanti fatto dalla Regione in materia di servizi alla società civile, realizzato nell’ottica di un welfare state attento al principio della sussidiarietà, che ne sarà della scuola paritaria (e quindi della libertà di educazione) in quelle aree del Paese governate da maggioranze poco sensibili a questi temi?
Per tentare di sanare questa palese (e radicata) ingiustizia, partiamo dalla normativa vigente. L’articolo 29 della Costituzione riconosce i diritti della famiglia dettando prioritariamente il dovere e il diritto dei genitori a mantenere, istruire ed educare i figli, prevedendo sussidiariamente, all’articolo 30, che solo in caso di incapacità dei genitori la legge provveda a che siano assolti i loro compiti; l’articolo 33 riconosce anche il diritto di enti e di privati a istituire scuole e istituti di educazione e, nell’articolo 34, si afferma che i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi e connette l’esercizio effettivo del diritto all’istruzione al conferimento di borse di studio, di assegni alle famiglie e di altre provvidenze da attribuirsi per concorso. Ritengo che lo Stato, nel rispetto della Costituzione debba legiferare per garantire a tutti il godimento di diritti costituzionalmente garantiti. Il fatto che non l’abbia fatto fino ad oggi non l’esonera dal farlo per il futuro, anzi….
Nell’attuale congiuntura politica e finanziaria, una ricerca realistica della soluzione più adeguata che consenta a tutti di godere di sgravi e/o benefit per i servizi scolastici, suggerisce di concentrarsi sullo strumento della detraibilità fiscale. Se la dote è e resta, per sua natura, un provvedimento di competenza regionale, la detraibilità fiscale, riguardando l’intera popolazione italiana in materia di fisco, è materia di competenza del Ministero delle Finanze, e potrebbe davvero rappresentare la soluzione dell’annoso problema.
Presentarla come proposta innovativa è un po’ azzardato: già quasi 15 anni fa fu presa in esame dal primo governo Berlusconi, ma provocò immediate reazioni ostili in quei settori del mondo politico, della burocrazia scolastica e del movimento studentesco, che scorsero in questa possibile riforma un attacco alle "conquiste del ’68". E così fu accantonata. Oggi osiamo riproporla, nella speranza che gli sfasci prodotti sulla scuola italiana dal ’68 e l’emergenza educativa conseguente abbiano reso più ragionevoli anche i dinosauri della protesta sessantottina (che, ricordiamo, oggi sono ritornati ad essere extraparlamentari!)
A onor del vero, per la piena realizzazione di tale obiettivo era essenziale il formale riconoscimento del servizio pubblico reso dalla scuola non statale paritaria, che nel 1994 ancora non era avvenuto. La Legge 62/2000 l’ha finalmente sancito, anche se resta colpevolmente carente l’ attuazione proprio sotto il profilo economico… Possiamo e dobbiamo procedere dunque nella direzione della totale parità, studiando concretamente tutti i possibili strumenti di sostegno economico, diretto o indiretto, sia a favore degli istituti scolastici non statali sia a favore delle famiglie.
La detraibilità si potrebbe realizzare con la semplice modifica della lettera e) dell’articolo 15 (13 bis), Detrazioni per oneri, del Testo Unico delle imposte sul reddito, D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 e successive modificazioni. Tale disposizione contempla "le spese per frequenza di corsi di istruzione secondaria e universitaria, in misura non superiore a quella stabilita per le tasse e i contributi degli istituti statali". La citata locuzione potrebbe essere sostituita con la seguente: "le spese per frequenza di corsi di istruzione primaria, secondaria e universitaria".
Per non risultare irrilevante, dovrebbe essere detraibile dall’imposta lorda sul reddito delle persone fisiche un importo pari almeno al 50% dell’onere sostenuto; questa percentuale, che dunque dovrà essere più alta di quanto previsto a norma del primo comma dell’art. 15 [13-bis] della citata legge, è fissa; pertanto, essa non favorisce maggiormente i titolari di redditi più elevati, ma tutti in uguale misura. Per completezza di informazione si può ancora ricordare che in Italia il contribuente può già detrarre dalle imposte dovute il 19% di alcune spese “sociali” sostenute: per sanità (comprese le spese per il veterinario!), assistenza e, di recente, anche per asili nido, attività sportiva dei figli ed altro…..Non costituirebbe dunque una forzatura l’inserimento in questa disciplina delle rette scolastiche, sia pure con una percentuale maggiore di detrazione. Si tratta davvero di un sistema semplice e non discriminatorio, sia dal punto di vista territoriale, sia sotto il profilo della giustizia fiscale, e rientra a pieno titolo nell’alveo di una più ampia riforma del fisco a favore della famiglia, richiesta da più parti politiche durante la recente campagna elettorale.
La detraibilità fiscale delle rette scolastiche non esclude, per sua natura, provvidenze di competenza regionale come la dote o il buono scuola. In una possibile diversificazione ed integrazione delle provvidenze, l’importante è che ci sia davvero, per tutte le famiglie, la possibilità di scegliere liberamente il proprio partner nell’educazione/istruzione dei figli, senza essere costretti ad esborsi ingiusti (incostituzionali) e gravosi, quando addirittura non sostenibili. La detraibilità può essere un ulteriore passo verso la piena parità ed è, nel contempo, rispettosa delle difficoltà economiche del tempo presente. I legislatori abbiano il coraggio di tenerne finalmente conto, infischiandosene delle prevedibili ostilità e lasciando nel proprio jurassic park chi si ostina a proporre modelli sociali ampiamente smentiti dalla storia.
Mario Canessa, giusto tra le nazioni
Autore: Guastalla, Guido Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
sabato 26 aprile 2008
La storia dei giusti è spesso una storia particolare per non dire strana. E quella di Mario Canessa non sfugge alla regola. A 91 anni riceve dallo Stato di Israele il riconoscimento di “Giusto fra le Nazioni”, il più alto dello Stato ebraico, e dallo Stato italiano, direttamente dalle mani del Presidente della Repubblica la medaglia d’oro al valor civile. Forse come appartenente alla Polizia di Stato gli poteva essere riconosciuta quella al valor militare.
I fatti per cui gli è stato concesso questo riconoscimento risalgono ad oltre 60 anni fa, quando Mario Canessa, agente di Pubblica Sicurezza, nel 1943 aiutò un gruppo di ebrei, in Valtellina, mettendo a rischio la propria vita, a fuggire in Svizzera. Alcuni di questi ebrei sono ancora vivi e venuti a conoscenza che il loro salvatore era ancora vivo lo hanno voluto incontrare e ringraziare. Tra questi Lino De Benedetti che all’epoca aveva 9 anni e Noemi Gallia, allora sedicenne. Ma anche nel volterrano, città in cui Mario Canessa è nato, anche se è livornese di adozione, ebbe modo di mettere al sicuro il dottor Emerico Lukacs, di origine ungherese, il cui figlio Vittorio vive ancora a Pontedera, dove dirige un avviato studio di architettura.
Per valutare appieno il comportamento di Mario Canessa bisogna ricordare che contemporaneamente alla sua azione di salvataggio, suo fratello si trovava prigioniero in Germania. Se avesse consegnato ai tedeschi uno o più ebrei suo fratello sarebbe stato rimesso in libertà; Mario Canessa questa possibilità non la prese neppure in considerazione. “Sa - mi ha detto – io sono molto religioso, così come lo era mia madre; non dissi nulla neppure a lei, tanto sapevo quali erano le sue idee e quale sarebbe stata la sua reazione”. In Mario Canessa prevalse l’imperativo categorico su quello ipotetico, l’etica delle intenzioni e della purezza su quella delle conseguenze e della convenienza. Egli è uno di quei giusti su cui si regge la salvezza del mondo, e come tale lo dobbiamo onorare.
Finita la guerra Mario Canessa si laureò in Scienze Politiche, divenne funzionario della Polizia di Stato ed arrivò ai vertici della carriera con la carica di Dirigente Generale al Ministero degli Interni: di quello che aveva fatto si dimenticò.
Nel giardino dei giusti a Gerusalemme, nel museo Yad Vashem, ora che il ricordo è riemerso, a Mario Canessa sarà dedicato un albero e una targa a perpetuo ricordo di ciò che ha fatto; lì sarà in buona compagnia: 22.000 giusti di tutto il mondo fra cui circa 500 italiani. Fra essi molti sacerdoti e membri delle forze armate italiane: carabinieri e poliziotti che agirono secondo coscienza, sollecitudine e amore fraterno verso il prossimo, contravvenendo le leggi dello stato fascista. Fra i più famosi Giorgio Perlasca e Giovanni Palatucci, per il quale è in corso una causa di beatificazione.
Mi auguro che Mario Canessa integri queste mie parole con il racconto diretto di ciò che fece a quel tempo.
Io vorrei invece fare alcune considerazioni più generali.
Mario Canessa è un uomo profondamente religioso, che pratica quella grande, somma virtù che, per la tradizione giudaica e cristiana è l’umiltà. Di quello che aveva fatto, che gli era capitato di fare non aveva mai parlato con nessuno. Probabilmente, come ebbe a dire Giorgio Perlasca, di fronte ad uomini trattati peggio di bestie, gli era sembrato naturale aiutarli, non si era posto troppe domande sulle leggi dello Stato, sulle conseguenze dei suoi comportamenti.
Mario Canessa, come ho detto è profondamente credente, cattolico, cavaliere del Santo Sepolcro. Può avere influito questo nel suo comportamento?
Il 14 marzo del 1937 (Se non sbaglio all’epoca Mario aveva 20 anni) Pio XI promulgò una lettera enciclica, indirizzata ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi e agli altri Ordinari di Germania. Questa enciclica, eccezionalmente scritta in tedesco, anziché in latino, era la “Mit brennender sorge”, che possiamo tradurre “Con viva (letteralmente bruciante) ansia” Nel capitolo 8 “Riconoscimento del diritto naturale” si afferma che “E’ una caratteristica nefasta del tempo presente il voler distaccare, non solo la dottrina morale, ma anche le fondamenta del diritto e della sua amministrazione dalla vera fede in Dio e dalle norme della rivelazione divina…Alla luce delle norme di questo diritto naturale, ogni diritto positivo, qualunque ne sia il legislatore, può essere valutato nel suo contenuto etico e conseguentemente nella legittimità del comando e nella obbligatorietà dell’adempimento. Quelle leggi umane, che sono in contrasto insolubile col diritto naturale, sono affette da vizio originale, non sanabile con le costrizioni né con lo spiegamento di forza esterna”. Più sotto conclude: “ Il credente ha un diritto inalienabile di professare la sua fede e di praticarla in quella forma che ad essa conviene. Quelle leggi che sopprimono o rendono difficile la professione e la pratica di questa fede, sono in contrasto col diritto naturale”.
Sono parole inequivocabili, su cui ancora oggi, farebbero bene a riflettere quanti criticano il ricorso di Benedetto XVI al rispetto del diritto naturale, che per il mondo ebraico sono i sette comandamenti noachici, la prima alleanza dopo il Diluvio universale con Noach, che si possono riassumere nell’istituzione di magistrati, e nella probizione del sacrilegio, del politeismo, dell’incesto, dell’omicidio, del furto, dell’uso delle membra di un animale vivo (Sanhedrin 56 b).
Mario Canessa molto probabilmente non conosceva l’enciclica papale (aveva solo 20 anni) all’epoca della sua promulgazione; ma qualche anno dopo di fronte all’alternativa se obbedire ad una legge ingiusta, oppure alla legge naturale o di Dio, non ebbe il benché minimo dubbio. Nel contrasto fra l’uomo e Dio la tradizione e l’insegnamento religioso prevedono esplicitamente la disubbidienza. Ecco perché sono convinto che la sua fede lo abbia indirizzato naturalmente e senza tentennamenti a testimoniare il bene e a contravvenire ad una legge malvagia.
Erano quelli momenti terribili nei quali non era più possibile non capire, sfuggire ad una scelta; girare la testa da un’altra parte era già uno scegliere. Dice il Talmud che chi salva una vita salva il mondo; salvando una vita non si salva solo la persona ma anche coloro che discenderanno nelle generazioni future. Nel memoriale di Yad Vashem fra i 6 milioni di vittime innocenti è ricordata la morte di un milione e cin- quecentomila bambini. Mario Canessa appartiene perciò a quella schiera di giusti, la cui esistenza assicura la salvezza del mondo.
Ora due parole su che cosa è il riconoscimento di giusto tra le nazioni e la sua straordinaria importanza.
Presso il Memoriale di Yad Vascem a Gerusalemme è insediata la Commissione dei Giusti, il primo organismo del Novecento che si sia occupato della memoria del bene compiuto durante un genocidio. Moshé Bejski, che ne era il presidente, ricercava in ogni angolo del mondo gli uomini che avevano rischiato la vita per aiutare gli ebrei durante la persecuzione nazista. Ripeteva con ossessione agli amici: “non volevo che un solo giusto fosse dimenticato da noi ebrei”.
In realtà non era interessato alla perfezione degli esseri umani, alle motivazioni che li avevano spinti a salvare i loro simili. Voleva solo ricordare chi aveva tentato, di fronte ad un male estremo, autorizzato dalla legge degli uomini, di salvare anche una sola vita, chi era stato capace di comportarsi semplicemente da uomo.
Moshè amava gli uomini, non cercava i “santi”.
Era uno dei 1.200 inseriti nella famosa lista di Schindler. Questo legame fra Bejski e Schindler sta a fondamento dell’elaborazione di un concetto totalmente nuovo: la memoria del bene durante un genocidio.
Moshè era inquieto perché temeva che si ripetesse la solitudine in cui era sta lasciato chi aveva saputo sfidare le leggi del male. Forse troppi ebrei si erano dimenticati di chi li aveva salvati. Temeva la ingratitudine dei sopravvissuti, la leggerezza della memoria. Non poteva accettare che ciò accadesse. Aveva capito che l’esperienza di un genocidio produce una doppia responsabilità: insieme al dovere di ricordare le vittime esiste quello di non dimenticare chi ha rischiato la vita per salvarle, salvando nel contempo l’uomo universale, creatura divina. Ogni gesto di responsabilità, di resistenza, anche il più piccolo, va salvato dall’oblio, difeso nella memoria.
Recentemente, al Meeting di Rimini, un sacerdote milanese, don Giovanni Barbareschi, di poco più giovane di Mario Canessa, anche lui “Giusto fra le Nazioni”, allievo del Beato Ildebrando Schuster, cardinale di Milano, ebbe a dire. “A differenza di molti che hanno combattuto, anch’io ho fatto la Resistenza, ma l’ho fatta salvando delle vite anziché distruggerle” Non voglio dare giudizi su chi abbia adempiuto meglio al proprio dovere. Poiché personalmente propendo per la vita e per la sua sacralità assoluta mi piacciono molto di più quei resistenti che come Mario Canessa ha scelto di salvare la vita.
Ho seguito l’insegnamento di Moshè Bejnski: “non un solo giusto deve essere dimenticato”. E, con la stessa umiltà di Mario, ho trasmesso alle autorità dello Yad Vashem i documenti che hanno consentito di ricordare anche questo “Giusto”.
I documenti che pochi anni fa Mario Canessa, che in tutti questi anni si era confidato solo con il suo amico Raul Orvieto, aveva tenuto gelosamente nascosti.
26 aprile 2008
Un 25 aprile disastroso, Le secessioni incalzano: il buffone, i faziosi, i fischiatori. Tutti in piazza, di Giuliano Ferrara
Dal Foglio.it
A Torino il trionfo del qualunquismo nella forma spettacolare e come al solito di grande successo della ciarlataneria, che fa ombra sulla cerimonia istituzionale, composta come in una bara su altra piazza, mentre echeggiano gli insulti al sindaco e al presidente della Repubblica. A Genova i fischi all’arcivescovo Angelo Bagnasco, un sereno uomo di chiesa travolto dall’intolleranza che si traveste da resistenza laica. A Milano polemiche belluine per l’assenza del sindaco Letizia Moratti, maltrattata la volta scorsa insieme con il padre invalido: con quella sciagura da Nobel della famiglia Fo-Rame in lacrime di disperazione per la vittoria di Berlusconi. A Roma i fischi toccano al deportato Piero Terracina, perché la comunità ebraica non sarebbe stata abbastanza vivace e ardente nell’opposizione alla candidatura di Gianni Alemanno. E su tutto l’oscena commistione di liturgia repubblicana e politica elettorale, tra nostalgie per il voto che non fu e inquiete premonizioni intorno al voto che sarà. Una secessione dietro l’altra, secessioni fatte in serie per la giornata della Liberazione. I dementi di sinistra che quindici anni fa hanno preso il posto delle tricoteuses mentre veniva abbattuta la Repubblica dei partiti, e hanno fatto la maglia sotto il patibolo su cui magistrati codini immolavano le classi dirigenti che avevano firmato la Costituzione, provocando valanghe di giustizialismo con argomenti alla Beppe Grillo, ora si lamentano per l’offesa alla memoria nazionale, per la trasformazione ineluttabile di una giornata di festa nazionale in un incubo di divisione nazionale. Occorreva difendere con sapienza una memoria, elaborandola come storia e purgandola delle sue asprezze, e invece piano piano il 25 aprile, tra un’aggressione e un’intimidazione, tra cento mistificazioni di bottega culturale ed elettorale, è stato ridotto a quello straccio che ieri s’è visto. Ciò che con il tempo doveva allargarsi a tutti gli italiani, compresi i leghisti e i fascisti, è stato sequestrato da pochi capifazione ed espulso dal cuore maggioritario del paese, indotto a diffidare di un calendario della patria al servizio di un vecchio ciarpame ideologico. I vecchi partiti avrebbero mediato nel pensiero e nel linguaggio, cercato una soluzione capace di senso universale della cittadinanza, e avrebbero censurato pretese e urla degli intolleranti. Ma in una nazione senza guida etica, senza forza culturale e politica, e per di più infestata dal rancore senza misura e senza significato, non poteva che finire così. Che peccato.
1) Papa: a 29 nuovi sacerdoti, portate al mondo la gioia di Cristo
2) «Con il pensiero di Cristo testimoni, non militanti» - Scola ai «portaparola»: fede e vita, non c’è dualismo
3) La risoluzione sull'aborto del Consiglio d'Europa. Un'affermazione contraria ai diritti umani, di Elio Sgreccia Presidente della Pontificia Accademia per la Vita
4) «Cantavamo Dio è morto»: la contestazione cattolica
5) SCUOLA/ La proposta. Detrarre dalle tasse fino al 50% delle rette scolastiche private. Un modello praticabile?
6) Mario Canessa, giusto tra le nazioni
7) Un 25 aprile disastroso, Le secessioni incalzano: il buffone, i faziosi, i fischiatori. Tutti in piazza, di Giuliano Ferrara
27/04/2008 12:32 VATICANO
Papa: a 29 nuovi sacerdoti, portate al mondo la gioia di Cristo
Un appello di Benedetto XVI per Somalia, Darfur e Burundi, il ricordo dell’appena compiuto viaggio negli Stati Uniti e gli auguri agli ortodossi che oggi celebrano la Pasqua
Città del Vaticano (AsiaNews) – La gioia che è insita nell’ordinazione di ogni nuovo sacerdote ed il dolore per le notizie di violenze che continuano ad arrivare dal’Africa tormentata hanno segnao l’odierna giornata di Benedetto XVI che stamattina nella basilica di San Pietro ha conferito l’ordinazione a 29 diaconi della diocesi di Roma. Del rito il Papa ha poi parlato prima della recita del Regina Caeli, quando ha anche lanciato un appello per la Somalia, il Darfur ed il Burundi. Benedetto XVI ha anche ricordato la “missione” compiuta negli Statai Uniti ed ha inviato gli auguri per la Pasqua che gli ortodossi celebrano oggi, rinnovando la speranza di una piena unità.
“Dove Cristo è predicato con la forza dello Spirito Santo ed è accolto con animo aperto, la società, pur piena di tanti problemi, diventa "città della gioia" – come suona il titolo di un celebre libro riferito all’opera di Madre Teresa a Calcutta”. Questo l’augurio Benedetto XVI ha rivolto ai preti novelli ed anche il tema centrale della sua omelia, ricordata poi alle 40mila persone presenti in piazza San Pietro per la recita del Regina Caeli, prendendo spunto dal capitolo VIII degli Atti degli Apostoli che narra la missione del diacono Filippo in Samaria, là dove di parla di “grande gioia in quella città” (At 8,8), convertitasi alla nuova fede.
“Cari amici – ha detto ai 29 diaconi - questa è anche la vostra missione: recare il Vangelo a tutti, perché tutti sperimentino la gioia di Cristo e ci sia gioia in ogni città. Che cosa ci può essere di più bello di questo? Che cosa di più grande, di più entusiasmante, che cooperare a diffondere nel mondo la Parola di vita, che comunicare l’acqua viva dello Spirito Santo? Annunciare e testimoniare la gioia: è questo il nucleo centrale della vostra missione”.
Il Papa si è poi soffermato sul gesto della imposizione delle mani, che si compie durante il rito. “E’ – ha sottolineato - un segno inseparabile dalla preghiera, della quale costituisce un prolungamento silenzioso. Senza dire parole, il vescovo consacrante e dopo di lui gli altri sacerdoti pongono le mani sul capo degli ordinandi, esprimendo così l’invocazione a Dio perché effonda il suo Spirito su di loro e li trasformi rendendoli partecipi del Sacerdozio di Cristo. Si tratta di pochi secondi, un tempo brevissimo, ma carico di straordinaria densità spirituale”. “In quella preghiera silenziosa – ha aggiunto - avviene l’incontro tra due libertà: la libertà di Dio, operante mediante lo Spirito Santo, e la libertà dell’uomo”.
Una ultima sottolieatura il Papa ha dedicato alla frase evangelica "Se mi amate". “Cari amici – ha detto - queste parole Gesù le ha pronunciate durante l’Ultima Cena nel momento in cui contestualmente istituiva l’Eucaristia e il Sacerdozio. Pur rivolte agli Apostoli, esse, in un certo senso, sono indirizzate a tutti i loro successori e ai sacerdoti, che sono i più stretti collaboratori dei successori degli Apostoli. Noi le riascoltiamo quest’oggi come un invito a vivere sempre più coerentemente la nostra vocazione nella Chiesa: voi, cari Ordinandi, le ascoltate con particolare emozione, perché proprio oggi Cristo vi rende partecipi del suo Sacerdozio. Accoglietele con fede e con amore! Lasciate che si imprimano nel vostro cuore, lasciate che vi accompagnino lungo il cammino dell’intera vostra esistenza. Non dimenticatele, non smarritele per la strada! Rileggetele, meditatele spesso e soprattutto pregateci su. Rimarrete così fedeli all’amore di Cristo e vi accorgerete con gioia sempre nuova di come questa sua divina Parola "camminerà" con voi e "crescerà" in voi”.
“Carissimi – ha concluso - ecco il mio augurio in questo giorno per voi tanto significativo: che la speranza radicata nella fede possa diventare sempre più vostra! E possiate voi esserne sempre testimoni e dispensatori saggi e generosi, dolci e forti, rispettosi e convinti”.
Alla folla riunita in piazza San Pietro, poco dopo, il Papa ha ricordato che “oggi molte Chiese Orientali celebrano, secondo il calendario giuliano, la grande solennità della Pasqua. Desidero esprimere a questi nostri fratelli e sorelle la mia fraterna vicinanza spirituale. Li saluto cordialmente, pregando il Dio uno e trino di confermarli nella fede, di riempirli della luce splendente che emana dalla risurrezione del Signore e di confortarli nelle non facili situazioni in cui spesso devono vivere e testimoniare il Vangelo. Invito tutti ad unirvi a me nell'invocare la Madre di Dio, affinché la strada da tempo intrapresa del dialogo e della collaborazione porti presto ad una più completa comunione tra tutti i discepoli di Cristo, perché siano un segno sempre più luminoso di speranza per tutta l'umanità”.
L’appello per i drammi africani ha concluso la lunga mattina del Papa. “Le notizie che giungono da alcuni Paesi africani – ha detto - continuano a essere motivo di profonda sofferenza e viva preoccupazione. Vi chiedo di non dimenticare queste tragiche vicende e i fratelli e le sorelle che vi sono coinvolti! Vi chiedo di pregare per loro e di farvi loro voce! In Somalia, specialmente a Mogadiscio, aspri scontri armati rendono sempre più drammatica la situazione umanitaria di quella cara popolazione, da troppi anni oppressa sotto il peso della brutalità e della miseria. Il Darfur, nonostante qualche momentaneo spiraglio, rimane una tragedia senza fine per centinaia di migliaia di persone indifese e abbandonate a sé stesse. Infine il Burundi. Dopo i bombardamenti dei giorni scorsi che hanno colpito e terrorizzato gli abitanti della capitale Bujumbura e raggiunto anche la sede della Nunziatura Apostolica, e di fronte al rischio di una nuova guerra civile, invito tutte le parti in causa a riprendere senza indugio la via del dialogo e della riconciliazione. Confido che le Autorità politiche locali, i responsabili della comunità internazionale e ogni persona di buona volontà non tralasceranno sforzi per far cessare la violenza e onorare gli impegni presi, in modo da porre solide fondamenta alla pace e allo sviluppo. Affidiamo le nostre intenzioni – ha concluso - a Maria, Regina dell'Africa”.
Scola: attrezzarsi a un tempo di svolta
Avvenire, 27 aprile 2008
Un cristianesimo capace di superare il dualismo tra fede e pensiero e di mettere in gioco nella storia la propria libertà. Facendo proprio il «pensiero di Cristo», per essere «testimoni, non militanti»: è l’invito rivolto ieri dal patriarca di Venezia, Angelo Scola, ai partecipanti al primo «Forum nazionale degli animatori della cultura e della comunicazione» che si chiude oggi a Bibione
«Con il pensiero di Cristo testimoni, non militanti» - Scola ai «portaparola»: fede e vita, non c’è dualismo
«Siete giornalisti e voglio proprio vedere cosa scriverete domani, perché anche noi cristiani a volte ci chiediamo cosa mai interessi al lettore la Trinità ». Il ragionamento è iperbolico, visto che a ragionare con i portaparola, ieri mattina, era il cardinale Angelo Scola. Il patriarca di Venezia ha proposto a Bibione un efficacissimo spaccato teologico su «problemi comuni e giudizio cristiano» da cui emerge che la teologia appassiona, almeno a giudicare dall’intensità degli applausi raccolti, e che, contrariamente a quel che si pensa, la Trinità entra nella vita di tutti i giorni, dandoci più che un motivo per accettare le differenze culturali e religiose come per considerare «insuperabile» la differenza sessuale tra uomo e donna… Vediamo perché.
Transizione e pensiero di Cristo. Scola parte da vicino: «le elezioni rivelano che è in atto una svolta culturale decisiva» e se la tentazione può essere quella di liquidare la memoria, al contrario, dice il patriarca, «per affrontare una nuova fase bisogna farne la bussola». Solo così, «la Chiesa può essere un attore decisivo del cambiamento: a condizione di vivere la memoria nella sua verità eucaristica. Non cioè come ricordo e ripetitività, ma presenza che continua a trapiantare l’essenza dell’antico sul nuovo».
Il cardinale sollecita una «forma eucaristica» dell’esistenza cristiana che annunci (primo mandato per i portaparola ndr) che «non c’è dualismo o giustapposizione tra fede e vita». Ma occorre avere il pensiero di Cristo – ossia «essere in rapporto con tutta la realtà a partire dall’incontro personale con Gesù nella comunità, cercando di immedesimarsi col suo stile di rapportarsi alle cose, quello del possesso nel distacco» – ed esistono tre condizioni per averlo. La prima è «immergersi nella Traditio, stando dentro la comunità cristiana dove Gesù è reperibile per tutti e rispetto alla quale io devo poter dire a chiunque: vieni e vedi». Non si pensa come Cristo se non si vivono in profondità Eucaristia e sacramenti, in un’esperienza personale e comunitaria, in cui l’appartenenza precede la competenza e la proposta è rivolta «a tutti, instancabilmente» anche se solo «con quelli che rispondono» si può «andare a fondo delle dimensioni della vita cristiana». Seconda condizione per avere il pensiero di Cristo: «riconoscere che non c’è contrapposizione tra esperienza e pensiero.
Quando l’uomo separa il sapere dall’esperienza, parte per la tangente dell’intellettualismo ed è vittima di un dualismo». Terza condizione: che il cammino del cristiano sia sostenuto dal paragone a 360° di tutto l’io con tutta la realtà. Chi ha il pensiero di Cristo parte «dai problemi comuni, come ha fatto Gesù. Con lo stile del discepolo di Cristo che valuta ogni cosa e trattiene ciò che è buono, che non si conforma alla mentalità dominante, ma ama la persona che ha davanti».
Mistero e implicazione. Per offrire ai cristiani la possibilità di «avere il pensiero di Cristo», ogni comunità «deve essere àmbito in cui i misteri della vita di Cristo siano assimilati fino a scoprire le loro implicazioni nell’umana esistenza. Qui sta la radice profonda del progetto culturale – commenta il porporato ricordando che «parlare dei problemi comuni con un giudizio cristiano implica il saper vedere il nesso tra i misteri della vita di Cristo e l’umana esperienza sempre storicamente situata e perciò non dominabile. Questo lavoro chiama in causa la libertà. Il vostro lavoro (secondo mandato ai portaparola ndr) risulta dall’insieme di questi tre pilastri: l’annuncio del mistero, l’assunzione delle sue implicazioni e il gioco della libertà. Ci vogliono tutti e tre».
L’interpretazione culturale della fede è inevi- tabile, ma «lavorare sulle implicazioni dei misteri cristiani significa proporre una interpretazione della fede che non cade né nella religione civile, né nella cripto-diaspora» spiega il cardinale, che fa dell’implicazione il baricentro del suo ragionamento. Se infatti «l’atto di fede non si ferma all’enunciazione ma deve raggiungere la realtà» se «la res dell’Eucaristia è la comunità cristiana», che «l’Eucaristia tende a generare» e se «la comunità cristiana nasce dalla forma eucaristica della mia vita» allora «il senso dell’Eucaristia domenicale è che io impari lì la logike latreia (il culto ragionevole - Rm 12, 2) modulata sul dono che Cristo fa di sé. Il culto ragionevole è affrontare tutta la vita donando tutto me stesso; e questo genera la comunità cristiana».
Aderire al mistero eucaristico implica che «la mia libertà si giochi nella storia, rischiando nel qui ed ora, con i miei fratelli», con forti implicazioni antropologiche. «Se io vivo fino in fondo il mistero della Trinità divento consapevole che mai in sé e per sé la differenza è un negativo. Per il cristianesimo non c’è contraddizione tra identità e differenza e la differenza è un positivo». Come respingere l’immigrato quando «la differenza massima esiste in Dio?». E la differenza sessuale? «Insuperabile» per Scola: «Riflettiamo sulla nostra nascita, sul senso originario della relazione di paternità e di maternità, per capire come l’uomo-donna è l’accesso più immediato e più naturale all’altro come costitutivo dell’io. Ma questa relazione altro non è se non il riflesso della grande relazione che vive in sé la Trinità. Anche lì c’è l’uno e l’altro (il Padre e il Figlio) e l’unità dei due (lo Spirito Santo). C’è quindi una differenza nell’unità che si esplica nel dono totale di sé aperto alla vita: la triade costitutiva del mistero nuziale si trova già nel mistero trinitario ».
Ideale e testimonianza. Il pensiero di Cristo si accompagna ad alcuni atteggiamenti. Il primo è un’educazione all’ideale e non all’utopia, «il nemico più subdolo di un cristiano». L’ideale invece «è la verità del reale, è rintracciabile nell’esperienza dell’uomo, in forma incompiuta, frammentaria, ma esiste. Se correttamente perseguito potrà realizzarsi sempre di più». Il cristiano di Scola è «un soggetto integrale – personale e sociale – in azione con umiltà, senza presunzione, comunitariamente, sensibile a testimonianze profetiche» che «sceglie l’ideale della vita buona e non cade nella tentazione dell’egemonia sociale». Ed è «qualitativamente un’altra cosa rispetto al cristiano militante» perché la testimonianza è «gratuito e spontaneo comunicarsi di una vita cambiata per grazia. È la missione che implica parresìa di dottrina e di azione».
La risoluzione sull'aborto del Consiglio d'Europa. Un'affermazione contraria ai diritti umani, di Elio Sgreccia Presidente della Pontificia Accademia per la Vita
L'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ha approvato il 16 aprile scorso la risoluzione 1607 che invita i 47 Stati membri a orientare, laddove necessario, la propria legislazione in maniera da garantire effettivamente alle donne "il diritto di accesso all'aborto sicuro e legale". Il documento è stato approvato con 102 voti a favore, 69 contrari e 14 astenuti, dopo un lungo dibattito che ha deciso sull'inclusione nel testo provvisorio di ben 72 emendamenti proposti in precedenza.
La risoluzione approvata inizia ribadendo il principio che in nessuna circostanza l'aborto deve essere inteso come un mezzo di pianificazione familiare e che, nei limiti del possibile, esso deve essere evitato (cfr n. 1). A tal fine, la risoluzione raccomanda che sia messo in atto ogni mezzo, purché compatibile con i diritti delle donne, per ridurre sia le gravidanze indesiderate che gli aborti stessi. Sembra dunque che, almeno in linea di principio, l'introduzione del documento riconosca e affermi chiaramente che l'aborto è una realtà in se stessa negativa, da evitare nei limiti del possibile con ogni sforzo.
Nel testo viene poi ricordata la presenza nella maggior parte degli Stati membri di dispositivi di legge che, sotto precise condizioni e circostanze, "permettono" l'aborto nei casi previsti. È qui che la risoluzione manifesta una preoccupazione concreta: il pericolo che in alcuni dei Paesi del Consiglio europeo dove l'aborto è permesso, di fatto, non possa essere garantito alle donne che lo richiedessero "un effettivo accesso ai servizi per l'aborto che siano sicuri, sostenibili, accettabili ed appropriati" (n. 2), e ciò a causa di condizioni eccessivamente restrittive previste dalle apposite disposizioni legislative, che finirebbero per provocare effetti discriminatori tra le donne.
Ed è proprio a questo punto che nel testo spunta la parola "diritto", riferito all'effettivo accesso all'aborto. Ciò stupisce in quanto è la prima volta che in un documento ufficiale del Consiglio d'Europa - così come in quelli delle Nazioni Unite - si parla dell'aborto come di un "diritto". Dal punto di vista legislativo, infatti, una cosa è permettere o depenalizzare l'aborto effettuato in determinate circostanze, altro è definirlo come un "diritto", a cui dovrebbe logicamente corrispondere anche un "dovere" di tutela del medesimo. Ma è davvero possibile postulare fondatamente un "diritto all'aborto"? Su quali basi si potrebbe giustificare il diritto di interrompere la vita di un essere umano innocente e, per di più, debole e indifeso? A meno di adottare criteri antropologici discriminatori e arbitrari, che non riconoscano a ogni essere umano uguale dignità e diritti fondamentali, questa pretesa è del tutto infondata e arrogante; essa può essere giustificata solo da impostazioni di pensiero fortemente ideologiche e parziali, che non pongono la persona umana - o almeno, non ogni singola persona umana - come fine ultimo e misura della vita sociale, e quindi della regolazione legislativa.
Anche l'affermazione che "l'aborto non deve essere vietato entro limiti gestazionali ragionevoli" (n. 4) suscita domande e perplessità. La ragionevolezza cui si fa riferimento, infatti, sembra essere commisurata su motivi riguardanti esclusivamente la salute della donna ed i costi sociali. Nulla si dice invece sulla realtà dell'essere umano (embrione) da abortire, la cui dignità essenziale è legata alla sua stessa natura, al fatto stesso di appartenere alla specie umana e non alle tappe del suo sviluppo biologico. In relazione al suo "diritto" di tutela della vita, dunque, non esistono e non possono esistere "limiti gestazionali ragionevoli" entro i quali sia possibile derogare a tale diritto fondamentale, poiché la vita umana individuale possiede il suo valore peculiare ed inalienabile in ogni momento della sua storia personale.
Nella stessa direzione, proseguendo nella lettura della risoluzione 1607, un altro elemento crea forti perplessità; si tratta della riaffermazione (cfr n. 6), di per sé opportuna e giusta, del diritto di ogni essere umano - e non si capisce perché il testo senta il bisogno di specificare "incluse le donne", cosa che appare del tutto scontata e, quindi, offensiva nei confronti delle donne stesse - al rispetto della propria integrità fisica e alla libertà della gestione del proprio corpo. Sulla base di questa affermazione, il testo conclude che "la decisione ultima di ricorrere o no all'aborto è una questione che appartiene alla donna interessata, la quale deve avere i mezzi per esercitare questo diritto in maniera efficace". La conclusione non sembra del tutto coerente con l'affermazione di principio iniziale. Se, infatti, viene riconosciuto il diritto alla tutela dell'integrità corporea di ogni essere umano, ciò va rivendicato appunto per tutti gli esseri umani, senza distinzione; ora, nel caso dell'aborto, la donna è solo uno degli esseri umani direttamente coinvolti, non l'unico. Anche il figlio, embrione o feto, lo è. Se è sacrosanto rivendicare il rispetto per l'integrità corporea della madre, altrettanto lo è affermare e rivendicare quella del figlio, tanto più che quest'ultimo non è in condizioni di reclamare e difendere da solo i propri interessi. Nel caso dell'aborto, da questo punto di vista vi sono due fronti d'interesse da far convergere e tutelare insieme: la salute della madre e quella del figlio. Il concepito non può certo essere ridotto a "parte del corpo della donna gravida", come ormai dimostra senza alcuna ragionevole incertezza la più moderna embriologia. La risoluzione 1607 glissa troppo velocemente su questo fondamentale aspetto, tentando di far passare come del tutto scontate affermazioni di significato antropologico e valoriale che sono invece del tutto discutibili, se non altro in nome di quel pluralismo di pensiero tanto rivendicato proprio dai sostenitori di queste affermazioni. Di conseguenza, è del tutto artificiale e "populistica" la reiterata accusa, mossa alla Chiesa cattolica da parte di alcuni parlamentari in sede di discussione del documento, di agire e parlare col fine di "privare le donne del loro diritto più fondamentale: quello di disporre del loro corpo". Un'idea del genere è assolutamente estranea all'insegnamento e agli intenti della Chiesa, ma soprattutto rappresenta una palese riduzione distorsiva della realtà: l'aborto volontario non può essere ridotto a una mera questione di gestione del corpo della donna; esso, infatti, include allo stesso tempo la drammatica scelta di distruggere una vita umana, quella del figlio, il cui valore di fondo è pari a quello della madre.
Un ultimo rilievo bisogna fare circa le possibili soluzioni che il documento prospetta per eliminare il più possibile il fenomeno dell'aborto. A tal fine si fa riferimento ad appropriate politiche di "salute sessuale e riproduttiva", ma soprattutto all'esigenza di rendere "obbligatoria" una educazione sessuale e relazionale (modulata sull'età e sul "genere" del soggetto) rivolta ai giovani. L'offerta di una proposta educativa sul piano della sessualità e della relazionalità è senz'altro un valore, che costituisce peraltro un dovere degli adulti nei confronti dei più giovani, soprattutto da parte dei genitori nei confronti dei propri figli; allo stesso tempo, per i genitori questo impegno rappresenta anche un diritto, da esercitare nella libertà di scelta dei valori e dei significati da trasmettere alla propria discendenza. Sembra invece molto difficile immaginare che possa essere la società nel suo insieme - la scuola? altre strutture? - a svolgere questo tipo di funzione educativa, poiché occorrerebbe scegliere e inevitabilmente imporre un modello valoriale e interpretativo, violando la libertà di scelta dei genitori stessi. Oppure pensare, come fa un po' "ingenuamente" la risoluzione 1607, che sia possibile dare su tali fondamentali tematiche semplici informazioni "neutre", senza valori etici, senza punti di riferimento antropologici. Non a caso, infatti, il documento riafferma l'importanza di diffondere in larga misura conoscenze e strumenti di contraccezione tra le popolazioni, con la convinzione che così facendo si otterrà una forte diminuzione del fenomeno dell'aborto. Sulla base di statistiche ufficiali e convincimenti antropologici del tutto diversi, riteniamo di dover riproporre la via dell'impegno per un'integrale educazione al valore della vita umana, all'amore e all'affettività (che comprende anche la sessualità), soprattutto a carico dei genitori verso i figli, come principale ed efficace strada per allontanare la piaga dell'aborto, legale o clandestino che sia. Pensiamo anche che la società tutta, e in particolare coloro che ne portano la responsabilità di guida, debbano agire efficacemente per tentare di rimuovere ogni difficoltà concreta (materiale, sanitaria, psicologica, economica, sociale e così via) che spinga una donna a ricorrere all'aborto.
Concludendo, l'affermazione relativa al "diritto di aborto" introdotta contro la logica della prevenzione e dell'educazione, verrebbe in ogni caso ad annullare il diritto alla vita del bambino concepito e rappresenta un'interpretazione selettiva e soggettivistica del diritto stesso, contraria all'originaria accezione dei diritti umani in cui il diritto alla vita è originario, fondamentale e preliminare rispetto a tutti gli altri diritti dell'uomo.
(©L'Osservatore Romano - 27 aprile 2008)
«Cantavamo Dio è morto»: la contestazione cattolica
DI ANDREA GALLI
Un libro di Roberto Beretta sul ruolo dei cattolici negli anni della protesta e nel movimento studentesco
Certo, che la scintilla decisiva per la contestazione sia partita dall’Università Cattolica, che Mario Capanna fosse arrivato dall’Umbria nell’ateneo milanese con lettera di raccomandazione del vescovo, monsignor Luigi Ciccutini, e del parroco (che in un’intervista descrisse il suo pupillo come «il migliore della parrocchia, una fede come pochi altri»), che Margherita Cagol detta Mara, moglie di Renato Curcio e morta da guerrigliera in un violentissimo scontro a fuoco coi carabinieri, il 5 giugno del ’75, avesse un curriculum fatto di scoutismo, gruppo missionario Mani Tese e animazione delle Messe post-conciliari, certo, sono cose note. Ma proprio per questo è curioso che gli studi sul lato prettamente cattolico del Sessantotto – e sul Sessantotto si è detto e scritto di tutto – siano assai pochi.
Cantavamo Dio è morto. Il ’68 dei cattolici (Piemme, pagine 222, euro 13,50) del giornalista di Avvenire Roberto Beretta ha il merito, in questo quarantennale di rievocazioni, di colmare un po’ il vuoto in materia. La sua è una rivisitazione dove il piano ecclesiale, con il fermento del post-Concilio, e quello politico, con l’influenza del marxismo e delle ideologie liberazioniste, si sovrappongono fino a risultare spesso inseparabili. E dove una delle varie angolature scelte, e tra le più efficaci, per comprendere il bailamme cattolico di quegli anni è quella di seguire il comportamento del Pontefice stesso. Paolo VI che osserva con attenzione i fatti della Cattolica e pensa di scendere a Milano per parlare direttamente con quei giovani surriscaldati (viene poi sconsigliato dal farlo per timore di un clamoroso oltraggio al Vicario di Cristo).
Paolo VI che il 20 dicembre del ’68 invia una lettera autografa a don Enzo Mazzi, leader della rivolta dell’Isolotto, il quartiere popolare di Firenze, invitandolo a cercare una riconciliazione con l’arcivescovo, il cardinale Ermenegildo Florit. Paolo VI che tra il dicembre ’67 e il maggio ’70 scrive ben sessantanove discorsi sulla contestazione nella Chiesa, con un crescendo di intransigenza che arriverà all’ipotesi, confidata in un colloquio a monsignor Ferdinando Antonelli, di chiudere per sempre l’Università Cattolica, e soprattutto al famoso discorso sul «fumo di Satana» entrato nel Tempio di Dio, nel giugno del ’72.
Vicende tormentate quelle del Sessantotto «bianco», i cui danni – perdita di fede di innumerevoli protagonisti, anche clericali, impazzimento dottrinale, fine tragica nella lotta armata per alcuni – furono grandi. È però anche vero, come fa notare Beretta, ed è una delle tesi portanti del libro, che il Sessantotto cattolico non fu solo apologia di Camillo Torres, il mitologico prete col mitra, ubriacatura di teologia della liberazione in salsa cinese, liturgie blasfeme e catechismo olandese. Fu anche una «rottura» da cui nacquero o maturarono realtà come Comunione e Liberazione, Bose, Sant’Egidio, numerose comunità di accoglienza, dalla Comunità di Capodarco al Ceis di don Mario Picchi, in un certo senso anche la comunità Giovanni XXIII di don Oreste Benzi. Per cui oggi ci sarebbe lo spazio, volendo, dopo una dovuta e impietosa analisi delle derive, per una riflessione sul positivo che venne da quegli anni «formidabili ». E su ciò che si sarebbe potuto o dovuto salvare in quel vociare esaltato di «protagonismo dei laici » e «purificazione della Chiesa».
Avvenire 24-4-2008
SCUOLA/ La proposta. Detrarre dalle tasse fino al 50% delle rette scolastiche private. Un modello praticabile?
IlSussidiario.net
Vincenzo Silvano26/04/2008
Autore(i): Vincenzo Silvano. Pubblicato il 26/04/2008 - Letto 82
In un mio precedente intervento mi sono soffermato sui meriti e le difficoltà della Dote, sistema geniale ed innovativo introdotto dalla Regione Lombardia per il sostegno del sistema di istruzione e della Formazione Professionale. Alcuni commenti all’articolo inseriti da lettori, come pure numerosi dialoghi informali di questi giorni sull’argomento, mi spingono ora a lanciare una proposta che riguarda non più solo la regione lombarda, ma tutto il territorio nazionale. È evidente, infatti, che la Dote costituisce una innovazione positiva sotto molteplici profili; tuttavia, come un fenomenale corridore che lascia il vuoto dietro di sé, accresce anche la già enorme distanza che caratterizza il confronto fra la Lombardia e le altre regioni italiane.
Se le famiglie e le scuole della Lombardia possono (e devono) sicuramente rallegrarsi per il nuovo passo in avanti fatto dalla Regione in materia di servizi alla società civile, realizzato nell’ottica di un welfare state attento al principio della sussidiarietà, che ne sarà della scuola paritaria (e quindi della libertà di educazione) in quelle aree del Paese governate da maggioranze poco sensibili a questi temi?
Per tentare di sanare questa palese (e radicata) ingiustizia, partiamo dalla normativa vigente. L’articolo 29 della Costituzione riconosce i diritti della famiglia dettando prioritariamente il dovere e il diritto dei genitori a mantenere, istruire ed educare i figli, prevedendo sussidiariamente, all’articolo 30, che solo in caso di incapacità dei genitori la legge provveda a che siano assolti i loro compiti; l’articolo 33 riconosce anche il diritto di enti e di privati a istituire scuole e istituti di educazione e, nell’articolo 34, si afferma che i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi e connette l’esercizio effettivo del diritto all’istruzione al conferimento di borse di studio, di assegni alle famiglie e di altre provvidenze da attribuirsi per concorso. Ritengo che lo Stato, nel rispetto della Costituzione debba legiferare per garantire a tutti il godimento di diritti costituzionalmente garantiti. Il fatto che non l’abbia fatto fino ad oggi non l’esonera dal farlo per il futuro, anzi….
Nell’attuale congiuntura politica e finanziaria, una ricerca realistica della soluzione più adeguata che consenta a tutti di godere di sgravi e/o benefit per i servizi scolastici, suggerisce di concentrarsi sullo strumento della detraibilità fiscale. Se la dote è e resta, per sua natura, un provvedimento di competenza regionale, la detraibilità fiscale, riguardando l’intera popolazione italiana in materia di fisco, è materia di competenza del Ministero delle Finanze, e potrebbe davvero rappresentare la soluzione dell’annoso problema.
Presentarla come proposta innovativa è un po’ azzardato: già quasi 15 anni fa fu presa in esame dal primo governo Berlusconi, ma provocò immediate reazioni ostili in quei settori del mondo politico, della burocrazia scolastica e del movimento studentesco, che scorsero in questa possibile riforma un attacco alle "conquiste del ’68". E così fu accantonata. Oggi osiamo riproporla, nella speranza che gli sfasci prodotti sulla scuola italiana dal ’68 e l’emergenza educativa conseguente abbiano reso più ragionevoli anche i dinosauri della protesta sessantottina (che, ricordiamo, oggi sono ritornati ad essere extraparlamentari!)
A onor del vero, per la piena realizzazione di tale obiettivo era essenziale il formale riconoscimento del servizio pubblico reso dalla scuola non statale paritaria, che nel 1994 ancora non era avvenuto. La Legge 62/2000 l’ha finalmente sancito, anche se resta colpevolmente carente l’ attuazione proprio sotto il profilo economico… Possiamo e dobbiamo procedere dunque nella direzione della totale parità, studiando concretamente tutti i possibili strumenti di sostegno economico, diretto o indiretto, sia a favore degli istituti scolastici non statali sia a favore delle famiglie.
La detraibilità si potrebbe realizzare con la semplice modifica della lettera e) dell’articolo 15 (13 bis), Detrazioni per oneri, del Testo Unico delle imposte sul reddito, D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 e successive modificazioni. Tale disposizione contempla "le spese per frequenza di corsi di istruzione secondaria e universitaria, in misura non superiore a quella stabilita per le tasse e i contributi degli istituti statali". La citata locuzione potrebbe essere sostituita con la seguente: "le spese per frequenza di corsi di istruzione primaria, secondaria e universitaria".
Per non risultare irrilevante, dovrebbe essere detraibile dall’imposta lorda sul reddito delle persone fisiche un importo pari almeno al 50% dell’onere sostenuto; questa percentuale, che dunque dovrà essere più alta di quanto previsto a norma del primo comma dell’art. 15 [13-bis] della citata legge, è fissa; pertanto, essa non favorisce maggiormente i titolari di redditi più elevati, ma tutti in uguale misura. Per completezza di informazione si può ancora ricordare che in Italia il contribuente può già detrarre dalle imposte dovute il 19% di alcune spese “sociali” sostenute: per sanità (comprese le spese per il veterinario!), assistenza e, di recente, anche per asili nido, attività sportiva dei figli ed altro…..Non costituirebbe dunque una forzatura l’inserimento in questa disciplina delle rette scolastiche, sia pure con una percentuale maggiore di detrazione. Si tratta davvero di un sistema semplice e non discriminatorio, sia dal punto di vista territoriale, sia sotto il profilo della giustizia fiscale, e rientra a pieno titolo nell’alveo di una più ampia riforma del fisco a favore della famiglia, richiesta da più parti politiche durante la recente campagna elettorale.
La detraibilità fiscale delle rette scolastiche non esclude, per sua natura, provvidenze di competenza regionale come la dote o il buono scuola. In una possibile diversificazione ed integrazione delle provvidenze, l’importante è che ci sia davvero, per tutte le famiglie, la possibilità di scegliere liberamente il proprio partner nell’educazione/istruzione dei figli, senza essere costretti ad esborsi ingiusti (incostituzionali) e gravosi, quando addirittura non sostenibili. La detraibilità può essere un ulteriore passo verso la piena parità ed è, nel contempo, rispettosa delle difficoltà economiche del tempo presente. I legislatori abbiano il coraggio di tenerne finalmente conto, infischiandosene delle prevedibili ostilità e lasciando nel proprio jurassic park chi si ostina a proporre modelli sociali ampiamente smentiti dalla storia.
Mario Canessa, giusto tra le nazioni
Autore: Guastalla, Guido Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
sabato 26 aprile 2008
La storia dei giusti è spesso una storia particolare per non dire strana. E quella di Mario Canessa non sfugge alla regola. A 91 anni riceve dallo Stato di Israele il riconoscimento di “Giusto fra le Nazioni”, il più alto dello Stato ebraico, e dallo Stato italiano, direttamente dalle mani del Presidente della Repubblica la medaglia d’oro al valor civile. Forse come appartenente alla Polizia di Stato gli poteva essere riconosciuta quella al valor militare.
I fatti per cui gli è stato concesso questo riconoscimento risalgono ad oltre 60 anni fa, quando Mario Canessa, agente di Pubblica Sicurezza, nel 1943 aiutò un gruppo di ebrei, in Valtellina, mettendo a rischio la propria vita, a fuggire in Svizzera. Alcuni di questi ebrei sono ancora vivi e venuti a conoscenza che il loro salvatore era ancora vivo lo hanno voluto incontrare e ringraziare. Tra questi Lino De Benedetti che all’epoca aveva 9 anni e Noemi Gallia, allora sedicenne. Ma anche nel volterrano, città in cui Mario Canessa è nato, anche se è livornese di adozione, ebbe modo di mettere al sicuro il dottor Emerico Lukacs, di origine ungherese, il cui figlio Vittorio vive ancora a Pontedera, dove dirige un avviato studio di architettura.
Per valutare appieno il comportamento di Mario Canessa bisogna ricordare che contemporaneamente alla sua azione di salvataggio, suo fratello si trovava prigioniero in Germania. Se avesse consegnato ai tedeschi uno o più ebrei suo fratello sarebbe stato rimesso in libertà; Mario Canessa questa possibilità non la prese neppure in considerazione. “Sa - mi ha detto – io sono molto religioso, così come lo era mia madre; non dissi nulla neppure a lei, tanto sapevo quali erano le sue idee e quale sarebbe stata la sua reazione”. In Mario Canessa prevalse l’imperativo categorico su quello ipotetico, l’etica delle intenzioni e della purezza su quella delle conseguenze e della convenienza. Egli è uno di quei giusti su cui si regge la salvezza del mondo, e come tale lo dobbiamo onorare.
Finita la guerra Mario Canessa si laureò in Scienze Politiche, divenne funzionario della Polizia di Stato ed arrivò ai vertici della carriera con la carica di Dirigente Generale al Ministero degli Interni: di quello che aveva fatto si dimenticò.
Nel giardino dei giusti a Gerusalemme, nel museo Yad Vashem, ora che il ricordo è riemerso, a Mario Canessa sarà dedicato un albero e una targa a perpetuo ricordo di ciò che ha fatto; lì sarà in buona compagnia: 22.000 giusti di tutto il mondo fra cui circa 500 italiani. Fra essi molti sacerdoti e membri delle forze armate italiane: carabinieri e poliziotti che agirono secondo coscienza, sollecitudine e amore fraterno verso il prossimo, contravvenendo le leggi dello stato fascista. Fra i più famosi Giorgio Perlasca e Giovanni Palatucci, per il quale è in corso una causa di beatificazione.
Mi auguro che Mario Canessa integri queste mie parole con il racconto diretto di ciò che fece a quel tempo.
Io vorrei invece fare alcune considerazioni più generali.
Mario Canessa è un uomo profondamente religioso, che pratica quella grande, somma virtù che, per la tradizione giudaica e cristiana è l’umiltà. Di quello che aveva fatto, che gli era capitato di fare non aveva mai parlato con nessuno. Probabilmente, come ebbe a dire Giorgio Perlasca, di fronte ad uomini trattati peggio di bestie, gli era sembrato naturale aiutarli, non si era posto troppe domande sulle leggi dello Stato, sulle conseguenze dei suoi comportamenti.
Mario Canessa, come ho detto è profondamente credente, cattolico, cavaliere del Santo Sepolcro. Può avere influito questo nel suo comportamento?
Il 14 marzo del 1937 (Se non sbaglio all’epoca Mario aveva 20 anni) Pio XI promulgò una lettera enciclica, indirizzata ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi e agli altri Ordinari di Germania. Questa enciclica, eccezionalmente scritta in tedesco, anziché in latino, era la “Mit brennender sorge”, che possiamo tradurre “Con viva (letteralmente bruciante) ansia” Nel capitolo 8 “Riconoscimento del diritto naturale” si afferma che “E’ una caratteristica nefasta del tempo presente il voler distaccare, non solo la dottrina morale, ma anche le fondamenta del diritto e della sua amministrazione dalla vera fede in Dio e dalle norme della rivelazione divina…Alla luce delle norme di questo diritto naturale, ogni diritto positivo, qualunque ne sia il legislatore, può essere valutato nel suo contenuto etico e conseguentemente nella legittimità del comando e nella obbligatorietà dell’adempimento. Quelle leggi umane, che sono in contrasto insolubile col diritto naturale, sono affette da vizio originale, non sanabile con le costrizioni né con lo spiegamento di forza esterna”. Più sotto conclude: “ Il credente ha un diritto inalienabile di professare la sua fede e di praticarla in quella forma che ad essa conviene. Quelle leggi che sopprimono o rendono difficile la professione e la pratica di questa fede, sono in contrasto col diritto naturale”.
Sono parole inequivocabili, su cui ancora oggi, farebbero bene a riflettere quanti criticano il ricorso di Benedetto XVI al rispetto del diritto naturale, che per il mondo ebraico sono i sette comandamenti noachici, la prima alleanza dopo il Diluvio universale con Noach, che si possono riassumere nell’istituzione di magistrati, e nella probizione del sacrilegio, del politeismo, dell’incesto, dell’omicidio, del furto, dell’uso delle membra di un animale vivo (Sanhedrin 56 b).
Mario Canessa molto probabilmente non conosceva l’enciclica papale (aveva solo 20 anni) all’epoca della sua promulgazione; ma qualche anno dopo di fronte all’alternativa se obbedire ad una legge ingiusta, oppure alla legge naturale o di Dio, non ebbe il benché minimo dubbio. Nel contrasto fra l’uomo e Dio la tradizione e l’insegnamento religioso prevedono esplicitamente la disubbidienza. Ecco perché sono convinto che la sua fede lo abbia indirizzato naturalmente e senza tentennamenti a testimoniare il bene e a contravvenire ad una legge malvagia.
Erano quelli momenti terribili nei quali non era più possibile non capire, sfuggire ad una scelta; girare la testa da un’altra parte era già uno scegliere. Dice il Talmud che chi salva una vita salva il mondo; salvando una vita non si salva solo la persona ma anche coloro che discenderanno nelle generazioni future. Nel memoriale di Yad Vashem fra i 6 milioni di vittime innocenti è ricordata la morte di un milione e cin- quecentomila bambini. Mario Canessa appartiene perciò a quella schiera di giusti, la cui esistenza assicura la salvezza del mondo.
Ora due parole su che cosa è il riconoscimento di giusto tra le nazioni e la sua straordinaria importanza.
Presso il Memoriale di Yad Vascem a Gerusalemme è insediata la Commissione dei Giusti, il primo organismo del Novecento che si sia occupato della memoria del bene compiuto durante un genocidio. Moshé Bejski, che ne era il presidente, ricercava in ogni angolo del mondo gli uomini che avevano rischiato la vita per aiutare gli ebrei durante la persecuzione nazista. Ripeteva con ossessione agli amici: “non volevo che un solo giusto fosse dimenticato da noi ebrei”.
In realtà non era interessato alla perfezione degli esseri umani, alle motivazioni che li avevano spinti a salvare i loro simili. Voleva solo ricordare chi aveva tentato, di fronte ad un male estremo, autorizzato dalla legge degli uomini, di salvare anche una sola vita, chi era stato capace di comportarsi semplicemente da uomo.
Moshè amava gli uomini, non cercava i “santi”.
Era uno dei 1.200 inseriti nella famosa lista di Schindler. Questo legame fra Bejski e Schindler sta a fondamento dell’elaborazione di un concetto totalmente nuovo: la memoria del bene durante un genocidio.
Moshè era inquieto perché temeva che si ripetesse la solitudine in cui era sta lasciato chi aveva saputo sfidare le leggi del male. Forse troppi ebrei si erano dimenticati di chi li aveva salvati. Temeva la ingratitudine dei sopravvissuti, la leggerezza della memoria. Non poteva accettare che ciò accadesse. Aveva capito che l’esperienza di un genocidio produce una doppia responsabilità: insieme al dovere di ricordare le vittime esiste quello di non dimenticare chi ha rischiato la vita per salvarle, salvando nel contempo l’uomo universale, creatura divina. Ogni gesto di responsabilità, di resistenza, anche il più piccolo, va salvato dall’oblio, difeso nella memoria.
Recentemente, al Meeting di Rimini, un sacerdote milanese, don Giovanni Barbareschi, di poco più giovane di Mario Canessa, anche lui “Giusto fra le Nazioni”, allievo del Beato Ildebrando Schuster, cardinale di Milano, ebbe a dire. “A differenza di molti che hanno combattuto, anch’io ho fatto la Resistenza, ma l’ho fatta salvando delle vite anziché distruggerle” Non voglio dare giudizi su chi abbia adempiuto meglio al proprio dovere. Poiché personalmente propendo per la vita e per la sua sacralità assoluta mi piacciono molto di più quei resistenti che come Mario Canessa ha scelto di salvare la vita.
Ho seguito l’insegnamento di Moshè Bejnski: “non un solo giusto deve essere dimenticato”. E, con la stessa umiltà di Mario, ho trasmesso alle autorità dello Yad Vashem i documenti che hanno consentito di ricordare anche questo “Giusto”.
I documenti che pochi anni fa Mario Canessa, che in tutti questi anni si era confidato solo con il suo amico Raul Orvieto, aveva tenuto gelosamente nascosti.
26 aprile 2008
Un 25 aprile disastroso, Le secessioni incalzano: il buffone, i faziosi, i fischiatori. Tutti in piazza, di Giuliano Ferrara
Dal Foglio.it
A Torino il trionfo del qualunquismo nella forma spettacolare e come al solito di grande successo della ciarlataneria, che fa ombra sulla cerimonia istituzionale, composta come in una bara su altra piazza, mentre echeggiano gli insulti al sindaco e al presidente della Repubblica. A Genova i fischi all’arcivescovo Angelo Bagnasco, un sereno uomo di chiesa travolto dall’intolleranza che si traveste da resistenza laica. A Milano polemiche belluine per l’assenza del sindaco Letizia Moratti, maltrattata la volta scorsa insieme con il padre invalido: con quella sciagura da Nobel della famiglia Fo-Rame in lacrime di disperazione per la vittoria di Berlusconi. A Roma i fischi toccano al deportato Piero Terracina, perché la comunità ebraica non sarebbe stata abbastanza vivace e ardente nell’opposizione alla candidatura di Gianni Alemanno. E su tutto l’oscena commistione di liturgia repubblicana e politica elettorale, tra nostalgie per il voto che non fu e inquiete premonizioni intorno al voto che sarà. Una secessione dietro l’altra, secessioni fatte in serie per la giornata della Liberazione. I dementi di sinistra che quindici anni fa hanno preso il posto delle tricoteuses mentre veniva abbattuta la Repubblica dei partiti, e hanno fatto la maglia sotto il patibolo su cui magistrati codini immolavano le classi dirigenti che avevano firmato la Costituzione, provocando valanghe di giustizialismo con argomenti alla Beppe Grillo, ora si lamentano per l’offesa alla memoria nazionale, per la trasformazione ineluttabile di una giornata di festa nazionale in un incubo di divisione nazionale. Occorreva difendere con sapienza una memoria, elaborandola come storia e purgandola delle sue asprezze, e invece piano piano il 25 aprile, tra un’aggressione e un’intimidazione, tra cento mistificazioni di bottega culturale ed elettorale, è stato ridotto a quello straccio che ieri s’è visto. Ciò che con il tempo doveva allargarsi a tutti gli italiani, compresi i leghisti e i fascisti, è stato sequestrato da pochi capifazione ed espulso dal cuore maggioritario del paese, indotto a diffidare di un calendario della patria al servizio di un vecchio ciarpame ideologico. I vecchi partiti avrebbero mediato nel pensiero e nel linguaggio, cercato una soluzione capace di senso universale della cittadinanza, e avrebbero censurato pretese e urla degli intolleranti. Ma in una nazione senza guida etica, senza forza culturale e politica, e per di più infestata dal rancore senza misura e senza significato, non poteva che finire così. Che peccato.