martedì 22 aprile 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Gli americani e Benedetto XVI. Ora tocca a noi vivere il messaggio del Papa, di Lorenzo Albacete
2) Il Papa, l’America e i non nati dal Foglio.it
3) Sesto giorno del papa negli USA. La preghiera a Ground Zero e l'ultima omelia "in questa terra di libertà"
4) LE PAROLE AMERICANE RIGUARDANO ANCHE NOI EUROPEI
5) OLTRE IL VOTO Perchè è ancor più ragionevole una battaglia per l'umano, di Assuntina Morresi



Gli americani e Benedetto XVI. Ora tocca a noi vivere il messaggio del Papa, di Lorenzo Albacete
Pubblicato il 22/04/2008 sul IlSussidiario.net
Nonostante si sia nel mezzo di una campagna elettorale sempre più aspra, nonostante un diffuso senso di insicurezza e di preoccupazione per il futuro del paese, nonostante un crescente secolarismo che separa la fede dalla vita, diventando sempre più l’atmosfera culturale di molti americani, nonostante la difficoltà storica per un paese protestante a capire il ruolo del Papato, nonostante una forma particolarmente raffinata di anticattolicesimo tuttora parte della narrativa americana, nonostante che nella cultura popolare la Chiesa cattolica rimanga l’unica istituzione che è politicamente corretto attaccare, nonostante il problema che l’immagine popolare di un Joseph Ratzinger largamente sconosciuto pone ai molti americani che avevano così tanto amato Papa Giovanni Paolo II e, soprattutto, anche se la Chiesa cattolica in America non ha ancora superato l’orribile scandalo degli abusi sessuali da parte di sacerdoti…nonostante tutto ciò che militava contro di essa, la visita di Papa Benedetto XVI a Washington e New York è stata un sensazionale successo.
O così sembra…
Il vero successo del viaggio dipenderà, naturalmente, da come risponderà all’incontro la libertà di chi ha sentito, toccato o visto il Papa. Non vi è modo per sapere cosa questo significherà per la Chiesa in America, ma rimane il fatto che attraverso la presenza fisica del Papa, le sue parole e i suoi gesti, chi negli Stati Uniti ha prestato attenzione alla sua visita ha avuto l’opportunità di incontrare la proposta cristiana in un modo che ha lasciato sorpresi la maggior parte degli americani, cattolici e non cattolici.
Agli americani piace essere amati e parte del successo del viaggio del Papa è stato il suo ripetuto apprezzamento per la ricerca americana della libertà e per la profonda religiosità del popolo americano. Questo giudizio positivo sulla storia della religione negli Stati Uniti, piuttosto che come un tatticismo diplomatico, è stato apprezzato come espressione di ammirazione vera da parte del Papa per l’esperimento americano. Il Papa non ha esitato a definire l’originale punto di vista americano sulla libertà e la religione una forma di “secolarismo” che si è dimostrato benefico, sia per la Chiesa che per lo Stato.
Tuttavia, il Papa ha continuato a sollevare la preoccupante domanda: la religiosità americana e la sua visione della libertà sono oggi in grado di far fronte ai pericoli di un secolarismo che confina la fede alla sfera privata?
Parlando ai vescovi americani, il Papa ha sintetizzato molto chiaramente il problema: «Trovo significativo che qui in America, a differenza di molti luoghi in Europa, la mentalità secolare non si sia opposta radicalmente alla religione. Nel contesto della separazione tra Chiesa e Stato, la società americana è sempre stata segnata da un fondamentale rispetto per la religione e il suo ruolo pubblico e […] gli americani sono profondamente religiosi. Ma non è sufficiente confidare su questa religiosità tradizionale […] proprio quando le sue fondamenta stanno lentamente erodendosi. Un impegno serio nell’evangelizzazione non può prescindere da una diagnosi delle sfide reali che il Vangelo incontra nella cultura americana contemporanea. […]. Forse il tipo americano di secolarismo pone un particolare problema: esso permette di professare la fede in Dio e rispetta il ruolo pubblico della religione e delle Chiese, ma allo stesso tempo può sottilmente ridurre il credo religioso al minimo comun denominatore. La fede diventa l’accettazione passiva che certe cose “là fuori” sono vere, ma senza particolare importanza per la vita di tutti i giorni. Il risultato è una crescente separazione tra fede e vita».
Che cosa si può fare? Il Papa ha offerto una formula precisa: «Ciò che serve, sono convinto, è una maggiore percezione dell’intrinseca relazione tra il Vangelo e la legge naturale, da un lato, e dall’altro, la ricerca di un bene umano autentico nella legge civile e nelle decisioni morali personali». E, in termini ancor più chiari: «La Chiesa deve promuovere ad ogni livello del suo insegnamento - catechesi, predicazione, seminari e istruzione universitaria - un’apologetica diretta ad affermare la verità della rivelazione cristiana, l’armonia tra fede e ragione e una profonda comprensione della libertà». Ciò che è necessario, cioè, è l’esperienza della corrispondenza della Rivelazione con i desideri più profondi del cuore dell’uomo, una coscienza del tipo di conoscenza che la fede rende possibile e la sfida che essa pone alla libertà umana.
Questa la sfida del Papa all’America, ripetuta di fronte a tutte le tipologie di pubblico nella terminologia loro propria. In termini molto chiari: «Credo che la Chiesa in America, a questo punto della sua storia, abbia di fronte la sfida di riconquistare la visione cattolica della realtà». Si tratta di «coltivare una identità cattolica basata, non tanto su esteriorità, quanto su un modo di pensare e agire».
È difficile stabilire quanto tutto questo sia stato capito. Per intanto, il paese è innamorato della personalità, umiltà e pietà di Benedetto. L’evento che più ha provocato questa reazione è stata la determinazione del Papa a non evitare la questione degli abusi sessuali su minori da parte di sacerdoti e il drammatico incontro tra il Papa e un gruppo di vittime di questo scandalo. È difficile esagerare su quanto questo scandalo abbia ridotto la credibilità della Chiesa americana in un momento così cruciale della sua interazione con il modo di vivere americano. È anche difficile esagerare l’ammirazione degli americani per il modo in cui il Papa ha trattato questo scandalo durante la sua visita.
In verità, vi è il rischio che questo oscuri la sua sfida all’America e alla Chiesa americana perché sviluppi un’adeguata risposta al continuo crescere del relativismo culturale. Al tempo la risposta. I vescovi americani e i leader cattolici dovranno collegare in qualche modo l’atteggiamento del Papa nel gestire lo scandalo, al suo messaggio sui pericoli del relativismo. Il successo del viaggio dipenderà in ultima analisi da questo collegamento. Papa Benedetto ha fatto la sua parte, e l’ha fatta molto bene.


21 aprile 2008
Dal Foglio del 22 aprile
Il Papa, l’America e i non nati
Gran discorso allo Yankee Stadium a un paese che non ha chiuso la partita
L’affondo antiabortista l’ha lasciato all’ultima tappa del viaggio americano. Benedetto XVI allo Yankee Stadium ha ricordato che il diritto umano su cui poggiano tutti gli altri è quello di una persona innocente a non essere lesa o uccisa. E’ il rispetto di ogni “donna e bambino”, compresi i più indifesi esseri umani, “i bimbi non ancora nati nel grembo materno”. Il viaggio di Ratzinger è stato sfavillante, ma i commentatori si sono lavorati la differenza irriducibile incarnata da quell’uomo bianco, fino a renderla invisibile. Nel tempio del baseball il Papa è tornato a denunciare quell’odissea del profondo che è l’aborto di 45 milioni di americani, da quando nel 1973 la Corte suprema stabilì che è privacy la deliberata interruzione di una vita nascente. Ratzinger sapeva di parlare a un grande paese che non ha mai smesso di ripensare questa ferita di massa, tanto da non aver risolto e chiuso il problema tramite una legge. “Avete notato quanto spesso la rivendicazione della libertà viene fatta, senza mai fare riferimento alla verità della persona umana?”, ha detto il Papa, vincolando i cattolici impegnati in politica, democratici e repubblicani, al rispetto dell’inviolabile diritto alla vita. Questo autunno, in occasione delle presidenziali, sono previsti cinque decisivi referendum sull’aborto. In California si deciderà sulla notifica ai genitori nel caso di aborto di minorenne. Nel Missouri si prevede un colloquio con la donna per verificare che non sia costretta ad abortire dal marito. Nel South Dakota torna la legislazione antiabortista cassata due anni fa, ma stavolta i pro life hanno inserito le eccezioni di stupro e incesto, come ha chiesto anche il presidente Bush. In Colorado e Montana si vuole estendere protezione legale al concepito. Radicale o incrementale che sia la strategia, cioè scommettere sul bando totale dell’aborto o su una politica di pragmatico compromesso, l’America non è come l’Europa positivista, ha una vocazione giusnaturalista che le impedisce di liquidare il problema. Il prossimo presidente sarà chiamato a fare due nomine alla Corte suprema. Trentacinque anni fa i togati scardinarono ogni tutela giuridica del concepito, fino a degradarlo allo status di “non persona”. Stavolta potrebbero pronunciarsi a favore di entrambi, la donna e il bambino. Come ha chiesto Ratzinger, ispirato dalla promessa pro life e dall’alleanza di vita e libertà inscritta nell’alabastro della Dichiarazione d’indipendenza.


Sesto giorno del papa negli USA. La preghiera a Ground Zero e l'ultima omelia "in questa terra di libertà"
Benedetto XVI prega per la conversione dei terroristi. E ai cattolici americani spiega che la vera libertà si fonda su Cristo che è "la via, la verità e la vita". Per il papa teologo un successo superiore alle attese

di Sandro Magister

ROMA, 21 aprile 2008 – Benedetto XVI ha aperto la sua ultima giornata negli Stati Uniti con un momento di preghiera a Ground Zero, nella voragine sotto quelle che furono le due torri. Cielo grigio, folate di vento, le note meditative delle suites per violoncello di Bach.

Il papa si inginocchia a lungo in silenzio. Poi benedice e prega. Per le vittime innocenti e per "i primi eroici soccorritori". Per la "guarigione" dei feriti e dei famigliari. Per la conversione di "coloro che hanno il cuore e la mente consumati dall'odio".

Completamente diverso lo scenario nel pomeriggio, alla messa nello Yankee Stadium.

Nell'omelia, Benedetto XVI rovescia un'ondata di ottimismo sui fedeli che gremiscono gli spalti. Li richiama sì all'autorità e all'obbedienza, "parole non facili da pronunciare". Ma soprattutto scioglie un inno alla libertà cristiana, in un paese che egli vede così congeniale ad essa.

La libertà cristiana, dice il papa. è all'opposto dei "falsi vangeli di libertà e felicita" e della "falsa separazione tra fede e vita politica". È una libertà che si nutre delle "immutabili verità che hanno fondamento in Cristo". L'applauso più forte dei fedeli è quando dice che questo binomio tra libertà e verità è il solo che può difendere "i più indifesi tra gli esseri umani, i bimbi non ancora nati nel grembo materno".
Nei cattolici americani Benedetto XVI vede in atto una dinamica molto promettente, capace di risorgere anche dai suoi peccati. Sullo scandalo degli abusi sessuali il papa è stato tanto severo quanto partecipe. Ha preso anche su di sé il carico delle colpe. Il gesto più toccante e inatteso dei suoi sei giorni di viaggio è stato l'incontro con cinque vittime degli abusi. L'incontro è avvenuto a porte chiuse, lontano dagli occhi delle telecamere. Ma nel parlare in pubblico di questo scandalo il papa è stato così chiaro che quell'incontro silenzioso non aveva bisogno di nessuna didascalia ed è stato capito e approvato praticamente da tutti.
Benedetto XVI non è nuovo a questi gesti silenziosi e nello stesso tempo eloquentissimi. Un precedente è stato quello della Moschea Blu di Istanbul. Pur pregando in silenzio rivolto alla Mecca, il papa non ingenerò alcun equivoco. A far chiarezza aveva già provveduto a Ratisbona.
Qui di seguito, i passaggi salienti dell'omelia nello Yankee Stadium.



Il futuro della Chiesa in America
di Benedetto XVI
New York, omelia nella messa allo Yankee Stadium, domenica 20 aprile 2008


Cari fratelli e sorelle in Cristo, nel Vangelo che abbiamo or ora ascoltato, Gesù dice ai suoi Apostoli di riporre la loro fede in lui, poiché egli è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). Cristo è la via che conduce al Padre, la verità che dà significato all’umana esistenza, e la sorgente di quella vita che è gioia eterna con tutti i Santi nel Regno dei cieli. Prendiamo il Signore in parola! Rinnoviamo la fede in lui e mettiamo ogni nostra speranza nelle sue promesse! [...]

La celebrazione odierna è anche un segno della crescita impressionante che Dio ha concesso alla Chiesa nel vostro paese nei trascorsi duecento anni. Da piccolo gregge come quello descritto nella prima lettura, la Chiesa in America è stata edificata nella fedeltà ai due comandamenti dell’amore a Dio e dell’amore al prossimo. In questa terra di libertà e di opportunità, la Chiesa ha unito greggi molto diversi nella professione di fede e, attraverso le sue molte opere educative, caritative e sociali, ha contribuito in modo significativo anche alla crescita della società americana nel suo insieme.


Questo grande risultato non è stato senza sfide. La prima lettura odierna, dagli Atti degli Apostoli, parla di tensioni linguistiche e culturali presenti già all’interno della primitiva comunità ecclesiale. Nello stesso tempo, essa mostra la potenza della Parola di Dio, proclamata autorevolmente dagli Apostoli e ricevuta nella fede, per creare un’unità capace di trascendere le divisioni provenienti dai limiti e dalle debolezze umane. Ci viene qui ricordata una verità fondamentale: che l’unità della Chiesa non ha altro fondamento se non quello della Parola di Dio, divenuta carne in Cristo Gesù nostro Signore. Tutti i segni esterni di identità, tutte le strutture, associazioni o programmi, per quanto validi o addirittura essenziali possano essere, esistono in ultima analisi soltanto per sostenere e promuovere la più profonda unità la quale, in Cristo, è dono indefettibile di Dio alla sua Chiesa.

La prima lettura mostra, inoltre, come vediamo nell’imposizione delle mani sui primi diaconi, che l’unità della Chiesa è “apostolica”, cioè un’unità visibile fondata sugli Apostoli, che Cristo ha scelto e costituito come testimoni della sua risurrezione, ed è nata da ciò che la Scrittura chiama “l’obbedienza della fede” (Rm 1,5; At 6,7).

“Autorità”… “obbedienza”. Ad essere franchi, queste non sono parole facili da pronunciare oggi. Parole come queste rappresentano una “pietra d’inciampo” per molti nostri contemporanei, specie in una società che giustamente dà grande valore alla libertà personale. Eppure, alla luce della nostra fede in Gesù Cristo – “la vita, la verità e la vita” – arriviamo a vedere il senso più pieno, il valore e addirittura la bellezza, di tali parole. Il Vangelo ci insegna che la vera libertà, la libertà dei figli di Dio, può essere trovata soltanto nella perdita di sé che è parte del mistero dell’amore. Solo perdendo noi stessi, il Signore ci dice, ritroviamo veramente noi stessi (cfr Lc 17,33). La vera libertà fiorisce quando ci allontaniamo dal giogo del peccato, che annebbia le nostre percezioni e indebolisce la nostra determinazione, e vede la fonte della nostra felicità definitiva in lui, che è amore infinito, libertà infinita, vita senza fine. “Nella sua volontà vi è la nostra pace”. [...]

Ogni giorno in questa terra voi e molti dei vostri vicini pregano il Padre con le parole stesse del Signore: “Venga il tuo Regno”. Tale preghiera deve forgiare la mente ed il cuore di ogni cristiano in questa Nazione. Deve portar frutto nel modo in cui vivete la vostra esistenza e nella maniera nella quale costruite la vostra famiglia e la vostra comunità. Deve creare nuovi “luoghi di speranza” (cfr Spe salvi, 32 ss) in cui il Regno di Dio si fa presente in tutta la sua potenza salvifica.

Pregare con fervore per la venuta del Regno significa inoltre essere costantemente all’erta per i segni della sua presenza, operando per la sua crescita in ogni settore della società. Vuol dire affrontare le sfide del presente e del futuro fiduciosi nella vittoria di Cristo ed impegnandosi per l’avanzamento del suo Regno. Questo significa non perdere la fiducia di fronte a resistenze, avversità e scandali. Significa superare ogni separazione tra fede e vita, opponendosi ai falsi vangeli di libertà e di felicità. Vuol dire inoltre respingere la falsa dicotomia tra fede e vita politica, poiché come ha affermato il Concilio Vaticano II, “nessuna attività umana, neanche nelle cose temporali, può essere sottratta al dominio di Dio” (Lumen gentium, 36). Ciò vuol dire agire per arricchire la società e la cultura americane della bellezza e della verità del Vangelo, mai perdendo di vista quella grande speranza che dà significato e valore a tutte le altre speranze che ispirano la nostra vita.

Questa, cari amici, è la sfida che pone oggi a voi il Successore di Pietro. Quale “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa”, seguite con fedeltà le orme di quanti vi hanno preceduto! Affrettate la venuta del Regno di Dio in questa terra! Le passate generazioni vi hanno lasciato un’eredità straordinaria. Anche ai nostri giorni la comunità cattolica di questa Nazione è stata grande nella testimonianza profetica in difesa della vita, nell’educazione dei giovani, nella cura dei poveri, dei malati e dei forestieri tra voi. Su queste solide basi il futuro della Chiesa in America deve anche oggi iniziare a sorgere.

Ieri, non lontano da qui, sono stato colpito dalla gioia, dalla speranza e dall’amore generoso per Cristo che ho visto sul volto di tanti giovani riuniti a Dunwoodie. Essi sono il futuro della Chiesa e hanno diritto a tutte le preghiere e ad ogni sostegno che possiamo dar loro. Così desidero concludere aggiungendo una parola di incoraggiamento per loro. Cari giovani amici, come i sette uomini “ripieni di Spirito e di saggezza” ai quali gli Apostoli affidarono la cura della giovane Chiesa, possiate anche voi alzarvi e assumervi la responsabilità che la fede in Cristo vi pone innanzi! Possiate trovare il coraggio di proclamare Cristo “lo stesso ieri, oggi e sempre” e le immutabili verità che hanno fondamento in lui (cfr Gaudium et spes, 10; Eb 13,8): sono verità che ci rendono liberi! Si tratta delle sole verità che possono garantire il rispetto della dignità e dei diritti di ogni uomo, donna e bambino nel mondo, compresi i più indifesi tra gli esseri umani, i bimbi non ancora nati nel grembo materno. In un mondo in cui, come Papa Giovanni Paolo II parlando in questo stesso luogo ci ricordò, Lazzaro continua a bussare alla nostra porta (Omelia allo Yankee Stadium, 2 ottobre 1979, n. 7), fate in modo che la vostra fede e il vostro amore portino frutto nel soccorrere i poveri, i bisognosi e i senza voce. Giovani uomini e donne d’America, io insisto con voi: aprite i cuori alla chiamata di Dio a seguirlo nel sacerdozio e nella vita religiosa. Vi può essere un segno di amore più grande di questo: seguire le orme di Cristo, che si rese disponibile a dare la propria vita per i suoi amici (cfr Gv 15,13)?

Nel Vangelo odierno il Signore promette ai discepoli che faranno opere ancor più grandi delle sue (cfr Gv 14,12). Cari amici, soltanto Dio nella sua provvidenza sa che cosa la sua grazia deve ancora compiere nelle vostre vite e nella vita della Chiesa negli Stati Uniti. Nel frattempo, la promessa di Cristo ci riempie di sicura speranza. Uniamo perciò la nostra preghiera alla sua, quali pietre vive di quel tempio spirituale che è la sua Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Alziamo gli occhi a lui, poiché anche adesso sta preparando un posto per noi nella casa del Padre suo. E rafforzati dallo Spirito Santo, lavoriamo con rinnovato zelo per la diffusione del suo Regno.

“Beati quanti crederanno” (cfr 1 Pt 2,7). Rivolgiamoci a Gesù! Lui soltanto è la via che conduce all’eterna felicità, la verità che soddisfa i desideri più profondi di ogni cuore, e la vita che offre gioia e speranza sempre nuove a noi e al nostro mondo. Amen.


LE PAROLE AMERICANE RIGUARDANO ANCHE NOI EUROPEI
Avvenire, 22 aprile 2008

CARLO CARDIA
Nella sua visita negli Stati Uniti Bene­detto XVI ha saputo parlare a tutti. Al­l’America delle tante religioni, agli eroi e al­le vittime della sua storia, alla massima as­sise dei popoli e agli uomini di fede incon­­trati, agli scienziati, al mondo intero. È sta­to compreso da tutti, al punto che neanche è riuscito il tentativo, frequente in questi ca­si, di interpretare i suoi interventi in chiave politica o di schieramento.
Da dove viene questa capacità di sapersi mettere in sintonia con la vita reale della gente e insieme con i problemi più ardui che l’intelligenza umana deve affrontare? È una domanda che merita qualche riflessione perché il respiro universale del magistero pontificio cresce proprio quando i proble­mi dell’umanità si fanno più difficili. Una fonte primaria sta nell’insegnamento sui di­ritti umani che, da sempre nel dna della Chiesa, si è sviluppato nell’epoca moderna prescindendo dalle collocazioni ideologi­che, politiche, geografiche dei popoli. Dopo la notte del totalitarismo molti capirono, con le parole di Hannah Arendt, che l’umanità aveva bisogno di un decalogo che riscattas­se la dignità della persona, di un nuovo Si­nai valido per tutti. Benedetto XVI ha sapu­to parlare all’Onu dei comandamenti scrit­ti nel cuore dell’uomo, senza offendere nes­suno, ma senza dimenticare nessuno.
Un’altra motivazione sta nel fatto che la Chiesa, insieme alle potenzialità della mo­dernità, ha saputo scorgere prima di altri quel male sottile del relativismo che ha ero­so la coscienza lungo il Novecento e che vor­rebbe oggi trionfare. Concepito inizialmen­te per allargare la sfera degli interessi indi­viduali, si è trasformato con il tempo in un’arma micidiale: che relativizza i diritti della persona, subordinandoli al contesto geopolitico o alle tradizioni locali. Così fa­cendo, però, ha finito per mortificare il nu­cleo più intimo della persona umana che può avere molto se nasce privilegiata, ma deve accontentarsi di poco se la sorte non è fortunata, di niente se nasce in luoghi di­menticati da tutti. Diverremmo fuscelli in balia delle circostanze. Per Benedetto XVI l’essere umano ha gli stessi diritti in qua­lunque parte del mondo si trovi, e se li vede violati, ha diritto all’aiuto e al sostegno de­gli altri. In questa universalità, in questo ab­braccio con l’umanità intera sta la condan­na vera di un relativismo che corre il rischio di macchiare e soffocare la modernità.
A guardare più a fondo, però, la capacità del Papa nel saper parlare a tutti ha origine in quella misura evangelica che guarda alla persona umana come a qualcosa di prezio­so e unico, cui è dedicata la missione stessa della Chiesa, a qualcosa nella quale la sof­ferenza si unisce alla profondità spirituale che può fare le cose più grandi. Solo nella pa­rola evangelica trova ragione l’annuncio di una nuova Pentecoste per un mondo che ne ha bisogno. Se mancasse questa prospetti­va, se non ci fosse questo fondamento, si u­serebbe un altro linguaggio, magari saggio ma privo della forza dello spirito che sa far­si capire da chiunque.
Tante cose hanno stupito l’America. La scel­ta del Papa di incontrare le vittime di tre­mendi abusi, con umiltà e parole di speran­za, senza nascondere le colpe o cercare giu­stificazioni. Le parole rivolte ai rappresen­tanti dei popoli, ai quali ha ricordato che la libertà religiosa non ha confini, che la reli­gione non divide gli uomini ma può unirli, perché Dio è forza interiore non coercizio­ne esteriore. L’elogio della laicità americana, da noi spesso stravolta o ignorata, che ri­spetta nel privato e nel pubblico la fede di ciascuno, la incoraggia perché sia fermento di cultura e di azione per il bene comune. La preghiera perché i terroristi si convertano.
Non si può fare oggi il bilancio di un viaggio così ricco. Però si può dire che ciò che ha det­to Benedetto XVI riguarda anche noi, la no­stra realtà italiana ed europea. Viviamo una fase storica nella quale abbiamo minori cer­tezze quanto a benessere e produzione di ricchezza. Ma non comprendiamo ancora che l’incertezza può divenire angoscia se non riusciamo a recuperare l’amore per l’uomo e per quei valori che possono salvarlo, il ri­spetto della vita, la cura della famiglia e dei giovani, l’aiuto ai più deboli ovunque si tro­vino. Di tutto questo ha parlato il Papa an­che per noi che non stiamo in America.


OLTRE IL VOTO Perchè è ancor più ragionevole una battaglia per l'umano, di Assuntina Morresi
Da ilSussidiario.net del 21 aprile 2008
Negli ultimi mesi il dibattito italiano sull’aborto ha fatto discutere moltissimo, arrivando a far parlare di sé anche l’autorevole New York Times.

Eppure la lista “Aborto? No grazie” promossa da Giuliano Ferrara, non ha influito sul panorama emerso dai risultati elettorali, nonostante le profonde mutazioni subite dal quadro politico. Perché? C’è chi ha dato la colpa alla pressione verso il voto utile, chi ha accusato la Chiesa di anteporre la realpolitik ai valori non negoziabili e chi, come lo stesso Ferrara, ha interpretato la sconfitta come la definitiva prevalenza dell’idea che l’aborto sia ormai un diritto.

A una settimana dal voto, vorrei proporre il mio personale bilancio di quella che, nata come una battaglia culturale, si è poi trasformata in un tentativo di azione politica diretta, non riuscendo però a cogliere i risultati sperati.

Appena lanciata l’idea della moratoria sull’aborto, Giuliano Ferrara aveva annunciato il suo digiuno liquido natalizio per far avere un finanziamento al Cav della Mangiagalli diretto da Paola Bonzi, parlando pubblicamente della propria responsabilità nell’aborto di tre sue compagne, in anni passati. Ne ero rimasta commossa, perché significava affrontare il problema a partire dalla propria esperienza di vita, confrontandola con quella di chi, come Paola Bonzi, per trent’anni si era dedicata a una paziente opera di ascolto e sostegno di tante donne che chiedevano di abortire. Un approccio coraggioso perché concreto e personale, che finalmente riapriva un silenzio di trent’anni, nei toni giusti.

Ma la campagna non è continuata così. Innanzitutto è nato subito un equivoco sullo scopo: nonostante Ferrara abbia detto fin dall’inizio e ripetuto fino alla fine, a chiare lettere, che la sua non era una battaglia politica per cambiare la legge, in tanti (amici e nemici) hanno ritenuto che il vero obiettivo fosse proprio la modifica, o addirittura la cancellazione della 194. L’equivoco emergeva nei dibattiti televisivi, nei commenti politici: fino all’ultimo, esponenti di destra (come Daniela Santanchè) e di sinistra (come Vittoria Franco) erano convinti che fosse in atto il tentativo di cambiare o abolire la legge attuale sull’aborto. Ma ne erano convinti anche molti tra i sostenitori della lista: basta scorrere le tantissime lettere pubblicate in questi mesi dal Foglio per accorgersene. E’ stato il riflesso condizionato di una grande parte del popolo pro-life, per il quale la legge è il grande nemico, la causa dell’aborto in Italia. Anche chi diceva di non volerla cambiare, spesso lo faceva a denti stretti, con un “vorrei tanto, ora non posso, ma quando ci arrivo….”, come se l’aborto fosse nato insieme alla legge, e abolendo la legge se ne cancellasse automaticamente l’esistenza.

Questo equivoco, temo, è la fonte di tutti gli errori politici in cui il mondo cattolico è incorso su questo tema. Gli aborti, anche se clandestini, c’erano già prima della 194: tra centomila e duecentomila all’anno, con “alcune decine di casi all’anno” di donne morte, secondo stime pubblicate nel 1976 da Medicina e Morale, la rivista dell’Università Cattolica, e citate come attendibili da amici pro-life come il Presidente del Movimento per la Vita Carlo Casini. Sulle cifre, e su come vengono maneggiate, forse è necessario fare un po’ di chiarezza.
L’anno scorso gli aborti in Italia sono stati 130.000, di cui 37.000 circa di straniere.
Questo significa che gli aborti sono diminuiti nonostante la legge, in qualche modo, li legittimi. Non è soltanto la normativa a influire sul tasso di abortività. D’altra parte, se si nega che prima della legge esistesse un numero molto consistente di aborti clandestini, non si può nemmeno affermare che nel mondo gli aborti ogni anno siano 50 milioni, visto che la metà circa sono illegali e quindi clandestini. Questi 25 milioni di aborti vengono calcolati con gli stessi parametri e le stesse formule che si adottano per tutti gli aborti clandestini, quindi anche per conteggiare il numero di quelli praticati in Italia prima della legge.
I pro life, compresa chi scrive, ritengono che la risposta agli aborti clandestini non possa essere semplicemente la loro legalizzazione. Ma oltre a ricordare sempre che le donne che abortiscono non devono andare sotto processo – come succedeva prima della 194 – è necessario riconoscere onestamente che la legge è arrivata in Italia perché gli aborti già c’erano e che, sostanzialmente, abbiamo perso il referendum perché la società non era più in maggioranza cristiana. La 194 è stata una delle tante conseguenze della secolarizzazione della società, non la sua causa, e non si può certo pensare di rovesciare una mentalità diffusa processando e colpevolizzando le donne.

Tra le lettere pubblicate dal Foglio si sono lette testimonianze toccanti e commoventi, ma anche richieste di una qualche sanzione per chi abortisce, ed accanto a riflessioni significative abbiamo visto invettive ed anatemi che non lasciavano scampo. Nonostante Ferrara abbia ripetuto continuamente di non voler mettere in discussione le scelte personali, di essere al tempo stesso per la vita del figlio e rispettoso della scelta della madre, il dibattito nel paese si è trasformato troppo spesso nella replica stanca di quello della campagna referendaria di trent’anni fa: i diritti del nascituro contro quelli della madre, i pro-life contro i pro-choice. Un muro contro muro ideologico, un modo di discutere che tante donne hanno semplicemente rifiutato; e anche chi un certo ripensamento lo aveva avuto, o comunque cominciava a vedere le cose in modo diverso, si è tirato indietro.
In questo clima l’obiettivo della moratoria, e cioè la battaglia culturale in difesa della vita, insieme alla denuncia a livello internazionale dell’aborto forzato, selettivo ed eugenetico, è diventato sempre più lontano e sfocato.
Con le elezioni anticipate tutto questo si è trasformato in una lista. Una lista che nasceva isolata, in un clima teso, in cui il giudizio di fondo e lo scopo della moratoria erano già recepiti in maniera molto confusa.

Per combattere l’aborto, purtroppo, non basta dire che è un omicidio. Bisogna immaginare leggi e provvedimenti anche molto noiosi, e di tanti tipi: è necessario occuparsi di welfare, per l’assistenza alle famiglie, specie quelle bisognose, di immigrazione, di assistenza alle famiglie con disabili, di aiuto alle donne sole, di tutela di minori, di contratti di lavoro, del problema degli alloggi, di sanità, di educazione, insomma, di politiche di ampio respiro e soprattutto condivise. Per questo, al contrario di quello che è stato detto dagli amici della lista Ferrara, è più adatta una lista non di scopo, ma che abbia una chiara visione della società e della cultura che si vuole costruire.
La lista non è stata sconfitta dal “diritto all’aborto”, tantomeno dal comportamento della Chiesa, che secondo alcuni avrebbe lasciato soli un manipolo di coraggiosi: è stata sconfitta perché nata in un clima di scontro e soprattutto perché gli italiani l’hanno giudicata inadeguata a rispondere a un problema tanto grande e radicato nella storia umana.

Ma c’è un ultimo aspetto da considerare, quel nodo che lega aborto ed eutanasia, fecondazione in vitro e ricerca sugli embrioni umani, insomma tutti quelli indicati come “temi eticamente sensibili”: è il nodo del dolore e della sofferenza.
Dolore per un figlio tanto desiderato ma che non arriva mai, o che nascerà disabile e lo sarà per sempre, o il dolore di una donna lasciata dal compagno che non vuole quel figlio inaspettato, o la sofferenza per una malattia devastante ed incurabile: i nostri tentativi per cercare di affrontare e risolvere tutto questo prendono via via la forma delle cosiddette questioni etiche.
E’ proprio questo a dividere i credenti dai non credenti: il significato, il senso del dolore e della sofferenza.
A una donna che sa di avere in grembo un figlio handicappato si può consigliare di non abortire solo se si è disposti a condividerne il dolore e le circostanze concrete, e lo si può fare se si è consapevoli che Qualcuno a quel dolore ha dato e darà un senso. Si può dire a un malato grave “Non avere paura” se sappiamo di non essere soli, perché Qualcuno ci ha promesso “Io morirò con te”, e poi “Io risorgerò con te”. Si può accogliere e condividere la sofferenza solo se si è fatta l’esperienza di essere accolti da Qualcuno che, pur non cancellando i problemi, non delude mai, perché dare significato al dolore permette di attraversarlo senza esserne distrutti.
Questa esperienza si estende inevitabilmente anche a chi non crede: l’esperienza positiva di chi quel figlio lo ha tenuto e lo ha fatto nascere, di chi si è preso cura del parente devastato dalla malattia, mostra a tutti che comunque certe scelte possono rendere la vita più umana, possono essere migliori per sé e per chi ci sta accanto, anche se non si dà un nome a quel Qualcuno.
Per questo le tantissime opere di carità nate nel tempo dall’esperienza cristiana diventano di tutti e per tutti: pensiamo a quanti ospedali o scuole o case di accoglienza nati da intuizioni di grandi santi sono poi diventate istituzioni in cui tutti lavorano, credenti e non, e alle quali tutti hanno accesso, trasformandosi spesso anche in modelli per le istituzioni pubbliche.
Quando si attacca la Chiesa, anche dall’interno, accusandola sostanzialmente di un eccesso di realismo, o addirittura di un certo materialismo (meglio i soldi dei valori non negoziabili), non si offende solo la Chiesa, ma si equivoca sulla natura del cristianesimo che è innanzitutto un’esperienza, un fatto concreto. I miracoli di Gesù Cristo riguardavano concretissimi pani e pesci, il vino, la guarigione da malattie. Lui ci ha lasciato veramente il Suo corpo e il Suo sangue, non semplicemente idee originali, sani princìpi e valori morali. La storia e la vita della Chiesa sono fatte di condivisione della sofferenza, sostegno nella necessità, educazione, che sono innanzitutto atti concreti; piccoli e grandi atti quotidiani che poi possono anche diventare opere, e che per esistere hanno bisogno del tanto vituperato denaro (come anche il Cav della Mangiagalli della nostra Paola Bonzi).
Chiamare tutto questo “realpolitik” o addirittura attaccamento al denaro significa non capire con cosa si ha a che fare.