giovedì 4 settembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Avvisi: preghiera e digiuno per i cristiani dell’India e speciale sul Meeting di Rimini in Tv
2) L’Osservatore Romano riapre il dibattito: "La morte cerebrale non è sufficiente": tre articoli sul tema
3) Il Papa: la conversione di San Paolo, un incontro con Cristo - Catechesi all'udienza generale del mercoledì
4) ELUANA/ Roccella: occorre fare chiarezza per evitare l'"ingegneria sociale" INT. Eugenia Roccella , ilSussidiario.net
5) “Testamento biologico”: è vera libertà? - INT. Roberto Colombo, il Sussidiario.net
6) Il cardinale Tauran sbaglia: la tesi dell'islam "buono" e di una minoranza di musulmani "cattivi" non mi convince affatto, di Magdi Cristiano Allam
7) In India la colpa dei cristiani è di battersi contro la schiavitù, di Sandro Magister
8) Contraddizioni e fanatismi svuotano l'eredità di Gandhi, di Vittorio E. Parsi
9) Eluana, Regione Lombardia: «L’alimentazione prosegue» - No alla richiesta del padre Il cardinale Lozano Barragan: «Togliere il nutrimento si chiama assassinio». Avvenire, 4 settembre 2008
10) Il giurista/Sandulli - Il Pirellone è nel giusto: decreto senza destinatario, Avvenire, 4 settembre 2008


Avvisi
Preghiera per i cristiani dell'India CL aderisce all'invito della CEI Venerdì 5 settembre: Giornata di preghiera digiuno

Sabato 6 settembre alle h. 23.55 circa, Rai Uno trasmetterà uno speciale sul Meeting di Rimini della durata di 50 minuti a cura di Roberto Fontolan dal titolo: «O protagonisti o nessuno. Storie e volti dal Meeting di Rimini»


L’Osservatore Romano riapre il dibattito: "La morte cerebrale non è sufficiente"
Quarant’anni dopo il «rapporto di Harvard», che cambiò la definizione di morte basandosi non più sull’arresto cardiocircolatorio ma sull’elettroencefalogramma piatto, L’Osservatore Romano riapre il dibattito. Il quotidiano della Santa Sede pubblica infatti in prima pagina un commento di Lucetta Scaraffia nel quale si legge: «L’idea che la persona umana cessi di esistere quando il cervello non funziona più, mentre il suo organismo - grazie alla respirazione artificiale - è mantenuto in vita, comporta una identificazione della persona con le sole attività cerebrali, e questo entra in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica». Un argomento di grande importanza e di estrema attualità…
1) I segni della morte di Lucetta Scaraffia
2) «Sbagliato trattare quelle persone come cadaveri» Internista al professor Paolo Becchi
3) La “morte cerebrale” è davvero morte? di Mercedes Arzù Wilson membro della Pontificia Accademia per la Vita


1) I segni della morte
A quarant'anni dal rapporto di Harvard
di Lucetta Scaraffia
Quarant'anni fa, verso la fine dell'estate del 1968, il cosiddetto rapporto di Harvard cambiava la definizione di morte basandosi non più sull'arresto cardiocircolatorio, ma sull'encefalogramma piatto: da allora l'organo indicatore della morte non è più soltanto il cuore, ma il cervello. Si tratta di un mutamento radicale della concezione di morte - che ha risolto il problema del distacco dalla respirazione artificiale, ma che soprattutto ha reso possibili i trapianti di organo - accettato da quasi tutti i Paesi avanzati (dove è possibile realizzare questi trapianti), con l'eccezione del Giappone.
Anche la Chiesa cattolica, consentendo il trapianto degli organi, accetta implicitamente questa definizione di morte, ma con molte riserve: per esempio, nello Stato della Città del Vaticano non è utilizzata la certificazione di morte cerebrale. A ricordare questo fatto è ora il filosofo del diritto Paolo Becchi in un libro (Morte cerebrale e trapianto di organi, Morcelliana) che - oltre a rifare la storia della definizione e dei dibattiti seguiti negli anni Settanta, tra i quali il più importante è senza dubbio quello di cui fu protagonista Hans Jonas - affronta con chiarezza la situazione attuale, molto più complessa e controversa.
Il motivo per cui questa nuova definizione è stata accettata così rapidamente sta nel fatto che essa non è stata letta come un radicale cambiamento del concetto di morte, ma soltanto - scrive Becchi - come "una conseguenza del processo tecnologico che aveva reso disponibili alla medicina più affidabili strumenti per rilevare la perdita delle funzioni cerebrali". La giustificazione scientifica di questa scelta risiede in una peculiare definizione del sistema nervoso, oggi rimessa in discussione da nuove ricerche, che mettono in dubbio proprio il fatto che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo.
Come dimostrò nel 1992 il caso clamoroso di una donna entrata in coma irreversibile e dichiarata cerebralmente morta prima di accorgersi che era incinta; si decise allora di farle continuare la gravidanza, e questa proseguì regolarmente fino a un aborto spontaneo. Questo caso e poi altri analoghi conclusi con la nascita del bambino hanno messo in questione l'idea che in questa condizione si tratti di corpi già morti, cadaveri da cui espiantare organi. Sembra, quindi, avere avuto ragione Jonas quando sospettava che la nuova definizione di morte, più che da un reale avanzamento scientifico, fosse stata motivata dall'interesse, cioè dalla necessità di organi da trapiantare.
Naturalmente, in proposito si è aperta nel mondo scientifico una discussione, in parte raccolta nel volume, curato da Roberto de Mattei, Finis vitae. Is brain death still life? (Rubbettino), i cui contributi - di neurologi, giuristi e filosofi statunitensi ed europei - sono concordi nel dichiarare che la morte cerebrale non è la morte dell'essere umano. Il rischio di confondere il coma (morte corticale) con la morte cerebrale è sempre possibile. E questa preoccupazione venne espressa al concistoro straordinario del 1991 dal cardinale Ratzinger nella sua relazione sul problema delle minacce alla vita umana: "Più tardi, quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in un coma "irreversibile", saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianti d'organo o serviranno, anch'essi, alla sperimentazione medica ("cadaveri caldi")".
Queste considerazioni aprono ovviamente nuovi problemi per la Chiesa cattolica, la cui accettazione del prelievo degli organi da pazienti cerebralmente morti, nel quadro di una difesa integrale e assoluta della vita umana, si regge soltanto sulla presunta certezza scientifica che essi siano effettivamente cadaveri. Ma la messa in dubbio dei criteri di Harvard apre altri problemi bioetici per i cattolici: l'idea che la persona umana cessi di esistere quando il cervello non funziona più, mentre il suo organismo - grazie alla respirazione artificiale - è mantenuto in vita, comporta una identificazione della persona con le sole attività cerebrali, e questo entra in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica, e quindi con le direttive della Chiesa nei confronti dei casi di coma persistente. Come ha fatto notare Peter Singer, che si muove su posizioni opposte a quelle cattoliche: "Se i teologi cattolici possono accettare questa posizione in caso di morte cerebrale, dovrebbero essere in grado di accettarla anche in caso di anencefalie".
Facendo il punto sulla questione, Becchi scrive che "l'errore, sempre più evidente, è stato quello di aver voluto risolvere un problema etico-giuridico con una presunta definizione scientifica", mentre il nodo dei trapianti "non si risolve con una definizione medico-scientifica della morte", ma attraverso l'elaborazione di "criteri eticamente e giuridicamente sostenibili e condivisibili". La Pontificia Accademia delle Scienze - che negli anni Ottanta si era espressa a favore del rapporto di Harvard - nel 2005 è tornata sul tema con un convegno su "I segni della morte". Il quarantesimo anniversario della nuova definizione di morte cerebrale sembra quindi riaprire la discussione, sia dal punto di vista scientifico generale, sia in ambito cattolico, al cui interno l'accettazione dei criteri di Harvard viene a costituire un tassello decisivo per molte altre questioni bioetiche oggi sul tappeto, e per il quale al tempo stesso costa rimettere in discussione uno dei pochi punti concordati tra laici e cattolici negli ultimi decenni.
L'Osservatore Romano - 3 settembre 2008

2)
«Sbagliato trattare quelle persone come cadaveri»

Il telefono non ha smesso di squillare per tutta la giornata. Ma la foga con cui il professor Paolo Becchi, ordinario di Filosofia del diritto all’Università di Genova, difende le sue ragioni non si è consumata. Perché è stato il suo libro «La morte cerebrale e il trapianto di organi» a scatenare un putiferio ieri, ancora prima della pubblicazione dell’editoriale che lo cita sull’Osservatore romano.
Immaginava di scatenare questo polverone?
«Lo speravo da tempo. Da oltre dieci anni mi occupo dell’argomento e vengo trattato come un reazionario».
Cosa spiega nel suo libro?
«Metto in evidenza che la morte cerebrale è un’invenzione creata ad hoc a fini trapiantistici».
Non è una buona causa quella dei trapianti?
«Certo che lo è, ma quando si tratta di cadaveri».
Che vuole dire?
«Com’è possibile che si difenda l’embrione e non si difenda una persona che ha 37 gradi di temperatura corporea, che è rosea in volto, calda al tatto?».
Lei vuole dire che la morte cerebrale non è morte?
«Io dico che bisogna trovare una giustificazione etica ai trapianti. La giustificazione non è dire che quelle persone sono morte».
Non sarà condizionato da motivi religiosi?
«Mi considero un cattolico non praticante».
Una battaglia dura: lei polemizza con medici e Vaticano.
«Non voglio sparare sui medici né sul Vaticano tout court. Voglio solo mettere in luce le contraddizioni di questo sistema».
di Gaia Cesare
Il Giornale n. 210 del 2008-09-03

3)
La “morte cerebrale” è davvero morte?

Un intervento di Mercedes Arzù Wilson membro della Pontificia Accademia per la Vita

È scientificamente provato che una persona realmente morta non può fornire un cuore adatto ad un trapianto. Solo una persona in vita con un cuore sano è adatta per un espianto. Per questa ragione, la “morte cerebrale” è stata inventata per favorire l’espianto degli organi.
È deplorevole che membri anche autorevoli delle professioni mediche, e un tempo anche la gerarchia cattolica e laica considerino la morte cerebrale morte. Sembrerebbe che essi siano stati abbindolati da interessi di gruppi che perderebbero miliardi se la verità venisse rivelata e la pratica sospesa grazie alla leadership della Chiesa cattolica.
Dopo tutto, una Chiesa che, come quella cattolica, ha migliaia di ospedali sotto la sua cura e la sua influenza, rappresenta per i sostenitori dell’espianto degli organi uno straordinario strumento di incremento del numero di donatori.
Il fine di coloro i quali considerano la “morte cerebrale” morte a tutti gli effetti è, sia quello di ottenere il silenzio delle autorità della Chiesa Cattolica di fronte all’espianto di organi vitali da donatori in vita, sia quello di spingere tali autorità ad esprimersi ufficialmente in favore della “morte cerebrale” quale vera morte.
È inoltre spaventoso scoprire fino a dove alcuni membri delle professioni potrebbero spingersi pur di espiantare organi da quei pazienti affetti da lesioni cerebrali che loro chiamano donatori cerebralmente morti. Senza dimenticare che alcuni organi vengono venduti per essere trapiantati nel corpo di un altro paziente a considerevoli somme di denaro.
Facciamo loro queste domande:
- Se il donatore “cerebralmente morto” è davvero morto, perché continuano ad alimentarlo con le flebo?
- Perchè, a volte, gli si fanno delle trasfusioni?
- Perchè si somministrano ormoni tiroidei e surrenali?
- Perchè necessitano dell’anestesia per espiantare gli organi? È forse perchè l’anestesista e le infermiere si troverebbero a disagio nel vedere il supposto “cadavere”, che respira con l’assistenza di un ventilatore, muoversi mentre loro tagliano il torace del donatore per prelevarne il cuore, il fegato o il pancreas?
- Perchè gli somministrano una sostanza paralizzante? È forse per evitare che il donatore si dimeni con paura quando il chirurgo dà inizio all’espianto dei suoi organi, oltre che per rassicurare l’impensierito staff medico che il donatore “cerebralmente morto” è realmente morto? Prima di cominciare ad usare droghe paralizzanti è stato necessario convincere alcuni membri dello staff che dubitavano che il donatore fosse davvero morto.
- È curioso notare che anche se il donatore è paralizzato, il battito del cuore e la pressione del sangue aumentano non appena il cuore inizia ad essere estratto.
- Come può una donna incinta, così detta “cerebralmente morta”, continuare per mesi a mantenere in vita nel suo grembo un bambino ed essere definita cadavere?
- Come mai questi così detti “cadaveri non si decompongono per giorni e a volte per mesi?
- Come può una mamma così detta “cerebralmente morta”, dopo aver dato alla luce un bambino vivo, produrre latte materno quando invece il chirurgo ha assicurato la sua famiglia che il suo cervello è morto?
In quest’ultimo caso se si riscontra una pur minima attività cerebrale, è ovvio che la tecnologia esistente, allo stato attuale, è incapace di individuare una nascosta attività del cervello, così come le complesse funzioni della ghiandola pituitaria legate all’ipotalamo, (una parte addizionale del cervello che influisce sulla ghiandola pituitaria in modo tale da rendere nei donatori “cerebralmente morti” apparentemente inesistenti le sue funzioni).
Per esempio, la ghiandola pituitaria è alle volte chiamata “ghiandola guida” del sistema endocrino, in quanto controlla il funzionamento delle altre ghiandole endocrine. La ghiandola pituitaria non è più grande di una pera ed è situata alla base del cervello. È unita all’ipotalamo (una parte del cervello che incide sulla ghiandola pituitaria) attraverso fibre nervose. La ghiandola pituitaria stessa è costituita da tre sezioni responsabili della produzione dei seguenti ormoni:
- ormone della crescita;
- prolattina che stimola la produzione di latte dopo il concepimento;
- ACTH (ormone adrenocorticotropico) che stimola la ghiandola surrenale;
- TSH (ormone tiroideo) che stimola la ghiandola tiroidea;
- FSH (ormone stimolante dei follicoli) che stimola ovaie e testicoli;
- LH (ormone della luteina) che stimola ovaie e testicoli;
- ormone produttore della melatonina che stimola i pigmenti della pelle;
- ADH (ormone antidiuretico) che aumenta il riassorbimento dell’acqua nel sangue attraverso i reni;
- ossitocina che permette la contrazione dell’utero al momento del parto e stimola la produzione di latte.
La società dei trapianti non ignora forse che il latte materno è il risultato dell’attività della ghiandola pituitaria nel cervello che invia i segnali per la produzione della prolattina, i cui livelli aumentano in vista della produzione di latte per il bambino?
E interessante notare come quest’ultima domanda fu posta, su richiesta personale di Sua Santità Giovanni Paolo Il, ai medici favorevoli alla “morte cerebrale” che frequentavano, nel febbraio 2005, un convegno della Pontificia Accademia delle Scienze.
Nessuno di loro negò che una madre incinta, dichiarata “cerebralmente morta”, potesse produrre latte dalle proprie mammelle dopo la nascita del figlio. Tali ammissioni incrinarono la loro sicurezza che nei pazienti con commozione cerebrale non ci fosse attività del cervello.
Per questo è logico concludere che fino a che la persona così detta “cerebralmente morta” o quella che versa in uno “stato vegetativo” mostra di avere le medesime funzioni metaboliche e le funzioni cerebrali, per quanto silenti, ha diritto a quelle stesse cure così ben delineate da Sua Santità Giovanni Paolo II in un discorso del 20 marzo 2004 Sui Trattamenti di Sostegno alla Vita e sullo Stato Vegetativo pronunciato durante il Congresso Internazionale Progressi Scientifici e Dilemmi Internazionali:
«Di fronte a pazienti in simili condizioni cliniche, c’è chi mette in dubbio la persistenza della stessa “qualità umana”; quasi come se l’aggettivo “vegetativo” (il cui uso si è pienamente affermato), che simbolicamente descrive uno stato clinico, potesse o dovesse essere invece applicato al malato in quanto tale, attualmente tende a sminuirne il suo valore e la sua dignità personale.
Il malato in uno stato vegetativo, in attesa di guarigione o di fine naturale, ha ancora il diritto alle cure mediche di base (nutrimento, idratazione, pulizia, calore), e alla prevenzione da complicazioni dovute alla sua lunga permanenza a letto. Egli ha inoltre il diritto a ricevere appropriate cure riabilitative e deve essere monitorato per riconoscere eventuali segni di miglioramento.
Mi piace soprattutto sottolineare come la somministrazione di cibi e bevande, anche se effettuata artificialmente, è sempre volta a preservare la vita, non è un atto clinico. Il suo uso, inoltre, può essere considerato, in principio, un atto ordinario ed adeguato, e in quanto tale moralmente obbligato, almeno fino a quando esso mostri di perseguire le proprie finalità, che nel caso presente consistono nel nutrire il paziente e nell’alleviarne le sofferenze».
L’anima non si è ancora separata dal corpo?
Quei medici che vogliono sostenere la analogia di queste due malattie, “morte cerebrale” e “stato vegetativo”, devono dimostrarlo al mondo scientifico. Fino a quando non lo dimostreranno, l’insegnamento della Chiesa Cattolica continuerà a proteggere l’essere umano fino al suo ultimo respiro e fino all’ultimo battito del suo cuore. Questa è, ed è sempre stata considerata, la fine naturale dell’uomo.
L’argomento della “morte cerebrale” è di estrema importanza per chiunque rispetti la vita di una persona creata a immagine e somiglianza di Dio. La Chiesa Cattolica non può dichiarare nessuno morto fino a che non sia assolutamente certo che lo spirito si sia separato dal corpo. Il Papa Giovanni Paolo II afferma, nelle riflessioni rivolte ai partecipanti al convegno della Pontificia Accademia delle Scienze del 3 febbraio 2005 intitolato I Segni della Morte.
«Nell’ambito dell’antropologia cristiana è ben noto che il momento della morte per ciascuna persona consiste nella definitiva perdita della originaria unità di anima e corpo. Ogni essere umano, infatti, è vivo proprio fino a che lui o lei è “corpore et anima unus” (corpo e anima uniti) (Gaudium et Spes, 14), e lui o lei rimangono tali finché questa sostanziale unità sussiste nella sua interezza».
Perciò, quando i chirurghi espiantano un organo vitale da un donatore cerebralmente morto, come per esempio un cuore che batte, stanno causando la morte di un paziente vivente innocente. Questo intervento medico è una chiara violazione del Quinto Comandamento.
In un recente comunicato a Parigi contro la pena di morte la Santa Sede fissa la posizione della Chiesa come segue: «la Santa Sede accoglie ben volentieri questa opportunità ed afferma una volta di più il suo sostegno a tutte quelle iniziative che hanno a cuore la difesa del valore innato e l’inviolabilità di tutta la vita umana, dal concepimento alla morte naturale».
Come cristiani crediamo che Dio ci ha donato la vita. Viviamo nella speranza di vivere abbastanza da meritarci la ricompensa del Paradiso. Ma solo Dio sa quando la nostra vita avrà fine. Nessuno, né noi né gli altri, ha il diritto di togliere a Dio il potere sulla vita e sulla morte. Anzi dovremmo adottare l’approccio di Dio alla vita e viverla più pienamente.
Questo è conforme ad ognuno di noi, ma in particolare ai medici, agli infermieri, al restante personale medico, al clero, che deve proteggere, preservare e difendere la vita, sostenendo la sua santità ed innalzando la sua qualità. La ragione ultima e fondamentale della pratica della medicina è permettere la sopravvivenza del paziente.
Come dice il dott. Paul Byrne: «Il sostentamento della vita umana, attraverso la fornitura di cibo ed acqua, il nutrimento, la consolazione e l’affetto nei confronti di un innocente, non è un ATTO medico, ma piuttosto è volto ad ottenere la misericordia e la grazia di nostro Signore. Basti osservare l’esempio di Madre Teresa.
La comunicazione spirituale, questa Santa Comunione tra il paziente, il Suo figlio, e lo Spirito Santo non si è mai interrotta. Questo tempo di grazia che nostro Signore usa per parlare al cuore di ogni persona, rivolgendo l’invito al Suo Regno e alla vita eterna, può diventare lo scopo di coloro i quali si assumono la responsabilità di fornire cure fino alla fine”.
Affrettare la morte con ogni mezzo e non permettere che questo Divino appuntamento sí compia, che questa chiamata dello Spirito Santo e del Consolatore porti pace, gioia e speranza, è un crimine perpetrato da molti.
Perchè non si riesce a capire che ogni persona umana sulla terra è sempre una unità di anima e corpo, della quale 1’ anima è essenziale e predominante? Solo Dio sa quale è il momento giusto per morire. Il corpo fisico perisce ma l’anima continuerà a vivere per l’eternità, in Paradiso o all’inferno!
La nostra responsabilità in quanto medici o personale para medico, è quella di proteggere e preservare la vita di una persona e di convincere gli altri, soprattutto parenti, amici ed ecclesiastici a proteggere e preservare a loro volta la vita e a non provocare mai la morte. Quanto ancora ci resta da vivere? Tanto abbastanza da meritare la misericordia di Dio.
Noi dobbiamo essere sinceri nella difesa di ogni vita, non solo di “alcune vite” dal concepimento alla morte naturale.
Il male (...) include (...) qualsiasi violazione della integrità della persona umana, come mutilazioni, torture fisiche o psicologiche e tentativi di distorsione della volontà».
Questo include l’espianto di organi vitali singoli, che sono già stati additati: «Gli organi vitali necessari singolarmente nel corpo non possono essere espiantati se non dopo la morte e dal corpo di una persona che è sicuramente morta. Questa esigenza è di per sé evidente, il contrario infatti vorrebbe dire causare volontariamente la morte di un donatore per disporre dei suoi organi».
Il mondo si è sempre fidato dell’autorità di onorevoli uomini e donne che credono che la vita sia un dono di Dio. Questa responsabilità ricade in primo luogo sui membri delle professioni mediche che per secoli hanno aderito al Giuramento di Ippocrate fornendo una guida, una protezione e una difesa della santità di quella vita che hanno giurato di difendere.
A causa del loro silenzio odierno, la selvaggia uccisione di innocenti donatori di organi vitali singoli per allungare la vita di un’altra persona con la scusa della compassione verso il beneficiario, continua senza una ufficiale protesta della professione medica.
Combattere per la giustizia
Con la scusa di essere giudiziosi e/o “prudenti”, i medici hanno spesso ostacolato importanti decisioni in materia di etica con risultati molte volte devastanti per i pazienti. Anche un bambino sarebbe in grado di riconoscere l’esistenza della vita in un paziente che respira e il cui cuore continua a battere.
Non è necessario essere un medico per sapere che finché i segni vitali sono presenti, e la decomposizione del corpo non ha avuto luogo, l’anima non si è ancora staccata dal corpo del donatore.
L’inganno della “morte cerebrale”, non solo è un affare da milioni di dollari, ma ha come conseguenza ancor più seria quella di non permettere alle anime di partecipare alla Eterna Salvezza. In aggiunta, essendo una rappresentazione falsa di una morte vera, fa si che milioni di anime non ricevano il Sacramento della estrema unzione della Chiesa Cattolica per ottenere la salvezza.
Come padre John Corapi spesso afferma: «Arrendersi non è una alternativa, soprattutto se pensiamo che stiamo lottando contro le seducenti e idolatre pratiche di quello che oggi viene definito “mondo civilizzato”».
Noi possiamo accettare la sfida o rifugiarci nel silenzio. L’unico testimone della nostra resa sarà Dio, ma la nostra coscienza non ci darà tregua se abbiamo ricevuto i giusti insegnamenti dalla Chiesa Cattolica. In altri termini, l’essere umano ha il potere di fare un gran male o un gran bene. Possiamo essere grandi santi o possiamo sottometterci al male. Dobbiamo amare la verità o arrenderci all’inganno. È urgente che le odierne pratiche del male vengano riconosciute quali materia di vita o di morte.
Il nostro compianto Giovanni Paolo II spesso ci ricordava: «Non siate soddisfatti nella mediocrità» e «non abbiate paura».
Del resto, anche se molte persone stanno violando il loro codice etico, lasciamo che ricordino che ciò che è sbagliato è sempre sbagliato anche se ci sono persone che lo fanno; ciò che è giusto è sempre giusto anche se non c’è nessuno che lo faccia.
Famiglia Domani Flash, n. 2 - 2008, p.4-6


Il Papa: la conversione di San Paolo, un incontro con Cristo - Catechesi all'udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 3 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell'intervento pronunciato questo mercoledì mattina da Benedetto XVI nel corso dell'Udienza generale nell'aula Paolo VI.
Nel suo discorso, il Papa ha continuato il ciclo di catechesi sulla figura dell’Apostolo Paolo, commentando la conversione di San Paolo.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
la catechesi di oggi sarà dedicata all’esperienza che san Paolo ebbe sulla via di Damasco e quindi a quella che comunemente si chiama la sua conversione. Proprio sulla strada di Damasco, nei primi anni 30 del secolo I, e dopo un periodo in cui aveva perseguitato la Chiesa, si verificò il momento decisivo della vita di Paolo. Su di esso molto è stato scritto e naturalmente da diversi punti di vista. Certo è che là avvenne una svolta, anzi un capovolgimento di prospettiva. Allora egli, inaspettatamente, cominciò a considerare "perdita" e "spazzatura" tutto ciò che prima costituiva per lui il massimo ideale, quasi la ragion d'essere della sua esistenza (cfr Fil 3,7-8). Che cos’era successo?
Abbiamo a questo proposito due tipi di fonti. Il primo tipo, il più conosciuto, sono i racconti dovuti alla penna di Luca, che per ben tre volte narra l’evento negli Atti degli Apostoli (cfr 9,1-19; 22,3-21; 26,4-23). Il lettore medio è forse tentato di fermarsi troppo su alcuni dettagli, come la luce dal cielo, la caduta a terra, la voce che chiama, la nuova condizione di cecità, la guarigione come per la caduta di squame dagli occhi e il digiuno. Ma tutti questi dettagli si riferiscono al centro dell’avvenimento: il Cristo risorto appare come una luce splendida e parla a Saulo, trasforma il suo pensiero e la sua stessa vita. Lo splendore del Risorto lo rende cieco: appare così anche esteriormente ciò che era la sua realtà interiore, la sua cecità nei confronti della verità, della luce che è Cristo. E poi il suo definitivo "sì" a Cristo nel battesimo riapre di nuovo i suoi occhi, lo fa realmente vedere.
Nella Chiesa antica il battesimo era chiamato anche "illuminazione", perché tale sacramento dà la luce, fa vedere realmente. Quanto così si indica teologicamente, in Paolo si realizza anche fisicamente: guarito dalla sua cecità interiore, vede bene. San Paolo, quindi, è stato trasformato non da un pensiero ma da un evento, dalla presenza irresistibile del Risorto, della quale mai potrà in seguito dubitare tanto era stata forte l’evidenza dell’evento, di questo incontro. Esso cambiò fondamentalmente la vita di Paolo; in questo senso si può e si deve parlare di una conversione. Questo incontro è il centro del racconto di san Luca, il quale è ben possibile che abbia utilizzato un racconto nato probabilmente nella comunità di Damasco. Lo fa pensare il colorito locale dato dalla presenza di Ananìa e dai nomi sia della via che del proprietario della casa in cui Paolo soggiornò (cfr At 9,11).
Il secondo tipo di fonti sulla conversione è costituito dalle stesse Lettere di san Paolo. Egli non ha mai parlato in dettaglio di questo avvenimento, penso perché poteva supporre che tutti conoscessero l’essenziale di questa sua storia, tutti sapevano che da persecutore era stato trasformato in apostolo fervente di Cristo. E ciò era avvenuto non in seguito ad una propria riflessione, ma ad un evento forte, ad un incontro con il Risorto. Pur non parlando dei dettagli, egli accenna diverse volte a questo fatto importantissimo, che cioè anche lui è testimone della risurrezione di Gesù, della quale ha ricevuto immediatamente da Gesù stesso la rivelazione, insieme con la missione di apostolo. Il testo più chiaro su questo punto si trova nel suo racconto su ciò che costituisce il centro della storia della salvezza: la morte e la risurrezione di Gesù e le apparizioni ai testimoni (cfr. 1 Cor 15). Con parole della tradizione antichissima, che anch’egli ha ricevuto dalla Chiesa di Gerusalemme, dice che Gesù morto crocifisso, sepolto, risorto apparve, dopo la risurrezione, prima a Cefa, cioè a Pietro, poi ai Dodici, poi a cinquecento fratelli che in gran parte in quel tempo vivevano ancora, poi a Giacomo, poi a tutti gli Apostoli. E a questo racconto ricevuto dalla tradizione aggiunge: "Ultimo fra tutti apparve anche a me" (1 Cor 15,8). Così fa capire che questo è il fondamento del suo apostolato e della sua nuova vita. Vi sono pure altri testi nei quali appare la stessa cosa: "Per mezzo di Gesù Cristo abbiamo ricevuto la grazia dell'apostolato" (cfr Rm 1,5); e ancora: "Non ho forse veduto Gesù, Signore nostro?" (1 Cor 9,1), parole con le quali egli allude ad una cosa che tutti sanno. E finalmente il testo più diffuso si legge in Gal 1,15-17: "Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco". In questa "autoapologia" sottolinea decisamente che anche lui è vero testimone del Risorto, ha una propria missione ricevuta immediatamente dal Risorto.
Possiamo così vedere che le due fonti, gli Atti degli Apostoli e le Lettere di san Paolo, convergono e convengono sul punto fondamentale: il Risorto ha parlato a Paolo, lo ha chiamato all’apostolato, ha fatto di lui un vero apostolo, testimone della risurrezione, con l’incarico specifico di annunciare il Vangelo ai pagani, al mondo greco-romano. E nello stesso tempo Paolo ha imparato che, nonostante l’immediatezza del suo rapporto con il Risorto, egli deve entrare nella comunione della Chiesa, deve farsi battezzare, deve vivere in sintonia con gli altri apostoli. Solo in questa comunione con tutti egli potrà essere un vero apostolo, come scrive esplicitamente nella prima Lettera ai Corinti: "Sia io che loro così predichiamo e così avete creduto" (15, 11). C’è solo un annuncio del Risorto, perché Cristo è uno solo.
Come si vede, in tutti questi passi Paolo non interpreta mai questo momento come un fatto di conversione. Perché? Ci sono tante ipotesi, ma per me il motivo è molto evidente. Questa svolta della sua vita, questa trasformazione di tutto il suo essere non fu frutto di un processo psicologico, di una maturazione o evoluzione intellettuale e morale, ma venne dall’esterno: non fu il frutto del suo pensiero, ma dell’incontro con Cristo Gesù. In questo senso non fu semplicemente una conversione, una maturazione del suo "io", ma fu morte e risurrezione per lui stesso: morì una sua esistenza e un’altra nuova ne nacque con il Cristo Risorto. In nessun altro modo si può spiegare questo rinnovamento di Paolo. Tutte le analisi psicologiche non possono chiarire e risolvere il problema. Solo l'avvenimento, l'incontro forte con Cristo, è la chiave per capire che cosa era successo: morte e risurrezione, rinnovamento da parte di Colui che si era mostrato e aveva parlato con lui. In questo senso più profondo possiamo e dobbiamo parlare di conversione. Questo incontro è un reale rinnovamento che ha cambiato tutti i suoi parametri. Adesso può dire che ciò che prima era per lui essenziale e fondamentale, è diventato per lui "spazzatura"; non è più "guadagno", ma perdita, perché ormai conta solo la vita in Cristo.
Non dobbiamo tuttavia pensare che Paolo sia stato così chiuso in un avvenimento cieco. È vero il contrario, perché il Cristo Risorto è la luce della verità, la luce di Dio stesso. Questo ha allargato il suo cuore, lo ha reso aperto a tutti. In questo momento non ha perso quanto c'era di bene e di vero nella sua vita, nella sua eredità, ma ha capito in modo nuovo la saggezza, la verità, la profondità della legge e dei profeti, se n'è riappropriato in modo nuovo. Nello stesso tempo, la sua ragione si è aperta alla saggezza dei pagani; essendosi aperto a Cristo con tutto il cuore, è divenuto capace di un dialogo ampio con tutti, è divenuto capace di farsi tutto a tutti. Così realmente poteva essere l'apostolo dei pagani.
Venendo ora a noi stessi, ci chiediamo che cosa vuol dire questo per noi? Vuol dire che anche per noi il cristianesimo non è una nuova filosofia o una nuova morale. Cristiani siamo soltanto se incontriamo Cristo. Certamente Egli non si mostra a noi in questo modo irresistibile, luminoso, come ha fatto con Paolo per farne l'apostolo di tutte le genti. Ma anche noi possiamo incontrare Cristo, nella lettura della Sacra Scrittura, nella preghiera, nella vita liturgica della Chiesa. Possiamo toccare il cuore di Cristo e sentire che Egli tocca il nostro. Solo in questa relazione personale con Cristo, solo in questo incontro con il Risorto diventiamo realmente cristiani. E così si apre la nostra ragione, si apre tutta la saggezza di Cristo e tutta la ricchezza della verità. Quindi preghiamo il Signore perché ci illumini, perché ci doni nel nostro mondo l'incontro con la sua presenza: e così ci dia una fede vivace, un cuore aperto, una grande carità per tutti, capace di rinnovare il mondo.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, ai religiosi e alle religiose, figli spirituali di don Orione, che ricordano quest’anno significative ricorrenze giubilari, come pure ai Missionari del Pontificio Istituto Missioni estere. Cari fratelli e sorelle, vi accolgo volentieri ed auspico di cuore che il vostro pellegrinaggio apporti frutti di bene a voi ed alle vostre comunità. Saluto inoltre i fedeli del Duomo di Oderzo e quelli del Santuario Santi Cosma e Damiano, in Eboli. Cari amici, la sosta presso la tomba di Pietro vi rafforzi nella fede cosicché, di ritorno alle vostre case, possiate rendere testimonianza dell’esperienza spirituale vissuta in questi giorni.
Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. Cari giovani, riprendendo dopo le vacanze le consuete attività quotidiane, tornate al ritmo regolare del vostro intimo dialogo con Dio, diffondendo con la vostra testimonianza la sua luce attorno a voi. Voi, cari malati, trovate sostegno e conforto in Gesù, che continua la sua opera di redenzione nella vita di ogni uomo. E voi, cari sposi novelli, sforzatevi di mantenere un contatto costante con il Signore che dona la salvezza a tutti e attingete al suo amore perché anche il vostro sia sempre più saldo e duraturo.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


ELUANA/ Roccella: occorre fare chiarezza per evitare l'"ingegneria sociale"
INT. Eugenia Roccella , ilSussidiario.net
giovedì 4 settembre 2008
Continua, sempre più serrato, il dibattito sui cosiddetti “temi etici”, in primis la questione del testamento biologico. Nei giorni scorsi la polemica riguardo all’editoriale di Lucetta Scaraffia sull’ Osservatore Romano, riguardo al concetto di «morte cerebrale»; m ancor più importante, ieri la notizia del pronunciamento della Regione Lombardia sulla “sentenza Englaro”, secondo cui la richiesta del padre di Eluana non può essere accolta «in quanto le strutture sanitarie sono deputate alla presa in carico diagnostico-assistenziale dei pazienti, che si sostanzia nella nutrizione, idratazione e accudimento delle persone».
Eugenia Roccella, sottosegretario al Welafare, si occupa direttamente di queste questioni, e a lei ilsussidiario.net chiede di fare il punto sulla posizione del governo in merito.
Sottosegretario Roccella, il governo sembra sempre più in prima linea nella difesa della vita, sia per quanto riguarda la 194, sia il testamento biologico. Sembrano lontani i timori di un PdL come partito dell'anarchia morale: possiamo parlare di un impegno più diretto sui temi etici?
In primo luogo non amo parlare di temi “etici”. Personalmente preferisco parlare di “biopolitica”, cioè di come viene concepito il potere politico in relazione al corpo, alla maternità, alla paternità e al “bios”, la vita. La vita si può sacrificare per tanti motivi. Non può essere sacralizzata, e tanto meno analizzata in laboratorio, senza contesto. I martiri sacrificavano la vita perché le riconoscevano un preciso significato e valore.
Secondo me è importante capire che il senso dell'umano è proprio nella inscindibilità della biologia e della relazione con gli altri. Il corpo umano è costituito da entrambe le cose, in modo inscindibile e indistricabile. Questa è l'essenza dell'umano. Ed è per tale motivo che utilizzo il termine “biopolitica”. Penso che politicamente occorra alzare lo sguardo perché il vero rischio è nell'orizzonte in cui si muove la ricerca e in cui si muoverà nei prossimi decenni. In quell'ambito si corre davvero il rischio che gli scienziati si mettano a giocare a fare Dio, come è stato detto nella copertina di Times. Si corre il rischio dell'uomo fatto dall'uomo.
Qual è il punto culturale e antropologico di questa posizione?
Esiste una malevola volontà di realizzare e spostare le vecchie utopie novecentesche sul piano della genetica e della biologia. Ma sempre di utopie si tratta. Utopie che riguardano la perfettibilità dell'uomo. Credo invece sia più opportuno tenersi stretta la nostra imperfezione, perché quest'ultima è la garanzia della nostra unicità. Dovremmo capire che i temi di biopolitica oggi devono mettere al centro proprio in discussione la questione antropologica di cui ha parlato Ruini con lungimiranza, cioè la definizione dell'umano.
Andando sull’aspetto più prettamente politico, si può parlare di una vera e propria “agenda” di governo su questi temi?
L'agenda è già cominciata, e abbiamo già in corso una serie di appuntamenti, per esempio in merito alla scelta se fare o non fare entrare in Italia le biobanche private. Poi, sul tema dell'aborto, c'è in pendenza l'argomento della pillola Ru486. Personalmente intendo senz'altro realizzare qualcosa, come, ad esempio, la pubblicazione di alcune linee guida sull'aborto. Un'iniziativa però che si può portare in atto solamente con l'accordo fra le regioni.
Sono ben contenta di quanto ha affermato il premier sulla 194. Tra l'altro lo aveva fatto già in occasione del discorso di insediamento alla Camera. Io non mi preoccuperei del fatto che fra le fila del Pdl ci sia anarchia, come è stato detto. Ritengo che quel termine si riferisca al fatto che è un partito non costrittivo, dove ognuno può mantenere la propria libertà di coscienza, ma non che si tratti di un movimento anarchico dal punto di vista delle scelte antropologiche.
Il dibattito più serrato riguarda adesso il testamento biologico, soprattutto con la sentenza Englaro e il pronunciamento di ieri della Regione Lombardia: qual è la sua opinione in merito?
La “sentenza Englaro” è il punto di arrivo di una tendenza ideologica che c'è da molto tempo, e di cui forse ci siamo accorti tardi, di interpretazione dell'articolo 32 della Costituzione. Si tratta di un'interpretazione molto forzata che ha prodotto una sentenza definitiva. Quindi crea un precedente da cui per tornare indietro occorre una complessa procedura, inevitabile però per scongiurare il rischio di cadere nell’“ingegneria sociale”. Se si deduce la volontà di un malato mediante dichiarazioni espresse a 15 anni, come alcune utilizzate dalla sentenza, il meccanismo diviene davvero rischioso. Occorre almeno che si ricorra a un preciso consenso informato, il che significa un atto sottoscritto da un notaio o comunque assolutamente certificato. È infatti facile che ciascuno di noi nel corso della sua vita abbia detto la frase: «se mi trovo in uno stato vegetativo staccatemi la spina». Quindi io trovo che occorra ristabilire la certezza del consenso e maggiori garanzie.
Quindi occorre una legge, per “disinnescare” questa sentenza?
Questa è una sentenza che porta a qualcosa di peggio dell'eutanasia; insisto col definirla “ingegneria sociale”, funzionale a una mentalità spietata perché, in base a questa logica, qualsiasi malato, che costi troppo al sistema della sanità, può essere eliminato. Per avere chiarezza occorre dunque una legge che sia il più possibile garantista nei confronti del malato, che ribadisca l'alleanza terapeutica, che lasci sempre l'ultima parola al medico e che elabori dei parametri più che validi, perché in gioco c'è la vita.
Cosa pensa, in particolare, della risposta ufficiale che il direttore generale della Sanità della Regione Lombardia Carlo Lucchina ha dato al padre di Eluana, dicendo sostanzialmente che la sua richiesta di fornire una struttura dove eseguire la sentenza non può essere esaudita?
Dalla sentenza non si evince che sia competenza delle regioni creare le condizioni per darne esecuzione: la sentenza non indica il luogo, e non indica che l’interruzione dell’alimentazione debba essere fatta dal servizio pubblico. Non obbliga nessuno, accoglie solo l’istanza del padre. La cosa fondamentale che resta in piedi, poi, è che c’è un ricorso della procura di Milano, quindi se la sentenza viene eseguita torna il rischio che già avevo denunciato all’inizio: se poi questo ricorso porta a una sentenza opposta a quella della Corte d’appello, che facciamo? Intanto Eluana è morta. È una responsabilità molto pesante, politica e giuridica, che esula dalla questione medica.


“Testamento biologico”: è vera libertà? - INT. Roberto Colombo, il Sussidiario.net
giovedì 4 settembre 2008
Professor Colombo, in questi giorni si fa un gran parlare di temi biopolitici. Fa discutere sempre il caso Englaro, e il dibattito ad esso legato sullo stato vegetativo, al quale si è “sovrapposto” il problema di una legge sul “testamento biologico”. Vuole chiarire al lettore come stanno le cose?
Per aiutare a capire quale è la realtà in gioco, sarebbe anzitutto utile sostituire all’espressione plurivoca “testamento biologico” quella di “dichiarazioni anticipate di trattamento” - come suggerito da un documento del Comitato Nazionale di Bioetica - oppure quella di “consenso/dissenso anticipato al trattamento”.
Un “testamento”, infatti, si riferisce a delle volontà espresse da una persona vivente che diventano cogenti solo dopo la sua morte (per esempio, un lascito pecuniario o la donazione di un organo dal proprio cadavere). Nel caso in questione, invece, queste volontà avrebbero pretesa esecutiva ante mortem; anzi, riferendosi ad azioni sul proprio corpo, tali volontà si configurerebbero addirittura come causa mortis.
Sciolto questo preliminare, la questione si configura correttamente nell’ambito del consenso o dissenso di un paziente (o di chi ne è il tutore o rappresentante legale, nel caso esso sia incapace di deliberare consapevolmente) ad interventi sul proprio corpo da parte di medici o personale infermieristico. Normalmente, questo consenso o dissenso viene espresso dall’interessato immediatamente prima che il trattamento abbia inizio: per esempio, prima di un intervento chirurgico o di altra manovra invasiva. Se, però, l’intervento ha carattere di urgenza o rappresenta un trattamento “salvavita”, vi è generale consenso da parte dei medici, dei pazienti e dei loro congiunti, che tale intervento possa - anzi, debba - essere eseguito anche in assenza di un esplicito consenso (si parla, talora, di “consenso implicito” o “presunto”). La ragione che legittima quest’ultimo comportamento dei medici è la seguente: la medicina ha come scopo il bene del paziente ed il bene fondamentale di ogni essere umano è la sua vita. Come ha scritto Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium vitae, “la vita umana è sempre un bene”. Non intervenire (pur potendolo fare), facendo così cessare la vita o anticipando la morte di una persona è sempre un male. È vero che, in simili casi, la libertà del paziente o dei suoi cari non è interpellata, ma la libertà è davvero tale in quanto è ordinata al bene: se si deve supplire ad un atto di volontà di una persona, che non è in grado di attuarla, lo si deve fare sul presupposto del bene, cioè del favorire la sua esistenza.
Ci si è però chiesti, ed è questo il caso in questione, se - in previsione di tali situazioni di incapacità - una persona possa esprimere anticipatamente la propria volontà circa i trattamenti cui desidera o non desidera essere sottoposta, un giorno, se eventualmente si venisse a trovare in determinate condizioni patologiche. A questo proposito, la situazione di Eluana Englaro, quando viene invocata, crea una grande confusione nella mente dei cittadini, chiamati a riflettere se queste “dichiarazioni anticipate” debbano oppure no essere introdotte nel nostro ordinamento giuridico ...
Perché si è creata questa confusione? Come mai il caso clinico di Englaro ha aperto il dibattito (debitamente o indebitamente) sul “testamento biologico”?
A quanto risulta, la giovane lecchese non ha fatto, neppure in forma semplice (cioè non depositata presso un notaio), nessun “testamento biologico”. Non ha scritto o dettato nessuna volontà anticipata circa il trattamento cui avrebbe voluto o non voluto essere sottoposta. Vi è solo la testimonianza del padre che, in circostanze da lui asserite, avrebbe colto in alcune espressioni della figlia dei fugaci accenni circa simili condizioni patologiche occorse ad un coetaneo. Ma basta, questo, perché si configuri una volontà esplicita, ragionata e confermata, tale da avere pretesa di “dissenso anticipato” alle cure cui oggi viene sottoposta? Nessuna legge vigente all’estero o disegno di legge avanzato in Italia contempla la mera allusione di un congiunto a dialoghi intercorsi con il paziente quale fonte di diritto per ottenere la sospensione di trattamenti essenziali per la vita di una persona, neppure di un paziente in stato vegetativo persistente.
Così, in retta coscienza ed a buon diritto, i medici ed il personale infermieristico che assistono la giovane hanno agito e agiscono in ordine al suo bene fondamentale che è la vita. Lo fanno nella certezza che ogni altra decisione sarebbe un male morale ed un’ingiustizia, che nessuna circostanza e nessuna altra persona, neppure un congiunto o un giudice, potrebbe mai giustificare. Se anche fosse approvata oggi stesso una legge sulle “dichiarazioni anticipate di trattamento” ed entrasse in vigore domani, essa non aiuterebbe a risolvere il dramma che circonda la persona di Eluana.
Quali sono i requisiti ai quali dovrebbe saper rispondere una legge sul “testamento biologico”?
Le - a mio avviso, enormi - difficoltà nelle quali si imbatterebbe una legge sul cosiddetto “testamento biologico” sono molteplici. Anzitutto, la questione della “certezza delle volontà”. Come è noto dalla giurisprudenza in materia di volontà testamentarie, un soggetto può cambiare innumerevoli volte la destinazione dei suoi beni e, inoltre, tali volontà sono spesso impugnate dai congiunti del defunto. Cosa dire delle ben più rilevanti volontà circa il proprio corpo, la propria vita e la propria morte? Quante volte potremmo ritornare sui nostri passi? E chissà quale scritto, depositato presso chissà quale notaio o ufficio legale, rappresenta davvero l’ultima volontà del paziente? Ancor più, come prevedere lo stato clinico in cui uno si troverà con sufficiente precisione patologica tale da dettare un consenso o un dissenso a specifici trattamenti, alle loro modalità, alla loro durata? Non si può pretendere che ogni cittadino sia laureato in medicina o che ogni “testamento biologico” sia un trattato di terapia intensiva. Resta allora come unica, praticabile soluzione quella di espressioni generiche (per esempio, “non voglio essere sottoposto ad alcun trattamento”), il cui significato reale - cioè che cosa mi accadrà se saranno attuate queste richieste, quanto soffrirò, quanti giorni passeranno prima della mia morte - non è neppure immaginabile da parte dell’estensore del “testamento”, e la cui interpretazione operativa, nella circostanza interessata, verrebbe lasciata all’arbitrio dell’“esecutore delle volontà testamentarie” (un medico, i parenti, un giudice?).
Ma vi è una seconda questione, di grande importanza culturale, antropologica e sociale. Le pressioni verso l’introduzione del “testamento biologico” nascono da una concezione autonomistica assoluta della libertà e della volontà del paziente che misconosce la originaria e fondativa natura relazionale della cura. I soggetti della cura sono due: il paziente ed il suo medico. Si tratta di due persone, ognuna delle quali investe nella cura della malattia la propria libertà, la coscienza e l’ideale di bene che li muove nella vita. Se è vero che il medico non può agire contro o senza la volontà del paziente, quest’ultimo - o chi per esso - non può pretendere (con la forza della legge) che il medico agisca in modo contrario alla propria coscienza e scienza. Ridurre il medico a mero esecutore di volontà, ancorché redatte per iscritto e depositate a norma di legge, che contrastano con la sua missione di difensore e promotore della vita del malato, significherebbe umiliarlo nel cuore della sua stessa umanità e professionalità.
Se è vero che talora, purtroppo, alcuni medici hanno umiliato i loro malati e non sono stati degni della propria statura umana e professionale, in questo caso l’intera classe medica subirebbe una “burocratizzazione delle decisioni cliniche” che non ha precedenti per gravità morale e onerosità giuridica.
E poi vi è il rischio di scivolare dal rifiuto dell’accanimento terapeutico all’introduzione dell’eutanasia .
C’è davvero un “rischio eutanasia”?
Se un’eventuale legge concedesse di poter annoverare tra le “volontà testamentarie” non solo il lecito rifiuto di interventi medici o chirurgici ritenuti dal soggetto come onerosi o riconosciuti dai medici come terapie futili, ma anche la sospensione di cure essenziali per la vita del paziente, come la ventilazione, l’idratazione, l’alimentazione, il ricambio, la mobilizzazione ed altro ancora, allora il dissenso a questi trattamenti equivarrebbe ad una richiesta di eutanasia (la cosiddetta “eutanasia volontaria”).
Se una legge dovrà proprio uscire dal Parlamento italiano, ci auguriamo davvero che contenga esplicite limitazioni alle indicazioni anticipate del soggetto, escludendo operativamente (e non solo nominalisticamente) ogni possibilità di utilizzo strumentale a fini eutanasici della legge stessa. Del resto, nel nostro ordinamento giuridico, non ogni volontà del cittadino, neppure quelle che si riferiscono alla sua persona, è fonte di diritto esigibile o di dovere coercibile. Non tutto ciò che l’uomo può volere è, per il solo fatto che egli lo voglia, un bene per sé e per la società.
Il tema della fine della vita si è ulteriormente complicato per il fatto che si è aperto un dibattito sul concetto di morte dell’uomo e sui criteri di accertamento della morte, in particolare quelli neurologici. Vuole aiutare il lettore ad orientarsi?
Le due questioni si sono accidentalmente sovrapposte in questi giorni. In realtà, la questione del cosiddetto “testamento biologico” riguarda i soggetti che si trovano in condizioni cliniche critiche o croniche, ma che nessuno si permette oggi di dichiarare morti (il paziente in stato vegetativo persistente è vivo, sotto ogni profilo fisiologico). Caso mai, alcuni disquisiscono sul “significato” di una vita come quella vissuta da questi pazienti, sulla loro cosiddetta “qualità di vita” (un’espressione estremamente ambigua e foriera di implicazioni gravissime). Ma non è in questione la loro morte attuale: caso mai, qualcuno vorrebbe che morissero anzitempo, ma, allo stato attuale sono vivi.
Cosa differente è la questione - sulla quale la comunità scientifica, i filosofi ed i teologi dibattono da alcuni decenni - sulle condizioni al verificarsi delle quali un soggetto può venire dichiarato morto e sui criteri che consentono di giungere alla diagnosi di morte, in particolare quelli di tipo cerebrale. La questione è intimamente legata agli espianti di organo ex mortuo per finalità di trapianto in un ricevente. Ma per aiutare i lettori ad entrare in questo complesso tema, che richiede precise conoscenze di tipo fisiopatologico, neurologico e antropologico-filosofico, occorrerebbe ricominciare l’intervista da capo ... La legge italiana sui trapianti d’organo è giudicata, in sede nazionale e internazionale, molto rigorosa e non vi è ragione di cambiarla.


Il cardinale Tauran sbaglia: la tesi dell'islam "buono" e di una minoranza di musulmani "cattivi" non mi convince affatto
Al Meeting di Comunione e Liberazione in corso a Rimini il presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso ha ribadito una concezione relativista delle religioni che sarebbero di per sé “fattori di pace”, ma che farebbero paura a causa di “alcuni credenti” che hanno “tradito la loro fede”
autore: Magdi Cristiano Allam
Cari amici,
il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, intervenendo al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini lunedì scorso, 25 agosto, nel corso di una conferenza stampa che ha preceduto l’incontro pubblico dal titolo “Le condizioni della pace”, ha ripetuto la tesi secondo cui le religioni sarebbero di per sé “fattori di pace”, ma che farebbero paura a causa di “alcuni credenti” che hanno “tradito la loro fede”, mentre in realtà tutte le fedi sarebbero “portatrici di un messaggio di pace e fraternità”.
La tesi del cardinale Tauran è che le religioni sarebbero intrinsecamente buone e che quindi lo sarebbe anche l’islam. Ne consegue che se oggi l’estremismo e il terrorismo islamico sono diventati la principale emergenza per la sicurezza e stabilità internazionale, ciò si dovrebbe imputare a una minoranza “cattiva” che interpreterebbe in modo distorto il “vero islam”, mentre la maggioranza dei musulmani sarebbe “buona” nel senso di rispettosa dei diritti fondamentali e dei valori non negoziabili che sono alla base della comune civiltà dell’uomo.
Ebbene, cari amici, con la consueta franchezza che contraddistingue il mio spirito amante della verità e fiero della libertà conciliatosi nella fede in Gesù, valuto profondamente sbagliata la tesi del cardinale Tauran in quanto di fatto, al di là delle convinzioni profonde sul primato della verità cristiana del cardinale che non metto neppure in discussione, accredita il relativismo religioso che attribuisce pari valore e pari dignità alle religioni, una malattia ideologica che ci priva del diritto e del dovere razionale di impiegare i parametri valutativi e critici che ci consentono di entrare nel merito dei contenuti, appunto perché aprioristicamente si deve legittimare una tesi precostituita.
La verità, lo dico con serenità e chiarezza, è esattamente il contrario di ciò che immagina il cardinale Tauran. Alla radice del male non ci sono delle religioni che sarebbero parimenti “buone” mentre una minoranza di uomini “cattivi” sarebbero responsabili del degrado generale. La verità è che le religioni sono diverse, mentre gli uomini – al di là della fede e della cultura di riferimento - potrebbero essere accomunati dal rispetto di regole e di valori comuni. La verità è che il cristianesimo e l’islam sono totalmente differenti: il Dio che si è fatto uomo incarnato in Gesù, che ha condiviso la vita, la verità, l’amore e la libertà con altri uomini fino al sacrificio della propria vita, non ha nulla in comune con il Dio che si è fatto testo incartato nel Corano, che s’impone sugli uomini in modo arbitrario, che ha legittimato un’ideologia e una prassi di odio, violenza e morte perseguita da Maometto e dai suoi seguaci per diffondere l’islam.
La verità, lo dico con piena consapevolezza ed esperienza diretta, è che non esiste un “islam moderato” mentre certamente ci sono dei “musulmani moderati”. Sono tutti quei musulmani che rispettano i diritti fondamentali dell’uomo e quei valori che non sono negoziabili in quanto sostanziano l’essenza della nostra umanità: la sacralità della vita, la dignità della persona, la libertà di scelta.
La verità è che i musulmani non sono “bianchi” o “neri”, ovvero una minoranza dedita al terrorismo e una maggioranza che condividerebbe la sacralità della vita. Questa maggioranza, spesso identificata come “maggioranza silenziosa” anche in contesti diversi, è in realtà una maggioranza collusa ideologicamente con i fautori e i diretti protagonisti dell’ideologia dell'odio, della violenza e della morte. Si tratta della maggioranza di musulmani che, da un lato, condanna il terrorismo islamico quando uccide i musulmani ma, dall’altro, lo esalta quando a morire sono gli israeliani, anche se si tratta dei medesimi carnefici ispirati dall'identica ideologia. Si tratta della maggioranza di musulmani che, da un lato, si compatta ricorrendo anche alla violenza se viene oltraggiato l’islam o Maometto ma, dall’altro, non ha alcuna remora a reprimere nel sangue la libertà di culto dei cristiani o nel condannare a morte il musulmano “apostata” che abbraccia la fede in Gesù.
Ecco perché non condivido le molteplici posizioni assunte dal cardinale Tauran sull’islam e sul dialogo interreligioso. In una recente intervista concessa al mensile “30 Giorni” alla vigilia della sua nomina a presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, il cardinale Tauran disse: “Con l’islam che uccide – che secondo me non è islam autentico ma una perversione dell’islam – evidentemente non è possibile alcun dialogo. Con l’islam genuino – come quello che ho conosciuto in Libano, ma anche in Siria o nei Paesi del Golfo –, anche se non esiste al presente un dialogo teologico, si può avere un dialogo della cultura, della carità, della pace. La cosa importante è conoscersi, conoscersi, conoscersi. Ognuno di noi ha sempre qualcosa da imparare dall’altro. Ad esempio noi possiamo apprezzare nei musulmani questa dimensione della trascendenza di Dio, il valore della preghiera e del digiuno, il coraggio di testimoniare la propria fede nella vita pubblica. Da noi invece i musulmani possono imparare il valore di una sana laicità”. Onestamente mi sembra del tutto illusorio immaginare che esisterebbe un “islam autentico” e che corrisponderebbe a quello vigente nei regimi dittatoriali della Siria o in quello oscurantista dell’Arabia Saudita, così come mi sembra un approccio perdente se si percepisce l’islam come una fede sana e forte e il cristianesimo appiattito nella dimensione della laicità.
Sempre nella stessa intervista il cardinale Tauran afferma una concezione discutibile del dialogo e sostiene l’esistenza di un “islam moderato”: “In linea di principio la Santa Sede parla con tutti perché non ha e non vuole avere nemici. Certamente è difficile parlare con chi uccide prima di aprire la bocca. Certo, se si potesse con le parole far rinsavire i terroristi, sarebbe molto bello. Ma dubito che sia possibile. Dobbiamo privilegiare il dialogo con l’islam moderato e anche con le componenti islamiche che pur avendo una visione piuttosto rigida della propria fede rifuggono però dall’uso della violenza”.
Cari amici, è giunta l’ora di assumerci la responsabilità storica di agire da protagonisti per affrancarci dall’ideologia suicida del relativismo che affligge l’Occidente e dall’ideologia omicida del nichilismo che arma l’estremismo islamico, per affermare con coraggio e difendere con tutti i mezzi la Civiltà della Fede e Ragione. Andiamo avanti insieme sul cammino della Verità, Vita, Libertà e Pace, per un’Italia, un’Europa e un mondo della conoscenza oggettiva e della comunicazione responsabile, della sacralità della vita e della dignità della persona, dei diritti e doveri e della libertà di scelta, del bene comune e dell’interesse collettivo, promuovendo un Movimento di riforma etica dell’informazione, della società, dell’economia, della cultura e della politica. Con i miei migliori auguri di sempre nuovi traguardi, successi e ogni bene.
Magdi Cristiano Allam


In India la colpa dei cristiani è di battersi contro la schiavitù, di Sandro Magister
La schiavitù è quella delle caste. Contro la quale i cristiani predicano e praticano l'uguale dignità di tutti. Il professor Parsi analizza i motivi del crescendo delle violenze induiste. E mette in guardia dalle sue ripercussioni sull'ordine mondiale


ROMA, 29 agosto 2008 – Le 25 mila scuole cattoliche dell'India hanno chiuso stamane i battenti per l'intera giornata. Per la prima domenica di settembre la Chiesa cattolica indiana ha indetto una giornata di preghiera e di digiuno, con cortei pacifici in tutto il paese.

Il motivo è la nuova ondata di violenza che ha colpito i cristiani nello stato dell'Orissa. Ogni giorno si ha notizia di uccisioni, di ferimenti, di stupri, di assalti a chiese, conventi, scuole, orfanotrofi, villaggi, ad opera di induisti fanatici. Migliaia di persone hanno dovuto abbandonare le loro case e fuggire nelle foreste.

La scintilla di questa ultima esplosione di violenza è stata l'uccisione, il 23 agosto, del leader religioso indù Swami Laxmanananda Saraswati e di cinque suoi seguaci, uccisione compiuta da gruppi armati maoisti ma usata dagli induisti come pretesto per incolpare i cristiani e vendicarsi su di essi.

L'epicentro delle ultime violenze è il distretto di Kandhamal, nello stato dell'Orissa. Questo stato è da parecchi mesi il più insanguinato. Qui i cattolici sono pochi, meno dell'1 per cento. Sono poche anche le conversioni, anch'esse prese come pretesto di vendetta. Ciò che scatena le violenze – sostiene Raphael Cheenath, arcivescovo di Chuttack-Bhubaneswar, nel cui territorio si trova il distretto di Kandhamal – è l’opera di promozione che nell'Orissa i cristiani compiono a favore dei tribali e dei dalit, gli ultimi nella scala delle caste:

"Prima erano come schiavi. Adesso una parte di loro studiano nelle nostre scuole, mettono in moto attività nei villaggi, rivendicano i propri diritti. E chi – anche nell’India del boom economico – vuole mantenere intatta la vecchia divisione in caste, ha paura che acquistino troppa forza. L’Orissa di oggi è un laboratorio. In gioco c’è il futuro dei milioni di dalit e tribali che vivono in tutto il paese".

Stando all'ultimo censimento, quello del 2001, l'80,5 per cento degli abitanti dell'India sono di religione induista, mentre i musulmani sono il 13,4 per cento. I cristiani sono il 2,3 per cento. E nell'Orissa sono ancora meno, così come negli altri stati del centro e del nord del paese, i più fittamente popolati. Le percentuali più alte di cristiani sono negli stati dell'estremo est del paese, con punte dell'90 per cento nel Nagaland e nel Mizoram, del 70 per cento nel Meghalaya, del 34 per cento nel Manipur. Ma si tratta di regioni scarsamente popolate e molto arretrate. In cifre assolute, i cristiani hanno le presenze più consistenti nel meridione del paese, a Goa, nel Tamil Nadu, nel Kerala. In quest'ultimo stato i cristiani sono il 19 per cento e per la gran parte sono cattolici. Qui l'istruzione, anche femminile, vanta i livelli più alti di tutta l'india.

I fatti degli ultimi giorni confermano che la convivenza tra cristiani e induisti in India non è più così pacifica e armonica come la tradizione – e il mito – di questo paese farebbe pensare. Crescono l'intolleranza e il fanatismo induisti e aumentano gli atti di violenza contro i cristiani. Nel silenzio e nel disinteresse del mondo.

I motivi di questa evoluzione e i pericoli di questa sottovalutazione sono acutamente analizzati da Vittorio E. Parsi, professore di politica internazionale all'Università Cattolica di Milano, in questo editoriale pubblicato il 27 agosto su "Avvenire", il quotidiano della conferenza episcopale italiana:


Contraddizioni e fanatismi svuotano l'eredità di Gandhi, di Vittorio E. Parsi
La più grande democrazia del mondo. È questa la definizione che viene normalmente associata all’India. Sarebbe oggi ingeneroso e comunque sbagliato dimenticarla, o metterla radicalmente in discussione. E però appare doveroso interrogarsi sulla qualità di questa democrazia e sulla direzione che essa sta prendendo.

Nell’Unione indiana vige la separazione dei poteri, l’indipendenza della funzione giudiziaria, un pluripartitismo non di facciata e la stampa è libera. Allo stesso tempo, però, la corruzione diffusissima e la conduzione spesso mafioso-clientelare della vita politica in singoli stati, unite alla sostanziale impunità di cui godono le azioni violente delle formazioni estremiste, rischiano di svuotare il significato concreto della democrazia indiana.

In particolar modo, desta allarme il crescere della violenza settaria, che prende di mira in particolar modo i cristiani – responsabili di assistere i dalit, i fuori casta, vera base schiavistica del sistema piramidale sul quale è tradizionalmente organizzata la società indù – ma anche musulmani e buddisti.

Ciò che sta avvenendo in India con frequenza e intensità preoccupanti mostra il lato oscuro della medaglia della conquista di un’indipendenza illuminata dall’azione non violenta del Mahatma Gandhi, nella cui stessa parabola esistenziale, con la sua tragica conclusione, è racchiuso simbolicamnte il carico di contraddizioni di questo straordinario paese: dalla riscoperta della cultura tradizionale e dell’economia di villaggio, fino alla scelta di vivere come l’ultimo degli ultimi, al tentativo di preservare l’unità e la pluralità religiosa dell’antico Raji britannico, alla morte violenta per mano di un estremista indù.

A distanza di oltre sessant’anni dall’indipendenza, oggi sono proprio le posizioni che vorrebbero un’India solo ed esclusivamente indù a fare sempre più proseliti. Movimenti come la Rashtriya Swayamsevak Sangh sono espressione di una cultura nazistoide, che predica con la violenza la falsa equazione tra indiani e indù, nonostante il fatto che vivano in India più musulmani che in gran parte dei paesi islamici. Certo, l’egemonia indù all’interno del sistema politico indiano è sempre esistita, ma essa era stata in qualche modo depotenziata dal fatto che i primi protagonisti della vita repubblicana, da Nehru a Indira Gandhi, tutti espressione del Partito del Congresso, si muovevano all’interno di una visione sostanzialmente laica della politica, e finivano quindi col congelare le conseguenze più devastanti di tale contraddizione.

È probabile che questo odierno ghignante "spirito del tempo" in cui i fondamentalismi e l’abuso politico della religione sembrano risorgere, oltre alla deriva radicale intrapresa dal vicino Pakistan, abbiano contribuito ad alimentare il successo di movimenti come la Rashtriya Swayamsevak Sangh e di un partito come il Bharatiya Janata. Ma – come giustamente ha osservato il cardinale Jean-Louis Tauran – c’è anche nell’induismo una spinta crescente all’intolleranza e al fanatismo, che è tanto più grave proprio perché troppo poco conosciuta e troppo spesso negata.

Accanto alla contraddizione politica c’è poi quella economica. L’India è "l'ufficio" del mondo, almeno quanto la Cina è la sua "fabbrica". È una società che sforna ingegneri anglofoni a decine di migliaia l’anno, e però vive ancora nel mito gandhiano dell’economia di villaggio, cioè di quella struttura ossificata che sottrae ogni speranza, per questa e ogni altra vita, agli "ultimi" e alimenta il sistema castale con la sua scia di ordinaria violenza. Di offrire speranza agli "ultimi", per questa e ogni altra vita, sono ritenuti responsabili i cristiani. E di questa responsabilità hanno accettato di farsi carico, fino al martirio, come accaduto nell'Orissa.

Un ultimo spunto di riflessione. Il Brasile, la Russia, l' India e la Cina sono considerati, con l’aggiunta del Sudafrica, i grandi paesi che dovrebbero bilanciare lo strapotere occidentale e rendere un po’ più multilaterale il governo del mondo. Occorre iniziare a riflettere sul fatto che, con l’eccezione del Brasile, nessuno di questi paesi sembri avviato a ridurre i pesanti deficit di democrazia interna, e sulle conseguenze che ciò implica per la "governance" internazionale.


Eluana, Regione Lombardia: «L’alimentazione prosegue» - No alla richiesta del padre Il cardinale Lozano Barragan: «Togliere il nutrimento si chiama assassinio». Avvenire, 4 settembre 2008
DA MILANO PAOLO FERRARIO
« L a richiesta da Lei avan­zata non può essere e­saudita ». È arrivata a stretto giro di posta, la risposta uffi­ciale della Regione Lombardia alla diffida dei legali di Beppino Englaro. Dieci giorni fa, l’avvocato Vittorio Angiolini aveva inviato al Pirellone una lettera in cui chiedeva di indi­care la struttura sanitaria regionale dove eseguire la sentenza della Cor­te d’Appello di Milano: sospendere l’idratazione e l’alimentazione ad E­luana. Contro la sentenza, è bene ri­cordarlo, la Procura generale mila­nese ha presentato ricorso in Cassa­zione, sollecitando la stessa Corte d’appello a sospendere l’esecuzione del decreto.
Ieri, il direttore generale della Sanità della Regione Lombardia, Carlo Luc­china, ha dunque risposto a Beppi­no Englaro, dicendo, in buona so­stanza, che «il personale sanitario non può sospendere l’idratazione e l’alimentazione artificiale del pa­ziente, perchè verrebbe meno ai suoi obblighi professionali e di servizio». Di più. Lucchina ha ricordato al pa­dre e tutore di Eluana, da sedici an­ni in stato vegetativo, che la richie­sta non può essere accolta «in quan­to le strutture sanitarie sono depu­tate alla presa in carico diagnostico­assistenziale dei pazienti». «In tali strutture, hospice compresi – si leg­ge nella lettera di Lucchina – deve i- noltre essere garantita l’assistenza di base che si sostanzia nella nutrizio­ne, idratazione e accudimento delle persone».
Nella lettera viene inoltre sottoli­neato come negli hospice (143 in tut­ta Italia, 48 soltanto in Lombardia), possano essere accolti solo malati in fase terminale. Ed Eluana non è in queste condizioni.
Infine, Lucchina ha ribadito che «il personale sanitario che procedesse, in una delle strutture del Servizio sa­nitario, alla sospensione dell’idrata­zione e alimentazione artificiale, ver­rebbe dunque meno ai propri ob­blighi professionali e di servizio». E questo «anche in considerazione del fatto che il provvedimento giurisdi­zionale, di cui si chiede l’esecuzione, non contiene un obbligo formale di adempiere a carico di soggetti o en­ti individuati». Le «sei ragioni» su cui si fonda la let­tera di Lucchina, sono state quindi esposte dallo stesso assessore regio­nale alla Sanità, Luciano Bresciani. Sottolineando il senso di «massima pietas per i familiari», l’assessore ha ribadito che «la nostra è una deci­sione tecnica, condivisa in un se­condo momento anche dalla politi­ca, supportata da considerazioni che non ci lasciavano alternativa». «Co­me facciamo a dire a un medico di sospendere l’alimentazione?», si è chiesto Bresciani. Interrogativo ri­lanciato dal presidente dell’Ordine dei medici di Milano, Roberto Anza­lone: «Capiamo la famiglia Englaro, ma un medico non può sopprimere nessuno. Per noi è inaccettabile la ri­chiesta di lasciar morire Eluana».
Contrario alla sospensione dell’ali­mentazione di Eluana si è dichiara­to anche il presidente del Pontificio Consiglio per la Pastorale della Sa­lute, cardinale Javier Lozano Barra­gan: «Togliere l’alimentazione e l’i­dratazione a una persona è farla mo­rire in modo crudelissimo. E questo si chiama assassinio».
Anche per il presidente della Regio­ne Lombardia, Roberto Formigoni, non è possibile «immaginare di so­spendere l’alimentazione, l’idrata­zione e l’assistenza a Eluana come a qualsiasi altro essere umano». Il go­vernatore ha quindi aggiunto: «Ri­tengo che il Parlamento possa af­frontare questi temi nel rispetto del­la dignità della persona, della sua ef­fettiva e certa volontà e del rappor­to di cura che lega il malato al pro­prio medico». Di segno opposto, la reazione della minoranza in Consiglio regionale che, con Ardemia Oriani, del Parti­to democratico, ritiene che la rispo­sta di Lucchina «lascia sola la fami­glia Englaro», «non risolve il proble­ma » e «rischia di ridurre se non an­nullare la possibilità di accogliere E­luana nel suo percorso verso la mor­te naturale in una struttura sanita­ria della Lombardia». La risposta della Regione è stata ac­colta dal padre di Eluana come un «altro ostacolo legale» che, però, non lo farà recedere dal proprio intento. «Ormai – ha aggiunto Beppino En­glaro – è solo una questione legale: c’è un decreto e deve essere esegui­to. Seguiremo tutte le vie legali per­chè ciò avvenga». «Noi andremo fi­no in fondo – ha concluso – perchè è questa la strada che stiamo se­guendo. Ora vedremo dal punto di vista legale come superare quest’al­tro ostacolo». Sul piano pratico, invece, la famiglia, come ha ricordato la curatrice spe­ciale di Eluana, l’avvocato Franca A­lessio, sta «già prendendo contatti con altre Regioni, tra cui la Tosca­na », alla ricerca di una struttura che accolga la giovane donna. Afferma­zione che, però, ha colto di sorpre­sa l’assessore toscano alla Sanità, Enrico Rossi: «Nessuno ci ha con­tattato, non sappiamo nulla».


Il giurista/Sandulli - Il Pirellone è nel giusto: decreto senza destinatario, Avvenire, 4 settembre 2008
Prima il ricorso della Procura sulla sentenza della Corte d’Appello di Milano, che non avrebbe accertato con obiettività né l’irreversibilità dello stato vegetativo di Elauna né le sue esplicite vo­lontà. Ora il «cortocircuito» giuridico evi­denziato dalla Regione Lombardia: cioè che la stessa sentenza non contiene un obbli­go formale per nessun soggetto o ente in­dividuato di adempiere all’interruzione del­l’alimentazione e idratazione di Elauna. «E sono solo due aspetti – precisa Piero San­dulli, ordinario di diritto processuale civile all’Università di Teramo – di un iter pro­cessuale del tutto anomalo».

Professore, perché usa questo termine?
Innanzitutto perché mi sembra assurdo, sul piano giuridico, che sia stata avanzata una richiesta di questo tipo alla Regione Lom­bardia quando la sentenza su Eluana è 'fer­ma' visto il ricorso presentato alla Cassa­zione. Se la sentenza (che è una sentenza di morte, quindi irreversibile) fosse esegui­ta e la Cassazione accogliesse dopo il ricorso, chi l’avesse messa in atto incorrerebbe in una condanna penale.
E poi?
E poi perché, come giustamente sottolineato dalla stessa Regione, sotto il profilo coercitivo non esiste un destinatario del provvedi­mento. In una sentenza di natura esecutiva c’è sempre il destina­tario dell’ordine da eseguire: per esempio, quando viene emesso decreto ingiuntivo o una sentenza di condanna, c’è un debitore che deve pagare. Qui invece non c’è un’individuazione esatta del sog­getto che deve eseguire. C’è la possibilità, in via astratta, che il tu­tore trovi il modo di porre fine a questa esistenza nel modo in cui meglio crede. Ma c’è di più ancora.
Prego.
Fin dall’inizio questo procedimento che non ha avuto, dal punto di vista processuale, i requisiti per rispondere a una questione co­sì importante.
In che senso?
Si è trattato di un procedimento di volontaria giurisidizione, quel­lo che solitamente viene istruito per nominare un tutore o un am­ministratore di sostegno. Ebbene, in questo tipo di procedura non c’è necessità di contenzioso: nel processo infatti abbiamo visto il tutore di Eluana da una parte, l’avvocato di Eluana (che era sulle stesse posizioni del tutore) e come controparte solo la Procura. Ec­co il motivo di tante carenze anche sotto il profilo istruttorio: la re­versibilità o meno dello stato vegetativo, le volontà accertate o me­no della ragazza. E pensare che in gioco c’è la vita di una persona...
Viviana Daloiso