giovedì 18 settembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Bilancio di Benedetto XVI sul recente viaggio in Francia - Nell'Udienza generale del mercoledì
2) I tribunali islamici già al lavoro - La Gran Bretagna riconosce ufficialmente la legge islamica. Cinque tribunali - a Londra, Birmingham, Bradford e Manchester - già si occupano di cause civili secondo le regole della sharia...- Il Giornale n. 37 del 2008-09-15 pagina 12
3) La Cassazione smentisce i giudici del caso Eluana Englaro - Afferma il prof. Alberto Gambino, Ordinario di Diritto civile
4) CRISI FINANZIARIA/ 1. Un errore culturale alla base del crollo del sistema - Oscar Giannino – IlSussidiario.net giovedì 18 settembre 2008
5) CRISI FINANZIARIA/ 2. Il profitto fine a se stesso ha affondato la finanza - Giulio Sapelli – IlSussidiario.net - giovedì 18 settembre 2008
6) ALITALIA/ Ecco i dati reali su esuberi, ricavi futuri e passeggeri trasportati - Ugo Arrigo – IlSussidiario.net giovedì 18 settembre 2008
7) Il Patriarca di Venezia nel 150° dell'ordinazione sacerdotale di Pio X - Papa Sarto un santo buon pastore - Pubblichiamo ampi stralci dell'omelia pronunciata nel duomo di Castelfranco Veneto dal cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, per il 150° anniversario dell'ordinazione sacerdotale di san Pio X. - di Angelo Scola Patriarca di Venezia
8) CRITICHE AMABILI E CAPZIOSE - MENTE E CUORE NEL «MESTIERE» DI BENEDETTO XVI - FRANCESCO D’AGOSTINO, Avvenire 18 settembre 2008
9) «A noi malati vogliono ritirare la patente di persone» - Mario Melazzini, presidente dell’Associazione italiana Sclerosi laterale amiotrofica (AiSla), malato di Sla, che senso ha il tuo appello «Liberi di vivere» in un mondo dove la libertà sembra ormai un bene acquisito?


Bilancio di Benedetto XVI sul recente viaggio in Francia - Nell'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 17 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo della catechesi tenuta da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale del mercoledì svoltasi nell’Aula Paolo VI, dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sul viaggio apostolico che ha appena compiuto in Francia, in occasione del 150° anniversario delle Apparizioni di Lourdes.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
L’incontro odierno mi offre la gradita opportunità di ripercorrere i vari momenti della visita pastorale che ho compiuto nei giorni scorsi in Francia; visita culminata, come si sa, con il pellegrinaggio a Lourdes, in occasione del 150° anniversario delle apparizioni della Madonna a santa Bernadette. Mentre rendo fervide grazie al Signore che mi ha concesso una così provvidenziale possibilità, esprimo nuovamente viva riconoscenza all’Arcivescovo di Parigi, al Vescovo di Tarbes et Lourdes, ai rispettivi collaboratori e a tutti coloro che in diversi modi hanno cooperato alla buona riuscita del mio pellegrinaggio. Ringrazio cordialmente anche il Presidente della Repubblica e le altre Autorità che mi hanno accolto con tanta cortesia.
La visita è iniziata a Parigi, dove ho incontrato idealmente l’intero popolo francese, rendendo così omaggio a un’amata Nazione nella quale la Chiesa, già dal II secolo, ha svolto un fondamentale ruolo civilizzatore. E’ interessante che proprio in tale contesto sia maturata l’esigenza di una sana distinzione tra la sfera politica e quella religiosa, secondo il celebre detto di Gesù: "Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" (Mc 12,17). Se sulle monete romane era impressa l’effige di Cesare e per questo a lui esse andavano rese, nel cuore dell’uomo c’è però l’impronta del Creatore, unico Signore della nostra vita. Autentica laicità non è pertanto prescindere dalla dimensione spirituale, ma riconoscere che proprio questa, radicalmente, è garante della nostra libertà e dell’autonomia delle realtà terrene, grazie ai dettami della Sapienza creatrice che la coscienza umana sa accogliere ed attuare.
In questa prospettiva si colloca l’ampia riflessione sul tema: "Le origini della teologia occidentale e le radici della cultura europea", che ho sviluppato nell’incontro con il mondo della cultura, in un luogo scelto per la sua valenza simbolica. Si tratta del Collège des Bernardins, che il compianto Cardinale Jean-Marie Lustiger volle valorizzare quale centro di dialogo culturale, un edificio del XII secolo, costruito per i cistercensi, dove i giovani hanno fatto i loro studi. Quindi c’è proprio la presenza di questa teologia monastica che ha dato anche origine alla nostra cultura occidentale. Punto di partenza del mio discorso è stata una riflessione sul monachesimo, il cui scopo era di ricercare Dio, quaerere Deum. Nell’epoca di crisi profonda della civiltà antica, i monaci, orientati dalla luce della fede, scelsero la via maestra: la via dell’ascolto della Parola di Dio. Essi furono pertanto i grandi cultori delle Sacre Scritture e i monasteri divennero scuole di sapienza e scuole "dominici servitii", "del servizio del Signore", come li chiamava san Benedetto. La ricerca di Dio portava così i monaci, per natura sua, ad una cultura della parola. Quaerere Deum, cercare Dio, lo cercavano sulla scia della sua Parola e dovevano quindi conoscere sempre più in profondità questa Parola. Bisognava penetrare nel segreto della lingua, comprenderla nella sua struttura. Per la ricerca di Dio, rivelatosi a noi nelle Sacre Scritture, diventavano in tal modo importanti le scienze profane, volte ad approfondire i segreti delle lingue. Si sviluppava di conseguenza nei monasteri quella eruditio che avrebbe consentito il formarsi della cultura. Proprio per questo, quaerere Deum - cercare Dio, essere in cammino verso Dio, resta oggi come ieri la via maestra ed il fondamento di ogni vera cultura.
Della ricerca di Dio è espressione artistica anche l’architettura, e non c’è dubbio che la cattedrale di Notre-Dame a Parigi ne costituisca un esempio di valore universale. All’interno di quel magnifico tempio, dove ho avuto la gioia di presiedere la celebrazione dei Vespri della Beata Vergine Maria, ho esortato i sacerdoti, i diaconi, i religiosi, le religiose e i seminaristi venuti da ogni parte della Francia, a dare priorità al religioso ascolto della divina Parola, guardando alla Vergine Maria come a sublime modello. Sul sagrato di Notre-Dame ho salutato poi i giovani, accorsi numerosi ed entusiasti. A loro, che stavano per iniziare una lunga veglia di preghiera, ho consegnato due tesori della fede cristiana: lo Spirito Santo e la Croce. Lo Spirito apre l’intelligenza umana ad orizzonti che la superano e le fa comprendere la bellezza e la verità dell’amore di Dio rivelato proprio nella Croce. Un amore da cui nulla mai potrà separarci, e che si sperimenta donando la propria vita sull’esempio di Cristo. Poi una breve sosta all’Institut de France, sede delle cinque Accademie nazionali: essendo io membro di una delle Accademie, ho visto qui con grande gioia i miei colleghi. E poi la mia visita è culminata nella Celebrazione eucaristica sull’Esplanade des Invalides. Riecheggiando le parole dell’apostolo Paolo ai Corinzi, ho invitato i fedeli di Parigi e della Francia intera a ricercare il Dio vivente, che ci ha mostrato il suo vero volto in Gesù presente nell’Eucaristia, spingendoci ad amare i nostri fratelli così come Lui ha amato noi.
Mi sono poi recato a Lourdes, dove ho potuto subito unirmi a migliaia di fedeli nel "Cammino del Giubileo", che ripercorre i luoghi della vita di santa Bernadette: la chiesa parrocchiale col fonte battesimale dove è stata battezzata; il "Cachot" dove visse da bambina in grande povertà; la Grotta di Massabielle, dove la Vergine le apparve per ben 18 volte. Alla sera ho partecipato alla tradizionale Processione aux flambeaux, stupenda manifestazione di fede in Dio e di devozione alla sua e nostra Madre. Lourdes è veramente un luogo di luce, di preghiera, di speranza e di conversione, fondate sulla roccia dell’amore di Dio, che ha avuto la sua rivelazione culminante nella Croce gloriosa di Cristo.
Per una felice coincidenza, domenica scorsa la liturgia ricordava l’Esaltazione della Santa Croce, segno di speranza per eccellenza, perché è testimonianza massima dell’amore. A Lourdes, alla scuola di Maria, prima e perfetta discepola del Crocifisso, i pellegrini imparano a considerare le croci della propria vita proprio alla luce della Croce gloriosa di Cristo. Apparendo a Bernadette, nella grotta di Massabielle, il primo gesto che fece Maria fu appunto il Segno della Croce, in silenzio e senza parole. E Bernadette la imitò facendo a sua volta il Segno della Croce, pur con mano tremante. E così la Madonna ha dato una prima iniziazione nell’essenza del cristianesimo: il Segno della Croce è la somma della nostra fede, e facendolo con cuore attento entriamo nel pieno mistero della nostra salvezza. In quel gesto della Madonna c’è tutto il messaggio di Lourdes! Dio ci ha tanto amato da dare se stesso per noi: questo è il messaggio della Croce, "mistero di morte e di gloria". La Croce ci ricorda che non esiste vero amore senza sofferenza, non c’è dono della vita senza dolore. Molti apprendono tale verità a Lourdes, che è una scuola di fede e di speranza, perché è anche scuola di carità e di servizio ai fratelli. E’ in questo contesto di fede e di preghiera che si è tenuto l’importante incontro con l’Episcopato francese: è stato un momento di intensa comunione spirituale, in cui abbiamo insieme affidato alla Vergine le comuni attese e preoccupazioni pastorali.
Tappa successiva è stata poi la processione eucaristica con migliaia di fedeli, tra cui, come sempre, tanti ammalati. Dinanzi al Santissimo Sacramento, la nostra comunione spirituale con Maria s’è fatta ancor più intensa e profonda perché Lei ci dona occhi e cuore capaci di contemplare il suo Divin Figlio nella santa Eucaristia. Era commovente il silenzio di queste migliaia di persone davanti al Signore; un silenzio non vuoto, ma pieno di preghiera e di coscienza della presenza del Signore, che ci ha amato fino a salire sulla croce per noi. La giornata di lunedì 15 settembre, memoria liturgica della Beata Vergine Maria Addolorata, è stata infine dedicata in modo speciale ai malati. Dopo una breve visita alla Cappella dell’Ospedale, ove Bernardette ricevette la Prima Comunione, sul sagrato della Basilica del Rosario ho presieduto la celebrazione della Santa Messa, durante la quale ho amministrato il sacramento dell’Unzione degli infermi. Con i malati e con quanti li accudiscono, ho voluto meditare sulle lacrime di Maria versate sotto la Croce, e sul suo sorriso, che illumina il mattino di Pasqua.
Cari fratelli e sorelle, ringraziamo insieme il Signore per questo viaggio apostolico ricco di tanti doni spirituali. In particolare, rendiamo a Lui lode perché, Maria, apparendo a santa Bernadette, ha aperto nel mondo uno spazio privilegiato per incontrare l’amore divino che guarisce e salva. A Lourdes, la Vergine Santa invita tutti a considerare la terra come luogo del nostro pellegrinaggio verso la patria definitiva, che è il Cielo. In realtà tutti siamo pellegrini, abbiamo bisogno della Madre che ci guida; e a Lourdes, il suo sorriso ci invita ad andare avanti con grande fiducia nella consapevolezza che Dio è buono, Dio è amore.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto gli Abati e le Abbadesse dell’Ordine Cistercense e le Suore Ospedaliere della Misericordia, che sono venuti, in occasione delle rispettive Assemblee capitolari, a rinnovare al Successore di Pietro i loro sentimenti di affetto e di profonda comunione ecclesiale.
Saluto poi i fedeli della parrocchia di San Pio X, in Grottaferrata e i rappresentanti del Centro diurno "Lo Zainetto", di Ovada.
Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati, e agli sposi novelli. Cari giovani, l’amicizia con Gesù sia per voi fonte di gioia e motivo ispiratore di ogni vostra scelta impegnativa. Cari malati, attingete dalla preghiera conforto e serenità nei momenti della sofferenza e della prova. Cari sposi novelli, il costante contatto con il Signore vi sia di sprone a corrispondere alla vostra vocazione familiare.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]




I tribunali islamici già al lavoro - La Gran Bretagna riconosce ufficialmente la legge islamica. Cinque tribunali - a Londra, Birmingham, Bradford e Manchester - già si occupano di cause civili secondo le regole della sharia...- Il Giornale n. 37 del 2008-09-15 pagina 12
La Gran Bretagna riconosce ufficialmente la legge islamica. Cinque tribunali - a Londra, Birmingham, Bradford e Manchester - già si occupano di cause civili secondo le regole della sharia. Altri stanno per nascere a Edimburgo e Glasgow. I loro giudizi sono già oggi validi e applicabili con tutta l’autorità del sistema giudiziario. A rivelare la notizia è stato ieri il Sunday Times secondo cui i giudici islamici hanno cominciato a emettere sentenze dall'agosto del 2007, occupandosi di circa un centinaio di casi tra cittadini musulmani, da dispute tra vicini a separazioni. Le corti hanno anche affrontato - lavorando di concerto con la polizia - sei casi di violenza domestica.
A permettere l’introduzione della legge islamica in Gran Bretagna è una norma inglese del 1996 che regolamenta i cosiddetti tribunali d'arbitrato, quelli in cui le parti, di comune accordo, decidono di affidare la soluzione di una controversia a un terzo, il cosiddetto arbitro. «Ci siamo accorti dell'esistenza di una clausola che prevede l'applicabilità dei giudizi d'arbitrato da parte del tribunale di contea o dell'alta corte - ha spiegato al Sunday Times lo sceicco Faiz-ul-Aqtab Siddiqi che coordina le corti islamiche -. La disposizione consente la risoluzione di alcune dispute attraverso i tribunali alternativi. Esattamente quello che i tribunali della sharia sono per i musulmani». Un ragionamento difficile da contrastare anche perché in questo caso verrebbe meno il diritto d'esistenza dei tribunali d'arbitrato ebraici che in Gran Bretagna operano da più di cent'anni. Come quelli islamici questi ultimi si occupano di cause civili: dispute finanziarie, eredità, divorzi, tutti i casi in cui le due parti chiedono entrambe un giudizio «alternativo» a quello comune. La scoperta che le corti musulmane hanno potere legale nel Paese arriva soltanto qualche mese dopo le controverse dichiarazioni dell'arcivescovo di Canterbury e del presidente della corte suprema Lord Phillips. Entrambi avevano sottolineato l'inevitabilità di un futuro ruolo della sharia nel sistema giuridico inglese. «Dopotutto non facciamo altro che regolare i piccoli problemi della comunità», ha spiegato Siddiqi, ma politici e leader religiosi non la vedono allo stesso modo e temono il progressivo formarsi di «un sistema legale parallelo» basato sulla sharia. La preoccupazione maggiore riguarda il trattamento riservato alle donne. Si teme che coloro che accettano di venire sottoposti alla sharia ricevano un trattamento sfavorevole rispetto a quello che spetterebbe loro secondo la legge inglese. Del resto è già accaduto. In almeno un caso di eredità la maggioranza dei beni è stata data ai figli maschi anziché venir equamente divisa. E nei casi di violenza domestica i giudici hanno ordinato ai mariti di seguire dei corsi di controllo della rabbia senza ulteriori sanzioni. Alla fine, le vittime hanno sempre ritirato le accuse e la polizia ha archiviato ogni inchiesta. Per l'opposizione si tratta di decisioni assolutamente non accoglibili dal sistema giuridico inglese. «Vorrei sapere quali corti stanno applicando le norme islamiche perché considero quest'azione illegittima», ha commentato il ministro ombra degli interni Dominic Grieve. «La legge britannica è assoluta e così deve rimanere».
di Erica Orsini
Il Giornale n. 37 del 2008-09-15 pagina 12


La Cassazione smentisce i giudici del caso Eluana Englaro - Afferma il prof. Alberto Gambino, Ordinario di Diritto civile
ROMA, mercoledì 17 settembre 2008 (ZENIT.org).- La sentenza della Corte di Cassazione sulla vicenda del testimone di Geova, che si è visto rigettato il ricorso relativo ad un caso di rifiuto di trattamento (trasfusione) per motivi religiosi sembra in aperta contraddizione con il precedente orientamento relativo al caso di Eluana Englaro.
Abbiamo chiesto un commento al prof. Alberto Gambino, Ordinario di Diritto privato all'Università Europea di Roma.
Cosa dice esattamente questa nuova decisione della Corte di Cassazione?
Prof. Alberto Gambino: La sentenza n. 23676 del 15 settembre 2008 afferma che il dissenso alla cura deve essere attuale ed espresso dal paziente in modo inequivoco ed informato.
Cosa significa questo rispetto al caso Eluana?
Prof. Alberto Gambino: Significa che ci troviamo davanti ad un orientamento differente, peraltro in armonia con le decisioni precedenti al caso Englaro. Non basta un generico dissenso ad un trattamento espresso in condizioni di piena salute, ma occorre riaffermarlo puntualmente in una situazione di pericolo di vita.
Si è detto che anche qui c'è però un richiamo alla possibilità di delegare il consenso.
Prof. Alberto Gambino: Sì è vero, la Corte ritiene che, oltre al paziente, il dissenso possa essere espresso da un altro soggetto da lui stesso indicato quale rappresentante ad acta, che in tale veste avrebbe il potere di confermare il dissenso all'esito dell'informazione da parte dei medici.
Dunque c'è qui una somiglianza con il caso Englaro...
Prof. Alberto Gambino: No, le due vicende divergono, riferendosi la decisione relativa al caso del testimone di Geova alla necessità che al rifiuto si accompagni un' indicazione esplicita circa il rappresentante, mentre nel caso Englaro il rifiuto, ricavato anche da presunzioni e testimonianze, è attuato da un rappresentante-tutore nominato dai giudici. Certamente la previsione di un rappresentante è problematica anche perché è la stessa sentenza a indicare i limiti per la legittimità di un dissenso al trattamento.
In che senso?
Prof. Alberto Gambino: Nel senso che è la Cassazione stessa ad affermare che la validità di un consenso preventivo ad un trattamento sanitario è esclusa in assenza della doverosa, completa, analitica informazione sul trattamento stesso, e, d'altro canto, l'efficacia di uno speculare dissenso 'ex ante', privo di qualsiasi informazione medico terapeutica "deve ritenersi altrettanto impredicabile - sono espressioni della Cassazione - sia in astratto che in concreto, qualora il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo pienamente''. Il che mi pare difficilmente conciliabile con la precedente previsione del rappresentante ad acta.
E' in grado questa sentenza di incidere sul caso Eluana?
Prof. Alberto Gambino: Da un punto di vista giurisdizionale certamente no, perché questa sentenza di Cassazione si riferisce ad un'altra vicenda, mentre per il caso Englaro rimane intatta l'impostazione data dai giudici del caso, che è riassumibile nell'aver introdotto per sentenza la figura del testamento biologico presunto, che opera come esimente del reato di omicidio.
Nessun riflesso neanche sul ricorso della procura contro il decreto di autorizzazione del distacco del sondino della Corte d'appello di Milano?
Prof. Alberto Gambino: Il ricorso chiede alla Cassazione di verificare che la Corte d'Appello di Milano abbia applicato correttamente i pur inaccettabili principi già definiti dalla Cassazione del caso Eluana, valutando che nel caso vi sia irreversibilità della condizione vegetativa del paziente e attendibilità della ricostruzione per presunzioni della sua volontà. E dalle notizie che giungono sembra che sia soprattutto il tema dell'irreversibilità dello stato vegetativo ad essere al centro del ricorso della Procura. Certamente però la sentenza del caso del testimone di Geova apre un conflitto di orientamento con il caso Englaro e si ricolloca nel solco dei precedenti orientamenti della Cassazione.
Con quali conseguenze?
Prof. Alberto Gambino: Ci sarebbe davvero di che riflettere se il decreto di sospensione del sostentamento della Englaro fosse attuato in forza di un orientamento giurisprudenziale del tutto minoritario e sporadico, trattandosi di una questione relativa alla vita e alla morte di un essere umano.


CRISI FINANZIARIA/ 1. Un errore culturale alla base del crollo del sistema - Oscar Giannino – IlSussidiario.net giovedì 18 settembre 2008
Il Tesoro americano aveva detto non più tardi di tre giorni prima, che i denari del contribuente non sarebbero stati posti che a garanzia di banche commerciali a rischio, per evitare effetti sui depositi e crisi sistemiche di fiducia. Per questo Paulson e Bernanke non avevano aperto i paracadute a Lehman Brothers. Eppure la fermezza è durata appunto solo 72 ore, perché di nuovo al denaro del contribuente si ricorre, per 85 miliardi di dollari, al fine di evitare il fallimento di AIG, che non è una banca commerciale ma “era” la prima compagnia d’assicurazione al mondo. È per evitare il panico di milioni di assicurati che sarebbero rimasti scoperti nelle polizze per cui avevano pagato i premi? No. Come nel caso di Bear Stearns, “salvata” dalle autorità governative pilotandola verso JpMorgan, anche per AIG il problema è quello di evitare una crisi a catena dei rischi di controparte: non nella clientela retail e d’impresa, ma nella comunità finanziaria. AIG ha piazzato ad altri intermediari finanziari in tutto il mondo, pare per almeno 500 miliardi di dollari a stare almeno ai 5 downgrading di rating che AIG ha subito nei mesi scorsi dalle maggiori agenzie di merito di credito internazionale, garanzie non solo a fronte di cartolarizzazioni immobiliari ad alto rischio d’insolvenza – il che ci riporta 16 mesi indietro all’inizio della crisi, quella dei mutui subprime – ma soprattutto sui Credit Default Swaps. Questi, da prodotto “collaterale” inizialmente almeno in parte legato al comparto assicurativo (e riassicurativo), si sono tradotti negli anni in un maxi mercato speculativo non regolamentato sulle probabilità di fallimento di imprese, con una stima di valore nozionale che secondo la BRI ammontava qualche mese fa ad almeno 68mila miliardi di dollari. Inutile dire che le speranze di chi credeva che l’ennesimo salvataggio pubblico potesse restituire fiducia al mercato si sono rivelate infondate, come in tutti i casi precedenti.
Siamo arrivati a circa 500 miliardi di dollari di pulizie di bilancio operate da grandi banche in un anno. Le stime del Fondo Monetario Internazionale parlano di altri 500 miliardi. Quelle ufficiose e riservate, parlano di circa 6 mila miliardi di dollari di prodotti strutturati derivati: come si vede, il mercato ha tutti gli elementi per non fidarsi. Se due grandi nomi del pantheon mondiale delle banche d’affari sono spariti, Lehman e Merril Lynch, nel Regno Unito HBOS si salva solo perché rilevata dai Lloyds, a Mosca il governo versa 44 miliardi di dollari a favore delle maggiori banche a picco sui listini, e il tutto avviene mentre l’Europa è tecnicamente in recessione dal mare del Nord al Mediterraneo, mentre il dollaro torna a scendere per effetto dei salvataggi pubblici e della sfiducia, e con l’avvaloramento dell’euro e la rigida politica dei tassi d’interesse della Bce la morsa si stringe intorno al nostro collo.
Avevamo ragione noi minoritari, ad ammonire da un paio d’anni a questa parte che era un intero modello di “fare finanza”, ad avviarsi all’Armageddon. Aveva ragione chi, come Giulio Tremonti, tra i frizzi e i lazzi iniziali di molti accademici e banchieri metteva in guardia sull’approssimarsi di una crisi epocale non “del” capitalismo, ma di “un certo” capitalismo. Ad arrivare a un rovinoso capolinea è l’intermediazione ad alta leva finanziaria e a bassa congruità di patrimonio di riserva. È l’errore al quale spalancò la porta la decisione americana, una quindicina d’anni fa, di equiparare alle banche commerciali le banche d’affari, senza allinearle però a una disciplina del patrimonio di vigilanza altrettanto rigorosa, e proporzionata agli impieghi accesi. Per effetto di quella svolta negativa, e della foresta pietrificata di una giungla di regolatori americani privi della visione d’insieme del mercato e assolutamente “captive” rispetto alla grande finanza speculativa, centinaia e centinaia di miliardi di dollari di profitti sono sempre più venuti, a quel modello di intermediazione finanziaria, approfittando dell’asimmetria informativa ai danni del mercato: impacchettando quantità crescenti di prodotti collateralizzati il cui rischio di controparte restava escluso dal proprio recinto patrimoniale, e ai quali, dopo il crollo dei subprime, il mercato non è stato più in grado di dare un valore credibile.
Siamo ben lontani dalla grande operazione di pulizia imposta dai danni di quel modello di finanza. In termini tecnici, è la finanza che ha considerato di poco conto il core tier1 bancario, il patrimonio di base costituito dalla somma dei capitali versati, dalle riserve, fondi rischi, emissioni obbligazionarie senza diritto di voto, titoli perpetui con facoltà di rimborso dopo dieci anni, le cui cedole possono essere sospese senza provocare un default, il tutto ponderato in base al rischio: la vera misura della forza finanziaria di qualunque banca o intermediario. E che giocavano invece soprattutto sul tier2 e tier3, traslando i rischi patrimoniali fuori dal proprio bilancio.
È a questo modello, che occorre apporre una vera e propria lapide tombale. Non significa affatto dire addio ai prodotti e elle tecniche sofisticate della finanza. Ma bisogna tornare a banchieri per cui il core tier1 è il più rigoroso dei propri indici di riferimento: in altre parole, a un modello di “fare banca” e “fare finanza” che sia molto più rigoroso rispetto alla quantificazione del rischio, e assai meno avido rispetto ai proventi da “finanza attraverso finanza”. Un sistema nel quale nel 2007 – anno già per due terzi di crisi – i banchieri di Lehman Brothers, Merril Lynch e Morgan Stanley si sono attribuiti da soli oltre 25 miliardi di bonus, stock options e stock grants, si commenta da solo.
E aiuta a capirne il collasso finale.
C’è un ultimo punto, che poi è il primo, per chi la pensa come noi. Il banchiere meno avido e più avverso al rischio per il rischio, il banchiere capace di esaminare progetti industriali e di valutarne il merito di credito prima di scontare solo i miliardi che si possono realizzare piazzando derivati che ticchettano come bombe a tempo, è il banchiere per il quale l’intermediazione finanziaria è centrata sull’uomo e sulla persona, sull’impresa come ambito di espressione del suo talento e come strumento di benessere e di vita degna per il maggior numero, sul giusto ritorno del capitale che non sconta a lungo tassi a doppia cifra senza sconfinare nell’azzardo puro e rovinoso. È il banchiere al servizio dell’uomo, quello che bisogna tornare a scoprire, rispetto all’uomo e al denaro al servizio del banchiere, di cui questa crisi è il doloroso epilogo ancora purtroppo tutto da scrivere.


CRISI FINANZIARIA/ 2. Il profitto fine a se stesso ha affondato la finanza - Giulio Sapelli – IlSussidiario.net - giovedì 18 settembre 2008
La crisi incorso ha due essenziali aspetti: il primo è quello di una crisi per scarsità di offerta di beni strumentali, di materie prime, di cosiddette commodities: abbiamo avuto alle nostre spalle anni di scarsi investimenti industriali e di alti investimenti finanziari a breve. Questo enorme trasferimento di ricchezza dall'industria alla finanza, con rendimenti a breve, ha generato una colossale bolla dei valori azionari che non poteva che sgonfiarsi allorché le prime avvisaglie del rallentamento della crescita negli USA e quindi dei cosiddetti “paesi emergenti” si dovevano far sentire per l'inevitabile ciclicità della crescita economica.
L’inflazione è divampata per scarsità di offerta e crescita della domanda. Il secondo aspetto è stato ed è quello del fallimento delle regole di controllo interno delle cattedrali bancarie. La devastazione è potente.
La radice di essa risiede nella caduta verticale dell’elemento donativo esistente un tempo nella direzione manageriale. Si lavorava per l'impresa e non per ricevere un premio in denaro commisurato ai valori azionari anziché agli obbiettivi di lungo termine. La vulgata prevalente, secondo la quale gli esseri umani hanno solo comportamenti egoistici e sono orientati solo dall’interesse materiale, ebbe fini devastanti. Il fine dell’impresa non era più crescere e dare occupati, fare dei bei prodotti, offrire dei buoni servizi alle persone e, per questo, fare profitti. Doveva, invece, essere quello del profitto tout court: dare dividendi agli azionisti grazie all’aumento del valore delle azioni. Come ottenere ciò? Semplice. Nominando tutti proprietari, anche i manager.
Tutti correvano, quindi, a comprare azioni. Generazioni di consulenti e di manager, che non si chiamavano più dirigenti, non si formavano più con l'etica della fedeltà al lavoro e all’impresa, ma nel culto dell’arricchimento rapido e immediato. Le azioni salivano anche per loro. Con tutti i metodi possibili. Ci sono dei debiti? Essi appesantiscono i bilanci? È difficile esigerli e ricondurre quindi i conti alla loro naturale veridicità che appesantisce i risultati e fa cadere il corso azionario? Ebbene, vi è una soluzione. Si vendono i debiti a società che s’incaricano di esigerli, oppure li vendono a loro volta. Si creano strumenti finanziari che non sono rischiosi per coloro che li acquistano: sono nati per coprire i rischi da debito e da investimento; ma essi si rivelano pericolosi allorché i tassi mutano di segno e rischiano allora, quegli stessi strumenti, di provocare una perdita per coloro che li hanno acquistati. L’etica degli affari, che s’impara sul campo grazie all’esempio di dirigenti virtuosi e che nessun breve master insegna, dovrebbe imporre di non vendere più questi strumenti finanziari, così come dovrebbe imporre di non far sottoscrivere mutui non pagabili perché non si hanno garanzie da impegnare. Ma se non li faccio sottoscrivere o se non si vendono più quei prodotti, i miei indicatori di premio scendono, le mie stock options diminuiscono di valore perché il titolo scende.
Che fare? Vendere, continuare a vendere, far sottoscrivere, continuare a far sottoscrivere. Purché funzioni la cosiddetta leva finanziaria. Realizzo gli affari con forte indebitamento e le azioni salgono alle stelle e così le mie stock options ch’io stesso, manager o gruppo di manager, mi sono assegnato. Viene poi l’ora della verità: i creditori e i debitori, in ultima istanza, non riescono a rendere solvibili i loro beni e le loro attese, i valori borsistici e immobiliari crollano, i titoli azionari si divaricano dai valori fondamentali produttivi: ecco la crisi finanziaria che vede fallire cattedrali della circolazione monetaria. Il re è nudo. La strage degli innocenti è compiuta. Le ceneri cadono sui campi. I corpi si seppelliscono. Si ricomincia: ma si deve cambiare.


ALITALIA/ Ecco i dati reali su esuberi, ricavi futuri e passeggeri trasportati - Ugo Arrigo – IlSussidiario.net giovedì 18 settembre 2008
Poiché nulla di nuovo è emerso nella giornata di ieri sul caso Alitalia possiamo permetterci di fare una pausa e riflettere sul “metodo” col quale Governo, altre parti in causa, media e opinione pubblica hanno affrontato il tema nel complicato dibattito che si è svolto.
Tre difetti possono essere identificati, i quali hanno allontanato la discussione dai corretti binari di un confronto tra opinioni, che, legittimamente differenziate, avrebbero dovuto tuttavia basarsi su informazioni accertate e coerenti: le preferenze preconcette (tanto delle parti in causa quanto di una buona fetta di comuni cittadini), l’assenza di approfondimento da parte dei media (i quali si sono limitati ad inondare i lettori con le infinite dichiarazioni delle parti, senza adempiere al loro dovere di cercare di accertare in maniera adeguata i fatti); i numeri che ballano (e che continuano ad essere incoerenti tra di loro).
Le preferenze preconcette delle parti
Quando si hanno preferenze preconcette tendiamo, di fronte a fatti che smentiscono le nostre opinioni, a modificare i fatti (nascondendoli o travisandoli) anziché a mutare le nostre opinioni. Se, ad esempio, preferiamo essere fumatori anziché non fumatori tenderemo a minimizzare le notizie relative alla pericolosità del fumo. Questa tendenza, finalizzata a ridurre la dissonanza cognitiva prodotta dallo scarto tra informazione attesa e informazione reale, può essere innocua se non siamo noi chiamati a decidere (ad esempio è innocua la nostra preferenza preconcetta per un attaccante della squadra del cuore se non siamo noi l’allenatore che deve decidere se schierarlo in campo), ma può portare a scelte non razionali nell’ipotesi contraria.
Nel caso specifico la preferenza preconcetta di elettori del centrodestra per la soluzione CAI o di elettori di centrosinistra per la vecchia proposta Air France, quale emerge da molti interventi sul web, non produce alcun esito problematico. Profonda differenza si ha, invece, se ad avere preferenze preconcette sono i decisori pubblici, perché in tale ipotesi il rischio di scelte errate (che non ricadono su di loro ma sui cittadini/contribuenti/utenti dei servizi) è molto elevato.
Proviamo a fare un passo indietro: autunno 2006, crisi Alitalia. Il governo Prodi compie una scelta molto coraggiosa e opportuna: decide di porre in vendita l’azienda. Sul come farlo, tuttavia, inciampa prima in una preferenza preconcetta per lo status quo e pubblica un bando nel quale l’aspirante compratore avrebbe dovuto sottostare a una tale quantità di vincoli che solo con un prezzo negativo elevato (il Tesoro che paga l’acquirente affinché si porti via Alitalia) si sarebbe forse potuto trovare qualcuno.
Fallito il primo tentativo, dimostra nel secondo (fine 2007, inizio 2008) una “simpatia” elevata per la soluzione francese e prosegue con Air France trattative esclusive, estromettendo Intesa-AirOne, mentre era assai più opportuno mantenere in gioco entrambi i contendenti cercando di spremere dallo loro competizione le condizioni migliori per il venditore.
Anno nuovo, governo nuovo, stessa crisi Alitalia: Intesa, su mandato del governo, mette miracolosamente in piedi (ma forse sarebbe meglio dire in volo) la cordata CAI e il governo si innamora pazzamente di questa soluzione (come si sa l’innamoramento è il caso più forte di preferenza preconcetta: un innamorato non può prendere in considerazione soluzioni alternative). Il risultato è che il governo nega la possibilità di qualsiasi altra soluzione rispetto alla proposta CAI e pure la possibilità che essa, essendo già perfetta, possa essere modificata e migliorata.
Anno nuovo, governo nuovo, stessa crisi Alitalia, stesse preferenze preconcette, stessi rischi per i contribuenti. Il governo, contento per la proposta CAI, non si è accorto che Intesa, l’advisor che aveva incaricato per l’operazione, ha colto la possibilità che le era stata data nella nomina ed è divenuto advisor della cordata compratrice e azionista essa stessa, senza peraltro smettere di essere advisor del venditore. Che faremmo noi se il perito che, a titolo di amicizia, ci ha stimato la casa che vogliamo vendere ora è divenuto consulente del compratore? Semplice: faremmo controllare la sua perizia da un altro perito che non sia in relazione con nessuna delle parti in causa. Cosa avrebbe dovuto fare il governo, che invece non ha fatto? Sottoporre il piano CAI-Intesa a un advisor indipendente per verificare, al di là della (assolutamente legittima) “simpatia” per la soluzione italiana, se sta in piedi oppure no.
Ci ritroviamo invece con quasi tutti i Ministri che ci ripetono più volte al giorno che il piano è ottimo, il migliore dei piani possibili e bisogna adottarlo al più presto altrimenti Alitalia fallirà, 20mila famiglie finiranno sul lastrico e i turisti non si affacceranno più nel Bel Paese. Ovviamente, poiché nessuno di essi ha mai gestito sinora con successo una grande compagnia aerea (e neppure i banchieri di Intesa) la somma delle loro dichiarazioni non riesce a rassicurarci (come avrebbe invece potuto farlo il parere di un advisor indipendente, esperto dell’industria del trasporto aereo).
L’Italia è una Repubblica fondata sulle dichiarazioni? (Ovvero come hanno fatto i media a dirci così poco in così tante parole?)
Si è molto discusso, a seguito delle dichiarazioni del regista Nanni Moretti, se in Italia vi sia ancora un’opinione pubblica. L’opinione pubblica necessita tuttavia, al fine di formulare valutazioni, di essere adeguatamente informata sui fatti. Solo sulla base di fatti, accertati come veri o falsi, è possibile costruire valutazioni, basate su argomentazioni razionali, e porle a confronto (poiché difficilmente saranno convergenti sin dall’inizio). Verificare e falsificare i fatti, quelli economici in particolare, è compito degli esperti e dei mezzi di comunicazione di massa, non dei comuni cittadini che non dispongono delle competenze per farlo in prima persona.
Nel caso Alitalia i media hanno fallito in questo compito: non hanno posto le domande giuste ai protagonisti e non hanno verificato/falsificato le risposte (con l’aiuto degli esperti per le domande/risposte più complesse); in cambio hanno inondato i lettori con le dichiarazioni quotidiane di tutti i protagonisti del dibattito (politici di governo e opposizione, imprenditori e manager della cordata, sindacalisti). In tal modo quanto più i giornali riportavano, tanto meno i lettori capivano.
Una piccola dimostrazione. Se si digita su Google News la parola Alitalia vengono fuori nell’ultimo mese circa 32mila citazioni di notizie, articoli, note di agenzie. In queste 32mila notizie tutti i protagonisti del dibattito sono molto citati: Berlusconi in 11.500 di esse, Sacconi in 6.000 , Colaninno 5.400, Sabelli 1.800, Bonanni 1.700, Matteoli 1.600, Passera 1.500, Epifani 1.200, Angeletti 1.000, Veltroni 900.
Ancor più interessante è verificare in quante news compaiono le parole chiave del dibattito: “trattativa” in 4.200, “ esuberi” 3.300, “ piano industriale” 2.600. Si tratta di numeri elevati ma, se si passa a verificare i termini in grado di identificare se nelle news vi è stato un approfondimento, i valori calano drasticamente; alcuni esempi: “hub” 570, “rotte” 560, “strategia” 410, “collegamenti” 400, “slot” 250, per arrivare in ultimo alle sole 10 volte (10 notizie su 32mila complessive) di “quanto costa” per la collettività il piano della nuova Alitalia.
I media sono evidentemente molto interessati al salvataggio e all’italianità di Alitalia, ma non ad approfondire quanto costano e a farlo sapere ai cittadini/lettori (sui quali l’onere ricade).
La danza dei numeri e i quesiti che non sono ancora stati posti
Se i media non sono interessati ad approfondire i numeri e a indagare su eventuali loro incoerenze per farle conoscere ai lettori che pagano (per leggere i giornali, ma anche per salvare la compagnia di bandiera) non stupisce che i numeri continuino a essere ballerini e che nel grande affaire di Alitalia anche la matematica sia divenuta un’opinione come tutte le altre. Un esempio per tutti: 22.500 occupati delle due aziende (Alitalia e AirOne) meno 12.500 dipendenti della nuova Alitalia in versione CAI uguale 3.000 esuberi. L’aritmetica avrebbe detto 10.000, ma la politica purtroppo non la usa.
Nella realtà i 3.000 o 3.250 “esuberi” sono gli attuali occupati di Alitalia che non troveranno posto nella nuova azienda ma per i quali entrerà in campo un ampio sistema di protezione per la durata di sette anni; non sono invece considerati “esuberi ” circa 3.500 lavoratori già ora a tempo determinato, e quindi precari, e per i quali questo sistema di protezione non ci sarà. In sostanza penalizzati prima, bastonati dopo e senza neppure la considerazione di essere rilevati in una statistica. Infine i residui 3.000 circa che sono al momento nel limbo: non verranno presi dalla nuova azienda e la loro sorte è legata al fatto di svolgere servizi, quali la manutenzione pesante, che potranno essere acquistati dalla nuova Alitalia ma a prezzi molto inferiori a quelli attuali e se d’interesse per il vettore (i numerosi addetti alla manutenzione dei vecchi aerei MD80, destinati a uscire rapidamente dalla flotta, non sono forse esuberi?).
Sarebbe più corretto dire che il salvataggio di Alitalia avverrà al costo di 10.000 occupati diretti in meno, ma questo i media non lo fanno, ingannando l’opinione pubblica. In più vi saranno i minori occupati nell’indotto, tra i fornitori di beni e servizi, ma in questo caso non ci si è neppure preoccupati di fare delle stime.
Si perviene infine al crocevia di tutti i problemi: i dati chiave del piano industriale. Se sono ballerini i numeri sugli esuberi e persino sugli occupati attuali di Alitalia, dati oggettivi e facilmente accertabili (quante buste paga sono state emesse a fine agosto?) figuriamoci i dati del piano industriale, prospettici e non storici, frutto di previsioni e non di misurazioni oggettive. Di essi è stato pubblicato molto poco ma quel poco basta a preoccuparci.
L’unico dato stabile è il numero di aerei che tutti i media indicano in 136-137 nel primo anno del piano, destinati a risalire sino oltre i 150 negli anni successivi. Poiché gli aerei di Alitalia più AirOne nel 2007 erano oltre 240, la riduzione è consistente e supera il 40%. Anche ipotizzando un incremento non trascurabile di efficienza, con un aumento significativo del fatturato medio per velivolo, ci si attende comunque una riduzione molto elevata del fatturato complessivo che non trova tuttavia corrispondenza nel piano industriale. I media riportano un valore di 4,3 miliardi di euro, destinato a crescere negli anni successivi sino a 5,2 miliardi, mentre il dato aggregato di Alitalia e AirOne era nel 2007 di 4,9 miliardi. In sostanza mentre nel 2007 un aereo delle due compagnie procurava in media 20 milioni di euro di ricavi, già nel primo anno di attività della nuova Alitalia ne porterebbe a casa ben 31 milioni (il 56% in più). Un risultato strabiliante, non c’è che dire, per degli imprenditori che non si sono mai occupati in precedenza di trasporto aereo.
Si arriva infine al numero dei passeggeri: 31,5 milioni tra Alitalia e AirOne nel 2007 trasportati da oltre 240 velivoli; quanti potranno essere trasportati dalla nuova società nel 2009 con soli 137 aerei? La mia previsione è che non possano superare i 22 milioni e anche se tutti i voli viaggiassero con tutti i sedili occupati non si potrebbe andare oltre i 26 milioni. I media sostengono invece che il piano industriale prevede 28 milioni di passeggeri, destinati a salire sino a 30. Ma con 28 milioni di passeggeri la produttività degli aeromobili sarebbe di 20 mila viaggiatori annui per velivolo mentre nelle vecchie compagnie era (nel 2007) solo di 130mila passeggeri.
Poiché anche in questo caso l’aumento di produttività risulterebbe strabiliante (+58%), qualche chiarimento da parte di CAI su questi numeri sarebbe opportuno. Così se siamo noi a non aver capito possiamo metterci il cuore in pace, mentre se è CAI a dover aggiustare qualche numero nel piano d’impresa può farlo in tempo.


Il Patriarca di Venezia nel 150° dell'ordinazione sacerdotale di Pio X - Papa Sarto un santo buon pastore - Pubblichiamo ampi stralci dell'omelia pronunciata nel duomo di Castelfranco Veneto dal cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, per il 150° anniversario dell'ordinazione sacerdotale di san Pio X. - di Angelo Scola Patriarca di Venezia
(...) La diocesi di Treviso e, attraverso di essa, le Chiese del Nord Est rappresentate dal Patriarca, intende venerare la grande figura di san Pio X. Rivive in questo gesto quello compiuto 100 anni fa dal beato vescovo Andrea Giacinto Longhin e ripreso dal beato Giovanni XXIII nel 1958. Anche oggi, 150 anni dopo l'ordinazione sacerdotale dell'esimio sacerdote, vescovo e Papa, noi siamo qui convenuti mossi dalla sua santità. Sono passati molti anni ma la figura di Papa Sarto continua a parlarci, a chiamarci in causa, a pro-vocarci. I santi sono sempre attuali. Così san Pio X ancor oggi ci muove e ci commuove proprio perché la sorgente della sua carità pastorale sta nel primato di Dio come supremo inter-esse della propria vita ("... non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio", Prima lettera ai Tessalonicesi 2, 4). Interesse: "essere tra", Dio diventa la ragione adeguata di ogni rapporto.
Il grande Agostino, a commento della triplice domanda/consegna di Gesù a Pietro, narrata dall'indimenticabile brano del Vangelo di Giovanni, scrive: "Se mi ami, non pensare a pascere te stesso, ma pasci le mie pecore come mie, non come tue; cerca in esse la mia gloria, non la tua; il mio dominio, non il tuo" (Agostino, In Evangelium Joannes Tractatus 123, 5). Così fece il pastore Giuseppe Sarto lungo tutto l'arco del suo ministero ordinato.
Se Dio è ciò che mi inter-essa allora il nesso intrinseco tra l'annuncio del Vangelo ed il dono totale di sé ("non solo il Vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita", Prima lettera ai Tessalonicesi 2, 8) diventa per l'uomo l'esaltante strada della riuscita, della santità. Ed il Pastore, quale fu san Pio X, diventa Padre. (L'identificazione tra Pastore e Padre è un tema costante nel magistero di Giovanni XXIII).
Nella sua poliedrica azione pastorale il Sarto praticò alla lettera le virtù del Buon Pastore. "Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte" (Prima Lettura, Ezechiele 34, 16). Questa analitica descrizione del pastore, che passa in rassegna le sue pecore una a una avendo per ciascuna una cura particolare, ci dice che Dio ama ogni singolo. L'amore, infatti, è sempre personale; si rivolge non a una massa anonima, ma alla persona che è unica ed irripetibile. Il paradigma di questo amore personale che Gesù ci rivela nella sua radicalità ("il Buon Pastore offre la vita per le sue pecore") è l'amore che il Padre ha da sempre per ogni sua creatura. E noi, che siamo amati in questo personalissimo modo dal Padre, facciamo eco a questo amore nella nostra esistenza quotidiana?
Rinnoviamo quindi ora i nostri cuori, carissimi, a partire dall'azione liturgica per la quale Cristo ci ha qui convocati. In san Pio X infatti l'essere padre, pastore e maestro si fonda nell'eucaristia, autentico fulcro dell'azione pastorale e magisteriale. Nell'azione eucaristica, infatti, il sacerdote in persona Christi ripropone il sacrificio del Buon Pastore, che si offrì "al suo divin Padre per noi, sacerdote e vittima al tempo istesso" (Patriarca Giuseppe Sarto, Atti del xix Congresso Eucaristico Nazionale, Venezia 1897, 402).
Con profonda sapienza cristologia il Patriarca Sarto approfondisce - con una formula che gli è cara - il "miracolo dell'Eucaristia": "Nell'Eucaristia Gesù discende per annientarsi; l'immensità si restringe, la possanza si limita, la grandezza si abbassa, la gloria si eclissa (...) perché se Gesù Cristo in tutti gli altri misteri della sua vita mortale, benché umiliato, ritenne qualche prerogativa dell'esser divino, nell'eucaristia tutto è esinanito fino alla sua umanità velata sotto il simbolo del sacramento" (dalla Pastorale del 14 dicembre 1899, in G. Sarto, Le Pastorali del periodo veneziano [1899-1903], a cura di A. Niero, Quaderni della Fondazione Giuseppe Sarto 3, Spinea 1991, 62-64).
Da qui, nella progressiva e paziente immedesimazione del discepolo col Maestro, viene la santità di ogni cristiano. In particolare la norma ascetica di ogni pastore potrebbe essere riassunta in quella semplice ma radicale di Giovanni Battista: "Egli deve crescere ed io diminuire" (Giovanni 3, 30). San Pio X l'ha custodita e praticata fin dagli albori della sua vita sacerdotale.
(...) Nell'Enciclica scritta in occasione del 50° della proclamazione del dogma dell'Immacolata Concezione, in tempi non meno difficili del nostro, Papa Sarto invita tutti i fedeli alla speranza certa che il disegno buono del Padre, di cui la Santa Vergine è la primizia, non ci abbandonerà mai. ""L'arcobaleno sarà nelle nuvole e nel vederlo io mi ricorderò del patto eterno. E non ci sarà più diluvio per ingoiare la carne del mondo". Non c'è dubbio che, se noi ci affidiamo come conviene a Maria, noi sentiremo che Ella è sempre quella Vergine potentissima "che col suo virgineo piede ha schiacciato la testa del serpente"" (Pio X, Ad diem illum laetissimum, 2 febbraio 1904). La speranza cristiana diviene in Maria totalmente affidabile. Affidarsi a Maria per giungere a Gesù è la strada per vincere il male. Anzitutto in noi e poi anche fuori di noi.
Con questo atteggiamento realistico il cristiano deve stare nella realtà abbracciandola tutta intera con umile positività. Le questioni scottanti che agitano la nostra società post-secolare, la verità dell'amore, del matrimonio e della famiglia, la vita dal concepimento fino al suo termine naturale, la giustizia, la pace, la fame, la miseria, le strabilianti scoperte scientifiche, la custodia della terra, i problemi dell'immigrazione e quelli della giusta istanza di sicurezza debbono incontrare un cristiano protagonista non perché teso all'affermazione di sé, e tantomeno a quella della Chiesa, ma perché, abbandonandosi all'amore del Buon Pastore, comunica, in modo convincente, il bell'amore. Infatti Cristo ci ha amati per primo e questo ci fa testimoni, umili ma coraggiosi e tenaci. A tutti i nostri fratelli uomini, nessuno escluso, noi offriamo l'intensa esperienza umana che la vita della comunità cristiana ci regala(...)
(©L'Osservatore Romano - 18 settembre 2008)


CRITICHE AMABILI E CAPZIOSE - MENTE E CUORE NEL «MESTIERE» DI BENEDETTO XVI - FRANCESCO D’AGOSTINO, Avvenire 18 settembre 2008
Che la vocazione più autentica del pon­tificato di Benedetto XVI sia quella di toccare le menti prima che i cuori (come è stato autorevolmente osservato da Aldo Schiavone su Repubblica del 15 settembre) può di certo essere un’affermazione condi­visibile, almeno se si considera il fatto che l’uomo Joseph Ratzinger si è formato ed af­fermato come teologo e che nessun impe­gno pastorale, neanche quello di Papa, ha potuto in passato e può oggi alterare que­sto dato costitutivo della sua identità. Ma si deve aggiungere subito che non è possibile toccare davvero le menti degli uomini, se non mirando ai loro cuori: una mente sen­za cuore (o indifferente alle ragioni del cuo­re) è quella di un computer, non quella di un essere umano. Ed è vero anche il reciproco: com’è possibile toccare il cuore di un uo­mo, senza passare attraverso la sua mente? L’amore, anche il più appassionato e fervi­do, per riuscire autentico dev’essere credi­bile ed è alla mente che va affidato questo filtro, questo controllo di credibilità. Un a­more completamente e ottusamente cieco può anche essere toccante, ma è inevitabil­mente carente – a volte anche in modo im­barazzante – di dignità e può al limite esse­re il primo indizio dell’insorgere di una psi­copatologia. Mente e cuore sono quindi due termini che non possono essere disgiunti, a meno di non perdere l’esatta valenza del­l’uno come dell’altro. Analogamente, ha spiegato il Papa nel suo ultimo grande di­scorso francese, 'libertà' è termine che non può essere disgiunto da 'legame'. Solo que­sto nesso salva l’uomo da una parte dall’'ar­bitrio soggettivo', che esalta unicamente la libertà, e dall’altra dal 'fanatismo fonda­mentalista', che legge il rapporto tra Dio e gli uomini essenzialmente attraverso la ca­tegoria del vincolo, della legge o appunto del 'legame'.
In questa riflessione Benedetto XVI ha an­cora una volta riaffermato la perfetta coin­cidenza tra l’insegnamento cristiano (che chiama l’uomo a ubbidire a Dio e a ricono­scere il legame che a Lui lo unisce, come creatura al suo Creatore) e quello della filo­sofia classica, che, da Socrate ed Aristotele a Kant e Rosmini, ha sempre insistito sul fat­to che l’autonomia morale dell’uomo è o­rientata non all’esaudimento dei desideri soggettivi della persona, ma alla realizza­zione del bene umano oggettivo. Ed è pro­prio qui, osserva Schiavone, che per un lai­co sorgono le difficoltà: come determinare in concreto questo bene umano oggettivo? Perché la Chiesa non prende atto che la li­bertà opera sul piano della storia e oggi es­sa impone che l’uomo si emancipi dalla sua naturalità e costruisca liberamente se stes­so?
A una simile domanda non si può offrire senza rischi di banalizzazione una risposta sintetica. Ma un’osservazione è possibile e doveroso farla, a partire da quella sintesi tra mente e cuore da cui abbiamo preso le mos­se. In questa sintesi, infatti, si condensa o­gni esigenza di storicità: se infatti la mente può ben ragionare 'in astratto' (cioè al di fuori della storia, come nel caso esemplare del pensiero matematico), il cuore non può che vivere nel concreto dell’esperienza quo­tidiana, e quindi storica, della vita. Nella for­mula usata da Schiavone (emancipazione dalla naturalità e libera costruzione dell’io) si nasconde l’insidia temibile di una 'pro­gettazione' artificiale dell’umano che può sì rispondere alle esigenze di menti alta­mente raffinate, ma che contraddice profon­damente le ragioni del cuore.
Quei precetti ecclesiali (ad esempio sull’in­dissolubilità del matrimonio) su cui Bene­detto XVI è tornato a soffermarsi e che se­condo Schiavone (ma a torto) la Chiesa e­labora riconoscendo loro una 'diretta ori­gine sovrannaturale', cioè dogmaticamen­te, sono invece indicazioni tutt’altro che dogmatiche, perché sono volte a tenere con­giunti mente e cuore: il matrimonio dev’es­sere, ad esempio, una decisione matura e razionale, che solo la mente può elaborare, ma l’unione coniugale e la fedeltà esigono un costante impegno di amore, che solo il cuore è in grado di custodire. Qui non è in gioco l’emancipazione dell’uomo dalla na­tura, ma la comprensione che nella natura umana mente e cuore, anima e corpo si fon­dono e si confondono.

Intervista: «A noi malati vogliono ritirare la patente di persone» - Mario Melazzini, presidente dell’Associazione italiana Sclerosi laterale amiotrofica (AiSla), malato di Sla
Che senso ha il tuo appello «Liberi di vivere» in un mondo dove la libertà sembra ormai un bene acquisito?
«Sono sempre più convinto del fatto che sia necessario, indispensabile, urlarlo il nostro 'Liberi di vivere'. Tocco ogni giorno con mano una realtà, una società, che manda un messaggio culturale molto chiaro: vivere in alcune condizioni, legate a una malattia o a una fragilità, non è conciliabile con una vita degna di essere vissuta. Anzi, ti dico di più: quegli esseri umani, quelle persone malate o fragili, sono costrette a chiedere, quasi debbano essere autorizzate, di poter essere libere di vivere.
Sembra tutto assurdo, ma la realtà dei fatti è questa. Anche se la Costituzione ci tutela perfettamente, anche se mille leggi e trattati ci danno questa libertà, nella vita di tutti i giorni siamo costretti a rimarcare questa necessità.
Dobbiamo chiedere, quasi implorare, di poter essere liberi di vivere».
Spesso il tam tam, anche mediatico, reclama qualcosa d’altro: per esempio la libertà di morire. Il diritto di morire. Come la mettiamo?
«Che la morte non è un diritto: è un fatto. Non esiste il diritto a morire. Io in genere non sono così assolutista, ma su questo argomento sì. La morte è un evento naturale della vita; è la vita che va permessa, difesa, dal primo momento – e cioè dal concepimento – e fino alla morte naturale. E questa non è ideologia o religione: no, è la natura! La natura ci insegna che la vita va tutelata: questo è il vero rispetto. Però succede che ci scontriamo con la realtà. Io disabile voglio essere libero di vivere: ok, certo, siamo tutti d’accordo in teoria. Ma chi mi assiste, chi mi cura, chi mi porta in giro? Non guardate il Melazzini che fa il medico, ha il suo stipendio e in fondo se la cava. Prendiamo un Melazzini a caso, operaio, impiegato, con uno stipendio solo, che si vede stravolta la sua vita ordinaria da una malattia grave. Questo Melazzini deve cominciare a combattere per far sì che sia riconosciuto il suo stato di invalidità, poi per ottenere l’indennità di accompagnamento, poi per la pensione. Il suo diritto diventa un bisogno che va richiesto e non è affatto detto che venga soddisfatto; di sicuro ci vorrà tanto tempo. Un diritto sacrosanto diventa un percorso quotidiano di battaglia».
La Sla (come purtroppo molte altre malattie) comporta una vita da prigionieri del proprio corpo. Ma esiste una vita non degna di essere vissuta?
«Ti rispondo categoricamente: no, assolutamente no. La dignità della vita, di ogni vita, è un carattere ontologico (ontologia significa: ciò che esiste); nessuno, e sottolineo nessuno, può decidere sulla dignità della vita.
L’errore che spesso si commette da sani è rapportare la dignità a un concetto utilitaristico di qualità della vita. Spesso si coniuga il concetto di salute con quello di assenza di malattia e quindi di qualità di vita. Non è così».
Tu dici che «la vita è come una patente a punti»: che vuol dire?
«Che hai la dignità di persona umana se hai tutte le funzioni, tutti i punti. Se cominci a perdere qualche funzione, cominciano a scalarti anche alcuni punti. A un certo momento, se perdi molte funzioni perdi tutti i crediti: non ti resta nulla e ti tolgono la patente di persona. Non sei più degno di vivere, non sei più compatibile con una vita degna.
Sei ancora vivo, ma la tua vita non è degna di essere vissuta».
Indro Montanelli un giorno disse che la dignità finisce quando una persona deve farsi aiutare per andare in bagno...
«Con tutto il rispetto, non è così. Io mi sento assolutamente degno.
Eluana è degna. Anzi, ti dico che col tempo accettare di chiedere e accorgerti che se tu chiedi qualcuno ti aiuta è la cosa più bella di questo mondo. (...) Ho scoperto che è bellissimo chiedere aiuto.
Bisogna solo avere la forza di accettare il nostro limite; poi siamo in grado di affrontare qualsiasi cosa».
Torniamo a Eluana Englaro e proviamo a fare un po’ di chiarezza sul suo caso.
«È tutto molto semplice: quello che i giudici di Milano hanno sentenziato rappresenta un puro caso di legittimazione di una forma di eutanasia. Per me è un omicidio. È una sentenza con forti accenni di pietismo. (...) Eluana ha bisogno solo di mangiare e di bere per vivere, e visto che non riesce a mangiare da sola e in modo tradizionale, viene nutrita artificialmente; è un essere umano che ha bisogno di calore, di essere lavata, accudita, come si fa con i bambini. È disumano far morire di fame e di sete una persona, anche sedandola. È un omicidio fra i più crudeli che possano esserci. Metto in mezzo il mio caso, la mia malattia: anch’io vengo nutrito artificialmente, e allora?».
Rispondo io: tu però capisci, lei probabilmente no...
«Ti replico da medico: gli scienziati non hanno gli strumenti per poter dire cos’è la coscienza.
Non hanno nemmeno gli strumenti che ti permettono di poter dire se il soggetto in questione percepisca, capisca. Sono numerosissimi i casi di malati, di persone, che sono uscite dallo stato vegetativo e hanno raccontato che quando venivano ritenuti vegetali in realtà capivano e percepivano tutto.
Da 16 anni Eluana è in quelle condizioni: perché accanirsi a tenerla in vita a tutti i costi? Ma è vita quella?
«Sì che è vita! E poi intendiamoci: il quadro clinico di Eluana è stabilizzato e non è affatto precario o peggiorativo. La nutrizione e l’idratazione non sono strumenti di accanimento terapeutico».
Massimo Pandolfi