giovedì 25 settembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI: San Paolo e gli Apostoli - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì
2) La proposta di una legge sul “fine vita” - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 24 settembre 2008
3) Libertà religiosa - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 25 settembre 2008
4) Che shock scoprire che il premio di 7.000 euro agli insegnanti è una promessa da onorare nel 2012, tra 5 anni! – Magdi Cristiano Allam
5) 24/09/2008 14:13 - INDIA – EU - La cristianofobia in India e nel Parlamento europeo - Si è votata una risoluzione contro le violenze in Orissa e in altri stati dell’India. Ma intanto deputati verdi, liberali e socialisti boicottano il discorso di Bartolomeo I ai parlamentari.
6) Dalla Russia alla Cina, i tanti dilemmi della diplomazia europea - Roberto Fontolan - giovedì 25 settembre 2008, IlSussidiario.net
7) ALITALIA/ Il Piano Cai non ha futuro dal punto di vista industriale - Ugo Arrigo - giovedì 25 settembre 2008
8) CRISI FINANZIARIA/ Nascondere i buchi di bilancio delle banche non servirà a lungo - Marco Cobianchi - giovedì 25 settembre 2008 - IlSussidiario.net
9) SOCIETA' LIQUIDA/ Donati: la vera libertà ha bisogno di una direzione - INT. Pierpaolo Donati - giovedì 25 settembre 2008
10) TESTAMENTO BIOLOGICO/ Dal Cardinal Bagnasco nessuna "svolta" - Alberto Gambino - giovedì 25 settembre 2008 – IlSussidiario.net
11) LO SGUARDO DI SONJA…, di Antonio Socci, Libero, 21 settembre 2008
12) 25 settembre 2008 - I laicisti trionfano - Il Cav. e il cardinale devono ricordarsi che dopo il testamento biologico arriverà pure l’eutansia, Dal Foglio.it
13) CAPIRE LA VERA POSTA IN GIOCO - IL TESTAMENTO C’È GIÀ: ORA BISOGNA ARGINARE E CAMBIARE - FRANCESCO D’AGOSTINO, Avvenire, 25 settembre 2008
14) LA VICENDA DI DON CANIO MERITA ALMENO UN ATTIMO DI RIFLESSIONE - Un film può fare male se è un servizio alla demenza - DAVIDE RONDONI, Avvenire 25 aprile 2008
15) BIOETICA E SOCIETÀ - -l’intervista - -Il cardinale: del tutto fuorviante interpretare le parole della prolusione di Bagnasco come se potessero rappresentare un cambiamento su questo punto. È vero esattamente il contrario: l’apertura a una nuova norma ha il solo scopo di evitare un tale cambiamento - Ruini: Cei sempre dalla parte della vita. E la linea non cambia, Avvenire, 25 settembre 2008


Benedetto XVI: San Paolo e gli Apostoli - Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 24 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo della catechesi tenuta da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale del mercoledì svoltasi nell’Aula Paolo VI, dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, riprendendo il ciclo di catechesi sulla figura di San Paolo, il Santo Padre si è soffermato sui suoi rapporti con gli Apostoli.

* * *
Cari fratelli e sorelle,
vorrei oggi parlare sulla relazione tra san Paolo e gli Apostoli che lo avevano preceduto nella sequela di Gesù. Questi rapporti furono sempre segnati da profondo rispetto e da quella franchezza che a Paolo derivava dalla difesa della verità del Vangelo. Anche se egli era, in pratica, contemporaneo di Gesù di Nazareth, non ebbe mai l’opportunità d'incontrarlo, durante la sua vita pubblica. Per questo, dopo la folgorazione sulla strada di Damasco, avvertì il bisogno di consultare i primi discepoli del Maestro, che erano stati scelti da Lui perché ne portassero il Vangelo sino ai confini del mondo.
Nella Lettera ai Galati Paolo stila un importante resoconto sui contatti intrattenuti con alcuni dei Dodici: anzitutto con Pietro che era stato scelto come Kephas, la parola aramaica che significa roccia, su cui si stava edificando la Chiesa (cfr Gal 1,18), con Giacomo, "il fratello del Signore" (cfr Gal 1,19), e con Giovanni (cfr Gal 2,9): Paolo non esita a riconoscerli come "le colonne" della Chiesa. Particolarmente significativo è l'incontro con Cefa (Pietro), verificatosi a Gerusalemme: Paolo rimase presso di lui 15 giorni per "consultarlo" (cfr Gal 1,19), ossia per essere informato sulla vita terrena del Risorto, che lo aveva "ghermito" sulla strada di Damasco e gli stava cambiando, in modo radicale, l'esistenza: da persecutore nei confronti della Chiesa di Dio era diventato evangelizzatore di quella fede nel Messia crocifisso e Figlio di Dio, che in passato aveva cercato di distruggere (cfr Gal 1,23).
Quale genere di informazioni Paolo ebbe su Gesù Cristo nei tre anni che succedettero all’incontro di Damasco? Nella prima Lettera ai Corinzi possiamo notare due brani, che Paolo ha conosciuto a Gerusalemme, e che erano stati già formulati come elementi centrali della tradizione cristiana, tradizione costitutiva. Egli li trasmette verbalmente, così come li ha ricevuti, con una formula molto solenne: "Vi trasmetto quanto anch’io ho ricevuto". Insiste cioè sulla fedeltà a quanto egli stesso ha ricevuto e che fedelmente trasmette ai nuovi cristiani. Sono elementi costitutivi e concernono l’Eucaristia e la Risurrezione; si tratta di brani già formulati negli anni trenta. Arriviamo così alla morte, sepoltura nel cuore della terra e alla risurrezione di Gesù. (cfr 1 Cor 15,3-4). Prendiamo l’uno e l’altro: le parole di Gesù nell’Ultima Cena (cfr 1 Cor 11,23-25) sono realmente per Paolo centro della vita della Chiesa: la Chiesa si edifica a partire da questo centro, diventando così se stessa. Oltre questo centro eucaristico, nel quale nasce sempre di nuovo la Chiesa - anche per tutta la teologia di San Paolo, per tutto il suo pensiero - queste parole hanno avuto un notevole impatto sulla relazione personale di Paolo con Gesù. Da una parte attestano che l'Eucaristia illumina la maledizione della croce, rendendola benedizione (Gal 3,13-14), e dall'altra spiegano la portata della stessa morte e risurrezione di Gesù. Nelle sue Lettere il "per voi" dell’istituzione eucaristica diventa il "per me" (Gal 2,20), personalizzando, sapendo che in quel «voi» lui stesso era conosciuto e amato da Gesù e dell'altra parte "per tutti" (2 Cor 5,14): questo «per voi» diventa «per me» e «per la Chiesa (Ef 5, 25)», ossia anche «per tutti» del sacrificio espiatorio della croce (cfr Rm 3,25). Dalla e nell'Eucaristia la Chiesa si edifica e si riconosce quale "Corpo di Cristo" (1 Cor 12,27), alimentato ogni giorno dalla potenza dello Spirito del Risorto.
L'altro testo, sulla Risurrezione, ci trasmette di nuovo la stessa formula di fedeltà. Scrive San Paolo: "Vi ho trasmesso dunque, anzitutto quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici" (1 Cor 15,3-5). Anche in questa tradizione trasmessa a Paolo torna quel "per i nostri peccati", che pone l'accento sul dono che Gesù ha fatto di sé al Padre, per liberarci dai peccati e dalla morte. Da questo dono di sé, Paolo trarrà le espressioni più coinvolgenti e affascinanti del nostro rapporto con Cristo: "Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio" (2 Cor 5,21); "Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà" (2 Cor 8,9). Vale la pena ricordare il commento col quale l’allora monaco agostiniano, Martin Lutero, accompagnava queste espressioni paradossali di Paolo: "Questo è il grandioso mistero della grazia divina verso i peccatori: che con un mirabile scambio i nostri peccati non sono più nostri, ma di Cristo, e la giustizia di Cristo non è più di Cristo, ma nostra" (Commento ai Salmi del 1513-1515). E così siamo salvati.
Nell’originale kerygma (annuncio), trasmesso di bocca in bocca, merita di essere segnalato l'uso del verbo "è risuscitato", invece del "fu risuscitato" che sarebbe stato più logico utilizzare, in continuità con "morì... e fu sepolto". La forma verbale «è risuscitato» è scelta per sottolineare che la risurrezione di Cristo incide sino al presente dell'esistenza dei credenti: possiamo tradurlo con "è risuscitato e continua a vivere" nell’Eucaristia e nella Chiesa. Così tutte le Scritture rendono testimonianza della morte e risurrezione di Cristo, perché - come scriverà Ugo di San Vittore - "tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro e quest'unico libro è Cristo, perché tutta la Scrittura parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento" (De arca Noe, 2,8). Se sant'Ambrogio di Milano potrà dire che "nella Scrittura noi leggiamo Cristo", è perché la Chiesa delle origini ha riletto tutte le Scritture d'Israele partendo da e tornando a Cristo.
La scansione delle apparizioni del Risorto a Cefa, ai Dodici, a più di cinquecento fratelli, e a Giacomo si chiude con l’accenno alla personale apparizione, ricevuta da Paolo sulla strada di Damasco: "Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto" (1 Cor 15,8). Poiché egli ha perseguitato la Chiesa di Dio, in questa confessione esprime la sua indegnità nell’essere considerato apostolo, sullo stesso livello di quelli che l’hanno preceduto: ma la grazia di Dio in lui non è stata vana (1 Cor 15,10). Pertanto l’affermarsi prepotente della grazia divina accomuna Paolo ai primi testimoni della risurrezione di Cristo: "Sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto" (1 Cor 15,11). È importante l'identità e l'unicità dell'annuncio del Vangelo: sia loro sia io predichiamo la stessa fede, lo stesso Vangelo di Gesù Cristo morto e risorto che si dona nella Santissima Eucaristia.
L'importanza che egli conferisce alla Tradizione viva della Chiesa, che trasmette alle sue comunità, dimostra quanto sia errata la visione di chi attribuisce a Paolo l’invenzione del cristianesimo: prima di evangelizzare Gesù Cristo, il suo Signore, egli l’ha incontrato sulla strada di Damasco e lo ha frequentato nella Chiesa, osservandone la vita nei Dodici e in coloro che lo hanno seguito per le strade della Galilea. Nelle prossime Catechesi avremo l’opportunità di approfondire i contributi che Paolo ha donato alla Chiesa delle origini; ma la missione ricevuta dal Risorto in ordine all’evangelizzazione dei gentili ha bisogno di essere confermata e garantita da coloro che diedero a lui e a Barnaba la mano destra, in segno di approvazione del loro apostolato e della loro evangelizzazione e di accoglienza nella unica comunione della Chiesa di Cristo (cfr Gal 2,9). Si comprende allora che l'espressione "anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne" (2 Cor 5,16) non significa che la sua esistenza terrena abbia uno scarso rilievo per la nostra maturazione nella fede, bensì che dal momento della sua Risurrezione, cambia il nostro modo di rapportarci con Lui. Egli è, nello stesso tempo, il Figlio di Dio, "nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti", come ricorderà Paolo all'inizio della Lettera ai Romani (1, 3-4).
Quanto più cerchiamo di rintracciare le orme di Gesù di Nazaret per le strade della Galilea, tanto più possiamo comprendere che Egli si è fatto carico della nostra umanità, condividendola in tutto, tranne che nel peccato. La nostra fede non nasce da un mito, né da un’idea, bensì dall’incontro con il Risorto, nella vita della Chiesa.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i giovani dell’Associazione Rondine-Cittadella della Pace, di Arezzo, tra i quali vi sono alcuni provenienti dal Caucaso. Cari amici, auspico che questo vostro incontro contribuisca ad affermare una giusta cultura della convivenza pacifica tra i popoli e a promuovere l’intesa e la riconciliazione. Saluto poi i membri del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, qui convenuti numerosi, come pure gli esponenti dell’Associazione culturale cristiana italo-ucraina. Saluto, inoltre, con affetto i fedeli di Grignasco, accompagnati dal Cardinale Giovanni Lajolo.
Il mio pensiero va infine ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. Cari giovani, siate sempre fedeli all’ideale evangelico, e realizzatelo nelle vostre quotidiane attività. Cari ammalati, vi sia ogni giorno di sostegno nelle vostre pene la grazia del Signore. Ed a voi, cari sposi novelli, rivolgo un paterno benvenuto invitandovi ad aprire l’animo all’amore divino perché vivifichi la vostra esistenza familiare.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


La proposta di una legge sul “fine vita” - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 24 settembre 2008
«Si è imposta così una riflessione nuova da parte del Parlamento nazionale (a motivo della nuova situazione venutasi a determinare in seguito a rischiosi pronunciamenti giurisprudenziali in riferimento alla vicenda di Eluana Englaro) sollecitato a varare, si spera con il concorso più ampio, una legge sul fine vita che - questa l’attesa - riconoscendo valore legale a dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita, dia nello stesso tempo tutte le garanzie sulla presa in carico dell’ammalato, e sul rapporto fiduciario tra lo stesso e il medico, cui è riconosciuto il compito - fuori da gabbie burocratiche - di vagliare i singoli atti concreti e decidere in scienza e coscienza. Dichiarazioni che, in tale logica, non avranno la necessità di specificare alcunché sul piano dell’alimentazione e dell’idratazione, universalmente riconosciuti ormai come trattamenti di sostegno vitale, qualitativamente diversi dalle terapie sanitarie. Una salvaguardia indispensabile, questa, se non si vuole aprire il varco a esiti agghiaccianti anche per altri gruppi di malati non in grado di esprimere deliberatamente ciò che vogliono per se stessi. Quel che in ultima istanza chiede ogni coscienza illuminata, pronta a riflettere al di fuori di logiche traumatizzanti indotte da casi singoli per volgersi al bene concreto generale, è che in questo delicato passaggio - mentre si evitano inutili forme di accanimento terapeutico - non vengano in alcun modo legittimate o favorire forme mascherate di eutanasia, in particolare di abbandono terapeutico, e sia invece esaltato ancora una volta quel favor vitae che a partire dalla Costituzione contraddistingue l’ordinamento italiano. La vita umana è sempre, in ogni caso, un bene inviolabile e indisponibile, che poggia sulla irriducibile dignità di ogni persona (Benedetto XVI, Sydney, 17 luglio 2008), dignità che non viene meno, quali che siano le contingenze o le menomazioni o le infermità che possono colpire nel corso di un’esistenza. Alla luce di questa consapevolezza iscritta nel cuore stesso dell’uomo, e che non è scalfibile da evoluzioni scientifiche o tecnologiche o giuridiche, noi guardiamo con fiducia alle sfide che il Paese ha dinnanzi a sé, sicuri che il nostro popolo - con l’aiuto del Signore - saprà trovare le strade meglio corrispondenti alla sua voglia di futuro e alla sua concreta vocazione» [Angelo Bagnasco, in apertura del Consiglio permanente della Cei, 22 settembre 2008].
Non “testamento biologico” ma una proposta di legge sul “fine vita”
Non c’è nessuna apertura ai testamenti biologici comunemente intesi, idea che riduce la vita a bene patrimoniale per una piena disponibilità della propria e altrui vita o eutanasia attiva o passiva, anche perché un paziente in stato vegetativo non è morto, ha tutta la dignità umana e nessuna volontà espressa da altri o dallo stesso paziente può cambiare questo fatto. Il rifiuto delle cure da parte del paziente non può valere nel caso quelle cure gli salvino la vita: qui prevale sempre il beneficio di beneficità cioè quello secondo cui il medico, “in scienza e coscienza”, deve fare di tutto per salvare la vita del paziente. La questione delle sue volontà entra in gioco quando quei trattamenti sanitari costituiscano accanimento terapeutico, ovvero procurino danni alla sua condizione fisica e psichica o comunque non vi apportino beneficio reale, significativo. E’ questo il discrimine cui dovrà muoversi una legge sul fine vita. Il paziente ha sempre il diritto di ricevere le cure dell’alimentazione e dell’idratazione e questo non può essere materia di dichiarazioni anticipate. Anche qualora ci fosse una dichiarazione preventiva di rinuncia all’alimentazione il medico “in scienza e coscienza” in nessun caso può accoglierla. La legge da elaborare è di assistenza per la fine vita, non certo un provvedimento che si limita a sancire o recepire le dichiarazioni anticipate. La Legge non deve entrare nei dettagli di una casistica infinita, ma lasciare margini di discrezionalità al dialogo tra paziente e medico che non sarà un esecutore passivo, salvaguardando, però sempre, il principio dell’indisponibilità della vita umana che verrebbe meno operando per la morte. Nel caso di una legge che regolamenti il fine vita, come quella cui punta il Parlamento, non deciderebbe sulla morte di nessuno - e come potrebbe? -; piuttosto, nel rispetto delle situazioni particolari se sussistono le condizioni per cui la legittima volontà di non essere curato di un paziente, espressa in precedenza, coincida col fatto che quelle terapie gli arrecano inutili sofferenze. In queste, non rientrano mai cibo e acqua.
“La vita resta un bene indisponibile”
Proprio in forza dei diritti originari, innati di ogni persona come verità, asse del diritto naturale e della concezione stessa dell’umanità ne consegue che non si possa stabilire per legge la facoltà di morire. Questo è possibile solo con una riduzione radicale dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura, come tale non realmente libero e di per sé suscettibile di essere trattato come ogni altro animale. Ma così si ha un autentico capovolgimento del punto di partenza della modernità, dell’illuminismo anche laico, che era una rivendicazione della centralità di ogni uomo e della sua libertà come persona, sempre fine e mai riduttivamente strumento per altri o per altro. Nella medesima linea, l’etica verrebbe ricondotta entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo, con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso. Non è difficile vedere come questo tipo di cultura rappresenti un taglio radicale e profondo non solo con il cristianesimo ma più in generale con le tradizioni religiose e morali dell’umanità. La capacità di scegliere non può quindi riguardare la vita naturale di ogni persona. E nell’intervento del cardinal Bagnasco non ci sono cedimenti perché ribadisce che “la vita umana rimane sempre inviolabile e indisponibile”. Si tratta piuttosto di affrontare come la tecnologia interviene nelle sue modalità e quindi riconoscere l’importanza della volontà della singola persona nello stabilire il modo in cui l’assistenza e la tutela della vita si attuano. Qui si inserisce un discorso rischioso cioè introdurre un elemento di discrezionalità soggettiva nella vita reale. Ma ribadisce che nutrizione e idratazione debbono essere riconosciuti come sostegni vitali. In questo argomentare occorre, però, essere assolutamente contrari ad una legislazione nell’orizzonte della libertà sulla vita. A livello costituzionale - afferma il cardinale - occorre che venga riconosciuta la trascendenza di ogni persona umana e quindi di ogni vita nella sua inviolabilità.
Anche se il compito istituzionale della Chiesa non è di elaborare leggi ma di valutare proposte di legge, di richiamare, per un’etica condivisa, chi è ogni essere umano a fondamento di ogni legge superando la drammatica frattura fra ragione e realtà di ogni io umano per una conoscenza che, per essere vera cioè reale, è sempre un avvenimento perché rimanda all’origine, al Creatore, al carattere trascendente di ogni vita umana: per questo è indisponibile, non è scalfibile da evoluzioni scientifiche o tecnologiche o giuridiche. Così conclude il suo intervento il cardinale Bagnasco: “noi guardiamo con fiducia alle sfide che il Paese ha dinnanzi a sé, sicuri che il nostro popolo - con l’aiuto del Signore - saprà trovare le strade meglio corrispondenti alla sua voglia di futuro e alla sua concreta vocazione”.


Libertà religiosa - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 25 settembre 2008
È sempre più difficile, in un contesto sociale come il nostro, introdurre il tema della libertà religiosa. Stentiamo a difendere parole “cardini” che hanno rappresentato conquiste fondamentali della nostra cultura europea, quali il termine persona cui si lega il valore della dignità assoluta dell’essere umano, per sostituirli con termini più deboli. Come pretendere attenzione per la difesa della libertà religiosa? Il cardinale Bagnasco nella sua Prolusione al Consiglio permanente della CEI, ha osservato che c’è “una derivazione concettuale tra la disinvolta pratica del relativismo, gli eccessi antireligiosi e anticristiani e la regressione culturale ed etica della società”.
Aver favorito l’individualismo e l’edonismo, aver allontanato Dio “dall’esistenza e dalla coscienza”, ha prodotto sulla mentalità comune delle conseguenze più gravi di quanto si potesse prevedere. Il relativismo è diventato una posizione ideologica molto diffusa, affermata talvolta come una volontà di disimpegno nei confronti delle responsabilità sociali o educative dal momento che non c’è più nessun valore o ideale per cui valga la pena lottare; talvolta come una reazione, anche aspra, in nome del rifiuto di una qualsiasi affermazione che si ponga come vera. È così che due posizioni opposte, un lassismo indifferente giustificato dalla relatività della verità e una reazione violenta, anche solo verbalmente, si incontrano. L’etica regredisce perché sono stati minati i fondamenti della morale; la cultura regredisce perché si è indebolita la ragione e la coscienza critica della realtà. Non è un caso che vincano i preconcetti, il già saputo e il dato per scontato che blocca la conoscenza. Ritrovare il gusto della domanda, dell’interrogarsi su quanto crediamo di possedere e su quanto scopriamo come novità, è un modo per impegnarsi ad allargare la ragione e conferire spessore alla nostra umanità. Sostenere l’indifferenza religiosa, considerare marginale o insignificante il senso religioso iscritto nel cuore di ogni essere umano, relegare la religione a un ambito esclusivamente privato, produce connivenza con la violenza di chi rincorre un proprio progetto di potere. È quanto sta accadendo in India, dove la persecuzione contro i cristiani continua senza che il governo intervenga a fermare le violenze. Ma anche in Pakistan e in Irak, mentre in Italia e in Europa i mezzi di comunicazione continuano a tacere su queste drammatiche vicende. Difendere la libertà religiosa è difendere la nostra stessa civiltà e la possibilità di libertà per ogni uomo, credente o no, perché, come è ribadito spesso dal Papa e oggi ancora dal cardinale Bagnasco, la libertà religiosa è “il caposaldo delle libertà ed il criterio ultimo di salvaguardia delle stesse in quanto iscritto nello statuto trascendente della persona”. L’uomo religioso, impegnato con la propria umanità e le esigenze del proprio cuore ama la libertà e la difende, per sé e per tutti.


Che shock scoprire che il premio di 7.000 euro agli insegnanti è una promessa da onorare nel 2012, tra 5 anni! – Magdi Cristiano Allam
Chiedo alla nostra classe politica di abolire l’uso del tempo futuro dal suo linguaggio, soprattutto quando si tratta di promesse di denaro o di beni materiali.
autore: Magdi Cristiano Allam
Cari amici,
Che shock scoprire che l’annuncio, fatto in questi giorni dal ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, di un premio di 7.000 euro per i docenti più meritevoli, è in realtà una promessa che si realizzerà soltanto nel 2012, ossia tra 5 anni! Che imbarazzo ho provato (per lei) vederla a “Porta a Porta”, su richiesta esplicita di un Bruno Vespa in versione professorale con la bacchetta in mano, alzarsi e scrivere su una lavagna (portata in studio appositamente) la cifra 7.000 euro, per animare uno spettacolo televisivo al fine di renderlo il più possibile accattivante e piacevole, anche se di fatto si stava discutendo del licenziamento di decine di migliaia di insegnanti precari che sono, a dispetto della loro difficile condizione, la colonna portante dell’insieme del nostro sistema scolastico!
Confesso che sono anni che non vedo più i vari talk-show televisivi quali Porta a Porta, Matrix, Ballarò e meno che mai quelli condotti da Michele Santoro. Per una ragione molto semplice: li trovo inutili, noiosi e persino controproducenti. Di certo non hanno nulla a che fare con un’etica professionale che s’ispiri all’oggettività dell’informazione e alla responsabilità della comunicazione. Sono perlopiù schiavi di calcoli meramente commerciali, finalizzati all’esclusivo aumento dello share, rincorrendo pertanto a tutti i costi il fascino artificioso e abietto del sensazionalismo e dello scandalismo. Lo fanno con una concezione formalistica e menzognera della cosiddetta “par condicio”, che finisce per mettere sullo stesso piano tutto e il contrario di tutto, con il risultato che si perde del tutto – agli occhi del telespettatore – la stessa concezione e la certezza della verità.
Eppure lunedì scorso, 22 settembre, dopo aver concluso il mio incontro pubblico a Merano, nella sala dell’ex Cinema Ariston, e dopo aver firmato delle dediche personalizzate sulle copie di “Grazie Gesù” ai partecipanti che l’hanno richiesto, essendo rientrato in albergo in un orario relativamente anticipato, era la mezzanotte e mezza, rispetto a una consuetudine che mi vede costretto a protrarre i miei impegni pubblici in giro per l’Italia fino alle due e talvolta alle tre del mattino, ho acceso la televisione.
Ho pensato di accendere eccezionalmente la televisione con l’illusione di individuare una qualche trasmissione che potesse rilassarmi e favorire un processo interiore di decongestionamento da un accumulo di stress dopo circa una settimana particolarmente impegnativa trascorsa in viaggio tra la Lombardia, il Friuli e il Trentino-Alto Adige. E mi sono imbattuto in una puntata di Porta a Porta con il ministro dell’Istruzione, Maria Stella Gelmini, quale ospite d’onore.
La Gelmini, giovane avvocato trentaquatrenne paracadutata in modo avventuroso nel campo minato dell’emergenza educativa che costituisce una delle principali piaghe italiane, forte della fiducia personale di Silvio Berlusconi dopo aver gestito con successo il compito di coordinatrice di Forza Italia in Lombardia, era visibilmente sulla difensiva. Veniva attaccata dal “ministro ombra dell’Istruzione”, Maria Pia Garavaglia, nonché dai rappresentanti dei sindacati della scuola presenti. Mi ha colpito in primo luogo il fatto che la Gelmini, pur essendo esponente di punta di un governo forte che gode di una solida maggioranza parlamentare, sia stata perennemente sulla difensiva, dando la netta percezione che si trovasse costretta a difendere una causa non del tutto convincente, o che comunque si prestasse a critiche serie sul piano etico prima ancora che politico.
Ma la sorpresa massima è stata quando la Garaviglia le ha fatto rilevare che i 7.000 euro di premio per i docenti più meritevoli erano soltanto una promessa che il governo onorerebbe soltanto tra 5 anni, nel 2012, ovvero a fine legislatura. La Gelmini, nella più assoluta indifferenza, ha replicato che ora i soldi non ci sono e che pertanto il governo, non avendo in alcun modo intenzione di accrescere l’indebitamento pubblico, darà questi premi in denaro solo quando ci saranno effettivamente. La Gelmini non si è neppure scomposta quando un rappresentante sindacale dei docenti le ha replicato che è facile, prima licenziare decine di migliaia di insegnanti per abbattere i costi, e poi con le risorse risparmiate premiare chi resta. Lei si è limitata a rispondere, sempre con i tratti somatici sempre più tirati di chi non si sente del tutto a proprio agio, che il presidente Berlusconi ha ricevuto il mandato di sanare i conti dello Stato e che il ministero dell’Istruzione non è uno stipendificio e che non è possibile andare avanti con il 98 per cento delle risorse immobilizzate dalle paghe degli insegnanti.
Sul tema specifico della riforma scolastica, che mi vede sostanzialmente d’accordo sulla sua imprescindibilità per sanare la piaga dell’emergenza educativa, mi riservo di intervenire anche prossimamente nella rubrica “Il Seminario”, sempre nel nostro sito. Qui mi preme porre alla vostra attenzione la seguente domanda: cosa ne pensate di un governo che oggi, nel 2008, offre con grande enfasi il premio di 7.000 euro agli insegnanti più meritevoli, quando in realtà sono soldi che verranno dati soltanto tra 5 anni, nel 2012, dopo aver licenziato decine di migliaia di insegnanti al fine di abbattere i costi e trovare nuove risorse?
Io lo considero un malcostume che concerne non solo il governo Berlusconi, ma l’insieme della nostra classe politica, che si fanno beffe dei cittadini strumentalizzando la loro ingenuità umana, la loro ignoranza della realtà dei fatti, la loro disponibilità a farsi plagiare dalla demagogia del potere, il loro facile adescamento dal fascino del mondo virtuale dei mass media che continua ad essere il sottobosco della politica.
Mi ricorda i vent’anni vissuti in Egitto all’epoca di Nasser e i titoli della stampa dei regimi dittatoriali arabi che, inequivocabilmente, tutti i giorni, promettono all’opinione pubblica disarmata e ininfluente: “Il governo costruirà 250 mila nuovi alloggi popolari”, “Il Presidente darà 50 sterline di aumento a tutti i lavoratori”. Il tranello, cari amici, è nel tempo del verbo utilizzato: il tempo futuro. Un futuro che diventa sempre più indefinito quando cresce l’incertezza del quadro politico. Come è tradizionalmente il caso dell’Italia. Basti considerare il fatto che il leader della Lega Nord, Umberto Bossi, ha più volte inveito e offeso la Gelmini, dandole dell’incompetente, e si è espresso contro diverse sue proposte, tra cui il maestro unico per le elementari.
Ecco perché chiedo alla nostra classe politica di abolire l’uso del tempo futuro dal suo linguaggio, soprattutto quando si tratta di promesse di denaro o di beni materiali. Meglio parlarne a tempo debito quando si potrà onorare immediatamente l’impegno. Diversamente, come non dubitare che si tratti soltanto di una manovra per potere, oggi, ammorbidire la contrarietà al licenziamento dei precari da parte di chi, essendo di ruolo, non dovrebbe aver nulla da temere e, nel 2012, accrescere il consenso dell’opinione pubblica nell’anno delle nuove elezioni legislative?
Cari amici, vi saluto con la convinzione che è giunta l’ora di assumerci la responsabilità storica di agire da protagonisti per affrancarci dall’ideologia suicida del relativismo che affligge l’Occidente e dall’ideologia omicida del nichilismo che arma l’estremismo islamico, per affermare con coraggio e difendere con tutti i mezzi la Civiltà della Fede e Ragione. Andiamo avanti insieme sul cammino della Verità, Vita, Libertà e Pace, per un’Italia, un’Europa e un mondo che considerino centrali i valori e le regole, della conoscenza oggettiva, della comunicazione responsabile, della sacralità della vita, della dignità della persona, dei diritti e doveri, della libertà di scelta, del bene comune e dell’interesse generale, promuovendo un Movimento di riforma etica dell’informazione, della società, dell’economia, della cultura e della politica. Con i miei migliori auguri di sempre nuovi traguardi, successi ed un mondo di bene.
Magdi Cristiano Allam


24/09/2008 14:13 - INDIA – EU - La cristianofobia in India e nel Parlamento europeo - Si è votata una risoluzione contro le violenze in Orissa e in altri stati dell’India. Ma intanto deputati verdi, liberali e socialisti boicottano il discorso di Bartolomeo I ai parlamentari. –
Bruxelles (AsiaNews) – Il Parlamento europeo è riuscito a condannare le violenze contro i cristiani in India, ma non riesce a frenare la cristianofobia dei suoi deputati, alla presenza del patriarca ecumenico Bartolomeo I.
Quest’oggi, in seduta plenaria, il PE ha varato un’ampia risoluzione in vista del summit UE – India, che si terrà a Marsiglia il 29 settembre prossimo (392 a favore; 44 contro; 29 astenuti). La risoluzione tratta il prolungamento del rapporto strategico fra Europa e India (“le due democrazie più grandi del mondo”) dando particolare attenzione all’economia, la politica internazionale, i problemi sociali dell’India. Un paragrafo della risoluzione (uno su 34) è dedicato alle violenze subite dai cristiani in Orissa. Il testo esprime “profonda preoccupazione” per gli attacchi, chiede assistenza e sostegno per le vittime, domanda compensazioni per le Chiese e i privati colpiti dalle distruzioni. La risoluzione sottolinea pure la necessità che tutti i colpevoli delle violenze siano portati davanti alla giustizia e domanda al governo centrale e alle autorità nazionali di “proteggere pienamente” la minoranza cristiana.
Quest’oggi il Parlamento di Bruxelles ha anche ricevuto la visita di Bartolomeo I, patriarca ecumenico di Costantinopoli, che verso le 12 ha potuto anche indirizzare il suo saluto all’assemblea. Nel suo discorso il patriarca ha parlato del valore della religione per l’Europa e la Turchia, della capacità di costruire ponti culturali grazie alle fedi religiose, nell’anno che il PE dedica al dialogo interculturale. Un fatto ha però mostrato la presenza di “cristianofobia” nell’organismo europeo: l’assenza di molti deputati verdi, liberali, socialisti durante il discorso del patriarca. Tale assenza è forse dovuta alla diffusione di un comunicato da parte di una deputata socialista belga, Véronique De Keyser, che lancia “un’allerta alla laicità e alla democrazia”. La parlamentare belga denuncia che “sotto il manto dell’anno interculturale”, vi è una “offensiva delle religioni” che è un attentato “alla laicità” del Parlamento europeo. Il comunicato si diffonde in accuse contro il patriarca di Costantinopoli e contro Benedetto XVI che osano affermare che “i valori morali europei sono valori morali cristiani”. La deputata fa anche notare che se non si è attenti alla divisione fra politico e religioso, “l’estrema destra potrebbe approfittarsene”. Per questo la De Keyser ha domandato a tutti i parlamentari il boicottaggio della sessione con il patriarca.


Dalla Russia alla Cina, i tanti dilemmi della diplomazia europea - Roberto Fontolan - giovedì 25 settembre 2008, IlSussidiario.net
C’è un dossier che ingombra i tavoli dei capi della diplomazia in molte capitali europee. Si intitola: “Come affrontare il XXI secolo?”. In realtà il XXI secolo è cominciato con il crollo del Muro, il muro per antonomasia, ma è solo dopo quasi venti anni che il tema è diventato così bruciante. Pensiamoci un istante. Il primo periodo dopo la fine del comunismo è stato ispirato a visioni positive: la storia (nel senso dei grandi conflitti e dei grandi drammi) è finita, la pace e la pacificazione avanzano, si entra nel tempo dell’economia e dei commerci (e dove ci sono commerci difficilmente ci sono conflitti), la politica mondiale è assicurata dagli Stati Uniti, la soluzione per il Medio Oriente è ormai a portata di mano (colloqui di Madrid, accordi di Oslo) il vero ultimo nemico è la povertà dell’Africa. Una luna di miele durata meno di un decennio: mentre si chiudeva la “parentesi” delle guerre balcaniche (da molti considerate l’atto finale del crollo comunista) cominciava a crescere l’ombra del terrorismo musulmano, fino a giganteggiare su tutto l’Occidente con le stragi di New York, Madrid e Londra. Le visioni sono diventate fosche e preoccupate. La guerra che doveva esportare la democrazia si è risolta in un vicolo cieco e l’area critica dove si coltiva un islamismo ben più che radicale si è addirittura estesa ad una regione del mondo che include Irak, Iran, Afghanistan, Pakistan. Sette anni dopo le Torri Gemelle (precedute, occorre non dimenticarlo, da una impressionante serie di attentati antiamericani), anche la parola d’ordine della guerra al terrorismo, che all’inizio sembrava nutrire inedite e compatte solidarietà tra Est e Ovest e anche tra Nord e Sud, è ormai evanescente.
Ecco il perché di questo “nuovo” dossier che tiene svegli molti diplomatici e consiglieri politici di svariate cancellerie continentali. I temi da svolgere sono i seguenti: 1) la Russia vuole contare sempre di più, gli Stati Uniti vogliono contenere sempre di più (la Russia); 2) gli impegni implicati dalle missioni “di pace” internazionali con un forte concorso europeo (Afghanistan, Libano, Balcani) sono sempre più onerosi, in tutti i sensi e tendono a prolungarsi indefinitamente, senza contare il fatto che non si vede all’orizzonte una credibile soluzione per Israele-Palestina-Terrasanta, né una strada chiara per l’Irak; 3) la spinta vertiginosa della globalizzazione impressa dagli accordi WTO ha portato sì a galla nuovi protagonisti (India, Cina), ma ha anche terremotato sistemi di regole acquisite e aperto falle paurose nel tradizionale sistema delle relazioni e delle organizzazioni internazionali; 4) l’aiuto pubblico allo sviluppo dei paesi poveri e in particolare dell’Africa è ormai una evidente ipocrisia: in realtà i governi europei stanziano sempre meno soldi (ma non vogliono ammetterlo) perché hanno sempre meno soldi. A fronte di ciascuno di questi temi, come si colloca uno qualunque dei piccoli grandi d’Europa, quali scelte deve o può compiere? E l’Europa insieme? Si è tanto propagandato l’accordo “ottenuto dall’Europa” per tamponare la crisi georgiana, ma la desolante realtà è che le truppe russe stazioneranno a lungo in Ossezia e Abkhazia, ormai praticamente annesse (e sui giornali americani sono fioccati i commenti sarcastici sulla leadership di Sarkozy).
Imponenti domande, ma nessuno sta trovando risposte. Intanto si studia e si discute molto.


ALITALIA/ Il Piano Cai non ha futuro dal punto di vista industriale - Ugo Arrigo - giovedì 25 settembre 2008
Il piano Fenice si regge su un’unica idea fondamentale che purtroppo è sbagliata. La ricetta chiave di chi ha elaborato il piano è infatti l’incremento consistente della produttività degli aerei della nuova Alitalia operanti sul breve e medio raggio; associato a un incremento quasi equivalente della produttività dei dipendenti esso permetterebbe un notevole miglioramento del rapporto ricavi operativi/costi operativi e il riequilibrio economico finanziario dell’azienda nell’arco di un triennio.
Questa idea, che non è mai venuta in mente a Spinetta di Air France, a Mayrhuber di Lufthansa e neppure a O’Leary di Ryanair, è tuttavia insensata e inapplicabile sulla tipologia di voli operati da Alitalia sul breve e medio raggio (voli europei, da e per il Medio Oriente e l’Africa Mediterranea).
Cercherò di spiegare sia questa soluzione del piano Fenice che le sue criticità, ma prima è necessario sgombrare il campo da alcune ipotesi che avevo formulato negli articoli dei giorni scorsi. Alcune di esse, infatti, desunte da incoerenze nei dati del piano pubblicate dai media, si sono rivelate infondate alla luce di una migliore conoscenza del progetto Fenice:
1. Il piano Fenice non incrementa in maniera consistente le tariffe della nuova Alitalia. È un’ipotesi che avevo formulato come possibile quadratura della notevole differenza tra la consistente riduzione degli aerei e del personale della nuova compagnia rispetto alle due preesistenti da un lato e la limitata riduzione dei ricavi dall’altro. L’incremento delle tariffe è in fondo la via più breve per riequilibrare i conti di un’azienda pubblica dissestata ed è stato efficacemente impiegato nel ‘risanamento’ di Poste Italiane sia durante la gestione di Passera che quella di Sarmi; sembra inoltre essere nelle intenzioni di Trenitalia in versione Moretti.
2. Il piano Fenice non riduce drasticamente, almeno all’apparenza, la concorrenza sul mercato del trasporto aereo. Poiché la via tariffaria al risanamento di un’azienda pubblica è incompatibile con un mercato di concorrenza, il fatto che il piano Fenice non punti a un aumento drastico dei prezzi riduce (ma non cancella) i nostri timori che la quadratura strategica del cerchio sia una forte restrizione delle concorrenza sul mercato. La tentazione rimane comunque sullo sfondo, alimentata dal successo della strategia di Maometto e della montagna conseguito quando fu applicata al caso Poste: se un’azienda pubblica non può adeguarsi al mercato (di concorrenza) allora sarà il mercato a doversi adeguare all’azienda (cancellando la concorrenza). Questo fu esattamente quanto chiese l’allora amministratore delegato di Poste e ottenne dal governo D’Alema nell’ormai lontano 1999.
3. Il piano Fenice non lascia a terra nove milioni di clienti, come avevo ipotizzato, e non farà viaggiare i passeggeri uno sopra l’altro. Poiché gli aerei utilizzati da Cai si riducono di oltre il 40% rispetto a quelli impiegati dalla vecchia Alitalia e AirOne, avevo ipotizzato una drastica riduzione dei passeggeri trasportati (da 31,5 milioni del 2007 a 22 milioni), non potendo ovviamente realizzarsi tassi medi di occupazione dei posti superiori al 100% e neppure troppo vicini a tale valore (sopra l’80% sono difficili, sopra il 90% sostanzialmente impossibili).
4. Il piano Fenice si limita a far volare di più, molto di più, gli aerei (e gli equipaggi). Siamo ovviamente soddisfatti che il piano Fenice non aumenti le tariffe, non riduca drasticamente la concorrenza sul mercato, non lasci a terra svariati milioni di passeggeri disponibili a pagare prezzi non proprio da Ryanair o EasyJet, metta a disposizione un sedile per ogni viaggiatore e riesca comunque a riequilibrare i conti. La quadratura del cerchio tra tutti questi vincoli e obiettivi è di una semplicità sconcertante e geniale nello stesso tempo: far volare molto di più gli aerei (e i loro equipaggi, ma con salari più bassi).
Nel 2007 gli aerei Alitalia impiegati hanno mediamente volato per 2.500 ore. Il piano Fenice prevede che questo valore aumenti dapprima a 3.000 ore anno e successivamente a 3.300, con un incremento complessivo del 32%.
Questo risultato verrebbe realizzato integralmente grazie al maggior utilizzo delle macchine impiegate sul breve e medio raggio (Europa, Nord Africa, Medio Oriente) a fronte di una stazionarietà di utilizzo dei pochi aerei ancora adibiti al lungo raggio.
A questo punto è possibile riepilogare i dati chiave (vedi anche la tabella allegata) del piano Fenice (riferiti al 2009 e al piano Fenice di fine luglio) con quelli delle due compagnie preesistenti (2007):
- Aerei utilizzati: scendono da 238 a 151 nella versione del piano Fenice di fine luglio scorso, con una riduzione del 37% (ma diminuirebbero invece a 137 nella versione più recente secondo quanto riportato dai media)
- Capacità offerta (Posti chilometro): da 58 a 49 miliardi di posti km (-17%).
- Tasso di occupazione dei posti: dal 72% al 76% (76% deriva da: 73% sui voli nazionali, 70% sui voli europei e medio raggio, 84% sul lungo raggio).
- Passeggeri km (il percorso complessivo di tutti i viaggiatori): da 42 a 37 miliardi (-13%).
- Passeggeri: da 31,5 a 28,1 milioni (-3,5 milioni, -11%).
- Produttività degli aerei: passeggeri anno per aereo da 132 mila a 186 mila (+40%); ricavi annui da passeggeri per aereo da 18 a 25 milioni di euro (+40%).
Possiamo a questo punto sostenere che è bene quel che finisce bene e che il piano Fenice è accettabile per i consumatori, i contribuenti e il trasporto aereo italiano (anche se lo è di meno per i lavoratori)? Purtroppo no perché da un punto di vista di organizzazione del trasporto aereo un aumento di quelle dimensioni della produttività tecnica degli aerei non è realizzabile. Il piano Fenice, basato su quest’unica idea, non sta pertanto in piedi.
Gli aerei, impiegati su collegamenti preesistenti, possono volare di più solo se compiono più voli (visto che la distanza tra ogni coppia di città e il tempo di volo necessario per coprirla è costante). Il maggior numero di voli, annui e quotidiani, deve essere realizzato nella fascia oraria economicamente utile (quella nella quale vi sono passeggeri disponibili a volare) che per il breve raggio è di circa 16 ore al giorno, grosso modo dalle 7 di mattina alle 23 (se un vettore organizzasse un volo da Milano a Roma alle 3 di mattina non avrebbe nessun cliente a bordo). Quanti voli si possono fare nel breve raggio in quella fascia temporale? Anzi, quante coppie di voli, visto che a fine giornata ogni velivolo ritorna alla sua base? Lo standard per il breve raggio è di tre coppie di voli, ciò di sei voli quotidiani. Se si vuole volare di più si deve passare a quattro coppie di voli, cioè a otto voli quotidiani e in questo caso l’incremento è proprio del 33%.
È possibile realizzare quattro coppie di voli in una fascia complessiva di 16 ore? Si, ma solo a condizione che la durata di ogni volo sommata al tempo a terra per sbarco, verifiche della macchina, rifornimento e imbarco non ecceda in alcun modo le due ore. Questo vuol dire che sui collegamenti dall’Italia verso il resto d’Europa è sostanzialmente impossibile e che su collegamenti interni è forse possibile ma solo su tratte brevissime che utilizzano aeroporti non congestionati e in grado di non trattenere troppo a terra gli aerei. In sostanza è forse possibile ma solo su una percentuale limitatissima dei collegamenti e non sulla generalità, come invece incorporato nel piano Fenice.
Applicando l’incremento di produttività tecnica previsto dal piano Fenice, i voli medi giornalieri per velivolo passerebbero dai 5,8 di Alitalia ai 7,5 della Cai. Purtroppo per Cai persino Ryanair riesce a fare in media solo 6 voli al giorno.
Ma se lo sono chiesto gli estensori del piano Fenice come mai questa loro brillantissima idea non è venuta prima a Spinetta di Air France-Klm nel piano AliFrance del marzo 2008, a Mayrhuber di Lufthansa e neppure al tirchissimo O’Leary di Ryanair per la sua compagnia?


CRISI FINANZIARIA/ Nascondere i buchi di bilancio delle banche non servirà a lungo - Marco Cobianchi - giovedì 25 settembre 2008 - IlSussidiario.net
Per i sostenitori della necessità di fare emergere tutte le passività, esplicite, implicite e potenziali, dai bilanci di ogni istituzione finanziaria in qualsiasi modo coinvolta (da protagonista o comprimaria) nella crisi finanziaria globale, la notizia che Goldman Sachs e Morgan Stanley abbiano deciso di trasformarsi, in una notte, da banche d’affari a banche commerciali apre mille interrogativi. Vediamo perché.
La Lehman Brother, il cui fallimento e successivo smembramento farà scuola, è stata lasciata fallire perché non aveva alcun rapporto con il correntista finale ma esclusivamente con altre istituzioni finanziarie alle quali vendeva strumenti iper sofisticati che, in una fase di rallentamento economico e rialzo dei tassi, si sono rivelati fonti di perdite incontrollabili.
Questo sistema aveva raggiunto livelli parossistici: ancora oggi nessuno sa quanti di questi strumenti derivati siano in circolazione. La trasparenza del sistema, la sua “ripulitura” da queste tossine imporrebbe di sapere dove sono finiti questi strumenti, quanti sono e che perdite implicite possono provocare sui bilanci di ognuna delle istituzioni finanziarie o industriali che li hanno in portafoglio. Sarebbe questa la strada maestra per poter ripartire sulla base anche di nuove regole che indirizzino i manager verso comportamenti diversi da quelli tenuti finora. Occorre fare tabula rasa di un sistema finanziario autoreferenziale, distaccato dall’economia reale e strutturalmente illiquido.
La critica a questa posizione estremistica è che, probabilmente, il sistema non reggerebbe nuovi devastanti crack come quelli della Lehman. Ed è vero, ma la cosa peggiore sarebbe quella di fare finta che il male non esista. La decisione di Goldman Sachs e Morgan Stanley di diventare banche commerciali ha lo scopo di poter partecipare alle aste del Tesoro che immette liquidità nel sistema (prima non potevano) al fine di poter restare sul mercato e “ripulire” progressivamente i propri bilanci da quegli strumenti derivati che hanno portato al tracollo della Lehman. Si sono salvate, quindi (la Goldman anche grazie all’intervento di Warren Buffett), ma in cambio hanno accettato, proprio in quanto banche commerciali, la sorveglianza della Fed sulla propria operatività e sui propri bilanci.
Teoricamente gli ispettori della banca centrale americana dovrebbero, perciò, iniziare minuziosissime ispezioni nei conti delle due banche alla ricerca di possibili buchi, potenziali rischi. Non credo ciò accadrà. In questo clima di emergenza nazionale (anzi, mondiale) dubito che la Fed si assuma la responsabilità di fare emergere i possibili (certi?) buchi nei bilanci delle due banche proprio mentre il Tesoro Usa stanzia 700 miliardi di dollari per salvare il sistema finanziario del quale anche Goldman Sachs e Morgan Stanley fanno parte. In altre parole: la Fed, in nome della stabilità a breve termine, potrebbe essere tentata di evitare danni ulteriori e insabbiare le responsabilità delle due banche così pregiudicando la stabilità a lungo termine.
Una normale attività finanziaria potrà riprendere solo quando le banche, tutte, si saranno disintossicate. Prima lo fanno, prima potranno tornare a fare il loro mestiere.
Nascondere la verità allontana questo momento.


SOCIETA' LIQUIDA/ Donati: la vera libertà ha bisogno di una direzione - INT. Pierpaolo Donati - giovedì 25 settembre 2008
Pierpaolo Donati, ordinario di Sociologia alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna, ha degli appunti da muovere alla lettura di Zygmunt Bauman secondo cui, nella nostra società si vivono solo rapporti «eminentemente scioglibili» e «facilmente gestibili, senza durata determinata, senza clausole».
L’affermazione di Bauman è, ovviamente, uno sviluppo della sua teoria sulla società liquida, per cui staremmo andando verso un futuro in cui tutto diventa volatile. Credo che questo non sia vero. C’è nel pensiero di Bauman una certa contraddizione: da un lato, a livello di osservazione sociologica, egli teorizza una grande volatilità della società, composta da «individui individualizzati», come lui li chiama; dall’altro lato deve rilevare che esiste la persistenza di strutture sociali molto forti, che costituiscono non solo delle barriere per la mobilità sociale, ma sono anche delle realtà insuperabili nei corsi di vita delle persone. Le quali non possono facilmente cambiare la loro «rete» di relazioni; anzi, si trovano in reti di relazioni che li imprigionano, in qualche modo li schiavizzano. Usando le parole del cardinal Caffarra, questa è una società che, anziché liberare gli individui, li rende più schiavi: delle passioni, delle mode, di tutta una serie di fatti che, al contrario di quanto dice Bauman, gli individui non possono assolutamente cambiare e ritenere «scioglibili» a piacimento.
Perché, allora, Bauman usa l’immagine della società liquida?
Il nocciolo del suo discorso consiste nel sostenere che oggi sia impossibile l’appartenenza, il legame significativo, stabile, duraturo. Questa posizione si contraddice dal punto di vista descrittivo, quindi rivela il suo carattere normativo: Bauman plaude a questo tipo di società. Simile modo di vedere le cose risale a Marx – Bauman non ha mai rinnegato il suo fondo marxista – che, nel suo libro sulla famiglia, dice che in futuro i rapporti sessuali saranno scioglibili a piacimento e si farà sesso come si beve un bicchiere d’acqua. Come dire: il capitalismo rende volatile qualunque tipo di relazione sociale, dal matrimonio ai rapporti generazionali, a quelli di lavoro. È il Marx del Manifesto del 1848 che sostiene che tutto quello che era solido sarebbe diventato liquido. La tesi della liquidità della società, dunque, vuole essere, anche se i suoi sostenitori non lo vogliono dire, una conferma delle previsioni marxiane.
Io credo che vada respinta anzitutto sul piano sociologico. Non è vera: i rapporti reali della società sono strutturati. Certo le strutture oggi sono morfogenetiche, cioè cambiano di forma, ma non è che con questo perdano il loro impatto e la loro importanza. Sul piano normativo, invece, questa lettura è pericolosa: la società liquida annulla l’individuo, diventa una società disumana. La persona, infatti, ha bisogno di rapporti stabili; pensiamo al bambino nel legame coi genitori, oppure alla relazione lavorativa, nella quale serve una certa stabilità per accrescere le capacità professionali e portare a dei risultati.
Non parliamo poi del campo religioso. Qui risulta chiaro che, in fondo, il discorso di Bauman è l’abolizione della religione. La parola religione deriva da re-ligo, cioè legare insieme; è insito nel concetto stesso di religione quello di legame stabile e significativo. Se noi annichiliamo il legame, cioè diciamo che tutti i legami diventano sgravati da vincoli, senza doveri, scioglibili a piacimento, che ciascuno sceglie quando vuole e come vuole, annulliamo la sostanza della religione, che è, appunto, legame che connette le persone fra loro come figli di Dio e a Dio stesso. C’è dietro al discorso di Bauman una impostazione falsamente riduttiva, ma anche un impianto ideologico: è finita la religione, non c’è più Dio, non c’è più legame tra gli uomini e Dio e tra gli uomini tra di loro.
Il pericolo di una libertà intesa come assenza di legami è stato evidenziato da Benedetto XVI a Parigi.
In Bauman c’è proprio un’esaltazione della libertà in senso negativo, come libertà da legami, da vincoli, da obbligazioni, da condizionamenti. Anche da quelli di tipo ascrittivo, cioè del tutto indipendenti dalla volontà o dalla capacità della persona. Si può fare l’esempio del sesso; quel tipo di libertà teorizza che uno, pur essendo nato maschio o femmina, a un certo punto può decidere di cambiare; ci sono indicazioni dell’Unione europea che parlano di autodeterminazione del genere: il soggetto decide di che sesso è indipendentemente dalla corporeità fisica. Questa idea della libertà come indipendenza da qualunque dato o da qualunque vincolo e realtà che sia indipendente dal soggetto significa una soggettivizzazione, una privatizzazione totale della vita.
Il Papa ricorda che questa non è libertà. La libertà ha dei contenuti ed ha una direzione, è una libertà per qualcosa e non da qualcosa. Certamente c’è anche una libertà dai condizionamenti negativi e dalle costrizioni che non ci rendono responsabili delle nostre azioni, ma il punto essenziale è la libertà positiva, cioè la possibilità di realizzare i propri progetti, le proprie premure fondamentali nella vita. Quindi la libertà vera ha sempre un contenuto e una direzione. Dire, invece, che la libertà consiste nella possibilità di essere sempre «altrimenti», diversamente da come si è, non è libertà, ma anarchia nel senso deteriore del termine. Il suo risultato è una società anomica, priva di regole, di norme. In essa la libertà positiva viene annullata e, così, viene annullata la possibilità di seguire dei progetti e delle scelte di vita che ci legano in qualche modo a una comunità di destino (pensiamo al lavoro, alla famiglia, alle comunità locali).
Il discorso di Bauman è sofisticato, ma anche improntato a un nichilismo di fondo. Constata come questa società si stia autodistruggendo, ma in un certo senso afferma che è bello autodistruggersi. L’individuo si autorealizza in questa libertà indeterminata; sente di poter fare qualunque cosa, però è anche chiaro che questo lo porta all’autodistrzione.
Un simile individuo è più facilmente preda del potere?
Bisogna ricordare la lezione di Tocqueville, che parlava di «democrazia dispotica». Quando gli individui vengono protetti nella loro libertà assoluta, intesa come libertà negativa, come possibilità di fare qualunque cosa perché nessuno li costringe, li vincola, pone norme cogenti, non siamo più nella democrazia autentica, dove ciascuno è libero ma anche responsabile di quello che fa, ma nella democrazia dispotica. C’è un potere molto soffice, molto lontano dagli individui, che protegge questa sorta di autodistruzione della società: concede le libertà investendo lo Stato e il sistema politico di tutte le tutele di queste libertà. Lo Stato, cioè, «privatizza il privato».
Si potrebbe dire che questo è il modo di essere del mercato: una moda distrugge un’altra moda, nuovi consumi sostituiscono quelli vecchi. Il problema è che questa analogia non regge, per il semplice fatto che il processo di distruzione delle relazioni e dei legami sociali non è recuperabile. Non possiamo consumare le relazioni sociali di appartenenza (quelle familiari, quelle delle associazioni, quelle di una comunità culturale, religiosa o ideale) e poi ricostituirle subito in un altro modo. Quest’idea di Bauman che i legami si possono sciogliere e disfare a piacimento è assurda, contrasta con qualunque realtà. Basta vedere l’esempio delle coppie che si separano o divorziano; si può ovviamente sciogliere il matrimonio come contratto e atto formale, ma la relazione rimane un po’ per tutta la vita; la si può «consumare», ma lascia un fondo di amaro, una storia che crea disagio. Un altro esempio è l’aborto volontario: la donna può tagliare la relazione col figlio e di fatto lo fa, ma questo taglio della relazione – che non potrà mai più essere ricostituita, perché il figlio non potrà più nascere – è un annichilimento della relazione e anche di parte della identità stessa della donna. La storia delle relazioni resta con noi; esse non sono «usa e getta», non si possono cambiare a piacimento. Dietro la posizione di Bauman c’è dunque un errore drammatico, una mancanza di rispetto della realtà umana.


TESTAMENTO BIOLOGICO/ Dal Cardinal Bagnasco nessuna "svolta"
Alberto Gambino - giovedì 25 settembre 2008 – IlSussidiario.net

La prolusione del Cardinale Bagnasco al Consiglio permanente della Cei è stata letta da qualcuno come un’apertura all’ammissibilità di una legge sul testamento biologico. Per dirimere questo equivoco, mi preme commentare la percorribilità giuridica delle riflessioni del presidente della Cei su questo punto.
I richiami più rilevanti della Prolusione a proposito di una legge sul fine vita, si esemplificano in quattro indicazioni principali. Prima: riconoscimento legale a “dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita”. Seconda: garanzie di presa in carico del malato e di rapporto fiduciario con il medico. Terza: inefficacia di dichiarazioni che si riferiscano a trattamenti di sostegno vitale (come alimentazione e idratazione). Quarta: finalità di evitare, da un lato, inutili forme di accanimento terapeutico e, dall’altro, forme di eutanasia mascherata e di abbandono terapeutico.
Ora, la prima indicazione, sull’ammissibilità di “dichiarazioni inequivocabili” è stata da taluno interpretata come un’apertura al testamento biologico.
E’ un’interpretazione forzata. Come è noto il testamento biologico è un documento nel quale una persona, in piena capacità, esprime il suo assenso o dissenso circa trattamenti che potrebbe subire nell’eventualità del verificarsi di un evento traumatico con perdita di coscienza. Tale strumento è del tutto in contraddizione con le quattro indicazioni riportate. Il testamento biologico si compone, infatti, di dichiarazioni strutturalmente “equivocabili” in quanto riferibili ad un evento non ancora avvenuto, e dunque senza alcuna certezza che le stesse dichiarazioni si riproporrebbero identiche nell’attualità del verificarsi del trauma e delle relative informazioni sulle terapie da attivare, che, peraltro, mutano nel tempo. Inoltre il testamento biologico può, tecnicamente, contenere indicazioni relative a forme di abbandono terapeutico. Utilizzare l’espressione “testamento” equivale a dire che – come avviene per il patrimonio nell’eredità – si può liberamente disporre del bene oggetto della dichiarazione. Ciò va nella direzione opposta al principio che della vita umana, secondo il diritto, non se ne può disporre come se fosse una cosa. E va decisamente contro il contenuto delle riflessioni del cardinale Bagnasco su questo punto.
Altri sostengono che questi richiami possono leggersi piuttosto come un’apertura alle c.d. DAT (Dichiarazioni Anticipate di Trattamento). Occorre però sottolineare che non si trova nella Prolusione alcun riferimento all’espressione “anticipate”. Il presidente della Cei parla di “dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita”, non invece di “dichiarazioni anticipate”. Qui si annida l’errore in cui molti commentatori sono incorsi. Il problema giuridico dell’ammissibilità o meno di tali dichiarazioni si può enucleare così: quanto tali dichiarazioni possono essere retrodatate rispetto al trattamento? E’ pacifico che il paziente, una volta informato sull’intervento, sui rischi e le conseguenze, possa rifiutarlo (si tratta di una libertà costituzionale, che non implica che la decisione sia anche moralmente accettabile). Con l’unica eccezione della sentenza minoritaria e solitaria del caso Englaro, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità è chiaro: il dissenso ad un trattamento sanitario (e non di sostegno vitale) è ammissibile nella misura in cui il paziente sia in grado di effettuare un “giudizio” informato in ordine alla propria situazione sanitaria. Non lo è invece in assenza della doverosa, completa, analitica informazione sul trattamento stesso. Dunque, ove il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizione di esprimersi pienamente, un dissenso ex ante, dichiarato ancor prima del verificarsi della patologia, è inefficace, in quanto privo di qualsiasi informazione medico-terapeutica, che non può che ricollegarsi alla vicenda concreta.
Ciò significa che mentre nelle patologie a lenta evoluzione, una dichiarazione di trattamento potrebbe essere ammissibile nell’attualità delle prime fasi della malattia, non è consentito che, nella diversa situazione di un evento traumatico imprevedibile, la dichiarazione sia retrodatata ad un momento antecedente al verificarsi del trauma improvviso. Ragionando diversamente, posta l’impossibilità di affermare che quella valutazione sia ancora attuale davanti al concreto accadimento e alle relative specifiche indicazioni terapeutiche, si finirebbe per ribaltare il principio secondo il quale nelle situazioni di incertezza non può che prevalere la scelta collegata al diritto di rango costituzionale più importante, che è il diritto alla vita.
Le “dichiarazioni” possono piuttosto rappresentare un contributo utile per casi dubbi di accanimento terapeutico. E’ certamente il medico a sapere in scienza e coscienza se ci si trova davanti a situazioni di accanimento terapeutico, ma le dichiarazioni del paziente possono rafforzare il dialogo e chiarire un diverso grado di sopportabilità di una terapia.


LO SGUARDO DI SONJA…, di Antonio Socci, Libero, 21 settembre 2008
Prostitute a Roma. Il tema non riguarda appena la cronaca e le multe di questi giorni, ma la storia. I millenni. Qualcuno aveva insinuato che addirittura la mitica “lupa” di Romolo e Remo esercitasse in realtà il mestiere più antico del mondo. Nell’urbe tale “professione” sempre prosperò. I lupanari della Roma imperiale diventarono infine un luogo di martirio quando – durante le persecuzioni - vi furono trascinate delle ragazze cristiane che, prima di essere massacrate, dovevano subire pure lo stupro. Diventata la città santa, cuore della cristianità, la città dei martiri Pietro e Paolo, la città dei Papi “onde Cristo è romano”, curiosamente Roma non ha mai conosciuto il furore moralistico della Ginevra calvinista o dell’America puritana contro le prostitute. La Chiesa ha tutt’altro rapporto coi peccatori. Non ne ha affatto paura. Anzi, è alla loro ricerca continua come il padre del figliol prodigo. Ritiene più pericolosi i farisei, ricordando il fiammeggiante ammonimento che rivolse loro Gesù: “le prostitute e i pubblicani vi precedono nel regno di Dio”.

Naturalmente non era un avallo al peccato. Ma Gesù constatava quanto era seguito, venerato e ascoltato da quelli che erano feriti dal peccato, che si sentivano dei poveracci, che non si reputavano qualcuno. Gesù commuove sempre i peccatori. Nella storia medievale si trovano diversi episodi dove emerge questa fede, come quando le “filles de joie” parigine, nel 1200, vollero pagare e offrire a Notre Dame una grande vetrata.

Gli eretici spesso se ne mostrarono scandalizzati. I catari ad esempio facevano fuoco e fiamme contro i francescani e i domenicani perché i frati cercavano di salvare queste “marie maddalene” e queste andavano in processione e facevano le loro elemosine. Del resto la stessa genealogia di Gesù riportata dai vangeli era definita da Péguy “spaventosa”. Un nome per tutti: Raab, prostituta di Gerico. La “Lettera agli ebrei” la menziona addirittura come esempio di fede. E’ nella genealogia del Salvatore: infatti è la bisnonna di Davide. Dio si è incarnato in questa umanità, prendendone su di sé tutto il peso e la condanna.

Il cristianesimo è un Dio che si abbassa fino al fango, per salvare, non per condannare. Per questo ha accettato di essere ucciso col supplizio dei criminali e dei maledetti. Del resto a Lourdes la Madonna appare nella grotta di Massabielle che fino ad allora era stata usata come rifugio per i maiali. E nell’apparizione delle Tre Fontane a Roma il luogo scelto dalla Madre di Cristo è simile. Sono due perfette metafore della storia. E’ in questa porcilaia che è la storia umana che irrompe la purezza, la potenza della misericordia. Cosicché dove abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia.

Infatti Gesù era accusato da scribi e farisei di essere “amico dei peccatori”. La sua Chiesa fa lo stesso. Non è amica del peccato, anzi ne denuncia l’orrore, la degradazione, la disperazione. Ma sente i peccatori come figli suoi. E qual è la madre che non ha pietà dei suoi figli? La Chiesa sa che il suo compito è perdonare. Conosce la natura umana, così nelle pagine dei padri della Chiesa si parla della prostituzione sempre come un vizio degradante, ma inestirpabile. La Roma dei Papi non ha mai preteso di sradicare il vizio sapendo che il mondo è il regno dell’imperfetto e la zizzania quaggiù cresce col grano. Si deve tollerare il male minore spesso per evitare mali peggiori. I Papi cercarono di limitare la prostituzione, di relegarla in certe zone marginali, di evitare che sconvolgesse la vita civile della gente comune. Ma con realismo. Bisognerebbe riflettere sulla millenaria saggezza della Chiesa oggi che – giustamente – si cerca di metter fine al mercato degli schiavi sulle strade delle città: è questione di diritti umani elementari, come voleva far capire don Oreste Benzi.

La Chiesa per secoli ha cercato di aiutare queste povere ragazze a riscattarsi. Molte per esempio erano costrette a prostituirsi dalla loro povertà. E fu vedendo questa triste situazione che un famoso cardinale del Quattrocento, Juan de Torquemada, attingendo ai suoi fondi e coinvolgendo un altro illustre cardinale, il Carafa, grande umanista, convinse il papa Paolo II a istituire una specie di dote per le fanciulle povere che permettesse loro di sfuggire al triste destino della prostituzione e sposare i loro innamorati, costruendo una famiglia.

Il rito della consegna di queste doti, che iniziò nel 1465, veniva celebrato nella chiesa di S. Maria sopra Minerva a Roma, il 14 febbraio, nella cappella dell’Annunziata, ed è da lì che quel giorno è poi diventato la “festa degli innamorati”. Perché, come spiega lo storico De Maio, i beneficiari “non erano soltanto delle coppie giuridiche o dei soggetti sacramentari, erano innamorati”. A Roma fiorirono tante opere di carità che si prendevano cura delle fanciulle povere. Papa Innocenzo III stabilì perfino la “remissione dei peccati” per coloro che avessero sposato delle ragazze di strada. Definendo come un grande atto di carità “sottrarle ai lupanari”. Come si vede il film “Pretty woman” non era neanche stato immaginato quando accadevano queste storie d’amore e la Chiesa caldeggiava vivamente il lieto fine, anche con i suoi regali soprannaturali, ben sapendo che tutte le creature (e specialmente le donne) sono fatte per amare ed essere amate dal loro uomo e non per vendere il loro corpo ai passanti.

A volte le misure per ridurre la prostituzione avevano una storia strana. Per esempio a Sisteron, in Francia, le meretrici che arrivavano in città per “esercitare” dovevano pagare una tassa, la quale era devoluta al convento delle clarisse, che erano suore molto povere. E queste suore allora, per gratitudine, pregavano Santa Chiara, la Madre di Dio e il Salvatore per quelle ragazze che facevano tutt’altra vita, ma che sentivano certamente come sorelle.

“Molte meretrici” scrive Stefania Falasca su 30 Giorni alcune notizie storiche, “per mezzo di queste opere di convertivano o trovavano lavori onesti. E durante il basso medioevo sono sempre più numerosi i conventi formati da ex prostitute che adottano la regola di Citeaux. Mai come nel medioevo il culto di Maria Maddalena è stato tanto diffuso”.

Del resto non sono piccoli i casi di santi che, prima della conversione, hanno vissuto nel vizio. Leggendo uno dei più grandi scrittori cristiani, Dostoevskij, si fa una scoperta curiosa, che don Divo Barsotti sottolineava: “la creazione più alta in cui si incarna, nei romanzi di Dostoevskij, la santità è paradossalmente una prostituta. Nemmeno Zosima (il monaco staretz dei ‘Fratelli Karamazov’, ndr) vive una viva comunione con Dio personale come Sonja in ‘Delitto e castigo’… La religione di Sonja è adesione di tutto il suo essere a Cristo. Essa crede in Dio, nel Dio vivente e vive un rapporto con Dio di umile e confidente abbandono”. E questa è la voce del padre, depravato ubriacone, su Sonja: “Colui che ebbe pietà di tutti gli uomini, colui che comprese tutto, avrà certamente pietà di noi. E’ l’unico giudice che esista. Egli verrà nell’ultimo giorno e domanderà: ‘Dov’è la figliola che si è immolata per una matrigna astiosa e tisica e per dei bambini che non sono i suoi fratelli? Dov’è la figliola che ebbe pietà del suo padre terrestre e non respinse con orrore quell’ignobile beone?’. Ed Egli dirà: ‘Vieni, ti ho già perdonato una volta e ancora ti perdono tutti i tuoi peccati, perché hai molto amato’. Così Egli perdonerà la mia Sonja, le perdonerà, io lo so, so bene che la perdonerà… (…) E tutti giudicherà e perdonerà… E quando avrà finito con tutti, allora apostroferà anche noi: ‘Uscite’ dirà ‘voi pure, uscite voi viziosi!’. E noi usciremo tutti, senza vergognarci e staremo dinanzi a lui. Ed egli ci dirà: “Porci siete! Con l’aspetto degli animali e con il loro stampo; però venite anche voi!’. E obietteranno i saggi, obietteranno le persone ricche di buon senso: ‘Signore, perché accogli costoro?’. Ed Egli risponderà: ‘Io li accolgo, o savi e intelligenti, perché nessuno di loro si credette degno di questo favore’, e ci tenderà le braccia e noi ci precipiteremo sul suo seno e piangeremo dirottamente e capiremo tutto. Allora tutto sarà compreso da tutti e anche Katerina Ivanovna comprenderà, anche lei. O Signore, venga il Tuo Regno’ ”.
Antonio Socci
Da “Libero” 21.9.2008


25 settembre 2008 - I laicisti trionfano - Il Cav. e il cardinale devono ricordarsi che dopo il testamento biologico arriverà pure l’eutansia, Dal Foglio.it
Mi permetto di inserirmi, spero non troppo maldestramente, nel dibattito sulle dichiarazioni di fine vita e sul testamento biologico di questi giorni. Lo faccio dopo aver percepito il malumore che serpeggia nel mondo pro life, non solo nella base, ma anche in molti dei vertici. “E’ assurdo”, “stiamo sbagliando tutto”, così mi hanno detto in confidenza persone che hanno dedicato – e dedicano – la propria vita alla difesa del diritto naturale e agli studi di bioetica, e che ora non hanno troppa voglia di schierarsi apertamente. Tutto è nato prima con le aperture di monsignor Rino Fisichella, poi con le dichiarazioni del cardinale Angelo Bagnasco, il quale fra l’altro ha auspicato l’approvazione da parte del Parlamento di “una legge sul fine vita che – questa l’attesa – riconoscendo valore legale a dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita, dia nello stesso tempo tutte le garanzie sulla presa in carico dell’ammalato e sul rapporto fiduciario tra lo stesso e il medico, cui è riconosciuto il compito – fuori da gabbie burocratiche – di vagliare i singoli atti concreti e decidere in scienza e coscienza”.
Lo sfondo di questa dichiarazione, assolutamente nuova e inaudita rispetto al passato, è il caso Englaro, ma certamente, molto di più, lo scenario politico. Se ben comprendo alcune dinamiche, mi sembra che, ignorando prese di posizione in senso contrario, ad esempio da parte di personalità come Adriano Pessina e dei medici di “Medicina e persona”, si ipotizza che la congiuntura politica sia tale da permettere di ottenere un successo, una legge cattolica, o meglio, una legge rispettosa del diritto naturale. Il mio ottimismo, in verità, è assai più moderato: preferisco resistere, in trincea, tenendo alti i principi, le posizioni, che gettare il pallino nell’agone parlamentare, da cui poi non si può mai tornare indietro: possiamo prevedere cosa succederà?
Veramente crediamo che nel centro destra, dove non mancano certo i fautori dell’aborto, dell’eutanasia, dei DiDoRe, possa emergere una legge che tiene conto integralmente della sacralità della vita? A ben vedere certi errori del passato non andrebbero ripetuti. I cattolici sono entrati in parlamento, sulla fecondazione artificiale, proponendo subito non la posizione più logica per i sostenitori del diritto naturale, ma ciò che ritenevano un male minore, e sono usciti dopo che la legge 40, già insoddisfacente, aveva subito ulteriori peggioramenti (come l’accesso alle coppie non sposate). Poi l’iniziativa di un ministro, Livia Turco, ha stravolto ancora di più la parte “buona” della legge, e oggi ci troviamo con una legge svuotata di valore e cogenza.
Starei attento a dare il via libera al centro destra, o a chi per lui, su un tema così delicato. Quali alleanze trasversali si formeranno? Chiederemo a Berlusconi, una volta delineatosi all’orizzonte il pasticcio, di mettersi di traverso per bloccare tutto? Avremo la forza mediatica per resistere alle corazzate pro eutanasia e testamento biologico? Ho tanta paura che lo spingere la palla nel territorio minato, per poi metterci a rincorrerla, non sia, tatticamente, una mossa giusta. Avete voluto che il tema si affrontasse, ci diranno? Ebbene dovete ora stare al gioco degli emendamenti, delle sfumature, delle convergenze… come se i principi fossero negoziabili! Penso che i radicali non aspettino altro: che qualcuno li rimetta in campo, che una legge che il centro destra non ha nel suo programma, venga proposta dalla chiesa e dal centro destra stesso.
Dopo queste notazioni politiche, mi sembra di poter concordare con un ottimo filosofo del diritto come Mario Palmaro, quando scrive che concedere valore legale a dichiarazioni anticipate significa affermare che “l’atto medico non è più legittimato dal ‘bene del paziente’, ma dalla ‘volontà del paziente’”: di qui al progressivo scivolamento nella assolutizzazione del giudizio soggettivo, il passo è breve. Anche perché, quando vi è una legge, quando un tema indisponibile, non negoziabile, è stato negoziato, nulla impedirà che la negoziazione proceda. Sarà allora difficile tornare indietro. Ma esiste un vuoto normativo, obietterà qualcuno e allora è meglio correre ai ripari. Dov’è questo vuoto, se non nella testa di chi vuole l’eutanasia? L’articolo 575 del codice penale punisce chiunque cagiona la morte di un uomo; l’articolo 579 sanziona l’omicidio del consenziente; l’articolo 580 punisce severamente chi “determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione”.
Chi parla di vuoto legislativo lo fa dunque appositamente per scalzare questi principi chiari e inequivocabili. Mi chiedo quale valore possiamo dare a “dichiarazioni inequivocabili” di persone che devono prevedere il loro futuro, e quindi decidere oggi per domani? Mi chiedo cosa significa che al medico “è riconosciuto il compito di vagliare i singoli atti concreti e decidere in scienza e coscienza”? Concludo citando quanto affermato dal Comitato Verità e Vita: “Non si evita l’accanimento terapeutico con il testamento biologico: al contrario questo strumento rende il concetto di accanimento terapeutico del tutto soggettivo, slegato dalla condizione di malato terminale e permetterà ad altri di decidere se quel malato è sottoposto a quello che essi ritengono essere accanimento terapeutico. Inoltre, le sentenze che legittimano l’uccisione di innocenti come Eluana Englaro necessitano di una sola risposta dal Parlamento: è vietato uccidere, sia il paziente incosciente, sia il paziente consapevole. Riconoscere infine valore alle dichiarazioni anticipate di trattamento che impongono la cessazione di cure non ridurrà affatto l’accanimento terapeutico, ma renderà lecito quello che fino a questo momento è illecito, l’omicidio del consenziente”.


CAPIRE LA VERA POSTA IN GIOCO - IL TESTAMENTO C’È GIÀ: ORA BISOGNA ARGINARE E CAMBIARE - FRANCESCO D’AGOSTINO, Avvenire, 25 settembre 2008
Le poche, ma dense parole che il presidente della Cei ha riservato al 'caso Englaro', inaugurando i lavori del Consiglio permanente, hanno suscitato – come era prevedibile – un forte interesse mediatico. In questo contesto, la reazione di Giuliano Ferrara, apparsa sul Foglio del 23 settembre, è quella che più ha destato meraviglia, per il suo carattere amichevo­le e rispettoso nella forma, ma particolarmente aspro nella sostanza. Ferrara, infatti, vede in quella del car­dinale una risposta intimidita e confusa alle istanze della cultura postmoderna e – cosa ancor più grave – un’acquiescenza al relativismo soggettivista, che af­fida alla volontà soggettiva delle persone la scelta in­sindacabile su come si debba morire.
Eppure, chiunque legga le parole esatte di Bagnasco si rende subito conto che esse in nulla e per nulla a­vallano l’interpretazione di Ferrara. Ma, per l’appun­to, si tratta di un’interpretazione, cioè di un 'proces­so alle intenzioni': e contro le interpretazioni non c’è prova testuale che tenga. Ferrara si è mosso come si muovono gli intellettuali, quando percepiscono una possibile frattura tra la realtà e i principi che essi han­no a cuore e vogliono difende­re (a volte generosamente, co­me è appunto il caso del diret­tore del Foglio). Tanto peggio per la realtà, essi allora conclu­dono. Bisogna salvare i princi­pi; il resto non interessa.
Non è così che ragionano i cri­stiani.
Non c’è dubbio che essi siano uomini attaccatissimi ai loro principi; ma non stanno al mondo solo per argomentarli e difenderli (questo è il compito dei filosofi e forse più in generale degli intellettuali), bensì per fa­re in mondo che i principi, non restando nel mondo delle idee, operino concretamente nella realtà. Il cristiano, prima anco­ra di giudicare (e condannare) il mondo, lo ama; lo ama, perché Dio lo ha amato per pri­mo creandolo, e tanto lo ha amato da incarnarsi, per salvarlo, in Gesù Cristo. Ecco perché la più bella icona di Gesù è quella del pastore (immagine che non a ca­so i vescovi attribuiscono a se stessi): il pastore è me­tafora di colui che ama e si prende cura delle sue 'pe­core', e non – per dire – di uno zoologo che si interes­sa di loro solo come oggetto di ricerca scientifica.
Dal cardinal Bagnasco, come pastore, non ci aspet­tiamo disquisizioni teologiche o analisi sociologico­culturali; questo è il compito che spetta ai teologi, ai filosofi, eventualmente allo stesso Bagnasco, ma in veste diversa da quella di presidente della Cei. Da lui, come da ogni 'pastore', desideriamo apprendere co­me il cristianesimo deve incarnare i suoi principi nel­l’esperienza umana, come deve farli operare all’in­terno della storia, farli rispondere alle esigenze del tempo. Il cardinale ha preso correttamente atto di un 'fatto storico', i pesanti interventi della magistratu­ra nella vicenda Englaro: un fatto dal minimo rilievo 'dottrinale', ma di notevole rilevanza bioetica e so­ciale. Un intellettuale può legittimamente rifiutarsi di leggere una sentenza, perché sa bene che non sono le sentenze a esplicitare ciò che è bene e ciò che è ma­le per l’uomo. Ma un pastore ha il dovere di farlo, per­ché il gregge di cui egli deve aver cura, non è menta­le o virtuale, ma è un insieme concreto di persone che vogliono un orientamento per la vita quotidiana (quel­la su cui incidono le sentenze della magistratura).
La Cassazione, con un’infausta decisione, ha di fatto introdotto l’istituto del testamento biologico (e per di più in forma anche verbale!) nel nostro ordinamen­to, alterando profondamente il principio etico e giu­ridico del rispetto assoluto che si deve alla vita uma­na. Dobbiamo cioè concludere che la pretesa che si debba riconoscere ai malati un vero e proprio 'dirit­to' a lasciarsi morire è ormai già presente, grazie alla Cassazione, nel nostro sistema.
A questo bisogna reagire: non certo per avallare ulte­riormente in forma di legge tale pretesa, ma per ne­garla espressamente, nel momento stesso in cui si ri­conosca (come aveva a suo tempo auspicato il Co­mitato nazionale per la bioetica) il diritto dei malati a depositare in forma scritta e rigorosamente garan­tita (e solo se lo ritengono opportuno) non un testa­mento biologico, non direttive vincolanti per i medi­ci, ma «dichiarazioni anticipate» su quali, tra i diver­si, possibili, leciti trattamenti sanitari di fine vita, es­si ritengano preferibili. Auspicando un intervento saggio e innovativo del le­gislatore, e indicando limiti inderogabili, il cardinale ci ha dato un esempio di come la dottrina debba es­sere difesa sempre attraverso il riferimento all’espe­rienza concreta; un esempio di quello che potremmo chiamare, usando un’espressione di Kierkegaard, un autentico 'esercizio del cristianesimo', prezioso per i cristiani e meritevole di attenzione da parte di tutti gli uomini di buona volontà.


LA VICENDA DI DON CANIO MERITA ALMENO UN ATTIMO DI RIFLESSIONE - Un film può fare male se è un servizio alla demenza - DAVIDE RONDONI, Avvenire 25 aprile 2008
U n film non fa male, dicono. Un romanzaccio di basso livello non può far male a nessuno. Di solito si dice così. Ed è difficile sostenere il contrario. Un romanzo o un film possono far arrabbiare, possono dispiacere, possono far litigare. Però, si dice di solito, non si può accusare un romanzo o un film di provocare danni seri. Di solito si dice così, anche perché, chi si azzarda a sostenere il contrario viene subito sbattuto tra i sostenitori della censura o peggio del totalitarismo. E dunque, va bene, i romanzi e i film – anche i più banali o violenti – male non fanno. Ma andate a dirlo a don Canio, che s’è preso le coltellate di uno squilibrato, il quale tra le altre confusionarie motivazioni ha addotto pure quella di aver visto la sera prima 'Il codice da Vinci'.
Duecento punti di sutura, il rischio di morire. Andate a dirlo a don Canio che quel film – guarda a caso mandato la sera prima – non gli ha fatto niente.
Marco, il venticinquenne è un povero ragazzo lasciato solo coi suoi fantasmi. Una mente invasa da fumi paranoici.
La testa avvelenata da fantasmi e da chi sa quali traumi che han preso le sembianze di una maschera da Anticristo di quartiere, armato di coltellaccio e pericoloso. La visione di quel film ha scatenato in una mente già piegata all’insania qualcosa di mostruoso. E allora si potrebbe sostenere che un film così sinistramente violento contro qualcuno, in questo caso contro la Chiesa, può fare danni solo se visto da menti malate. Ma già vediamo i benpensanti storcere il naso e affermare di sentire odore di roghi di libri. E allora, d’accordo, diciamo pure, ancora una volta, che i romanzi falsamente velenosi, che dipingono qualcuno orrendamente, non fanno mai male, se pur qualche mente deviata ne può subire un fascino pericoloso. Ma andate a dire a don Canio che no, che anche se non trasmettevano quel film lui le coltellate tanto se le beccava lo stesso.
Che se sta rischiando la pelle, no, non c’entra nulla col fatto che la sera prima in tv i preti come lui siano stati dipinti come una feccia umana, come i peggiori nemici della verità e della convivenza. Diteglielo a don Canio e ai tanti preti di parrocchia, ai tenti preti che stanno in mezzo alla gente, che no, non si devono preoccupare se una potentissima macchina mediatica si è messa in moto per ritrarli come persone oscure, macchinatori infernali, dediti a pratiche assurde. Sì, può darsi che qualche squilibrato ci ricaschi. Ma niente di grave. Per nessuno, a parte che per chi si becca le coltellate.
Saggiamente, qualche giorno fa, il portavoce dell’Opus Dei Corigliano ha dichiarato che quel romanzo e il film che hanno ritratto i membri dell’Opera come dei sanguinari macchinatori, può essere usato invece come occasione per fare chiarezza.
Forse trasmettere un film così violentemente anticristiano – e proprio in questi tempi in cui non i libri si incendiano ma le cattedrali – senza proporre alcuna possibilità di replica o di discussione, non è proprio un servizio alla chiarezza. Anzi, di fatto è stato solo un servizio alla demenza di qualcuno che poi ha alzato la lama.
Questi sono i fatti. Che non possono non inquietare. A meno che la vita e le cicatrici di un uomo, di un prete, valgano meno di un principio che si evoca astrattamente e spesso solo in certi casi e stranamente non in altri: la libertà di espressione. Quando un principio astratto e ambiguamente impiegato deve fare i conti con il sangue è meglio che venga verificato seriamente. E ne sia corretto l’uso distorto, quando lo si agita a copertura di intenzioni offensive che dalla irresponsabilità della pagina scritta possono muovere gesti irresponsabili.


BIOETICA E SOCIETÀ - -l’intervista - -Il cardinale: del tutto fuorviante interpretare le parole della prolusione di Bagnasco come se potessero rappresentare un cambiamento su questo punto. È vero esattamente il contrario: l’apertura a una nuova norma ha il solo scopo di evitare un tale cambiamento - Ruini: Cei sempre dalla parte della vita. E la linea non cambia, Avvenire, 25 settembre 2008
DA ROMA MIMMO MUOLO
Nessuna differenza di posizione con il cardinale Bagnasco. E nulla cambia nell’atteggiamento della Cei in merito a una eventuale legge sulla «fine vita». Le parole del presidente della Conferenza Episcopale Italiana vanno dunque interpretate come una difesa degli stessi principi, nella nuova situazione determinatasi in seguito alla sentenza della Corte di Cassazione che aveva autorizzato la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione nei confronti di Eluana Englaro. Risponde così il cardinale Camillo Ruini a chi ha voluto vedere una svolta nel discorso con cui lunedì il presidente della Cei aveva aperto il Consiglio permanente. E in questa intervista ad Avvenire spiega il perché.
Eminenza, nella polemica successiva al brano della prolusione del cardinale Bagnasco dedicato al caso Englaro, anche lei è stato tirato in ballo, in particolare da Giuliano Ferrara, il quale – intervistato da Maria Antonietta Calabrò sul Corriere della Sera – ha ipotizzato che lei se fosse stato ancora presidente della Cei, avrebbe evitato qualsiasi cedimento. La sua posizione è davvero diversa da quella del cardinale Bagnasco?
Assolutamente no, ma vorrei spiegare. L’opportunità di un intervento legislativo riguardo alla fine della vita nasce unicamente dal pronunciamento della Corte di Cassazione sulla vicenda di Eluana Englaro. In concreto, infatti, soltanto attraverso una norma di legge è possibile impedire che quel pronunciamento apra a una deriva davvero eutanasica, fino a consentire l’interruzione della nutrizione e dell’idratazione. Nella sostanza però nulla è mutato, né potrebbe mutare, nell’atteggiamento della Cei riguardo alla tutela della vita umana dall’inizio al suo termine naturale. E’ del tutto fuorviante, dunque, interpretare le parole della prolusione del cardinale Bagnasco come se potessero rappresentare un cambiamento su questo punto. E’ vero esattamente il contrario: l’apertura a una legge ha il solo scopo di evitare un tale cambiamento.
Come mai allora Giuliano Ferrara, ed altri con lui, hanno espresso un simile timore in termini preoccupati e perfino drammatici?
Voglio dire con tutta franchezza che condivido profondamente le istanze e le preoccupazioni oggettive espresse da Giuliano Ferrara, e vorrei rassicurarlo che il cardinale Bagnasco e la Chiesa italiana non deluderanno le attese di chi è a favore della vita e della dignità umana.
Quale linea seguire in concreto?
In concreto anche in questo campo non possiamo cedere al relativismo soggettivista, affidando alla volontà del singolo ammalato, o di altre persone, la decisione di produrre la morte. Tanto meno si può obbligare il medico a tradurre in atto questa volontà tramite azioni od omissioni. Ogni espressione della propria volontà ­ anticipata o meno - deve rimanere all’interno di questi confini. Lo stesso principio costituzionale in base al quale «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario» non esime pertanto il medico - e con lui tutti coloro che sono vicini alla persona sofferente - dal dovere di motivare il paziente, attraverso strumenti non coercitivi, alla tutela della propria salute, con tutti i mezzi proporzionati. Si eviterà così l’accanimento terapeutico, ma si deve anche e anzitutto evitare qualsiasi forma aperta o mascherata di eutanasia.
Sono essenziali, a questo fine, la cura, la vicinanza e la sollecitudine che sia le strutture sanitarie e il loro personale, sia le famiglie, gli amici, i sacerdoti e tutto l’ambiente circostante sapranno esprimere verso coloro che non hanno speranze di guarigione in questo mondo e che si trovano in situazioni di estrema sofferenza.