martedì 23 settembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Occidente. Il trionfo della mediocrità - Quando la libertà diventa irresponsabilità cade ogni difesa contro gli abissi del decadimento umano. Così nel 1978 Solzenicyn vide lucidamente la deriva di una società che fa di ogni sua pulsione un diritto... - di Aleksandr Solzenicyn
2) Pacelli bifronte. Coraggioso come papa, troppo cauto come segretario di stato - Benedetto XVI loda Pio XII per l'aiuto dato agli ebrei durante la guerra. Ma "La Civiltà Cattolica" lo critica quand'era cardinale, per le sue deboli reazioni alle leggi razziali. Ecco l'articolo della rivista, pubblicato con l'imprimatur delle autorità vaticane - di Sandro Magister
3) Il Cardinale Bagnasco al Consiglio permanente della CEI (22-25 settembre 2008)
4) Benedetto XVI: il Vescovo deve aspirare alla perfezione evangelica - Nell'udienza ai neo Vescovi partecipanti a un convegno in Vaticano
5) 23/09/2008 11:46 – CINA - Scandalo latte: il governo ha paura di proteste sociali e minaccia gli avvocati
6) Crisi finanziaria e terrorismo: due sfide imminenti per l’Unione Europea - Mario Mauro - martedì 23 settembre 2008 – IlSussidiario.net
7) ELUANA/ Morresi: io sto con Bagnasco, la legge sul fine vita difenderà chi non può più esprimersi - Assuntina Morresi - martedì 23 settembre 2008 – IlSussidiario.net
8) CINA/ Scandalo del latte, il paese attende una riforma agraria - INT. Francesco Sisci - martedì 23 settembre 2008 – IlSussidiario.net
9) 23 settembre 2008 - Eminenza, qui la cosa non funziona - Il capo dei vescovi molla una posizione strategica sul tema della vita – dal Foglio.it – 23 settembre 2008
10) PAROLE PERTINENTI AI PROBLEMI - ORIZZONTI LARGHI E SCELTE CONSEGUENTI - FRANCESCO D’AGOSTINO, Avvenire, 23 settembre 2008
11) l’intervista Possenti: «Diagnosi precisa e vicina ai problemi della gente» - DI LUCIA BELLASPIGA, Avvenire, 23 settembre 2008


Occidente. Il trionfo della mediocrità - Quando la libertà diventa irresponsabilità cade ogni difesa contro gli abissi del decadimento umano. Così nel 1978 Solzenicyn vide lucidamente la deriva di una società che fa di ogni sua pulsione un diritto... - di Aleksandr Solzenicyn

Pubblichiamo alcuni passaggi di Un mondo in frantumi, il discorso che Aleksandr Solzenicyn pronunciò l’8 giugno 1978 all’università di Harvard davanti a 20 mila persone.
In conformità ai propri obiettivi la società occidentale ha scelto la forma d’esistenza che le era più comoda e che io definirei giuridica. I limiti (molto larghi) dei diritti e del buon diritto di ogni uomo sono definiti dal sistema delle leggi. A forza di attenersi a queste leggi, di muoversi al loro interno e di destreggiarsi nel loro fitto ordito, gli occidentali hanno acquisito in materia una grande e salda perizia (ma le leggi restano comunque così complesse che il semplice cittadino non è in grado di raccapezzarcisi senza l’aiuto di uno specialista). Ogni conflitto riceve una soluzione giuridica, e questa viene considerata la più elevata. Se un uomo si trova giuridicamente nel proprio diritto, non si può chiedergli niente di più. Provate a dirgli, dopo la suprema sanzione giuridica, che non ha completamente ragione, provatevi a consigliargli di limitare da se stesso le sue esigenze e di rinunciare a quello che gli spetta di diritto, provatevi a chiedergli di affrontare un sacrificio o di correre un rischio gratuito… vi guarderà come si guarda un idiota. L’autolimitazione liberamente accettata è una cosa che non si vede quasi mai: tutti praticano per contro l’autoespansione, condotta fino all’estrema capienza delle leggi, fino a che le cornici giuridiche cominciano a scricchiolare. (…)
Io che ho passato tutta la mia vita sotto il comunismo affermo che una società dove non esiste una bilancia giuridica imparziale è una cosa orribile. Ma nemmeno una società che dispone in tutto e per tutto solo della bilancia giuridica può dirsi veramente degna dell’uomo. Una società che si è installata sul terreno della legge, senza voler andare più in alto, utilizza solo debolmente le facoltà più elevate dell’uomo. Il diritto è troppo freddo e troppo formale per esercitare un’influenza benefica sulla società. Quando tutta la vita è compenetrata dai rapporti giuridici, si determina un’atmosfera di mediocrità spirituale che soffoca i migliori slanci dell’uomo. E contare di sostenere le prove che il secolo prepara reggendosi sui solo puntelli giuridici sarà per l’innanzi sempre meno possibile.
È ora che affermiate i vostri doveri
Nella società occidentale di oggi è avvertibile uno squilibrio fra la libertà di fare il bene e la libertà di fare il male. Un uomo politico che voglia realizzare, nell’interesse del suo paese, una qualche opera importante, si trova costretto a procedere a passi prudenti e perfino timidi, assillato da migliaia di critiche affrettate (e irresponsabili) e bersagliato com’è dalla stampa e dal Parlamento. Deve giustificare ogni passo che fa e dimostrarne l’assoluta rettitudine. Di fatto è escluso che un uomo fuori dell’ordinario, un grande uomo che si riprometta di prendere delle iniziative insolite e inattese, possa mai dimostrare ciò di cui è capace: riceverebbe tanti di quegli sgambetti da doverci rinunciare sin dall’inizio. Ed è così che col pretesto del controllo democratico si assicura il trionfo della mediocrità.
Per contro è cosa facilissima scalzare l’autorità dell’Amministrazione, e in tutti i paesi occidentali i poteri pubblici si sono considerevolmente indeboliti. La difesa dei diritti del singolo giunge a tali eccessi che la stessa società si trova disarmata davanti a certi suoi membri: è giunto decisamente il momento per l’Occidente di affermare non tanto i diritti della gente, quanto i suoi doveri.
Al contrario della libertà di fare il bene, la libertà di distruggere, la libertà dell’irresponsabilità, ha visto aprirsi davanti a sé vasti campi d’azione. La società si è rivelata scarsamente difesa contro gli abissi del decadimento umano, per esempio contro l’utilizzazione delle libertà per esercitare una violenza morale sulla gioventù: si pretende che il fatto di poter proporre film pieni di pornografia, di crimini o di satanismo costituisca anch’esso una libertà, il cui contrappeso teorico è la libertà per i giovani di non andarli a vedere. Così la vita basata sul giuridismo si rivela incapace di difendere perfino se stessa contro il male e se ne lascia a poco a poco divorare.
E che dire degli oscuri spazi in cui si muove la criminalità vera e propria? L’ampiezza dei limiti giuridici (specialmente in America) costituisce per l’individuo non solo un incoraggiamento a esercitare la sua libertà ma anche un incitamento a commettere certi crimini, poiché offre al criminale la possibilità di sfuggire al castigo o di beneficiare di un’immeritata indulgenza, grazie magari al sostegno di un migliaio di voci che si leveranno in suo favore. E quando in un paese i poteri pubblici affrontano con durezza il terrorismo e si prefiggono di sradicarlo, l’opinione pubblica li accusa immediatamente di aver calpestato i diritti civili dei banditi.
La stampa, impenitente guardona
Anche la stampa (uso il termine “stampa” per designare tutti i mass media) gode naturalmente della massima libertà. Ma come la usa?
Lo sappiamo già: guardandosi bene dall’oltrepassare i limiti giuridici ma senza alcuna vera responsabilità morale se snatura i fatti e deforma le proporzioni. Un giornalista e il suo giornale sono veramente responsabili davanti ai loro lettori o davanti alla storia? Se, fornendo informazioni false o conclusioni erronee, càpita loro di indurre in errore l’opinione pubblica o addirittura di far compiere un passo falso a tutto lo Stato, li si vede mai dichiarare pubblicamente la propria colpa? No, naturalmente, perché questo nuocerebbe alle vendite. In casi del genere lo Stato può anche lasciarci le penne. Ma il giornalista ne esce sempre pulito. Anzi, potete giurarci che si metterà a scrivere con rinnovato sussiego il contrario di ciò che affermava prima.
La necessità di dare un’informazione immmediata e che insieme appaia autorevole costringe a riempire le lacune con delle congetture, a riportare voci e supposizioni che in seguito non verranno mai smentite e si sedimenteranno nella memoria delle masse. Quanti giudizi affrettati, temerari, presuntuosi ed erronei confondono ogni giorno il cervello di lettori e ascoltatori e vi si fissano! La stampa ha il potere di contraffare l’opinione pubblica e anche quello di pervertirla. Così, la vediamo coronare i terroristi del lauro di Erostrato, svelare perfino i segreti della difesa del proprio paese, violare impudentemente la vita privata delle celebrità al grido “Tutti hanno il diritto di sapere tutto” (slogan menzognero per un secolo di menzogna, perché assai al di sopra di questo diritto ce n’è un altro, perduto oggigiorno: il diritto per l’uomo di non sapere, di non ingombrare la sua anima divina di pettegolezzi, chiacchiere, oziose futilità. Chi lavora veramente, chi ha la vita colma, non ha affatto bisogno di questo fiume pletorico di informazioni abbrutenti).
Giornalisti in nome di chi?
È nella stampa che si manifestano, più che altrove, quella superficialità e quella fretta che costituiscono la malattia mentale del XX secolo. Penetrare in profondità i problemi le è controindicato, non è nella sua natura, essa si limita ad afferrare al volo qualche elemento di effetto.
E, con tutto questo, la stampa è diventata la forza più dirompente degli Stati occidentali, essa supera per potenza i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario. Ma chiediamoci un momento: in virtù di quale legge è stata eletta e a chi rende conto del suo operato? Se nell’Est comunista un giornalista viene apertamente designato dall’alto come ogni altro funzionario statale, chi sono gli elettori cui i giornalisti occidentali devono invece la posizione di potere che occupano? E per quanto tempo la occupano? E con quale mandato?
Tempi 01 Settembre 2008


Pacelli bifronte. Coraggioso come papa, troppo cauto come segretario di stato - Benedetto XVI loda Pio XII per l'aiuto dato agli ebrei durante la guerra. Ma "La Civiltà Cattolica" lo critica quand'era cardinale, per le sue deboli reazioni alle leggi razziali. Ecco l'articolo della rivista, pubblicato con l'imprimatur delle autorità vaticane - di Sandro Magister

ROMA, 23 settembre 2008 – Ricevendo giovedì scorso i rappresentanti della fondazione ebraica Pave the Way convenuti a Roma per un simposio su Pio XII, Benedetto XVI ha espresso un giudizio molto positivo sulla figura e l'opera di papa Eugenio Pacelli, in particolare su quanto egli fece "per salvare gli ebrei perseguitati dal regime nazista e fascista".

È stata questa la prima volta in cui Joseph Ratzinger, da papa, si è espresso in maniera così diretta sul suo grande e controverso predecessore. Tornerà ancora a parlare di lui il prossimo 9 ottobre, nella messa che celebrerà nel cinquantesimo anniversario della sua morte.

Il discorso di Benedetto XVI ha fatto tanto più colpo in quanto il suo giudizio sull'operato di Pio XII è coinciso con quello, altrettanto positivo, espresso dagli ebrei della Pave the Way Foundation.

Inoltre esce in questi giorni in Italia un volume di Andrea Riccardi, docente di storia della Chiesa e fondatore della Comunità di Sant'Egidio, anch'esso molto positivo nel documentare l'azione di papa Pacelli in soccorso degli ebrei perseguitati. Il volume, di 424 pagine, edito da Laterza, ha per titolo: "L'inverno più lungo. 1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma".

* * *

Lo stesso giovedì 18 settembre, però, nel quale Benedetto XVI si è espresso in termini così favorevoli su Pio XII, è uscito su "La Civiltà Cattolica" un articolo che tratteggia dello stesso Pacelli – quand'era segretario di stato di papa Pio XI – un ritratto più in chiaroscuro.

"La Civiltà Cattolica" non è una rivista qualsiasi. Per statuto, tutti i suoi articoli, prima di essere stampati, sono controllati riga per riga dalla segreteria di stato vaticana. E tale controllo è ancor più stringente da quando è segretario di stato il cardinale Tarcisio Bertone.

Ha fatto quindi una certa impressione che l'autore dell'articolo, lo storico gesuita Giovanni Sale, abbia attribuito al Pacelli del 1938 – l'anno della promulgazioni delle leggi razziali antiebraiche in Italia – una prudenza diplomatica "oggi imbarazzante da giustificare".

Per l'esattezza, così si esprime Sale in un passaggio della sua ricostruzione:

"Appare oggi imbarazzante per lo storico cattolico, soprattutto dopo le aperture del Concilio Vaticano II in tale materia, giustificare con categorie morali o religiose tale impostazione di pensiero e tal modo di procedere".

L'articolo della "Civiltà Cattolica" non critica direttamente il segretario di stato Pacelli. Ma mostra come la cautela dei diplomatici vaticani dell'epoca, nel reagire alle leggi razziali, non solo si esponga a critiche fondate, ma neppure abbia prodotto i frutti sperati.

All'opposto, l'articolo mette in evidenza la volontà di Pio XI di prendere più energicamente le difese degli ebrei e di condannare più drasticamente le leggi razziali. Pio XI, tuttavia, si trovò doppiamente imbavagliato. Le sue parole e i suoi scritti più incisivi non videro la luce sia per la censura del regime fascista, che proibì alla stampa cattolica italiana di pubblicare i discorsi del papa contro il razzismo, sia per la cautela della segreteria di stato, che impedì allo stesso "Osservatore Romano" – il giornale della Santa Sede – di stampare i testi del papa ritenuti troppo imprudenti.

A riprova di ciò, Sale ha rinvenuto numerosi documenti, sia negli archivi vaticani, sia in quelli della "Civiltà Cattolica". Ad esempio, da una memoria inedita di monsignor Domenico Tardini, all'epoca stretto collaboratore del segretario di stato Pacelli, risulta che Pio XI si irritò molto per non aver vista pubblicata su "L'Osservatore Romano", il 15 novembre 1938, una sua dura nota di protesta contro le leggi razziali, indirizzata al re d'Italia Vittorio Emanuele III, con la risposta del re. Al posto dei due documenti c'era solo uno sbiadito articolo che diceva poco o nulla, E nemmeno riuscì il papa, qualche giorno dopo, a far stampare su "L'Osservatore" un testo da lui dettato che cercava di ridar voce alla sostanza della sua protesta. In entrambi i casi, fu Pacelli a bloccare la stampa dei testi papali sul giornale della Santa Sede.

Di questo e di altri comportamenti delle autorità vaticane di quel periodo, Sale darà conto in altri articoli che ha in programma di pubblicare su "La Civiltà Cattolica", nel settantesimo anniversario delle leggi antiebraiche del 1938.

Ma ecco qui di seguito i passaggi principali dell'articolo uscito sull'ultimo numero dell'autorevole rivista, datato 20 settembre 2008:


I primi provvedimenti antiebraici e la Dichiarazione del Gran Consiglio del Fascismo

di Giovanni Sale S.I.


[...] A volte si dice che la legislazione antiebraica adottata in Italia a partire dal settembre 1938 fu, rispetto a quella in vigore in altri Paesi totalitari, più blanda, forse più umana. Si tratta di un mito da sfatare. Anzi, alcune disposizioni al momento in cui furono emanate dal Governo fascista erano più severe e persecutorie di quelle vigenti nella Germania nazista: ad esempio, non esisteva in quel tempo in Germania una norma sull’espulsione generalizzata degli ebrei stranieri; inoltre, l’espulsione totale degli studenti ebrei dalle scuole pubbliche fu decisa dal Governo di Berlino due mesi dopo la sua entrata in vigore in Italia e adottando il metodo della gradualità nella sua esecuzione. [...]

La legislazione antisemita, in particolare quella sulla scuola, fu accolta dalla maggioranza degli italiani, in particolare dai cattolici, con vivo rincrescimento e a volte con rabbia; furono molte le lettere inviate in Vaticano da privati o da gruppi di persone e associazioni (anche non israelitiche), che invitavano le autorità ecclesiastiche e, in particolare, il Papa a intervenire presso il Duce in difesa degli "sventurati ebrei". [...]

Il giorno successivo all’adozione del decreto-legge sulla scuola, il 6 settembre 1938, Pio XI pronunciò un memorabile discorso contro il razzismo e contro l’antisemitismo: era la prima volta che ciò accadeva in modo così esplicito e diretto. Purtroppo esso non fu divulgato in Italia – infatti il 5 agosto il ministro Alfieri aveva dato disposizione ai prefetti di vietare che i discorsi del Papa contro il razzismo fossero pubblicati da riviste e giornali cattolici – e ciò avvantaggiò molto la causa razzista e diede l’impressione che il Papa, per motivi politici, non prendesse posizione su una materia così grave. Gran parte degli intellettuali cattolici, tra cui anche Dossetti, ne ebbero notizia leggendo le riviste cattoliche di oltralpe.

Il celebre discorso fu tenuto a Castel Gandolfo, dove il Papa si trovava da tempo, davanti a un gruppo di pellegrini belgi, molti dei quali lavoravano nell’ambito delle comunicazioni. Il testo integrale, pubblicato dalla "Documentation Catholique", fu stenografato da uno dei presenti, mentre il Papa parlava. Il quotidiano vaticano, "L’Osservatore Romano", pubblicò il testo omettendo la parte riguardante gli ebrei, mentre la "cronaca contemporanea" della "Civiltà Cattolica" non ne fece menzione. Le parole del Papa sono riportate dalla rivista cattolica belga in modo abbastanza colorito: "A questo punto il Papa – è scritto – non riuscì a trattenere la sua emozione… ed è piangendo che egli citò i passi di Paolo che mettono in luce la nostra discendenza spirituale da Abramo [...]. L’antisemitismo non è compatibile con il sublime pensiero e la realtà evocata in questo testo. L’antisemitismo è un movimento odioso, con cui noi cristiani non dobbiamo avere nulla a che fare [...]. Non è lecito che i cristiani prendano parte all’antisemitismo. Noi riconosciamo che ognuno ha il diritto all’autodifesa e che può intraprendere le azioni necessarie per salvaguardare gli interessi legittimi. Ma l’antisemitismo è inammissibile. Spiritualmente siamo tutti semiti". Le parole di condanna dell’antisemitismo pronunciate con voce commossa dal Papa erano forti e chiare.

Su questa materia la Segreteria di Stato assunse un atteggiamento piuttosto prudente, pensando che in tal modo si potesse ottenere qualcosa di concreto a vantaggio degli ebrei, in particolare di quelli convertiti al cattolicesimo. Il p. P. Tacchi Venturi, fiduciario del Papa presso Mussolini, fu incaricato di trattare la delicata questione degli ebrei presso le autorità governative. Una Nota della Segreteria di Stato dell’8 settembre 1938 suggeriva al gesuita di attirare l’attenzione dell’autorità governativa soprattutto sugli ebrei battezzati e convertiti al cattolicesimo: "Non sarebbe equo – si chiedeva l’estensore – che, indipendentemente dall’origine, gli ebrei convertiti che hanno contratto in precedenza un matrimonio misto ai sensi del diritto canonico […] fossero considerati cattolici e non già sempre e comunque ebrei sol perché tali erano i loro genitori?". Vale a dire, si chiedeva al Governo fascista di utilizzare come criterio discriminatorio non il dato biologico-razziale, ma quello religioso, cioè l’appartenenza a una determinata fede religiosa, in questo caso quella giudaica.

Appare oggi imbarazzante per lo storico cattolico, soprattutto dopo le aperture del Concilio Vaticano II in tale materia, giustificare con categorie morali o religiose tale impostazione di pensiero e tal modo di procedere. Compito dello storico è però quello di ricostruire, per quanto è possibile oggettivamente, la vicenda storica, cercando di comprendere la mentalità e la cultura dei soggetti interessati, senza apriorismi di carattere ideologico. Secondo la cultura cattolica del tempo, anche se non tutti erano d’accordo con tale principio, sembrava che compito della Chiesa fosse quello di proteggere innanzitutto i propri fedeli, senza però in questo venir meno al senso di giustizia e di carità dovuti a tutti gli esseri umani.

Alla luce di tale principio si capiscono meglio i successivi interventi dell’autorità ecclesiastica in questa materia. L’attività svolta dal p. Tacchi Venturi a favore degli ebrei non ebbe, come è noto, grande fortuna, anche perché Mussolini era fortemente determinato a portare avanti la sua politica razziale e, in questo settore, non voleva essere secondo all’alleato tedesco. In un’udienza del 9 settembre, cioè dopo i primi decreti-legge antiebraici, il Papa disse esplicitamente al gesuita di trasmettere a Mussolini il seguente messaggio: "Il Santo Padre come italiano si rattrista veramente di vedere dimenticata tutta una storia di buon senso italiano, per aprire la porta o la finestra a un’ondata di antisemitismo tedesco". Due giorni prima, il 7 settembre, il p. Tacchi Venturi aveva comunicato al Duce che "il Santo Padre per notizie e informazioni purtroppo attendibili è molto preoccupato che questo aspetto o parvenza di antisemitismo che si dà alle disposizioni prese in Italia contro gli ebrei, non abbia a provocare da parte degli ebrei di tutto il mondo delle rappresaglie forse non insensibili all’Italia". [...]

* * *

Fatto sta che, a partire dalla pubblicazione del "Manifesto della razza", i rapporti tra il Governo italiano e la Santa Sede, o meglio tra Mussolini e Pio XI andarono gradatamente deteriorandosi, tanto che il Duce disse in privato che quel Papa rappresentava una rovina per l’Italia e per la Chiesa. La stampa internazionale, da parte sua, amplificò in modo caricaturale tale antagonismo, fino a ipotizzare un possibile abbandono della Città Eterna e dell’Italia da parte del Papa: "A seguito del recente conflitto di idee – scriveva alla Segreteria di Stato il Nunzio a Parigi, mons. V. Valeri – che si è manifestato tra le autorità del regime fascista italiano e la Santa Sede a proposito del razzismo, alcuni organi di stampa francese, la quale ha seguito largamente da vicino l’episodio, si sono spinti sino a prevedere nientemeno la possibilità futura di un esilio del Papato da Roma, e, più frequentemente, la nomina di un pontefice non italiano". Tale fatto, riportato anche dal quotidiano cattolico parigino "La Croix", dà la misura della serietà del conflitto esistente tra il Governo fascista e la Santa Sede a motivo della questione razziale e della legislazione antiebraica, universalmente condannata dai cattolici.

Per motivi prudenziali la Santa Sede però organizzò il suo attacco contro la nuova legislazione discriminatoria non facendo riferimento a motivazioni di ordine ideale, fondate sul diritto naturale – come, ad esempio, il diritto di tutti gli uomini a non essere discriminati per motivi di razza o di religione, allo stesso modo in cui in diverse occasioni aveva fatto Pio XI –, ma facendo leva sul proprio armamentario giuridico, in particolare il diritto canonico e il Concordato del 1929, per difendere innanzitutto il diritto degli ebrei cattolici, senza pregiudicare quello degli altri. Che cosa si ottenne seguendo tale indirizzo?

Molto poco, anche se la Santa Sede sperava di ottenere di più. Attraverso l’azione del p. Tacchi Venturi, con circolare del Ministero dell’Educazione Nazionale datata 23 ottobre 1938, si ottenne che i bambini di razza ebraica, battezzati, potessero frequentare scuole private cattoliche, anche parificate. "Ove si trattasse di ebrei non battezzati – è detto, però, in una Nota vaticana – il rev. Padre Tacchi Venturi ha rilevato che, a quanto egli ricorda, le scuole cattoliche non usavano in passato, per evidenti ragioni religiose e morali, ammettere alunni israeliti o comunque non battezzati. Tale norma sembra tanto più da seguirsi ora che il far diversamente potrebbe assumere l’apparenza di una opposizione alla politica del Governo". Si ottenne anche, attraverso la mediazione del gesuita, i cui uffici furono presto avvertiti con fastidio dall’autorità governativa, che alcune insegnanti ebree battezzate insegnassero negli istituti cattolici parificati. Tale disposizione era stata già concessa dal ministro Bottai per le suore insegnanti di origine ebraica. Già questa era considerata dall’autorità fascista una concessione molto particolare, in quanto intaccava il principio biologico sotteso alla legislazione.

Motivo di ulteriore attrito tra il Governo fascista e la Santa Sede furono alcune dichiarazioni rese da R. Farinacci mentre si trovava a Norimberga in occasione del congresso annuale nazista, al giornale delle SS, "Das Schwarze Korps", e pubblicate il 15 maggio, contro i frequenti discorsi di Pio XI in materia di razzismo). [...] L’intervista fu recepita in Vaticano con profondo malcontento; Pio XI ne fu personalmente colpito [...]. Il 21 settembre 1938 il Cardinale Segretario di Stato consegnava all’Ambasciatore italiano presso la Santa Sede una Nota di protesta per le frasi irrispettose e offensive, pronunciate da Farinacci, verso "l’augusta persona del Santo Padre".

Intanto in Vaticano arrivavano decine di richieste di ebrei colpiti dalle disposizioni governative, chiedendo che il Papa si adoperasse in loro favore. Dalla documentazione vaticana, ora disponibile, risulta che la Santa Sede fece il possibile, intervenendo frequentemente attraverso il proprio fiduciario presso l’autorità governativa, per andare incontro alle necessità degli ebrei, in particolare di quelli battezzati. Va ricordato, infatti, che dal punto di vista umanitario soprattutto questi ultimi avevano estremo bisogno del sostegno papale, poiché essi non beneficiavano della protezione della comunità di appartenenza, che li aveva rigettati, e neppure del sostegno concesso dalle comunità ebraiche internazionali. L’anima di tale attività a favore degli ebrei, ormai socialmente discriminati, fu il p. Tacchi Venturi, che nonostante i suoi limiti – primo fra tutti la sua propensione a comprendere e spesso ad accettare le "ragioni" del regime –, si spese con grande generosità per questa causa.

* * *

Dopo i provvedimenti governativi del 5 e del 7 settembre, la seconda tappa del cammino verso l’introduzione in Italia di una legislazione apertamente discriminatoria nei confronti dei cittadini ebrei fu costituita dalle deliberazioni adottate dal Gran Consiglio del Fascismo del 6-7 ottobre 1938, destinate a fissare i pilastri fondamentali della successiva legislazione antiebraica. [...]

La Santa Sede per il momento decise di non intervenire direttamente: si sapeva infatti che un suo intervento pubblico, oltre a esasperare l’animo di Mussolini, ormai completamente maldisposto nei confronti dell’anziano Papa, avrebbe certamente nuociuto alla causa degli ebrei, e non solo di quelli battezzati. Si decise così di aspettare le disposizioni legislative che sarebbero seguite alle Dichiarazioni del Gran Consiglio, in modo da poter intervenire concretamente per ottenere dall’autorità governativa mitigazioni alla legislazione antiebraica, che già si annunciava dura e pesante.

Siamo convinti che un intervento della Santa Sede e del Papa in quel momento contro le dichiarazioni dell’organo supremo del fascismo avrebbe innescato una lotta aperta tra il regime e il Vaticano, facendo così il gioco di chi, come Farinacci, avrebbe desiderato una sorta di regolamento di conti tra le due istituzioni, per far conoscere al mondo "chi veramente comanda in Italia". Sappiamo, inoltre, che Mussolini in quel momento era determinato a bloccare ogni manovra del Vaticano in favore degli ebrei e a contrapporsi con forza agli appelli del Papa: il problema della razza, o meglio degli ebrei, doveva essere risolto con determinazione, come in Germania aveva fatto il suo collega nazista, senza curarsi dell’opposizione delle confessioni cristiane, in particolare della Chiesa cattolica.

Perciò, la prudenza che la Santa Sede dimostrò in quel momento fu determinata dalla volontà di salvare il salvabile e, in ogni caso, di non voler contribuire a rendere più dura la legislazione antiebraica che nel frattempo si stava mettendo a punto. A questo si aggiunga che la mentalità dominante in quel momento in parte del mondo cattolico italiano, a proposito del problema ebraico, era segnata da un certo antigiudaismo, che si radicava in passate, e anche recenti, contrapposizioni di carattere religioso e politico-culturale: pensiamo che per molti non fu facile svestirsi di tale abito mentale, per passare direttamente dall’altra parte, e vedere nell’ebreo un "fratello maggiore", da amare, e, soprattutto in quel momento delicato, da aiutare.

L’unica questione che allora fu fatta presente all’autorità governativa fu quella dei "matrimoni misti" [tra cattolici ed ebrei], poiché tale materia toccava direttamente il diritto della Chiesa e il Concordato: su di essa, infatti, la Santa Sede poteva intervenire senza il timore di indispettire oltre misura l’autorità pubblica. Fu fatto notare che la disposizione del Gran Consiglio concernente tale materia immetteva nell’ordinamento giuridico italiano un nuovo impedimento assoluto alla celebrazione di matrimoni, ledendo così un diritto della Chiesa, in particolare quello di concedere dispense per disparità di culto, quando lo riteneva assolutamente necessario per la salvezza delle anime. Si chiedeva così al legislatore di non porre un divieto assoluto e generale alla celebrazione di matrimoni misti, semmai di concordare con l’autorità ecclesiastica una modalità per tenerli sotto controllo, attraverso un permesso speciale congiunto del Governo e della Santa Sede.

In ogni caso, non è vero, come a volte viene ripetuto, che la Santa Sede subì passivamente la legislazione antiebraica, o che intervenne soltanto, come nella materia dei matrimoni misti, per tutelare gli interessi specificatamente cattolici e confessionali: essa, sebbene con discrezione, cercò di preparare gli spiriti per la futura battaglia contro le nuove disposizioni emanate dal Regime.

Un documento vaticano, redatto subito dopo le dichiarazioni del Gran Consiglio, ci informa a tale riguardo sulle direttive "segrete" date dalla Segreteria di Stato. L’azione della Santa Sede, è detto nel documento, dovrebbe svolgersi secondo una duplice direzione: "Azione persuasiva sul Governo. Per mezzo di persone adatte e ornate delle opportune qualità, sarebbe bene cercare di insistere su influenti persone del Regime – e non soltanto sul capo del Governo – per far loro comprendere a quali tristi conseguenze conduce una politica razziale esagerata che non si limita a misure tendenti al rinvigorimento della stirpe, ma va all’eccesso del razzismo con provvedimenti che ledono la giustizia e i diritti della Chiesa […]. Di più far capire che in caso di dissidio colla Santa Sede lo svantaggio maggiore sarebbe per il fascismo". L’altra direzione riguarda l’azione sul clero. Innanzitutto si chiedeva di inviare in via riservata a tutti i metropoliti istruzioni speciali, da comunicare agli altri vescovi, "perché prevengano il clero di non inviare adesione alcuna alla rivista La Difesa della Razza", considerata dannosa e non conforme alla dottrina della Chiesa in tale materia.

In particolare, si raccomandava a tutto il clero italiano "che non tralasci occasione alcuna per insistere, con la dovuta prudenza si capisce, sui danni e le conseguenze di un nazionalismo e di una razzismo esasperato. Questo si potrebbe fare con speciali riunioni del clero senza dare l’impressione che si voglia fare azione contro il Governo [...]. Questo sembra necessario soprattutto nel momento presente in cui non v’è libertà di stampa e spesso anche i pochi e deboli quotidiani cattolici sono obbligati a pubblicare certe sciocchezze circa il razzismo". Si chiedeva, inoltre, che la stessa azione venisse svolta anche nei seminari maggiori, facendo attenzione però a non violare la lettera dell’accordo del 16 agosto sottoscritto dalla Santa Sede con il Governo fascista.

Come già si è detto, la Santa Sede, in quel momento, scelse di agire contro le nuove disposizioni antiebraiche con mezzi discreti e puntando sull’efficacia della propria "diplomazia domestica", opzione da molti non condivisa, ma che nell’immediato sembrava la sola possibile e anche la più efficace.


Il Cardinale Bagnasco al Consiglio permanente della CEI (22-25 settembre 2008)
ROMA, lunedì, 22 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo integrale della prolusione svolta questo lunedì dal Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, in occasione del Consiglio permanente che si terrà a Roma fino al 25 settembre prossimo.
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Venerati e cari Confratelli,
dopo la stagione estiva, e mentre nelle nostre diocesi ha già preso avvio il nuovo anno pastorale, ci ritroviamo per la consueta sessione autunnale del Consiglio Permanente della nostra Conferenza episcopale. A saldarci insieme sono i vincoli della fede in Cristo e dello stesso mandato apostolico, ma anche l’affezione al Popolo di Dio pellegrino nelle terre d’Italia.
Vari e importanti sono i temi che attendono la nostra riflessione e la nostra valutazione: invochiamo la grazia del Signore e la luce dello Spirito affinché sappiamo corrispondere alle attese che sono rivolte al nostro lavoro. Il discernimento cristiano, che invochiamo come dono per le nostre comunità, sia l’atteggiamento grazie al quale noi per primi vogliamo uniformarci ai disegni del Padre per la salvezza di coloro che ci sono affidati e del mondo intero.
1. Con la solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, il 28 giugno scorso, siamo entrati nel perimetro dell’Anno Paolino, che il Santo Padre, Benedetto XVI, ha felicemente indetto per la ricorrenza bimillenaria della nascita del «maestro delle genti». Nell’aderire alle ragioni profonde di questo anno speciale, desideriamo proporre a noi stessi e alle nostre Chiese la figura gigante dell’Apostolo e le sue lettere, «vero patrimonio dell’umanità redenta» (Benedetto XVI, Omelia alla Celebrazione dei Primi Vespri, 28 giugno 2007). Nel suo peregrinare per la causa del Vangelo egli, tra l’altro, toccò in vari punti le nostre regioni: Siracusa, Reggio Calabria, Pozzuoli e infine Roma, dove trovò il martirio; un motivo in più perché egli torni ad alzarsi in mezzo a noi (cfr. At 17,22; 27,21), e tutti possano di nuovo «ascoltarlo (e) per apprendere ora da lui, quale nostro maestro» (Benedetto XVI, Omelia alla Celebrazione dei Primi Vespri, Basilica di San Paolo fuori le Mura, 28 giugno 2008) che il Dio dei cristiani non è un Dio estraneo o lontano, ma vicinissimo a loro e alla loro cultura, è anzi la vera risposta alla loro sete e fame più profonde. A lui toccò «l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale»: una scoperta imprevista, un coinvolgimento sconvolgente. «Perseguitando la Chiesa, Paolo perseguita lo stesso Gesù. “Tu perseguiti me” (cfr At 9,4s). Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto. In questa affermazione del Risorto, che trasformò la vita di Saulo, in fondo ormai è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo» (ib). Le generazioni che si sono succedute non hanno cessato di leggere il mistero della Chiesa sul paradigma stringente del corpo che ha molte membra e varie giunture, ma non cessa di essere uno con il Cristo stesso (cfr 1Cor 12,12s; Ef 4,15s). Il che però è assai più di una analogia. «Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo» (1Cor 10,16s). Diranno i Padri che noi mangiamo quello che dobbiamo diventare, anzi quello che già siamo. E Benedetto XVI conclude: «Continuamente Cristo ci attrae dentro il suo Corpo, edifica il suo Corpo a partire dal centro eucaristico, che per Paolo è il centro dell’esistenza cristiana, in virtù del quale tutti, come anche ogni singolo può in modo tutto personale sperimentare: Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me» (ib).
2. Nel processo di autocoscienza della Chiesa, decisivo si è rivelato il concetto di comunione, che a sua volta esprime la peculiare unione che fa di tutte le membra un medesimo corpo, il Corpo mistico di Cristo. Il Concilio Vaticano II ha trovato qui la chiave di lettura per una rinnovata ecclesiologia cattolica, che è stata via via rilanciata e precisata dal successivo magistero pontificio, oltre che nel Sinodo straordinario del 1985, e in alcune messe a punto della Congregazione per la Dottrina della Fede (cfr specialmente Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione, 28 maggio 1992). Diciamo questo perché nella inesausta contemplazione del mistero della Chiesa, quale è beneficamente sollecitata dall’Apostolo, si abbia sempre l’avvertenza di aderire alla coscienza più matura del mistero, senza attardarsi su presunte antinomie o approcci unilaterali (cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera cit., 1). Come tale infatti, il mistero della Chiesa è certamente alla portata di tutti, ma senza semplificazioni, ad esempio, tra la comunione verticale e quella orizzontale, tra la comunione visibile e quella invisibile, tra la comunione eucaristica e quella gerarchica, tra la comunione che si esprime in ogni Chiesa locale e quella garantita nella Chiesa universale, grazie al ministero di Pietro che appartiene all’essenza interiore di ogni Chiesa particolare (cfr. Lettera cit., 3, 4, 7-9, 13).
Ciascuno di noi Vescovi gode della propria Chiesa particolare, e la considera il suo vanto e la sua gloria (cfr 2Cor 1,14; 1Tess 2,20), consapevole che la Chiesa universale è «ontologicamente e temporalmente previa ad ogni Chiesa particolare» (Lettera cit., 9). Dinanzi a talune istanze che puntano a contrapporre il vertice e la base, non c’è chi non veda come si tratti di false polarità, mentre in ogni ambito è richiesta una mutua inclusione, anzi una «mutua interiorità» (ib, 13). È accogliendo in sé, peraltro, questi princìpi dinamici che ogni fedele sa di appartenere non solo a una Chiesa locale ma immediatamente alla Chiesa universale, accedendo così alla consolante verità che «nella Chiesa nessuno è straniero» (Gal 3,28; cfr Lettera cit., 10).
3. Un momento forte, seppur doloroso, di questa esperienza comunionale nelle ultime settimane l’abbiamo vissuto in rapporto all’ondata di persecuzioni inflitte in India anzitutto ai fratelli del distretto di Kandhamal, nello stato dell’Orissa, e successivamente sviluppatesi in altri quattro stati. Infatti, «se un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui» (1Cor 12,26). È noto come la scintilla da cui il 23 agosto è scaturita quest’ultima esplosione di violenza fosse l’addebito pretestuoso ai cristiani del luogo circa alcuni esecrabili fatti di sangue tuttora non chiariti, e che hanno avuto altre rivendicazioni (poi smentite). Ma questo è bastato per far partire una sanguinosa campagna di intimidazione che ha provocato decine di morti, per non parlare dei ferimenti e degli stupri, degli assalti alle chiese (compresa la cattedrale di Jabalpur), ai conventi, agli orfanatrofi e alle scuole, con la messa in fuga di decine di migliaia di persone che si sono salvate rifugiandosi nei centri di raccolta o nelle foreste. Tutto in realtà si è scatenato – ormai è chiaro – a motivo dell’opera di promozione che in quelle regioni i cristiani compiono a favore degli ultimi nella scala sociale, un’iniziativa ritenuta destabilizzante per un certo assetto sociale e di potere.
Uno scenario – verrebbe da dire − di altri tempi, affacciatosi in un Paese retto da una democrazia parlamentare e che coltiva grandi ambizioni sullo scacchiere internazionale. Viene da chiedersi come si possa impedire che dei connazionali siano soccorsi nella loro indigenza solo per la paura che si sviluppi una simpatia erroneamente scambiata con la maschera del proselitismo. Eppure, per settimane gli atti di violenza si sono susseguiti nel dispregio delle leggi, nell’impunità dei colpevoli, nella disinformazione della stampa nazionale, nell’imbarazzo dei politici locali e nel quasi silenzio della comunità internazionale. Qualcosa appena ora comincia a muoversi, ma con evidente sproporzione rispetto ai gravissimi fatti. Solo la voce del Papa, già a partire da mercoledì 27 agosto, è echeggiata puntuale e nitida, e ad essa la Presidenza della Cei ha ritenuto di doversi unire indicendo per venerdì 5 settembre, memoria liturgica della beata Maria Teresa di Calcutta, una giornata di preghiera e di penitenza, in solidarietà con un’analoga iniziativa voluta dai confratelli Vescovi dell’India.
4. Negli stessi giorni delle violenze in India, e mentre intolleranze ed emarginazioni ai danni dei cristiani venivano denunciate nel vicino Pakistan, è tornato alla ribalta il calvario cui da troppo tempo ormai è sottoposto il cristianesimo dell’Iraq, dove altri due caldei sono stati assassinati, ultimi anelli di una catena di sangue in corso da oltre quattro anni e che aveva visto nel marzo scorso la morte dello stesso Arcivescovo di Mosul, nel quadro di una vera e propria “pulizia religiosa” che sta portando alla decimazione di una comunità che cinque anni fa contava un milione di fedeli, ed è oggi ridotta a circa la metà, dopo la fuga nei Paesi vicini.
Ecco perché ci piacerebbe che dalla classe politica come da parte degli intellettuali e dell’opinione pubblica, venisse rivolta una nuova, vigorosa attenzione al tema della libertà religiosa quale caposaldo della civiltà dei diritti dell’uomo e come garanzia di autentico pluralismo e vera democrazia. Forse che, alla luce anche degli eventi più recenti, non ha ragione Alexis de Tocqueville ad asserire «che il dispotismo non ha bisogno della religione, la libertà e la democrazia sì» (in La democrazia in America, I,9)? La libertà religiosa infatti non è un optional più o meno gentile che gli Stati concedono ai cittadini più insistenti, né una concessione paternalisticamente riconducibile al principio della tolleranza. È piuttosto il caposaldo delle libertà ed il criterio ultimo di salvaguardia delle stesse, in quanto iscritto nello statuto trascendente della persona e nella indisponibilità di questa rispetto a qualsiasi regime e a qualsiasi dottrina. Vorremmo con ciò unirci all’accorato appello recentemente lanciato dall’Arcivescovo Mamberti quando, evidenziando il fenomeno della «cosiddetta cristianofobia», ha inteso in «spirito costruttivo» rilevare come vi siano rischi che prendono piede vicino a noi, ossia nella nostra stessa Europa, citando «il distacco della religione dalla ragione, che relega la prima esclusivamente nel mondo dei sentimenti, e la separazione della religione dalla vita pubblica» (Protezione e diritto di libertà religiosa, Intervento al Meeting di Rimini, 29 agosto 2008). Vi è infatti una derivazione concettuale tra la disinvolta pratica del relativismo, gli eccessi antireligiosi e anticristiani e la regressione culturale ed etica delle società. E non si vede, a questo punto, chi avrebbe interesse a nascondersi tale nesso: non certo coloro che, abbandonando saccenteria ed arroganza, vogliono superare la situazione di stallo in cui si trova la costruzione europea e intendono effettivamente radicare l’Europa nella coscienza dei popoli, così che − fiorendo − dia legittimità morale a carte e trattati, e procuri un orizzonte di senso ad una legislazione comunitaria che non si contrapponga artificiosamente alle tradizioni e alle culture delle nazioni, ma sia con queste in un rapporto di intelligente sussidiarietà. Osservava, nel suo recente viaggio in Francia, Benedetto XVI: «Quando il cittadino europeo vedrà e sperimenterà personalmente che i diritti inalienabili della persona umana, dal concepimento fino alla morte naturale, come anche quelli relativi all’educazione libera, alla vita familiare, al lavoro, senza dimenticare naturalmente i diritti religiosi, quando dunque il cittadino europeo si renderà conto che questi diritti, che costituiscono un tutto indissolubile, sono promossi e rispettati, allora comprenderà pienamente la grandezza dell’edificio dell’Unione e ne diverrà un attivo artefice» (Discorso all’Eliseo, 12 settembre 2008).
5. Le Giornate mondiali della Gioventù si sono rivelate nell’arco degli ultimi vent’anni un’indubbia risorsa di quella missionarietà che è dinamismo intrinseco di ogni vera ecclesiologia. Scaturite dall’animo contemplativo di Giovanni Paolo II, esse hanno aiutato non poco le comunità ecclesiali e le aggregazioni laicali a vivere questa delicata stagione senza assurde competizioni o malinconici ripiegamenti. Alla prova dei fatti, le Gmg sono risultate strumenti straordinari di una evangelizzazione che in partenza era ritenuta così ardua da non essere per taluni neppure tentata. Che esse poi si siano rivelate il segno dell’«alleanza tra Cristo e le nuove generazioni» − come ha affermato Benedetto XVI (Saluti all’Angelus, Castel Gandolfo, 6 luglio 2008) − ci appare come una singolare correzione che la storia a volte riesce ad apportare a se stessa. Dalla «morte di Dio» al Dio che è radice della nostra gioia e fonte della nostra giovinezza: ecco un’indubbia parabola religiosa vissuta dall’Occidente nonostante difficoltà e contraddizioni, rispetto alla quale tuttavia va bandita qualsiasi tentazione trionfalistica.
La più recente edizione di queste Giornate, che ha avuto luogo a Sydney nello scorso mese di luglio, aveva in sé tutti gli elementi di sfida tipici di questo genere di iniziative. Eppure è splendidamente riuscita, come molti di noi Vescovi possono testimoniare, avendo accompagnato e osservato da vicino i nostri giovani mentre interagivano con il «loro» Papa, e insieme con lui interrogavano la grande città super-moderna, simbolo di una forte secolarizzazione. E la città mondiale, microcosmo in cui si parlano duecento lingue, ha reagito dapprima con circospezione e infine arrendendosi allo spettacolo di giovani che “stranamente” non creavano problemi, e con allegria contagiosa conquistavano la scena, mostrando in pubblico il mai visto. Preso in contropiede, lo scetticismo degli ambienti intellettuali è stato spazzato via tra entusiasmo e stupore. E da un certo punto in poi, la città-metropoli si è finalmente concessa ai giovani ospiti, estasiata e meditabonda. S’è trattato di una «settimana davvero memorabile», a giudizio del Papa (Saluto ai Volontari, Domain, 21 luglio 2008), e più precisamente di «un evento ecclesiale di carattere globale, una grande celebrazione della gioventù, una grande celebrazione di ciò che significa essere Chiesa, Popolo di Dio in mezzo al mondo, unito nella fede e nell’amore e reso capace dallo Spirito di recare testimonianza del Cristo risorto sino ai confini della terra» (Discorso di congedo all’Aeroporto di Sydney, 21 luglio 2008).
6. Il messaggio finale che Benedetto XVI ha affidato ai giovani è quello di «vedere i limiti di tutto ciò che perisce, la follia di una mentalità consumista» (Discorso alla Veglia, Sydney, 19 luglio 2008), e dunque di superare tante mitologie che, come «cisterne screpolate e vuote» (Omelia per la XXIII Giornata mondiale della Gioventù, Sydney, 20 luglio 2008) li lascerebbero inghiottire dall’ideologia relativista. Ma a questo approdo sono stati sollecitati attraverso la presa di coscienza della centralità dello Spirito Santo, che «è stato in vari modi la Persona dimenticata della Santissima Trinità» (Discorso alla Veglia, cit.). Diciamo che i lunghi mesi di preparazione, come le catechesi svolte dai Vescovi nei giorni iniziali di Sydney, a questo puntavano, dissodando il terreno per quell’«avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi” (At 1,8), che Benedetto XVI ha poi sviluppato da impareggiabile catecheta, facendo sì che queste parole fossero avvertite come «indirizzate ad ognuno». E così, come lui aveva anticipato parlando con i giornalisti a bordo nel suo stesso aereo, ha passato in rassegna «questa realtà dello Spirito Santo, che appare in diverse dimensioni»: operante nella Creazione, ispiratore della Scrittura, potenza indivisibile da Gesù, sostanza della Chiesa, e infine spinta nei fedeli «a portare compimento l’opera di Cristo (…) oltre le visioni parziali, la vuota utopia, la precarietà fugace» (Discorso alla Veglia, cit.). Rimarchevole è stata in quel raduno l’esperienza del silenzio, indispensabile affinché il raccoglimento entrasse nelle fibre e lasciasse traccia nelle coscienze. «L’amore di Dio può effondere la sua forza solo quando gli permettiamo di cambiarci dal di dentro – diceva il Papa nell’omelia della Messa conclusiva. − Noi dobbiamo permettergli di penetrare nella dura crosta della nostra indifferenza (…). Solo allora possiamo permettergli di accendere la nostra immaginazione e plasmare i nostri desideri più profondi. Ecco perché la preghiera è così importante (…). Essa è pura ricettività della grazia di Dio, amore in azione, comunione con lo Spirito Santo» (Omelia, cit.).
Il punto terminale della Gmg di Sydney ha coinciso con il punto di partenza per una nuova stagione di impegno, nella quale i giovani del mondo devono «trovare le parole adatte per annunciare Dio» anzitutto ai loro coetanei, e dunque «nei luoghi di studio, di lavoro o di divertimento» (Discorso alla Veglia di preghiera, Parigi, 12 settembre 2008). Ai giovani italiani presenti in Australia, come ai tanti coetanei che − attraverso l’intraprendenza dei nostri media − hanno seguito l’evento dall’Italia, tocca ora vivere l’eredità preziosa della Giornata mondiale della Gioventù, ossia «rimanere nel raggio del soffio dello Spirito Santo», come efficacemente ha spiegato il Papa stesso a un seminarista che lo interpellava durante l’incontro con il clero di Bolzano-Bressanone, il 6 agosto scorso. Ai loro animatori, come ai responsabili della Pastorale giovanile – cui va la nostra gratitudine per il lavoro svolto in occasione della Gmg – spetta il compito di non lasciar disperdere un vissuto straordinario, che deve diventare invece crogiuolo di crescita, anzi possesso perenne. Una «giornata non mondiale, ma sarda, della gioventù» si è nel frattempo svolta a Cagliari, con la desiderata presenza del Santo Padre, che ha aggiornato e specificato gli obiettivi di Sydney per le nuove generazioni dell’Isola (cfr Discorso ai giovani, Cagliari 7 settembre 2008). Così come ha prospettato a tutti i fedeli, riuniti nello «spettacolo più bello che un popolo può offrire, quello della propria fede» (Omelia sul sagrato del Santuario di N.S. di Bonaria, 7 settembre 2008), le mete di vita cristiana che sono conseguenti all’antica fedeltà al Vangelo che quell’amato popolo ha espresso dal tempo dei martiri fino ad oggi.
7. Ma c’è un’altra esperienza ricorrente nel ministero di noi Vescovi che merita di essere richiamata per il carattere emblematico che essa va assumendo, quella dei pellegrinaggi a Lourdes. Citiamo Lourdes per la coincidenza con il 150° anniversario delle apparizioni, che il Santo Padre stesso ha voluto onorare; ma nel nome della cittadina dei Pirenei vorremmo in qualche modo evocare tutte le altre località, non solo mariane, fatte meta di itinerari posti esplicitamente sotto il segno della fede e della rinascita spirituale. Sì, perché la dimensione del pellegrinaggio popolare, lungi dal rivelarsi obsoleta, sta in realtà conoscendo una stagione di sorprendente rilancio. Esito non di un marketing esasperato, ma di una richiesta pressoché spontanea, che le parrocchie e le diocesi intercettano, affidandosi poi in genere a enti e agenzie che adempiono il loro compito – va detto – con professionalità e abnegazione, rispettando il carattere squisitamente spirituale che soggiace a tale domanda. Questa è espressione non di un monolitismo religioso attribuito ad altri tempi, ma è rappresentativa del frastagliamento tipico che l’atteggiamento verso il sacro ha assunto in questa stagione. Anzi, se una accentuazione c’è, è proprio nel senso che in queste iniziative, in mezzo a tanti fedeli «normali» di ogni età e condizione, è possibile incontrare persone in ricerca, tormentate, sofferenti, scettiche, ferite dalla vita, insomma un’umanità varia quale solo la Chiesa riesce a richiamare. Ogni volta si presenta agli occhi di chi guarda senza pregiudizi uno “spettacolo” che non si spiega, se non con il fatto che a Lourdes si trova qualcosa per cui vale la pena di andare, e di tornare. Qualcosa che non necessariamente è il miracolo sperato o già ottenuto, ma piuttosto la forza di andare avanti, un senso per cui valga la pena vivere. «Rimettersi completamente a Dio è trovare il cammino della libertà vera. Perché volgendosi a Dio, l’uomo diventa se stesso. Ritrova la sua vocazione originaria di persona creata a sua immagine e somiglianza» (Benedetto XVI, Omelia alla Celebrazione Eucaristica, Lourdes, 14 settembre 2008). Sono uomini e donne che vengono a domandare la speranza, quella che non si trova dietro l’angolo, nelle nostre città, e spesso neppure nelle nostre case. Lourdes è come la mano tesa di un mendicante, anzi migliaia, milioni di mani tese, spalancate. E il vero miracolo è che qualcosa infine stringono, queste mani. Come il rosario in pugno. E questo miracolo appare allora sulle facce che riemergono dall’acqua miracolosa o la sera escono dalla basilica. Volti di gente pacificata in quel «luogo di luce», in quella «straordinaria prossimità tra il cielo e la terra» (Omelia alla Processione aux Flambeaux, Lourdes, 13 settembre 2008).
Se osiamo dirci esperti, lo siamo di questa umanità che, incontrandoci, ci rivolge un saluto, avanza un dubbio, talora un’imprecazione, alla ricerca di una mano a cui aggrapparsi, e infine si ferma e apre l’animo alla confidenza, a Dio, sostanza di ciò che si spera. Non però uno sbracciarsi verso mete lontane, ma già oggi il principio tangibile della promessa, che cambia la vita, e dà alle giornate un altro respiro. E quelle che sembravano tante monadi solitarie diventano un popolo vero, che chiede il rispetto della propria dignità agli occhi del mondo. Come lo chiede anche dinanzi a tesi impavidamente sostenute secondo cui, ad esempio, una certa riscoperta della dimensione religiosa starebbe, nelle nostre contrade, avvenendo attraverso non il «fatto» cristiano ma la mera declamazione socio-politica. Evidentemente talora si parla di cose che non si conoscono, e per finalità probabilmente tutte interne alla polemica politica e culturale.
8. Questo lo diciamo perché sappiamo bene che resta aperto il problema di un certo sguardo laico sulla Chiesa, e di che cosa questo sguardo più ispido, tra altri sguardi, riesce a vedere in noi e nella comunità cristiana. Non ci sfuggono taluni discorsi. Se subito non reagiamo non è perché certe parzialità o l’ostinazione di taluni giudizi ci lascino indifferenti. Ovviamente ci interroga la dichiarata delusione di chi, dopo aver esercitato un’abile selezione tra le nostre parole e i nostri impegni, conclude che siamo inadempienti. Se normalmente non rispondiamo punto per punto, non è perché vogliamo mancare di attenzione all’interlocutore, ma piuttosto perché pensiamo che vi siano delle pre-comprensioni così ossificate che solo il tempo e, quanto a noi, gli spazi per un’ulteriore coerente testimonianza potranno allentare. Per ciascun uomo è in fondo consolante sapere, o almeno un giorno scoprire «che Dio non è suo nemico, ma il Creatore, pieno di bontà» (Benedetto XVI, Discorso alla Conferenza Episcopale francese, cit.)
È invece sullo sguardo eccessivamente altalenante e, in ultima istanza, fin troppo pessimista che una certa Italia dedica al Paese intero che ci pare di dover dire una parola semplice e pacata. Ebbi già occasione di esprimere riserve su una singolare «pedagogia della catastrofe» (cfr Prolusione Assemblea Cei, Maggio 2008) che di tanto in tanto riaffiora da alcune analisi che imperversano sulla pubblicistica dell’ultima stagione. È una lettura dove non difettano gli elementi di sincerità, inseriti tuttavia in una trama troppo cedevole ad inflessioni che ci paiono senza respiro. Più che un Paese da incubo, il nostro è un Paese che ciclicamente conosce gli spasmi di un travaglio incompiuto, dove però i segmenti luminosi non mancano, e i punti di forza neppure. Non manca soprattutto lo sforzo diuturno di milioni di cittadini che, ogni giorno donato dalla Provvidenza, adempiono con dedizione e spirito di sacrificio il proprio dovere. Un Paese non si spezza all’improvviso, come non si costruisce dalla sera al mattino. Ci sono processi più lunghi, che infatti hanno bisogno di analisi puntuali e non sommarie, e di un piglio che nell’individuare i punti di debolezza li persegua con metodo, senza tuttavia abbandonare mai un’ottica d’insieme − comprensiva delle diverse sfumature − che ne stabilizzi le terapie. Tutti, credo, avvertiamo il bisogno di uscire dalle convulsioni di un certo ritardo sulla via della modernizzazione, ma lo si può fare se le libere intelligenze guardano costantemente al merito delle questioni, con autonomia e indipendenza. La stessa autonomia e la stessa indipendenza che noi Vescovi chiediamo in primo luogo a tutti gli analisti cattolici, perché il loro parlare sia sempre vero e, insieme, interprete di un realismo proporzionato ai fatti, e mai senza speranza.
9. Che poi ciascuna componente la nostra comunità nazionale si impegni a fare per intero il proprio dovere, guardando più ai propri obblighi che alle debolezze altrui, di questo oggi c’è veramente bisogno, se si vuole che il nostro amato Paese porti a compimento i processi di cambiamento in corso.
L’esperienza, che ci viene dai contatti quotidiani, ci dice che la gente avverte sulla scena politica una certa voglia di fare, ad esempio per colmare gli scarti infrastrutturali e per risolvere alcune delle grandi emergenze aperte, ma per ora non si attenua quella percezione di impoverimento di cui s’è detto in precedenti occasioni. Nessuno evidentemente può ignorare le condizioni poste da una sempre più complessa crisi internazionale e dai suoi caratteri per lo più inediti, dovuti a una globalizzazione sostanzialmente poco governata. È indispensabile tuttavia che mentre positivamente ci si applica alla soluzione di alcuni importanti nodi, contemporaneamente ci si concentri sulle fasce più deboli, e sulle famiglie monoreddito che stanno reagendo come possono all’ondata di aumenti dei prezzi che nel frattempo non cessano di lievitare. Certo, ogni provvedimento di soccorso è utile, ma necessitano misure organiche che diano un minimo di serenità, consentendo ai nuclei famigliari di pianificare le loro prospettive di vita. Nel frattempo occorre tendere ad una maggiore equità sociale, sia verticale (tra redditi diversi) sia orizzontale (le famiglie dello stesso reddito ma con più figli devono pagare di meno). Resta intatta l’impressione che, se si disponesse di un sistema fiscale basato sul quoziente familiare, potrebbe determinarsi un circolo assai più virtuoso tra le famiglie e la società nel suo insieme, soprattutto tra l’oggi e il domani che è comune.
Si sta procedendo, pare con maggiore serenità, verso un sistema più federalista, che faccia perno su processi decisionali più autonomi e responsabilizzanti. A nessuno sfugge la rilevanza anche culturale di questo passaggio che richiede una elevata capacità di previsione circa il congegnarsi efficace di meccanismi anche delicati. Non ci sono tuttavia toccasana prodigiosi: se si vuole che il nuovo assetto si riveli effettivamente un passo avanti, è necessario che ciascun ente si interroghi su come fare un passo indietro rispetto a metodi di spesa che saranno presto insostenibili. Così come è necessario che rimanga forte e appassionato il senso della solidarietà e della comune appartenenza ad un solo popolo e alla sua storia, preoccupandosi e operando perché nessuna parte, rispetto alle altre, rimanga per strada.
Scenari più sereni sembrano profilarsi pure sul fronte della giustizia, e noi non possiamo non incoraggiare un clima reciprocamente più comprensivo, che abbia come obiettivo la domanda, proveniente anzitutto dai cittadini, di una giustizia più tempestiva e funzionante. Sul fronte della scuola poi si stanno mettendo in campo innovazioni e recuperi volti a dare una maggiore credibilità ed efficacia all’istituzione e ai suoi operatori. Una parola di sincera e cordiale stima va a tutto il personale scolastico, a cominciare dai docenti per l’importanza e la nobiltà del ruolo che ricoprono a livello culturale, educativo e sociale. Ma anche qui pensiamo che la vera chiave di volta non potrà non venire dal riconoscimento del ruolo primario della famiglia, messa in condizione di scegliere all’interno di un sistema effettivamente paritario e integrato, in cui ad emergere siano le diverse opportunità in vista di abilità giovanili obiettivamente più apprezzabili.
Più in generale, a proposito della famiglia, noi siamo profondamente persuasi con il Papa che, nonostante le «burrasche» che sono oggi da affrontare, essa è la «cellula primordiale (…), lo zoccolo solido sul quale poggia l’intera società» (Benedetto XVI, Discorso alla Conferenza Episcopale francese, Lourdes, 14 settembre 2008). Per questo sarà bene non dare per scontata la preparazione indispensabile per «difendere l’unità del nucleo familiare a costo anche di grandi sacrifici (…) perché l’amore vero non si improvvisa», specie in una stagione in cui «viene usato il termine famiglia per unioni che, in realtà, famiglia non sono» (Benedetto XVI, Discorso ai giovani, Cagliari, 7 settembre 2008). È sullo sfondo peraltro di queste sfide, ossia della capacità «di evangelizzare il mondo del lavoro, dell’economia, della politica» che il Papa ha sollecitato il sorgere «di una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile» (Omelia, cit., Cagliari, 7 settembre 2008), e che siano per ciò stesso ragione di vita e di speranza per l’intera società.
10. Il fenomeno dell’immigrazione resta uno degli ambiti più critici della nostra vita nazionale. Se fino a ieri eravamo giunti ad una presenza tutto considerato significativa di immigrati sul nostro territorio, senza spaccature sociali o situazioni drammaticamente fuori controllo, è perché alla prova dei fatti il temperamento del nostro popolo si lascia filtrare da una secolare cultura dell’accoglienza e di rispetto per il fratello − per quanto diverso − in difficoltà. Su questo fronte tuttavia nell’ultimo periodo stanno emergendo qua e là dei segnali di contrapposizione anche violenta che sarà bene da parte della collettività ai vari livelli non sottovalutare. Vogliamo credere che non si tratti già di una regressione culturale in atto, ma motivi di preoccupazione ce ne sono, e talora anche allarmi, che occorre saper elaborare in vista di risposte sempre civili, per le quali il pubblico dibattito deve lasciar spazio alla ricerca di rimedi sempre compatibili con la nostra civiltà. Incessante peraltro è l’arrivo di nuovi irregolari, sempre nostri fratelli, che a prezzo della vita si accostano alle rive italiane, interrogando la nostra coscienza e inevitabilmente sfidando ogni volta le nostre potenzialità d’accoglienza. Su questo argomento, Benedetto XVI è ripetutamente intervenuto nelle scorse settimane con parole ferme e accorate (cfr Saluto dopo l’Angelus, Bressanone, 17 agosto 2008 e Castel Gandolfo, 31 agosto 2008), e con grande capacità di inquadrare il problema migratorio, con i suoi contorni epocali, all’interno di una visione umanistica irrinunciabile e in un contesto nel quale ciascuna delle parti interessate ha responsabilità e doveri. Su questo fronte sarà bene procedere – anche in un contesto europeo – cercando con impegno accordi di cooperazione con i Paesi di provenienza e volendo progressivamente guadagnare alla legalità situazioni irregolari compatibili con il nostro ordinamento, accettando di dare – appena vi siano le condizioni – risposte positive sia alle esigenze di una progressiva ed equilibrata integrazione sociale, sia alle domande di ricongiunzione familiare presentate nella trasparenza e per il benessere superiore delle persone coinvolte, oltre che della società tutta.
Come Pastori, non possiamo tacere una forte preoccupazione di fronte ai frequenti episodi di violenza e di spregio della vita umana, che vedono spesso protagonisti dei giovani, perfino minorenni. Se da una parte misure e sanzioni adeguate sono necessarie in nome della giustizia e della sicurezza generale, dall’altra a nessuno sfugge che le radici di questa situazione, come la capacità di risposta, si pongono in modo più profondo e articolato. La violenza, infatti, nasce in ultimo dal vuoto dell’anima, dalla povertà di valori oggettivi e universali; vuoto che stravolge fino a sostituire ciò che è buono con ciò che non lo è, il giusto con l’ingiusto, il vero con il falso. Il singolo si sente consegnato solamente a se stesso, condannato ad un solipsismo che spesso si vorrebbe canonizzare come liberatorio sul piano etico, salvo pretendere poi di curarlo sul piano psicologico ed emotivo. Il tutto assume i connotati di una grave carenza rispetto al dovere educativo che, se da una parte si presenta oggi con i tratti di un’autentica e prioritaria urgenza, dall’altra costituisce la principale risorsa di un Paese che vuol guardare concretamente al futuro.
11. Questi mesi estivi sono stati segnati dalla vicenda di Eluana Englaro, la giovane lecchese che, per un incidente stradale occorsole sedici anni fa, vive in stato vegetativo conseguente a un coma da trauma cranico. La partecipazione commossa alla sorte di questa giovane, la condivisione e il rispetto per la situazione di sofferenza nella quale versa la famiglia, sono i nostri primi sentimenti. È una condizione, quella di Eluana, che peraltro interessa circa altri due mila nostri concittadini sparsi per il territorio nazionale. Per loro e le loro famiglie, come pure per altri malati gravemente invalidati, è necessario un efficace supporto da parte delle istituzioni. Non è questa la sede per richiamare l’iter abbastanza complesso che, rendendo questo caso emblematico, ha nel contempo evidenziato la nuova situazione venutasi a determinare in seguito a pronunciamenti giurisprudenziali che avevano inopinatamente aperto la strada all’interruzione legalizzata del nutrimento vitale, condannando in pratica queste persone a morte certa. Si è imposta così una riflessione nuova da parte del Parlamento nazionale, sollecitato a varare, si spera col concorso più ampio, una legge sul fine vita che – questa l’attesa − riconoscendo valore legale a dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita, dia nello stesso tempo tutte le garanzie sulla presa in carico dell’ammalato, e sul rapporto fiduciario tra lo stesso e il medico, cui è riconosciuto il compito – fuori da gabbie burocratiche − di vagliare i singoli atti concreti e decidere in scienza e coscienza. Dichiarazioni che, in tale logica, non avranno la necessità di specificare alcunché sul piano dell’alimentazione e dell’idratazione, universalmente riconosciuti ormai come trattamenti di sostegno vitale, qualitativamente diversi dalle terapie sanitarie. Una salvaguardia indispensabile, questa, se non si vuole aprire il varco a esiti agghiaccianti anche per altri gruppi di malati non in grado di esprimere deliberatamente ciò che vogliono per se stessi.
Quel che in ultima istanza chiede ogni coscienza illuminata, pronta a riflettere al di fuori di logiche traumatizzanti indotte da casi singoli per volgersi al bene concreto generale, è che in questo delicato passaggio – mentre si evitano inutili forme di accanimento terapeutico − non vengano in alcun modo legittimate o favorite forme mascherate di eutanasia, in particolare di abbandono terapeutico, e sia invece esaltato ancora una volta quel favor vitae che a partire dalla Costituzione contraddistingue l’ordinamento italiano.
La vita umana è sempre, in ogni caso, un bene inviolabile e indisponibile, che poggia sulla irriducibile dignità di ogni persona (cfr Benedetto XV, Discorso di saluto e accoglienza ai giovani, Sydney, 17 luglio 2008), dignità che non viene meno, quali che siano le contingenze o le menomazioni o le infermità che possono colpire nel corso di un’esistenza. Alla luce di questa consapevolezza iscritta nel cuore stesso dell’uomo, e che non è scalfibile da evoluzioni scientifiche o tecnologiche o giuridiche, noi guardiamo con fiducia alle sfide che il Paese ha dinanzi a sé, sicuri che il nostro popolo − con l’aiuto del Signore − saprà trovare le strade meglio corrispondenti alla sua voglia di futuro e alla sua concreta vocazione.
Di tutto questo, come degli argomenti indicati all’ordine del giorno, discuteremo ora con franchezza e responsabilità, mentre ci affidiamo per il lavoro che ci attende alla Vergine Maria e ai nostri Santi patroni.
Angelo Card. Bagnasco
Presidente


Benedetto XVI: il Vescovo deve aspirare alla perfezione evangelica - Nell'udienza ai neo Vescovi partecipanti a un convegno in Vaticano
CASTEL GANDOLFO, lunedì, 22 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo lunedì da Benedetto XVI nel ricevere in udienza i partecipanti al Convegno per i Vescovi di recente nomina promosso dalla Congregazione per i Vescovi e dalla Congregazione per le Chiese Orientali.
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Carissimi Fratelli nell’Episcopato!
Sono lieto di accogliervi all’inizio del vostro ministero episcopale e vi saluto con affetto nella consapevolezza dell’inscindibile legame collegiale che unisce nel vincolo dell’unità, della carità e della pace il Papa con i Vescovi. Questi giorni che state trascorrendo a Roma per approfondire i compiti che vi attendono e per rinnovare la professione della vostra fede sulla tomba di san Pietro devono costituire anche una singolare esperienza di quella collegialità che "fondata... sull’ordinazione episcopale e sulla comunione gerarchica... tocca la profondità dell'essere di ogni Vescovo e appartiene alla struttura della Chiesa come è stata voluta da Gesù Cristo" (Esort. ap. Pastores gregis, 8). Questa esperienza di fraternità, di preghiera e di studio accanto alla sede di Pietro alimenti in ciascuno di voi il sentimento di comunione con il Papa e con i vostri Confratelli e vi apra alla sollecitudine per tutta la Chiesa. Ringrazio il Cardinale Giovanni Battista Re per le gentili parole con le quali ha interpretato i vostri sentimenti. Rivolgo un particolare saluto al Cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, mentre attraverso le vostre persone invio un saluto affettuoso a tutti i fedeli affidati alle vostre cure pastorali.
Questo nostro incontro avviene nell’Anno Paolino e alla vigilia della XII.ma Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio: due momenti significativi della vita ecclesiale, che ci aiutano a mettere in luce alcuni aspetti della spiritualità e della missione del Vescovo. Vorrei soffermarmi brevemente sulla figura di san Paolo. Egli è un maestro e un modello soprattutto per i Vescovi! San Gregorio Magno lo definisce "il più grande di tutti i pastori" (Regola Pastorale 1,8). Come Vescovi dobbiamo apprendere dall’Apostolo innanzitutto un grande amore per Gesù Cristo. Dal momento del suo incontro col Maestro divino sulla via di Damasco, la sua esistenza fu tutta un cammino di conformazione interiore ed apostolica a Lui tra le persecuzioni e le sofferenze (cfr 2 Tm 3,11). San Paolo stesso si definisce un uomo "conquistato da Cristo" (cfr Fil 3,12) al punto da poter dire: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 1,20); ed ancora: "Sono stato crocifisso con Cristo. Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal 2,20). L'amore di Paolo per Cristo ci commuove per la sua intensità. Era un amore talmente forte e vivo da portarlo ad affermare: "Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo" (Fil 3,8). L'esempio del grande Apostolo chiama noi Vescovi a crescere ogni giorno nella santità della vita per avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù (2 Cor 3,11). L'Esortazione apostolica "Pastores gregis", parlando dell'impegno spirituale del Vescovo, afferma con chiarezza che egli deve essere innanzitutto un "uomo di Dio", perché non si possono servire gli uomini senza essere prima "servi di Dio" (cfr n. 13).
Il primo impegno spirituale ed apostolico del Vescovo deve dunque essere proprio quello di progredire nella via della perfezione evangelica. Con l’apostolo Paolo egli deve infatti essere convinto che "la nostra capacità viene da Dio, che ci ha resi ministri adatti di una nuova Alleanza" (2 CorPastores gregis" ricorda che "prima di essere trasmettitore della Parola, il Vescovo, insieme con i suoi sacerdoti e come ogni fedele, ... deve essere ascoltatore della Parola" ed aggiunge che "non c'è primato della santità senza ascolto della Parola di Dio che della santità è guida e nutrimento" (n. 15). Vi esorto, pertanto, cari Vescovi, ad affidarvi ogni giorno alla Parola di Dio per essere maestri della fede ed autentici educatori dei vostri fedeli; non come coloro che mercanteggiano tale Parola, ma come coloro che con sincerità e mossi da Dio e sotto il suo sguardo parlano di Lui (cfr 2 Cor 2,17). 3,5-6). Tra i mezzi che lo aiutano a progredire nella vita spirituale si pone innanzitutto la Parola di Dio, che deve avere una sua indiscussa centralità nella vita e nella missione del Vescovo. L'Esortazione apostolica "
Carissimi Vescovi, per far fronte alla grande sfida del secolarismo proprio della società contemporanea è necessario che il Vescovo ogni giorno mediti nella preghiera la Parola, così da poter essere banditore efficace nell’annunciarla, dottore autentico nell'illustrarla e difenderla, maestro illuminato e sapiente nel trasmetterla. Nell'imminenza dell'inizio dei lavori della prossima Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi vi affido alla potenza della Parola del Signore, affinché siate fedeli alle promesse che avete manifestato davanti a Dio e alla Chiesa nel giorno della vostra consacrazione episcopale, perseveranti nell' adempiere il ministero affidatovi, fedeli nel custodire puro e integro il deposito della fede, radicati nella comunione ecclesiale insieme a tutto l'Ordine episcopale. Dobbiamo essere sempre consapevoli che la Parola di Dio garantisce la presenza divina in ciascuno di noi secondo le parole stesse del Signore: "Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui" (Gv 14,23).
Quando vi è stata consegnata la mitra, nel giorno della vostra consacrazione episcopale, vi è stato detto: "Risplenda in te il fulgore della santità". L'apostolo Paolo col suo insegnamento e con la sua testimonianza personale ci esorta a crescere nella virtù davanti a Dio e agli uomini. Il cammino di perfezione del Vescovo deve ispirarsi ai tratti caratteristici del Buon Pastore, affinché sul suo volto e nel suo agire i fedeli possano scorgere le virtù umane e cristiane che devono distinguere ogni Vescovo (PG, n. 18). Progredendo nella via della santità, esprimerete quell'indispensabile autorevolezza morale e quella prudente saggezza che si richiede a chi è posto a capo della famiglia di Dio. Tale autorevolezza è oggi quanto mai necessaria. Il vostro ministero sarà pastoralmente fruttuoso soltanto se poggerà sulla vostra santità di vita: l'autorevolezza del Vescovo - afferma la Pastores gregis - nasce dalla testimonianza, senza la quale difficilmente i fedeli potranno scorgere nel Vescovo la presenza operante di Cristo nella sua Chiesa (cfr n. 43).
Con la consacrazione episcopale e con la missione canonica vi è stato affidato l'ufficio pastorale, ossia l'abituale e quotidiana cura delle vostre diocesi. L'apostolo Paolo, con le note parole rivolte a Timoteo vi indica la strada per essere pastori buoni ed autorevoli delle vostre Chiese particolari: "Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina... vigila attentamente" (2 Tm 4,2.5). Alla luce di tali parole dell'Apostolo, non smettete di impegnarvi con il "consiglio, la persuasione, l'esempio, ma anche con l'autorità e la sacra potestà" (LG, n. 27) per far progredire nella santità e nella verità il gregge a voi affidato. Sarà questo il modo più adeguato per esercitare in pienezza la paternità che è propria del Vescovo nei confronti dei fedeli. In particolare, abbiate cura dei sacerdoti, vostri primi ed insostituibili collaboratori nel ministero, e dei giovani.
Siate vicini con ogni attenzione ai sacerdoti. Non risparmiate sforzi nel mettere in atto tutte le iniziative, compresa quella di una concreta comunione di vita indicata dal Concilio Vaticano II, grazie alla quale i sacerdoti siano aiutati a crescere nella dedizione a Cristo e nella fedeltà al ministero sacerdotale. Cercate di promuovere una vera fraternità sacerdotale che contribuisca a vincere l'isolamento e la solitudine, favorendo il sostegno vicendevole. E’ importante che tutti i sacerdoti avvertano la paterna vicinanza e l'amicizia del Vescovo.
Per costruire il futuro delle vostre Chiese particolari, siate poi animatori e guide dei giovani. La recente Giornata Mondiale della Gioventù che si è svolta a Sydney ha messo ancora una volta in luce che tanti ragazzi e giovani sono affascinati dal Vangelo e disponibili ad impegnarsi nella Chiesa. Occorre che i sacerdoti e gli educatori sappiano trasmettere alle nuove generazioni, insieme con l'entusiasmo per il dono della vita, l'amore per Gesù Cristo e per la Chiesa. Tra i giovani, incoraggiate con particolare sollecitudine i seminaristi, nella consapevolezza che il Seminario è il cuore della diocesi. Non mancate di proporre ai ragazzi e ai giovani la scelta di una donazione piena a Cristo nella vita sacerdotale e religiosa. Sensibilizzate le famiglie, le parrocchie, gli istituti educativi, perché aiutino le nuove generazioni a cercare e a scoprire il progetto di Dio sulla loro vita.
Ricordandovi ancora le parole di san Paolo a Timoteo: "Sii di esempio ai fedeli nelle parole, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza" (1 Tm 4,12), e invocando l'aiuto di Dio sul vostro ministero episcopale, imparto di cuore una speciale Benedizione Apostolica a ciascuno di voi e alle vostre diocesi.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


23/09/2008 11:46 – CINA - Scandalo latte: il governo ha paura di proteste sociali e minaccia gli avvocati
Circa 90 avvocati si sono offerti di assistere le vittime, ma le autorità li hanno consigliati di “aiutare a mantenere la stabilità”. Il timore è che le migliaia di danneggiati compiano azioni unitarie. Emergono sempre più gravi responsabilità del governo centrale.
Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Ora il governo ha paura che lo scandalo del latte inneschi proteste sociali. Per impedire ai genitori infuriati di organizzarsi, le autorità locali ammoniscono gli avvocati di “rifiutare” di patrocinarli.
Un gruppo di circa 90 avvocati ha offerto assistenza legale gratuita ai genitori dei bimbi malati per il latte contraffatto, mettendo in internet dal 12 settembre l’offerta e i nomi dei legali. Ci sono state molte adesioni e si vogliono fare azioni di gruppo. Ma il governo vede con timore che centinaia e migliaia di genitori si raggruppino per chiedere il risarcimento. E’ anche un precedente pericoloso, in una vicenda molto seguita dai media.
Li Fangping, decano degli avvocati, racconta che autorità locali hanno detto loro che, se vogliono assistere le vittime, debbono unirsi alla associazione degli avvocati locale. Aggiunge che l’Associazione degli avvocati di Pechino gli ha già chiesto “di avere fiducia nel Partito [comunista] e nel governo”. Le Associazioni dagli Avvocati sono in genere controllate da funzionari del governo.
In genere gruppi di persone o intere comunità vessate nei loro diritti non propongono causa per il risarcimento, ma rivolgono petizioni alle autorità locali o a quelle centrali. Ma le autorità non hanno obbligo di esaminare le petizioni, anzi sono state riportate frequenti minacce e arresti contro chi organizza e presenta queste petizioni.
Il legale Lu Jun, esperto di questioni sanitarie, dice che uno dei 90 avvocati ha già rinunciato e teme che lo facciano altri, dietro pressioni che ritiene volute dall’alto. Molti altri legali del gruppo ora rifiutano di parlare con i media. L’avvocato Zhai Zhilong dice che è stato contattato da genitori delle vittime, che prima hanno chiamato altri legali della lista ricevendo rifiuti.
Il quotidiano South China Morning Post di Hong Kong riferisce la dichiarazione di un avvocato dell’Hebei: che le autorità li hanno contattati tutti invitandoli “a considerare la situazione generale e ad aiutare a mantenere la stabilità, a non occuparsi dell’incidente del latte in polvere Sanlu”.
Pechino ha difficoltà a gestire uno scandalo di dimensioni inimmaginabili: oltre 53mila neonati malati e il numero è in aumento, circa 13mila ricoverati in ospedale, coinvolte le ditte che producono circa il 60% del latte fresco della Nazione e la gran parte del latte in polvere. La produzione del latte di mucca è triplicato dal 2001 al 2006 a 31,9 milioni di tonnellate, 3° produttore mondiale dopo Usa e India.
Ieri è stato destituito anche Li Changijiang, capo dell’Amministrazione generale per la Supervisione della qualità, l’ispezione e la quarantena, dopo che ha ammesso che non c’erano mai stati esami per la melamina nei prodotti caseari. Ma all’opinione pubblica cinese non si sente garantita dalla punizione di qualche dirigente, in quanto – osserva Liu Xutao, professore della Scuola nazionale di Amministrazione – le responsabilità sono a livello centrale, per non avere verificato il livello dei controlli alimentari. L’uso di melamina nel latte risulta diffuso e praticato da anni. Solo ora il ministro dell’Agricoltura Sun Zhengcai si è accorto che c’è “una grave mancanza di regole e un disordinato sistema di raccolta del latte” e che “molte stazioni per la raccolta del latte non sono nemmeno registrate ufficialmente”.
Hu Xingdou, professore in materia economica all’Istituto di tecnologia di Pechino, critica il governo che “fa qualcosa solo quando c’è una crisi, invece di un’attività sistematica. Additivi tossici sono anche in frutta, verdura, condimenti e prodotti ittici e sono necessari controlli specifici, ma finora l’intero problema è trascurato”.


Crisi finanziaria e terrorismo: due sfide imminenti per l’Unione Europea - Mario Mauro - martedì 23 settembre 2008 – IlSussidiario.net
L'Europa è molto preoccupata per la crisi finanziaria mondiale, della quale risentirà da qui ai prossimi anni. Dopo un anno dall'inizio delle turbolenze che si sono abbattute sui mercati internazionali, dopo la crisi dei mutui americani, invece di risolversi, l'instabilità sembra infatti propagarsi su terreni che vanno ben oltre il settore finanziario.
Una naturale conseguenza del fatto che in molti settori il sistema finanziario alimenta considerevolmente l'economia, ogni inconveniente si riflette perciò sull'economia reale, e quindi sui risparmi dei cittadini. Non solo: con l'impennata del prezzo dell'energia e degli alimenti ai più alti livelli dalla creazione dell'Unione monetaria europea nel 1999, l'inflazione ha sfondato lo scorso marzo quota 3,6% e come confermato dalla Banca Centrale Europea, sembra destinata a protrarsi nel tempo.
Ha ragione l'ex Commissario europeo Mario Monti quando afferma che l'Europa rispetto agli Stati Uniti «ha costruito nel tempo una governance dell'economia più moderna e più solida. La politica della Banca Centrale europea è generalmente giudicata migliore di quella del Federal Reserve System». Tuttavia ciò non basterà a far sì che si eviti il ripercuotersi della crisi sul bilancio comunitario, e sugli ambiziosi, ma indispensabili obiettivi contenuti nella "Strategia di Lisbona".
Dobbiamo assolutamente evitare di trovarci senza risorse. La priorità per l'Unione Europea, a maggior ragione in un periodo di difficoltà come quello odierno, deve essere quella di dare attuazione alle politiche di sviluppo per non farsi schiacciare dagli eventi negativi, ma al contrario, per accelerare il più possibile il cambiamento della congiuntura economica.
Per questo le istituzioni europee devono prendere in considerazione l'ipotesi di utilizzare gli Eurobond come fonte addizionale di finanziamento al di fuori del bilancio nazionale degli Stati membri. Si può fare attraverso una ridefinizione del ruolo delle istituzioni finanziarie, al fine di sostenere le iniziative previste nell'ambito dei Piani nazionali per la Strategia di Lisbona e le iniziative europee in settori strategici come le reti trans-europee di trasporto, l'energia e le nuove tecnologie.
Si tratta di una scelta obbligata considerando la crescente e ormai quasi completa dipendenza del bilancio europeo dai trasferimenti di risorse nazionali, oltre alla necessità, riconosciuta nell’Accordo interistituzionale, che il bilancio europeo sia sottoposto a un’accurata riforma per garantire una migliore capacità di fare fronte agli obiettivi di crescita, stabilità e coesione dell’Unione.
Misure di finanziamento centralizzate collegate al bilancio comunitario, quali gli Eurobond, andrebbero ad integrare il quadro dei finanziamenti possibili collegati ai Programmi d'azione nazionali per la Strategia di Lisbona presentati dagli Stati Membri e vagliati dalla Commissione europea. Verrà presentata al Parlamento europeo una Dichiarazione scritta per sollecitare in tal senso l'esecutivo comunitario.
Altra preoccupazione per il Vecchio Continente è il ritorno a una pericolosa escalation di terrore in Medio Oriente. Gli attacchi contro i convogli italiani a Kabul, e soprattutto l'attentato al Marriot di Islamabad ci riportano repentinamente a fare i conti con il terrorismo di matrice islamica, indebolito ma mai sconfitto, che destabilizza un clima internazionale già abbastanza anarchico e sregolato.
Il Pakistan, dopo la morte di Benazir Bhutto è il teatro principale. Non sarà facile per il nuovo Governo uscire dal tunnel di una destabilizzazione che è sempre stata il frutto della posizione e della condizione geopolitica di uno stato indipendente dal 1947, da sempre incastrato tra la minaccia fondamentalista talebana e l'obbligata influenza americana. Obiettivo raggiungibile solo insistendo sulla promozione di una reale democrazia capace di sostenere la crescita della società civile e favorire la distinzione tra poteri dello Stato, e allo stesso modo però bisognerà prestare attenzione al fatto che il nuovo Governo sappia tenere ben salde le redini del potere. Questo è molto più difficile dopo l'uscita di scena del Presidente Musharraf. Questi, in un modo o nell'altro era sempre riuscito a scendere a patti con i partiti estremisti islamici, e guarda caso l'attentato sembrava avere come obiettivo il nuovo Presidente Asif Ali Zardari, nemico di Musharraf.
Considerando il fatto che Benazir Bhutto non aveva mai formato alcuna alleanza con altre parti politiche e che questo fu uno dei motivi che portarono al suo esilio e che forse hanno contribuito anche alla sua uccisione, viene da chiedersi se lo scenario non si sia ulteriormente complicato con l'uscita del controverso Musharraf. Non dimentichiamo che il Pakistan è una potenza nucleare. Il pericolo è quello di vedere le mani degli integralisti sulla bomba atomica con conseguenze scontate e catastrofiche.
Tutto il mondo occidentale è sempre più seriamente preoccupato dalle notizie provenienti da Islamabad, vista la presunta costruzione di nuovi reattori in aree strategiche del paese. E la vicinanza con i talebani afghani fa il resto.


ELUANA/ Morresi: io sto con Bagnasco, la legge sul fine vita difenderà chi non può più esprimersi - Assuntina Morresi - martedì 23 settembre 2008 – IlSussidiario.net
Con la chiarezza che contraddistingue sempre i suoi interventi, il Presidente della Cei Card. Bagnasco nella prolusione al Consiglio Permanente ha spiegato qual è la posizione dei vescovi italiani in merito a una legge sul fine vita: dopo la sentenza della Cassazione sul caso di Eluana Englaro, secondo la quale la donna in stato vegetativo può essere lasciata morire di fame e di sete, è necessario tutelare e rafforzare alcune garanzie messe in pericolo proprio da quella sentenza.
Ci si aspetta innanzitutto che la futura legge riconosca “valore legale a dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita”. Una normativa quindi che permetta di dichiarare anticipatamente il proprio consenso o meno a trattamenti sanitari, un consenso da far valere quando non si è in grado di esprimerlo direttamente, al momento necessario, magari perché ci si trova in stato di incoscienza, dopo un incidente o per una malattia.
Per essere valido deve innanzitutto essere espresso in modo chiaro e senza possibilità di equivoci: in forma scritta e certificata, quindi, per evitare improbabili ricostruzioni a posteriori di “volontà presunte” del malato dai suoi “stili di vita”, come abbiamo letto nella sentenza per Eluana Englaro. Ma soprattutto la persona dovrà esprimere un vero consenso informato: niente modulistica o prestampati da compilare, quindi, e neppure dichiarazioni astratte e generiche del tipo “in caso di malattia o lesione traumatica cerebrale irreversibile e invalidante chiedo di non essere sottoposto a nessun trattamento terapeutico”, come recitano modelli di testamento biologico pubblicizzati di recente nel nostro paese. Un vero consenso informato presuppone informazioni chiare e circostanziate, riferite a situazioni concrete e specifiche, che la persona deve dimostrare di avere compreso bene.
Solo in questo modo dichiarazioni anticipate di trattamento potranno avere peso nel rapporto medico-paziente, quando questo non sia più in grado di dare il proprio consenso nel momento in cui viene richiesto.
Dichiarazioni anticipate solo se all’interno di un rapporto di fiducia con il proprio dottore, che quindi ne dovrà sicuramente tenere conto ma che non sarà obbligato ad eseguire: il medico non potrà che agire in scienza e coscienza nell’esercizio della sua professione, che prevede il dovere di prendersi cura dei propri pazienti, innanzitutto non abbandonandoli.
In quest’ottica, ovviamente, alimentazione ed idratazione rimangono sostegni vitali, indipendentemente dalle modalità di somministrazione – autonoma o con supporti esterni come il sondino naso-gastrico con cui viene nutrita Eluana, tanto per spiegarci: non essendo trattamenti sanitari, non saranno oggetto dell’articolato della futura legge, e la loro sospensione non potrà essere prevista.
Libertà nel curare e nell’essere curati, in un rapporto di fiducia fra chi cura e chi viene curato: questo lo spirito della futura legge sul fine vita auspicata dal presidente della Cei, e da noi condiviso.


CINA/ Scandalo del latte, il paese attende una riforma agraria - INT. Francesco Sisci - martedì 23 settembre 2008 – IlSussidiario.net
Ilsussidiario.net ha intervistato Francesco Sisci, corrispondente de La Stampa a Pechino, per capire più da vicino quello che sta accadendo in Cina, dove lo scandalo del latte in polvere contaminato da melamina ha colpito 53mila bambini e dove sono più di cento i casi gravi, anche se il portavoce del ministero cinese della Sanità ieri ha annunciato che 40mila bambini circa hanno ricevuto cure e sono stati ormai dichiarati fuori pericolo.
Il latte contaminato da melamina ha provocato avvelenamenti su vasta scala, con 53mila bambini colpiti, 4 morti e 104 casi gravi. Anche se le autorità parlano di 40mila persone ormai fuori pericolo, la situazione appare preoccupante. Può aiutarci a capire come si è potuto verificare un grave fatto come questo?
La situazione, effettivamente, è molto seria. In Cina le aziende del latte acquistano da mediatori, o grossisti, i quali a loro volta si riforniscono dai contadini. I prezzi stabiliti dalle aziende del latte sono molto bassi. Per aumentare le forniture e guadagnare di più i contadini hanno allungato il latte con acqua e per aggirare i controlli fatti sui livelli proteici hanno compensato la diluizione del latte, e quindi la minore concentrazione proteica, con la melamina, che ha la proprietà di truccare i margini permettendo di ingannare i controlli. Il latte aggiunto di acqua e melamina, in altre parole, “sembra” latte vero a tutti gli effetti, con la dose richiesta di proteine.
Il sistema di controllo non ha funzionato? Chi avrebbe dovuto controllare il latte?
I controlli spettano alle aziende e ad enti di controllo dello Stato, che effettuano controlli a campione. Ora, questi controlli sono mancati. C’è un’amministrazione separata per i controlli su cibo e medicinali. Ma non funziona, perché a livello locale è una grande fonte di corruzione. Andrebbe rimesso in piedi un sistema serio di controlli e di certificazioni. Ma il sistema di controllo, che pure non ha funzionato, non spiega tutto.
Cosa intende dire?
C’è un problema di struttura delle aziende alimentari. Un’azienda con 10mila fornitori non riuscirà mai a controllarli, e gli stessi controlli svolti da enti appositi saranno poco incisivi. Il problema è che al di là dei controlli, che comunque vanno fatti, l’acquirente deve avere un rapporto fiduciario con i fornitori, cosa che in una rete estesissima come quella cinese non è possibile. Si dovrebbe concentrare la produzione di latte, ma questo significa una riforma profonda della proprietà terriera, che oggi è estremamente parcellizzata: l’allevamento cinese tipico è quello di un proprietario che ha quattro, cinque vacche. È una situazione difficile da regolamentare e di conseguenza prevale l’improvvisazione.
Come è scoppiato lo scandalo?
In realtà lo scandalo è scoppiato ora, ma già a luglio si sapeva di latte contenente melamina. A scoprirlo è stata una società neozelandese, partner di minoranza di una delle più grandi aziende produttrici cinesi coinvolte, la Sanlu. I neozelandesi a quel punto non hanno saputo cosa fare: se andare contro il partner cinese, o se danneggiare, indirettamente, il nome dell’azienda. A quel punto l’amministrazione locale cinese ha temuto di creare un caso, che alla vigilia delle Olimpiadi avrebbe creato danni enormi, e ha nascosto lo scandalo, coprendo per un mese e mezzo la notizia.
E il governo? Cosa intende fare?
Per far fronte all’emergenza sta attuando un controllo a tappeto. Oggi il Primo ministro si è mostrato in tv insieme alle famiglie vittime della truffa alimentare. Sono stati promessi risarcimenti. Certo prevale il panico, aggravato dal fatto che il latte è un elemento base per la prima infanzia e viene utilizzato per la produzione di molti altri alimenti. E significa la rovina per un intero settore, con conseguente crollo dei prezzi.
Sembra che i consumatori e le famiglie colpite si stiano associando per far valere i propri diritti. Cosa può dirci?
Molte famiglie si sono messe insieme e stanno facendo causa alle aziende, organizzando una specie di class action, che però attualmente in Cina non è conosciuta e regolata, ma che potrà esercitare una notevole pressione sulle aziende per ottenere i risarcimenti.
Prima ha parlato di una necessaria riforma della proprietà terriera. La Cina sta scontando le proprie sacche di arretratezza?
Credo che problemi come questo, purtroppo, siano destinati a ripetersi. Il motivo principale è quello che ho accennato: la forte divisione tra un’industria alimentare che comincia ad essere moderna, e una produzione primaria agricola ancora primitiva. Ma in Cina la produzione agricola estremamente diffusa non rende possibile una concentrazione della terra e degli allevamenti. Manca di conseguenza una razionalizzazione della produzione.
Quello a cui stiamo assistendo non è il primo episodio di truffa alimentare in Cina…
Fino a che non si arriverà a una riorganizzazione della produzione primaria agricola, scandali come quello del latte avvelenato saranno destinati a ripetersi. La Cina, purtroppo, può vantare una storia di truffe alimentari: negli anni ’80, quasi ogni anno, usciva la storia di persone avvelenate da riso alla glicerina. I contadini prendevano il riso vecchio e per farlo sembrare fresco lo trattavano con glicerina, pensando che questa andasse via con la bollitura, senza sapere invece che la glicerina veniva assorbita dai chicchi. La produzione industriale richiede concentrazione, qualità e controllo della produzione. È l’opposto di quello che servirebbe alla Cina oggi, dominata da parcellizzazione, difficoltà di controllo e difficoltà di resa economica.


23 settembre 2008 - Eminenza, qui la cosa non funziona - Il capo dei vescovi molla una posizione strategica sul tema della vita – dal Foglio.it – 23 settembre 2008

Eminentissimo e reverendissimo cardinal Bagnasco, stavolta non siamo proprio d’accordo. La sua di ieri fu una prolusione buona e onesta, ma la parte relativa al testamento biologico, altrimenti detto dichiarazioni o direttive anticipate, dava l’impressione di una rinuncia. Di più, le sue parole di accettazione del testamento biologico davano l’impressione di una risposta intimidita e confusa a una cultura postmoderna che si mangiucchia pezzo per pezzo non tanto, ciò che non è la nostra specialità, la dottrina della chiesa, quanto ciò che resta della resistenza culturale al relativismo soggettivista. Se abbiamo capito bene, al di là dei dettagli e delle interpretazioni, il cuore del suo intervento sul caso di Eluana Englaro, e la sua novità, è in questo: fate pure una legge in cui si registri come norma universalmente valida la volontà soggettiva sul tema di come si desidera morire.
La vita è un tabù, nel senso che è un mistero. Nel mondo liberale figlio della cultura creaturale giudeo-cristiana e del suo concetto di persona titolare di diritti innati, “life, liberty and the pursuit of happyness”, la vita è un dogma costituzionale. Se le cose stessero altrimenti e laddove effettivamente stanno altrimenti, della vita si potrebbe fare, e si fa in effetti, quel che si decide di fare di volta in volta, in base a considerazioni di arbitrio soggettivo che si fanno legge, cultura, norma giuridica e morale. Al servizio anche della morte, se necessario, come nei casi dell’aborto volontario e dell’eutanasia. Se su questo fronte la chiesa cattolica tiene, tutto tiene, in un certo senso. I tabù sono fatti anche per essere elusi o violati o trasgrediti. Ma abbatterli e proclamarli morti e sepolti di fronte al mondo equivale ad abbattere il mistero, che è il pane della fede e della comunione liturgica nella chiesa, se non erriamo. Per quanto ci riguarda, peggio ancora, equivale a recidere quel “legame” di intelletto e d’amore che dà senso a una civiltà liberale e alla libertà. Equivale a trasformarla piano piano, passo dopo passo, in una democrazia libertaria su fondamento ateo e materialista. Puoi rifiutare una cura e lasciarti morire. E’ un fatto. Ma una legge che stabilisca questo fatto come diritto è un’altra cosa. Se la legge sia accettata e filtrata dal pensiero cristiano, è un’altra cosa ancora


PAROLE PERTINENTI AI PROBLEMI - ORIZZONTI LARGHI E SCELTE CONSEGUENTI - FRANCESCO D’AGOSTINO, Avvenire, 23 settembre 2008
Essenziali, pacate e come sempre profonde la parole della prolusione con la quale il cardinale Angelo Bagnasco ha i­naugurato ieri i lavori del Consiglio per­manente della Cei, che ha all’ordine del giorno questioni di non piccola rilevanza, a partire dall’avviamento di una riflessio­ne sugli orientamenti pastorali per il de­cennio 2010-2020. Diverse cose colpiscono in questa prolu­sione. In primo luogo il forte richiamo a nuove forme di attenzione nei confronti della libertà religiosa, definita con fermez­za 'caposaldo delle libertà'. Non sono so­lo le violenze esplose contro i cristiani in In­dia in queste ultime settimane ad attivare le preoccupazioni del porporato, ma la per­cezione di come continui a diffondersi nel nostro paese l’idea che la libertà religiosa consista essenzialmente in una benevola concessione fatta dallo Stato 'ai cittadini più insistenti' e si riduca a una sorta di 'concessione', paternalisticamente ricon­ducibile al principio di tolleranza. Non è così. La libertà religiosa è il fondamento del pluralismo e della democrazia e possiede una valenza politica assoluta. Splendida la citazione di Tocqueville fatta dal Cardina­le: 'il dispotismo non ha bisogno della re­ligione, la libertà e la democrazia sì'.
Altrettanto fermi e severi i riferimenti ai più spinosi problemi sociali dell’Italia di oggi. Sulle difficoltà in cui verte la scuola, sulle nuove urgenze educative che emer­gono nel paese, sul moltiplicarsi di episo­di di violenza spesso attribuibili a mino­renni, Bagnasco ha parole accorate. La vio­lenza, egli afferma, nasce 'dal vuoto del­l’anima' e dalla solitudine cui sono col­pevolmente abbandonati tanti giovani, ai quali la cultura dominante sembra non ab­bia più il coraggio di proporre ciò che è buono, ciò che è giusto, ciò che è vero. Sul federalismo il presidente dei vescovi non pronuncia alcun giudizio laudatorio a­prioristico, né manifesta alcuna diffiden­za preconcetta, limitandosi a rilevare la ne­cessità che eventuali riforme in tal senso non disperdano mai il senso della comu­ne appartenenza degli italiani a un solo popolo e alla sua storia. Al sistema tribu­tario è dedicato un rapido, ma incisivo ac­cenno, che insiste sull’opportunità di rifor­me che diano spazio al quoziente familia­re. Toccando infine il tema degli immigra­ti, in particolare di quelli irregolari, 'sem­pre nostri fratelli', non sfugge al cardina­le quanto sia vistosa la sfida che essi por­tano alle capacità di accoglienza del no­stro paese. A questa sfida va data una ri­sposta in una duplice prospettiva, quella di guadagnarli alla legalità e di operare per una loro un’equilibrata e progressiva inte­grazione sociale, che non dimentichi le i­stanze di ricongiunzione familiare.
Le ultime parole della prolusione Bagnasco le dedica al caso di Eluana Englaro e sono probabilmente quelle - se possibile - più calibrate, dato il rilievo politico e mediati­co di questa tristissima vicenda. Egli pren­de atto che le recenti sentenze della magi­stratura, volte a rendere lecita l’interruzio­ne del nutrimento vitale per Eluana, pos­sono aprire la strada a inaccettabili forme di eutanasia mascherata e di abbandono terapeutico. L’intervento del Parlamento quindi si impone: una legge sul fine vita dovrebbe riconoscere definitivamente che i trattamenti di sostegno vitale sono 'qua­litativamente diversi dalle terapie' e non possono essere catalogati (e conseguente­mente sospesi) come forme di accani­mento terapeutico. E soprattutto dovreb­be ribadire, contestualmente a un ben ca­librato riconoscimento delle condizioni di validità legale di dichiarazioni anticipate di trattamento, che il nostro ordinamento è fondato sul principio del favor vitae e ri­conosce la vita come principio inviolabile e indisponibile. A fondamento di queste considerazioni c’è un principio di valore assoluto: la dignità della vita umana non viene mai meno, nemmeno e soprattutto nelle persone menomate e inferme. È que­sto il cuore del Vangelo della vita, ma è an­che nello stesso tempo una consapevolez­za iscritta nel nostro stesso cuore. Mai, co­me nella difesa della vita malata, annuncio cristiano e verità dell’uomo si manifestano nell’essenziale come una cosa sola.


l’intervista Possenti: «Diagnosi precisa e vicina ai problemi della gente» - DI LUCIA BELLASPIGA, Avvenire, 23 settembre 2008
U n discorso che parte «dall’uni­versale per calarsi nei problemi quotidiani»: della famiglia che non arriva a fine mese, dell’immigrato e di chi lo accoglie, della singola vita e del­la morte. A seguirne il filo, «espresso con equilibrio e chiarezza invidiabile», è Vit­torio Possenti, ordinario di filosofia po­litica all’università di Venezia.
I cristiani a favore degli ultimi. E proprio per questo perseguitati nel mondo, dice Bagnasco: il messaggio di Cristo non ha ancora finito di 'dare scandalo'.
Soprattutto in India, dove c’è una forte ripresa del neonazionalismo indù con un ritorno al sistema delle caste – in teo­ria proibito dalla Costituzione –, il cri­stianesimo dà scandalo non in un’ottica di guerra di religione, che non ricorre, ma perché accusato di promuovere gli ultimi andando a toccare un assetto di potere: centinaia di milioni di fuori ca­sta devono continuare a essere esclusi da qualsiasi promozione sociale.
Eppure le persecuzioni avvengono nel silenzio della comunità internazionale. Comunità paradossalmente in gran parte cristiana...
Il problema è che i media filtrano le no­tizie e così facendo orientano l’opinione pubblica. Il tema della libertà religiosa è già poco trattato, se poi si tratta di quel­la cristiana lo è ancora meno: ciò deriva dalla composizione degli operatori dei media, che in genere hanno un atteg­giamento di distacco, se non di ostilità, verso la Chiesa.
Non siamo un «Paese da incubo», ri­corda il cardinale a proposito di opinio­ne pubblica e delle sue percezioni. I pun­ti di debolezza van­no affrontati, ma tanti sono anche i «segmenti lumino­si ». Eppure sem­briamo avvolti in un pessimismo vi­cino alla rinuncia.
Le parole di Bagna­sco si confrontano con un periodo di stanchezza che il Paese vive da tempo e di cui spia è il calo demografico. Rinun­cia e catastrofismo sono la politica peg­giore, mentre il problema richiede dia­gnosi puntuali e costruttive: bene ha fat­to Bagnasco a ricordare le questioni di ti­po economico e sociale, come la cre­scente povertà delle famiglie, che l’epi­scopato italiano, molto sensibile a que­ste tematiche, ha colto da tempo, quan­do ancora i media e­rano presi da altri interessi.
Il testo ricorda pun­ti nodali: equità so­ciale, attenzione ai nuclei con più figli, quoziente familia­re...
Tasti sui quali la Cei insiste da molti an­ni, ma nessun governo ha mai dato ri­sposte concrete di politica fiscale. La po­litica si è sempre rivolta solo all’indivi­duo o a gestire il mercato, vedendo la fa­miglia come un fattore secondario. Una visione che riemerge tuttora, quando si vuol fare di qualsiasi aggregazione di per­sone una 'famiglia'.
Di famiglia la prolusione parla spesso. Anche di quella immigrata: la ricon­giunzione familiare è la risposta auspi­cabile per il benessere dell’intera società. E nei confronti dell’immigrato la «vi­sione umanistica» è «irrinunciabile».
Trovo molto opportuno questo richia­mo alla visione umanistica. Noi non pos­siamo recedere dal rispetto della perso­na umana, cardine essenziale del cri­stianesimo. Ma anche il richiamo al ri­spetto dei doveri è sacrosanto... La par­tita si gioca su questi due livelli.
Ampio il passaggio che Bagnasco dedi­ca alla «riflessione nuova» che si impo­ne sul fine vita, con un appello a legife­rare «col concorso più ampio», e a valu­tare secondo «scienza e coscienza» da parte dei medici.
Il cardinale invita anche a tenere un punto fermo: alimentazione e idrata­zione rappresentano sostegno vitale, non terapia. La discussione sarà am­plissima e non facile, perché nel mon­do scientifico la posizione non è unani­me. Il tema delle 'indicazioni anticipa­te di trattamento', come le chiamam­mo nel 2003 al Comitato nazionale di Bioetica (e non con il nome improprio di 'testamento biologico'), non è più rinviabile ed è un bene che Bagnasco lo abbia affrontato in modo chiaro ed e­splicito. La base da cui partire è l’arti­colo 32 della Costituzione sulla 'rinun­cia consapevole ai trattamenti sanita­ri', che a mio avviso non possono mai essere imposti. Si arriverà a una solu­zione solo mettendo da parte gli ideo­logismi e, lasciando da parte eutanasia attiva e passiva, e formulando una leg­ge smilza: pochi criteri saldi e univoci. Il resto spetterà al malato consapevole e al medico, che deciderà secondo scienza e coscienza.
Il docente di filosofia politica: dall’immigrazione ai temi bioetici, alla famiglia, Bagnasco ci richiama al rispetto della persona umana. Attenzione all’equilibrio diritti-doveri