Nella rassegna stampa di oggi:
1) Assalito un convento di carmelitane nel Madya Pradesh. - I dati sulle violenze contro i cristiani - Il guardiano del convento è stato ferito. Distrutta anche una statua della Madonna di Lourdes a Kolar. Nel solo stato dell’Orissa si registrano finora 45 morti; 5 scomparsi; 18 mila feriti...
2) La sorprendente geopolitica di Joseph Ratzinger, papa - Dopo tre anni di pontificato e smentendo le previsioni dei più, il raffinato teologo ha lasciato la sua impronta anche nella politica internazionale. In Occidente, con l'islam, con la Cina. La rivista dell'Aspen Institute in italia spiega come e perché - di Sandro Magister
3) La Fondazione “Pave the Way” cerca la verità su Pio XII - Dichiarazioni a ZENIT del suo presidente dopo l'incontro con il Papa
4) Cardinale Antonelli: le famiglie cristiane siano “fuoco acceso” nella società
5) I Tafazzi della trattativa Alitalia
6) DIBATTITO/ Quando la verità non c’è più. Perché dire no al relativismo di Vattimo - Redazione – IlSussidiario.net - venerdì 19 settembre 2008
7) Solo in un "legame" la libertà dell'individuo si può esprimere - Pigi Colognesi - venerdì 19 settembre 2008
8) UE, MAURO: “SOSTEGNO ALLA COMUNITÀ CRISTIANA PRIORITÀ DEL SUMMIT UE-INDIA" - mercoledì 17 settembre 2008
9) IL PAPA IN FRANCIA HA PARLATO MA ANCHE ASCOLTATO - La strana fretta di rimuovere gli sviluppi della «laïcité» - MARINA CORRADI, Avvenire, 19 settembre 2008
10) «Le banche rispolverino i manuali anni ’50» , Avvenire, 19 settembre 2008
Assalito un convento di carmelitane nel Madya Pradesh. - I dati sulle violenze contro i cristiani - Il guardiano del convento è stato ferito. Distrutta anche una statua della Madonna di Lourdes a Kolar. Nel solo stato dell’Orissa si registrano finora 45 morti; 5 scomparsi; 18 mila feriti...
Mumbai (AsiaNews) – Il guardiano del convento delle carmelitane di Banduha (Ujjain, Madya Pradesh) è stato ferito cercando di proteggere le suore; nel Karnataka, la chiesa siro-cattolica di St George a Ujire è stata devastata e incendiata; una statua della Madonna, nella grotta di Lourdes a Kolar è stata distrutta. Sono alcune nuove violenze contro i cristiani che si registrano oggi. Tutti questi attacchi sono avvenuti la scorsa notte o nelle prime ore del giorno. L’ondata di violenze, cominciata in Orissa 3 settimane fa, ha fatto finora almeno 45 morti e più di 18 mila feriti.
Stanotte all’1.30 un gruppo di 5 persone si sono presentati con fucili ad aria compressa al Carmelo di Banduha, ferendo Amar Singh, il guardiano con 3 colpi non mortali. Ora si trova all’ospedale fuori pericolo. Amar ha detto che “gli assalitori mi intimavano di chiamare le suore; mi hanno anche picchiato perché io gridassi e le suore venissero fuori. Io ho resistito e mi hanno sparato. Dopo di questo sono andati via”.
Una delle suore, sr Dhanya, ha dichiarato che 4 giorni prima un gruppo aveva attorniato il convento facendo rumore e gridando slogan, ma il custode li ha cacciati via. La polizia ha aperto un’inchiesta sull’accaduto. La scorsa settimana a Ratlam è stata bruciata una chiesa. Ma la polizia ha addossato la responsabilità ai guardiani.
P. Anand Muttungal, portavoce dei vescovi del Madya Pradesh, afferma che questi incidenti non sono casuali: “In Madya Pradesh sono avvenuti diversi attacchi, con metodi differenti ma con la stessa matrice. Noi siamo persone che amano la pace e rifiutiamo la violenza”.
A Ujire, questa mattina alle 5, un gruppo di sconosciuti è entrato nella chiesa siro-cattolica di St. George. Essi hanno bruciato bibbia, messali, libri di preghiera, dissacrato il tabernacolo, distrutto il crocifisso, le statue e le icone. Hanno anche versato kerosene sui tappeti per bruciare l’edificio, che per fortuna non si è incendiato.
Il p. Joseph Valiaparambil, portavoce della diocesi di Belthangady ha dichiarato: “Noi siamo persone pacifiche. La comunità cattolica perdona i colpevoli e prega per loro… La nostra è una nazione democratica e tutti i cittadini godono di uguali diritti e privilegi… Le violenze e brutalità contro i cristiani del Karnataka avvengono sulla base di false ideologie e su concezioni distorte che violano il tessuto della democrazia e lo spirito della Costituzione indiana”.
Stamane, nelle prime ore del giorno, è stato anche attaccata un simulacro della grotta di Lourdes vicino alla chiesa di St Mary, a Kolar. I malviventi hanno spezzato la statua della Vergine e i vetri che la proteggevano. Alla statua della Madonna sono devoti sia cristiani che musulmani e indù. La custode ed addetta alle pulizie della grotta è proprio una donna indù.
Il 14 settembre nel Karnataka sono state assaltate 20 chiese. La polizia è accusata di non aver prevenuto gli attacchi pur avendone avuto informazione. I cattolici hanno allora organizzato manifestazioni per criticare l’atteggiamento delle forze dell’ordine. In molti casi la polizia ha picchiato selvaggiamente i fedeli.
La nuova ondata di attacchi contro cristiani e le loro istituzioni è cominciata in Orissa dopo l’uccisione ad opera di un commando maoista di Swami Laxmanananda Saraswati, leader radicale indù, lo scorso 23 agosto. Le organizzazioni fondamentaliste indù accusano i cristiani di esere gli autori dell’assassinio e per questo hanno lanciato un pogrom uccidendo e ferendo fedeli, distruggendo e incendiando chiese, scuole, centro sociali, case. Dall’Orissa, le violenze si stanno allargando al Madya Pradesh, al Karnataka e al Kerala.
Secondo la All India Catholic Union, a tutt’oggi, le violenze nel solo stato dell’Orissa, hanno fatto 45 morti; 5 scomparsi; 18 mila feriti. Sono state distrutte 56 chiese; 11 scuole; 4 sedi di ong; attaccati 300 villaggi; incendiate o distrutte oltre 4 mila case spingendo alla fuga più di 50 mila persone. Di queste circa 40 mila sono tuttora nascosti nella foresta; 12 mila sono ospitati nei campi di rifugio approntati dal governo.
di Nirmala Carvalho
AsiaNews 17/09/2008
La sorprendente geopolitica di Joseph Ratzinger, papa - Dopo tre anni di pontificato e smentendo le previsioni dei più, il raffinato teologo ha lasciato la sua impronta anche nella politica internazionale. In Occidente, con l'islam, con la Cina. La rivista dell'Aspen Institute in italia spiega come e perché - di Sandro Magister
ROMA, 19 settembre 2008 – A differenza del predecessore, Benedetto XVI è ritenuto un papa impolitico. Ma non è così. Semplicemente, Joseph Ratzinger fa politica in forme originali. Talora imprudenti, secondo i canoni del realismo diplomatico anche vaticano. Eppure rivelatesi, dopo tre anni di pontificato, più produttive di quanto molti prevedessero, come ha provato anche l'inaspettato "successo" del recente viaggio del papa nella laicissima Francia.
Qui di seguito è analizzata più da vicino la geopolitica della Chiesa di Roma nel passaggio dall'epico papa condottiero Giovanni Paolo II al suo successore. Con le novità da questo introdotte.
L'analisi è uscita sull'ultimo numero di "Aspenia", la rivista trimestrale di politica internazionale dell'Aspen Institute in Italia, diretta da Marta Dassù.
Il numero è interamente dedicato al tema "Religione e politica", ritornato di primissimo piano dopo la fine del secolo delle ideologie, con diverse modalità nei diversi quadranti internazionali.
Più sotto, il lettore troverà l'indice completo della rivista, che comprende anche un'intervista al rabbino Jacob Neusner sui rapporti tra giudaismo e cristianesimo.
Il papa dell'Occidente - di Sandro Magister, da "Aspenia" n. 42, 2008, pp. 164-170
La Chiesa cattolica è una realtà bimillenaria. Ma l’attuale ruolo politico del papato sulla scena del mondo è una sua conquista recente, di questi ultimi decenni. Per tre secoli, dopo la pace di Westfalia, il papato visse ai margini degli Stati. La sua neutralità tra le potenze coincideva con l’irrilevanza. La denuncia della prima guerra mondiale come “inutile strage” condannò Benedetto XV all’isolamento. Alle conferenze di pace che posero termine alle due guerre globali del Novecento, la Santa Sede non fu neppure invitata.
La risalita cominciò a metà del secolo scorso, col pontificato di Pio XII. E proseguì con i suoi successori, Giovanni XXIII e Paolo VI. Quest’ultimo predicò dalla tribuna delle Nazioni Unite a nome di una Chiesa “esperta in umanità”. Nudo di potere temporale, il papato si rivestì di autorità morale. Ma metà del mondo gli restava irriducibilmente ostile. Stalin irrideva una Chiesa priva di divisioni armate. Lo strapotere sovietico costrinse la Chiesa al silenzio, sia dentro la cortina di ferro, sia fuori. Non una parola sul dominio comunista uscì dal Concilio Vaticano II, che pure discusse di tutto. La celebrata Östpolitik vaticana di quegli anni si attenne alla più stretta dottrina realista, a quel minimo necessario per assicurare alla Chiesa perseguitata la chance non tanto di vivere, ma semplicemente di non morire.
Poi venne un papa dalla Polonia e tutto cambiò. La rivoluzione spirituale da lui animata fu il fattore aggiunto che accelerò il crollo del sistema sovietico. Durante il suo pontificato, la Chiesa dispiegò l’intera gamma dei suoi registri. Alternò il realismo geopolitico a un idealismo di sapore wilsoniano. Agli Stati, il papato antepose i popoli. All’inviolabilità dei confini sostituì “il dovere e il diritto di ingerenza, per disarmare chi vuole uccidere”. Invocò l’intervento di eserciti internazionali in difesa dei popoli della Bosnia e del Kosovo. In entrambi i casi, si trattava di popolazioni musulmane, reliquie di quell’impero ottomano che tre secoli prima era giunto ad assediare Vienna; e il papa si schierava dalla loro parte.
Giovanni Paolo II era tutt’altro che un pacifista. Chiese interventi militari a Timor Est, a Haiti, nell’Africa dei Grandi Laghi: in quest’ultimo caso senza essere esaudito, col conseguente incontrollato genocidio di intere popolazioni. L’espansione della libertà e della democrazia era uno dei suoi principi guida.
Ma in altri momenti e su altri teatri Giovanni Paolo II optò per il rifiuto delle armi, all’insegna del realismo. Si oppose alla guerra del 1990-1991 contro l’Iraq, nonostante fosse approvata dall’ONU e fosse finalizzata a restituire la legittima sovranità a uno Stato invaso, il Kuwait. Tra gli “interessi” che motivarono questa opposizione del papa alla guerra, il primo fu la difesa della minoranza cristiana in Iraq. Un altro fu il rifiuto di un nuovo ordine mondiale a illimitata egemonia americana. Un altro ancora fu il proposito di instaurare tra la Chiesa e i paesi musulmani un rapporto non di scontro ma di “dialogo”, analogo a quello intercorso col blocco sovietico negli anni della Östpolitik, anche a costo di mantenere il silenzio sulle macroscopiche violazioni dei diritti umani perpetrate in quei paesi.
Dopo l’11 settembre 2001, papa Karol Wojtyla di fatto approvò le operazioni belliche in Afghanistan. Si oppose invece risolutamente alla seconda guerra contro l’Iraq. La contrastò con tutte le sue forze, ma senza mai condannarla come immorale. La logica di questa opposizione del papa alla guerra era, ancora una volta, realista. Tant’è vero che nel 2003, soprattutto dopo l’eccidio terrorista di Nassiriya del 13 novembre, la linea ufficiale della Santa Sede divenne – ed è rimasta tuttora – di aperto sostegno alla permanenza di truppe occidentali in quel paese, permanenza promossa a “missione di pace”, anche a protezione delle minoranze cristiane.
Non sorprese, quindi, che dopo la morte di papa Wojtyla, nel 2005, gli ultimi tre presidenti degli Stati Uniti si inginocchiassero di fronte al suo corpo e ai suoi funerali accorresse la quasi totalità dei governanti del globo. In un mondo divenuto più anarchico, dopo la dissoluzione dei blocchi, al capo della Chiesa cattolica si riconosceva un’autorità senza precedenti, morale prima che politica.
Uscito di scena un gigante della statura di Giovanni Paolo II, l’interrogativo naturale era se il suo successore sarebbe stato in grado, e come, di mantenere il papato al centro della scena mondiale. L’interrogativo era tanto più naturale in quanto il nuovo papa, il tedesco Joseph Ratzinger, era uomo d’altra tempra, teologo raffinato, difficile da immaginare come epico condottiero. E in effetti, sin da subito, Benedetto XVI rifiutò di imitare il suo predecessore. Ma nemmeno segnò rispetto a lui una rottura. Proseguì nel suo solco, ma con un passo proprio e originale. Anche sul teatro della politica internazionale.
Se Giovanni Paolo II era stato il papa delle folgoranti intuizioni, Benedetto XVI è il papa del ragionare e dell’agire metodico. Il primo era anzitutto immagine, il secondo è principalmente "logos". Di Giovanni Paolo II fecero colpo, all’esordio, queste parole della sua prima omelia: “Non abbiate paura, aprite le porte a Cristo”. In esse balenava già un lampo della pacifica rivoluzione che egli avrebbe suscitato nell’Est dell’Europa, e non solo. Di Benedetto XVI, invece, il primo atto che ha fatto colpo su scala mondiale è stata la poderosa lezione tenuta all’università di Ratisbona il 12 settembre 2006. Ha fatto così colpo da scuotere letteralmente il mondo, a ragione e a torto. In quella lezione erano argomentati il giudizio e il progetto del nuovo papa sulla Chiesa e sull’Occidente, incluso il rapporto con l’islam.
Stando ai canoni del realismo geopolitico, Benedetto XVI non avrebbe mai dovuto pronunciare quella lezione per intero. Avrebbe dovuto prima farla rivedere e purgare da diplomatici esperti, cosa che egli s’era guardato dal fare. E nella curia vaticana parecchi gliel’hanno rimproverato.
Eppure, a distanza di due anni, i fatti parlano diversamente. A dispetto delle cassandre, tra la Chiesa cattolica e l’islam è sbocciato un dialogo che prima di Ratisbona non c’era mai stato e sembrava persino impensabile. Un dialogo non solo intellettuale – rappresentato ad esempio dalle iniziative seguite alla “lettera dei 138 saggi musulmani” – ma anche politico. Quest’ultimo ha avuto un’accelerazione impressionante dopo l’udienza del 6 novembre 2007 in Vaticano, la prima nella storia, tra il papa e il re dell’Arabia Saudita.
Anche dopo Ratisbona, un aspetto che contraddistingue il rapporto col mondo musulmano inaugurato da Benedetto XVI è la sua apparente imprudenza. Papa Ratzinger non teme di alternare ai gesti di apertura – si pensi alla preghiera silenziosa da lui compiuta nella Moschea Blu di Istanbul – atti che fanno a pugni con le cautele diplomatiche. Ha ricevuto tranquillamente in udienza Oriana Fallaci, una delle voci più critiche dell’islam, da lei ritenuto costitutivamente violento. Ha battezzato in San Pietro, la notte di Pasqua del 2008, Magdi Allam, convertito dall’islam e critico radicale della sua religione d’origine. Ma ciò che più stupisce è il cuore del ragionamento di Benedetto XVI. Il papa chiede all’islam che inizi anch’esso a compiere quella impegnativa rigenerazione di sé che la Chiesa cattolica ha compiuto nell’arco di due secoli, a partire dall’Illuminismo.
C’è un passaggio di un discorso di Benedetto XVI – letto alla curia romana il 22 dicembre 2006 – che svolge questa sua tesi nel modo più limpido:
"In un dialogo da intensificare con l'islam dovremo tener presente il fatto che il mondo musulmano si trova oggi con grande urgenza davanti a un compito molto simile a quello che ai cristiani fu imposto a partire dai tempi dell'illuminismo e che il Concilio Vaticano II, come frutto di una lunga ricerca faticosa, ha portato a soluzioni concrete per la Chiesa cattolica. [...]
"Da una parte, ci si deve contrapporre a una dittatura della ragione positivista che esclude Dio dalla vita della comunità e dagli ordinamenti pubblici, privando così l'uomo di suoi specifici criteri di misura.
"D'altra parte, è necessario accogliere le vere conquiste dell'illuminismo, i diritti dell'uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi essenziali anche per l'autenticità della religione. Come nella comunità cristiana c'è stata una lunga ricerca circa la giusta posizione della fede di fronte a quelle convinzioni – una ricerca che certamente non sarà mai conclusa definitivamente – così anche il mondo islamico con la propria tradizione sta davanti al grande compito di trovare a questo riguardo le soluzioni adatte.
"Il contenuto del dialogo tra cristiani e musulmani sarà in questo momento soprattutto quello di incontrarsi in questo impegno per trovare le soluzioni giuste. Noi cristiani ci sentiamo solidali con tutti coloro che, proprio in base alla loro convinzione religiosa di musulmani, s'impegnano contro la violenza e per la sinergia tra fede e ragione, tra religione e libertà".
Come è facile ricavare da questo e da altri suoi discorsi, la “sinergia tra fede e ragione” è il cardine del pensiero di Joseph Ratzinger teologo e papa. All’origine della fede cristiana, per lui, non c’è solo Gerusalemme, c’è anche l’Atene dei filosofi. I due terzi della lezione di Ratisbona sono dedicati proprio a criticare le fasi in cui il cristianesimo si è pericolosamente distaccato dai suoi fondamenti razionali. E all’islam, il papa propone che faccia lo stesso: che intrecci la fede con la ragione, unica via capace di tenerlo al riparo dalla violenza. La difficoltà dell’impresa – riconosciuta ardua ma doverosa anche da pensatori musulmani di rilievo come Mohammed Arkoun – sta nel fatto che nella storia del pensiero islamico un rapporto fecondo tra fede e ragione si è praticamente interrotto con la morte del filosofo Averroè nel lontano 1198. Dopodiché, nell’islam, ha fino a oggi prevalso quella dissociazione tra fede e “ragionevolezza” da cui il papa ha messo in guardia tutti, musulmani e cristiani, nei passaggi più memorabili della sua lezione di Ratisbona.
Un teorico della politica potrebbe obiettare che le tesi papali esulano dal campo politico propriamente inteso. Ma per Benedetto XVI non è così. Egli è convinto che le società, gli Stati e la comunità internazionale debbano poggiarsi su fondamenti solidi. Come papa, il suo intento è anche di predicare una “grammatica” universale fondata sulla legge naturale, sui diritti inviolabili scolpiti nella coscienza di ogni uomo, quale che sia il credo di ciascuno.
Di questa “grammatica” – nel suo discorso alle Nazioni Unite del 18 aprile 2008 – Benedetto XVI ha sottolineato “il principio della responsabilità di proteggere”, ossia “il dovere primario di ogni Stato di proteggere la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani”. Aggiungendo che “se gli Stati non sono in grado di garantire simile protezione, la comunità internazionale deve intervenire”. Ma papa Ratzinger non si è fermato a questa enunciazione. È andato al suo fondamento, senza il quale la responsabilità di proteggere cadrebbe in balia degli interessi in contrasto. E ha individuato tale fondamento ultimo nell’“idea della persona quale immagine del Creatore”, col suo innato “desiderio di una assoluta ed essenziale libertà”.
Benedetto XVI sa bene che questo ancoraggio alla trascendenza non è da tutti accettato. Ed è respinto proprio da una cultura che ha nell’Occidente la sua matrice. Ma ritiene doveroso annunciare incessantemente alle potenze mondiali che “quando Dio viene eclissato, la nostra capacità di riconoscere l’ordine naturale, lo scopo e il bene comune comincia a svanire”. Papa Ratzinger ritiene esaurita la formula “laica” posta da Grozio alla base della convivenza tra i popoli: "etsi Deus non daretur" come se Dio non ci fosse. Propone a tutti, anche a chi non accetta la trascendenza, la scommessa opposta: quella di agire "etsi Deus daretur", come se Dio ci fosse. Perché solo così la dignità della persona trova un fondamento incrollabile.
Ha sorpreso tutti l’accoglienza straordinariamente amichevole data da Benedetto XVI al presidente americano George W. Bush, in occasione della sua ultima visita in Vaticano. Essa ha segnato certamente uno strappo rispetto al tradizionale antiamericanismo di parte della gerarchia cattolica: quello che identifica gli Stati Uniti col capitalismo sfrenato, il consumismo, il darwinismo sociale. Ma la vera molla della simpatia di papa Ratzinger per gli Stati Uniti è che sono un paese nato e fondato “sulla verità evidente che il Creatore ha dotato ogni essere umano di diritti inalienabili”, in testa ai quali la libertà. All’ambasciatore degli Stati Uniti Mary Ann Glendon, che gli presentava le credenziali, Benedetto XVI ha detto di ammirare “lo storico apprezzamento del popolo americano per il ruolo della religione nel forgiare il dibattito pubblico”, ruolo che invece altrove, leggi in Europa, “è contestato in nome di una comprensione limitata della vita politica”. Con le conseguenze che ne derivano sui punti che alla Chiesa stanno più a cuore, come “la tutela legale del dono divino della vita dal concepimento alla morte naturale”, il matrimonio, la famiglia.
Su questi punti, la severità con cui Benedetto XVI sferza i governi d’Europa e, viceversa, l’ammirazione che fa trasparire per gli Stati Uniti è un altro elemento che lo contraddistingue. I destini dell’Occidente, materiali e spirituali, sono sicuramente al centro degli interessi geopolitici di questo papa. Ma non solo. Basti pensare alla cura con cui egli segue il capitolo Cina. La lettera scritta dal papa ai cattolici cinesi è anch’essa d’impronta molto ratzingeriana. Anche lì, di prudenze e reticenze diplomatiche ve ne sono poche.
Quanto all’impronta ratzingeriana, è facile ravvisarla anche nei documenti che sono in larga parte il prodotto della segreteria di Stato vaticana. Ogni inizio d’anno, dopo la festa dell’Epifania, il papa riceve l’intero corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede e legge un discorso in cui fa il punto sulla geopolitica della Chiesa in tutto il mondo. L’ultimo che ha letto, lo scorso 7 gennaio, era di routine. Ma nel finale Benedetto XVI ha introdotto un paragrafo inconfondibilmente suo:
“La diplomazia è, in un certo modo, l’arte della speranza. Essa vive della speranza e cerca di discernerne persino i segni più tenui. La celebrazione del Natale viene ogni anno a ricordarci che, quando Dio si è fatto piccolo bambino, la speranza è venuta ad abitare nel mondo, al cuore della famiglia umana”.
Dalle arti della diplomazia a quel “piccolo bambino” che è Gesù il salto è vertiginoso. Eppure è tutta in questo nesso – secondo il papa – la missione originale della Chiesa, la sua teologia della storia, la sua “politica” nel mondo.
L'INDICE DELL'ULTIMO NUMERO DI "ASPENIA":
Dialogo fra Massimo D’Alema e Giulio Tremonti - Dèi, patrie e famiglie
Idea: Il secolo religioso
Carlo Jean - Ragione e oscurantismo
Thomas F. Farr - Una politica estera malata di laicismo
Maurizio Molinari - Dio e l’America
Intervista a Walter Russell Mead - La religione negli States
Laura R. Olson - La sinistra religiosa nella politica americana
Antonio Caprarica - La conversione di Tony Blair
Marina Valensise - La laicità positiva secondo Sarkozy
Felix Stanevskiy - La chiesa di Putin
Claudio Virgi - Altare e trono: la geopolitica della Chiesa ortodossa
Maarten van Aalderen - L’eredità di Atatürk e il velo islamico
Simonetta Della Seta - Lo Stato ebraico: religione e nazione
Francesca Paci - La posta di Gaza
Intervista a Jacob Neusner - Giudaismo e cristianesimo
Intervista a Richard Madsen - La religione in Cina
Preeti Bhattacharji - Tolleranza asiatica
Marco Vicenzino - America Latina: la sfida dell’evangelismo
Pew Forum on Religion and Public Life - Lo spirito e la forza
Sandro Magister - Il papa dell’Occidente
Scenario: Fede e ragione
Dialogo fra Giuliano Amato e Gaetano Quagliariello - Il ritorno di Dio
Roberto Toscano - Credere o appartenere
Martin Goodman - Dall’impero romano all’antisemitismo moderno
Philippe Raynaud - Fine dell’Illuminismo o fine della religione?
Rémi Brague - Fede e democrazia
Gaetano Rebecchini - Il modello americano
Adriano Pessina - Il pensiero indispensabile: la politica e la bioetica
Angelo Maria Petroni - Scienza e libertà
Ignazio R. Marino - La ricerca e i suoi limiti
Julian Gough - Il sacro mistero del capitale
La Fondazione “Pave the Way” cerca la verità su Pio XII - Dichiarazioni a ZENIT del suo presidente dopo l'incontro con il Papa
di Jesús Colina
CASTEL GANDOLFO, giovedì, 18 settembre 2008 (ZENIT.org).- La Fondazione “Pave the Way” ha organizzato un simposio a Roma per ristabilire la verità storica sull'impegno di Pio XII a favore degli ebrei. Il suo presidente Gary Krupp, ebreo, ha confidato a ZENIT le sue impressioni dopo che Benedetto XVI ha ricevuto i partecipanti al congresso questo giovedì.
Krupp riconosce che sarà difficile dissipare la “leggenda nera” su Pio XII, che alcuni hanno accusato di essere il Papa di Hitler.
“Il nostro simposio era estremamente significativo, dato che la Fondazione 'Pave the Way' crede che questo problema continuerà anche dopo l'apertura degli Archivi Segreti Vaticani relativi agli anni della Seconda Guerra Mondiale”, ha affermato Krupp, statunitense e fondatore della “Pave the Way”.
Nel congresso, spiega, si è scoperto che molti messaggi e molte istruzioni di Pio XII per salvare gli ebrei “sono stati verbali o in codice e i ricercatori degli archivi sembrano credere che ciò che non è stato scritto non sia accaduto, e di fronte alla mancanza di scoperta di nuovi documenti nasceranno accuse di distruzione intenzionale di documenti”.
Papa Benedetto XVI ha spiegato questo giovedì nel corso dell'udienza ai partecipanti al simposio che quest'opera del Pontefice è stata sviluppata “in modo segreto e silenzioso proprio perché, tenendo conto delle concrete situazioni di quel complesso momento storico, solo in tale maniera era possibile evitare il peggio e salvare il più gran numero possibile di ebrei”.
Di fronte a questi pregiudizi, la Fondazione ha raccolto le testimonianze di ebrei salvati da membri della Chiesa cattolica in obbedienza a indicazioni di Pio XII.
“Queste testimonianze in video e il nostro libro di documenti sono aperti all'analisi di tutti sulla nostra pagina web www.ptwf.org”, ha spiegato il fondatore.
Sull'udienza concessa da Benedetto XVI, Krupp ha confessato che “è stata molto gratificante, perché il Papa è stato estremamente gentile nel manifestare la sua gratitudine alla Fondazione 'Pave the Way' per i nostri sforzi di iniziare a offrire prove concrete”.
Cardinale Antonelli: le famiglie cristiane siano “fuoco acceso” nella società
di Roberta Sciamplicotti
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 18 settembre 2008 (ZENIT.org).- Le famiglie cristiane devono essere “fuoco acceso” nella società per mostrare apertamente la bellezza della vita cristiana, ha affermato questo giovedì il Cardinale Ennio Antonelli, presidente del Pontificio Consiglio della Famiglia.
Incontrando i giornalisti nella sede del dicastero, di cui ha assunto la guida recentemente (cfr. ZENIT, 8 giugno 2008), il porporato ha affermato che “se non abbiamo qualcosa da far vedere è difficile persuadere”.
E' per questo che “la bellezza della famiglia cristiana deve essere testimoniata concretamente”, ha dichiarato, esortando a “edificare autentiche famiglie cristiane che possano essere un fuoco acceso, un punto di riferimento per tutti” e siano caratterizzate “da un'unità profonda, nel rispetto delle differenze, con un'apertura generosa alla vita” e “la cura delle persone più deboli”.
Il Cardinale ha quindi ricordato le “due linee generali di impegno” del Pontificio Consiglio che presiede: “promuovere il rispetto della vita umana, l'etica della vita, cioè la cosiddetta bioetica”, e “promuovere la valorizzazione della famiglia nella Chiesa, nella cultura e nella società civile”.
Vita e famiglia, sostiene, sono “beni fondamentali” della persona, dove quest'ultima è “più che individuo”, cioè “soggetto singolo, irripetibile, autocosciente, libero, ma anche costitutivamente in relazione” “con gli altri e con l'Altro”.
Secondo il porporato, è proprio nella famiglia – nel rapporto uomo-donna e genitori-figli – che “si giocano le differenze fondamentali dell'umano”, e tali differenze “si intrecciano, si legano tra loro e sviluppano tutta la loro ricchezza, tutta la loro potenzialità”.
I progetti che il nuovo presidente vuole realizzare nel dicastero sono essenzialmente due: da un lato, “attivare maggiormente la consultazione con i Vescovi, le Conferenze Episcopali, le famiglie, gli esperti, le istituzioni che si interessano della famiglia, le associazioni”; dall'altro, “privilegiare la pastorale ordinaria per le famiglie e con le famiglie”, nelle parrocchie e nelle associazioni.
Questo secondo aspetto è particolarmente rilevante nel momento in cui si vuole far conoscere la realtà della famiglia cristiana felice, alla cui base deve esserci anche una grande attenzione alla preparazione dei coniugi, da iniziare già nel periodo del fidanzamento.
Per questo, il Cardinale ha auspicato che il cammino precedente il matrimonio sia non un corso, ma un vero e proprio itinerario, “il più possibile personalizzato”.
Allo stesso modo, è necessaria grande cura per le famiglie in difficoltà o che non sono in piena sintonia con la Chiesa.
A questo proposito, ha sottolineato, non si deve pensare soltanto alla situazione dei divorziati, ma anche alle violenze familiari, ai rapporti sbagliati tra genitori e figli e ad altri problemi che spesso sfuggono alle statistiche ma sono dolorosi quanto le separazioni.
In queste situazioni, la Chiesa deve essere presente e “sostenere le coppie in difficoltà, non lasciarle sole”, mostrando di voler “aprire degli spazi per tutti” per “essere maestra e madre”.
Circa la delicata questione dei divorziati risposati, il Cardinale ha affermato che si cerca di “accoglierli in tutti i modi possibili, per far sentire che la Chiesa è accanto a loro, li inserisce concretamente nella vita della comunità cristiana, crea anche anche dei cammini specifici di sostegno”.
Nonostante questo, ha affermato, “non possiamo dimenticare che il matrimonio indissolubile è nel Vangelo, e la Chiesa oggettivamente deve riconoscere che queste situazioni non sono in piena sintonia con il Vangelo stesso”.
Visto che la Chiesa non può approvare queste realtà “perché deve essere segno pubblico del Vangelo e delle sue istanze”, il Cardinale ammette di “non vedere spiragli” per la possibilità che i divorziati risposati possano ricevere l'Eucaristia, giacché quest'ultima richiede una piena comunione con la Chiesa “a livello interiore e a livello visibile”.
Il “peccato fondamentale” in questo caso, ha osservato, è quello di “non riconoscersi peccatori e bisognosi della misericordia di Dio, di essere salvati”; “gli uomini si autogiustificano, fanno la legge morale secondo la propria coscienza, come se fossero autosufficienti”.
Per il Cardinale Antonelli, questa situazione è la perfetta esemplificazione del “peccato originale”, “quello che è alla radice di tutti i peccati: l'uomo che vuole essere autonomo da Dio, autonomo dalla verità oggettiva, quindi non cerca la verità, non aderisce alla verità, ma pretende di costruire lui stesso la verità, di stabilire cosa è vero e cosa è falso”.
Compito della Chiesa è allora quello di aiutare a comprendere e a vivere la verità senza abdicare dall'insegnamento del Magistero. Come diceva Giovanni Paolo II, ha ricordato il presidente del dicastero vaticano, “non dobbiamo abbassare la montagna”.
“La montagna è alta, è difficile, il cristianesimo è difficile”, ha riconosciuto, ma bisogna “aiutare le persone a salire la montagna con il loro passo”, perché “possano almeno fare i passi che sono capaci di fare”.
I Tafazzi della trattativa Alitalia
Autore: Buggio, Nerella
Fonte: CulturaCattolica.it
giovedì 18 settembre 2008
Sul sito di Alitalia tra le “Informazioni ai Clienti “ si legge:
“Alitalia informa che continuerà ad operare i propri voli come da orario in vigore, e che onorerà prenotazioni e biglietti, mantenendo il proprio programma MilleMiglia e tutti i servizi verso la clientela.”
Vien da pensare che sono buoni propositi, ma non basteranno, quello di oggi è un giorno amaro.
Cai, Compagnia Aerea Italiana con una nota annuncia di aver deciso il ritiro dell'offerta su Alitalia. "L'assemblea di Cai, Compagnia Aerea Italiana, ha deciso all'unanimità di ritirare l'offerta presentata al Commissario di Alitalia per l'acquisto di attivi dalla stessa posseduti".
Cai annunciando il suo ritiro ha spiegato che "una delle condizioni più importanti di tale offerta era costituita dal raggiungimento di un largo accordo sindacale sul piano industriale della Nuova Alitalia e sul contratto di lavoro da dare alla nuova compagnia aerea. Tale accordo non è stato raggiunto, come dimostrato dalle sole tre lettere di accettazione ricevute da Cisl, Uil e Ugl".
Roberto Colaninno e altri soci di Compagnia Aerea Italiana non hanno rilasciato dichiarazioni, uscendo da Palazzo Clerici a Milano, dove si era tenuta l'assemblea della società che ha deciso di ritirare l'offerta su Alitalia.
All’uscita il presidio dei piloti e assistenti di volo che si era raggruppato di fronte all'ingresso del palazzo li ha accolti gridando: "buffoni, buffoni", "a lavorare".
Ora mi chiedo, e loro, “a lavorare” potranno tornarci?
A chi giova questo harakiri?
L’impressione è che manchino dei pezzi di puzzle, e quindi sia impossibile vedere il disegno finito.
Perché tutti a casa è meglio della proposta Cai?
Leggo sempre nella nota rilasciata da Cai, che l'accordo avrebbe permesso di "assumere circa 12.500 dipendenti in via diretta e creare le condizioni per ulteriori circa 1.700 assunzioni in via indiretta nei settori del full Cargo e della manutenzione pesante"inoltre, i lavoratori con contratto a tempo indeterminato avrebbero beneficiato di ammortizzatori sociali: “tali da permettere fino a sette anni di accompagnamento alla pensione”.
Allora qualcuno dovrebbe spiegare a noi povere casalinghe di periferia, perché per i lavoratori il fallimento è la migliore soluzione, perché meglio perdere il posto tutti che solo alcuni?
Se i sindacati difendono gli interessi dei lavoratori, vuol dire che i sindacati che hanno deciso di non accettare l’offerta, hanno pensato che “così è meglio”.
Altrimenti non si capisce perché un lavoratore dovrebbe delegare a un sindacato la difesa dei suoi diritti e poi trovarsi senza lavoro, senza ammortizzatori sociali e magari con il mutuo della da pagare.
Insomma, qualcuno ci spieghi se esiste ancora un’organizzazione che difende il bene comune, o non mi direte che hanno preferito non cedere per non darla vinta al “nemico”, in barba agli interessi di chi li ha delegati a rappresentarli, non mi direte che hanno pensato che se si chiudeva la trattativa quel narciso del Presidente del consiglio poi sarebbe andato in giro a dire che oltre a togliere l'immondizia da Napoli, aveva anche fatto volare l’Alitalia, e questo era davvero insopportabile.
Sta di fatto che a meno di stravolgimenti notturni, ora siamo tutti a piedi, compresi i piloti e gli assistenti di volo che raccontano le cronache, alla notizia del fallimento della trattativa hanno esultato, in tipico stile Tafazzi.
DIBATTITO/ Quando la verità non c’è più. Perché dire no al relativismo di Vattimo - Redazione – IlSussidiario.net - venerdì 19 settembre 2008
In un articolo su La stampa dell’11 settembre, intitolato «Mettiamoci d’accordo, la verità non c’è più» Gianni Vattimo spiega la filosofia dell’amico Richard Rorty e ne rileva l’aspetto decisivo: non si può più parlare di verità. Rorty lo diceva in modo secco: non si deve formulare una nuova teoria della verità – “perché di tutte conosciamo la menzogna”, già sosteneva Malraux –, è venuto il momento di cambiare discorso, di non porsi più queste domande che non hanno portato frutti socialmente utili. Vattimo riassume: la verità, intesa come un “sapere come stanno le cose” non serve a niente finché non ci cambia la vita. E questa è effettivamente la versione rortyana del pragmatismo (neo-pragmatismo), che oggi va per la maggiore nella nuova koiné naturalista della filosofia mondiale.
Il cuore dell’argomento è che la filosofia contemporanea ha stabilito che l’essere non determina il dover essere – secondo l’insegnamento di Hume –, la metafisica (le cose come sono) non determina le norme (come dobbiamo ragionare, comportarci, ecc.). Ma il fatto è che questa distinzione è una certa versione della verità, quella che si è imposta da Descartes in avanti, quella che divide pensiero e corpo, capire e fare e – ovviamente – sapere ed essere felici.
Curiosamente, proprio il pragmatismo originario (Peirce, James e Dewey) cercava con più o meno successo di attaccare questa posizione e di descrivere la verità in un modo più aderente all’esperienza. Per farla in breve, si voleva dire che per capire bisogna fare e non c’è fare che non sia impregnato di sapere. Il sapere senza fare è un vuoto razionalismo che non serve alla vita, il fare senza sapere è un cieco empirismo che la soffoca. Non è una scoperta di Dewey. Ogni educatore sa che uno ha capito se e solo se sa fare gli esercizi; d’altro canto, non si fanno gli esercizi per il gusto di farli ma per capire.
Ma rimaniamo all’esempio di Vattimo, che propone un caso più inquietante: “Se uno si ammala e gli viene spiegato che è malato perché le sue ossa si stanno erodendo, sarà felice?” Risposta: “No, a meno che gli si possa dare il farmaco che lo cura”. È qui che torna in campo il sapere e che il suo screditamento non sembra reggere: e se uno trova il farmaco che lo fa vivere e poi non “sa” per che cosa valga la pena vivere, sarà felice? (Ma secondo Vattimo questo non è sapere come stanno le cose, sono progetti). E se uno non può trovare il farmaco? Sarà felice di non porsi la domanda: “Perché succede questo? Che cosa significa? A che cosa serve?”
Ciò che non serve – e che purtroppo c’è ancora – è il sapere statico e astratto del razionalismo che ha generato tutte le ideologie degli ultimi secoli. Lo stesso razionalismo che alla fine, deluso dall’insufficienza delle proprie risposte, dice che non c’è risposta e guai a chi si pone delle domande sui fatti che accadono. Peccato che il “sapere” di chi vive qualsiasi esperienza sul serio – da chi fa scienza (“che cos’è questo?”) a chi lava i piatti a casa (“per chi lo sto facendo?”) – nasce dalla necessità di scoprire il significato che la vita porta con sé o dentro di sé (i fatti accadono lo stesso) e di cui – volenti o nolenti – siamo sempre curiosi collaboratori.
L’opzione fondamentale sta qui: Vattimo e Rorty pensano che questo significato sia un progetto che ciascuno inventa e su cui mettersi d’accordo (secondo i criteri di chi? Si ha sempre paura che alla fine vinca semplicemente il più forte, che fa agli altri la «carità» di elargire cultura, metodi, storia ecc.), mentre l’esperienza comune – e una filosofia che voglia rispettarla – dice che il significato si trova dentro la realtà e che ciascuno può provare a trovarlo. È l’antico scontro tra nominalismo e realismo. In questa seconda ipotesi vince solo chi si pone più domande.
(Giovanni Maddalena)
Solo in un "legame" la libertà dell'individuo si può esprimere - Pigi Colognesi - venerdì 19 settembre 2008
Il sociologo Zygmunt Bauman ha l’interessante capacità di sintetizzare in una immagine facilmente comprensibile ed evocativa la sua interpretazione di complessi fenomeni sociali. È lui che ha definito la nostra società come «liquida». E da allora questo aggettivo viene frequentemente, e a volte sbrigativamente, utilizzato in svariati contesti.
Nel suo ultimo libro Individualmente insieme, Bauman sostiene che alla celebre triade della rivoluzione francese – libertà, uguaglianza, fraternità – ne sia ormai subentrata, nella società contemporanea, un’altra: sicurezza, parità, rete. È su quest’ultima parola che vale la pena di riflettere. Bauman la descrive così: «Si assume che ogni singolo si porti dietro, assieme al proprio corpo, la sua specifica rete, un po’ come una chiocciola porta la sua casa». La rete sono i legami che il singolo stabilisce. Ma attenzione, non sono i legami della fratellanza, cioè in qualche modo dati da una storia (la famiglia, il quartiere, una comunità religiosa, una nazione). Sono, al contrario, legami fluidi, flessibili, liquidi appunto: «Le unità individuali vengono aggiunte o tolte [dalla rete che la singola chiocciola porta con sé] con uno sforzo non maggiore a quello con cui si mette o si cancella un numero dalla rubrica del cellulare». Ne deriva che i legami sono «eminentemente scioglibili» e «facilmente gestibili, senza durata determinata, senza clausole e sgravati da vincoli a lungo termine».
È facile trovare in questa immaginifica descrizione i tratti del tipo di convivenze che vediamo quotidianamente. Basta pensare al fatto che a Milano per la prima volta il numero dei single ha superato quello delle famiglie. O alla debolezza dei legami affettivi, normalmente concepiti come temporanei, non impegnativi, cancellabili non appena lo si voglia.
Qual è la ragione di questo fenomeno? Il fatto, risponde Bauman, che «la rete non ha dietro di sé alcuna storia» e, quindi, l’identità della persona non è definita da una appartenenza che la precede. Anzi, l’unica appartenenza è quella che l’individuo via via si costruisce e distrugge attraverso le sue labili e mutevoli reti.
Benedetto XVI a Parigi ha affermato: «Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami». La descrizione di Bauman sembra confermare questa triste fatalità. Ma, dice il Papa, c’è una tragica conseguenza: una libertà come assenza di legami è destinata a distruggersi. E, quindi, a diventare preda del potere. Come ai tempi dei monaci da cui ha preso spunto Benedetto XVI, anche oggi è indispensabile che si pongano esperienze di appartenenza in cui la libertà sia affermata come espressione di un legame che precede l’individuo (la «fraternità» implica una paternità) e che ne fonda l’identità. Un identità che non è nemica di nessun’altra. Infatti, ha concluso il Papa: «Questa tensione tra legame e libertà ha determinato il pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale. Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra».
UE, MAURO: “SOSTEGNO ALLA COMUNITÀ CRISTIANA PRIORITÀ DEL SUMMIT UE-INDIA" - mercoledì 17 settembre 2008
Bruxelles – 17/09/2008 - L’On. Mario Mauro, Vicepresidente del Parlamento europeo, a nome del Gruppo del Partito popolare europeo, ha presentato quest’oggi una Risoluzione sulla preparazione del summit Ue-India in programma il 29 settembre a Marsiglia – “Per prima cosa voglio sottolineare ancora una volta il bisogno impellente di garantire immediata assistenza e supporto alle vittime dei recenti attacchi alla comunità cristiana dell’Orissa che hanno causato la morte di 35 persone, inclusa una compensazione alla Chiesa per i gravissimi danni subiti” – Mauro auspica con fermezza che “le autorità indiane facciano tutto ciò che è in loro potere per proteggere pienamente la minoranza cristiana, che è parte integrante dell'enorme diversità linguistica sociale e religiosa dell'India” – prosegue ricordando come “non ci sia stato un effettivo intervento da parte della polizia locale, che deve fare in modo che tutte le persone costrette a fuggire durante gli attacchi possano tornare a casa propria” – “L’incontro con gli amici indiani sarà anche occasione per rafforzare la nostra collaborazione nella lotta al terrorismo, partendo dal conferimento all’india di uno status privilegiato all'interno dell’Europol, anche considerando il fatto che l'India sta emergendo come uno dei più importanti attori sulla scena internazionale e uno dei maggiori contribuenti alle operazioni di peace-keeping delle Nazioni Unite" - conclude Mauro - "l'Europa riafferma il suo supporto per il rafforzamento delle relazioni strategiche tra le due più vaste entità democratiche del Mondo che sono chiamate a raggiungere risultati concreti sotto l'aspetto economico, politico, della sicurezza, della non proliferazione nucleare e sotto altri aspetti di mutuo interesse come la promozione della diversità culturale".
IL PAPA IN FRANCIA HA PARLATO MA ANCHE ASCOLTATO - La strana fretta di rimuovere gli sviluppi della «laïcité» - MARINA CORRADI, Avvenire, 19 settembre 2008
N el suo viaggio il Papa ha parlato alla Francia, ma, anche, la Francia ha parlato al Papa.
Sarkozy all’Eliseo ha proseguito nel filo di quanto aveva detto a Roma, in San Giovanni in Laterano, lo scorso dicembre, circa il desiderio di una nuova « laicità positiva » che, vegliando sulla libertà di credere e non credere, non considera le religioni un pericolo ma una ricchezza cui attingere. A Parigi Sarkozy ha ribadito che « è legittimo per la democrazia e rispettoso della laicità dialogare con le religioni. Queste, e in particolare quella cristiana, con cui condividiamo una lunga storia, sono un patrimonio di riflessione e di pensiero… Sarebbe una follia privarcene, sarebbe un errore contro la natura e contro il pensiero » . Ed è andato oltre: « Noi non poniamo nessuno ( nessuna religione, ndr) davanti all’altro, ma rivendichiamo le nostre radici cristiane » .
E nel cuore di un Paese che con la Rivoluzione e poi i Lumi ha impresso un solco indelebile nella storia d’Europa; nella patria dell’esistenzialismo che ha segnato il Novecento, nella città dalla cui università prese il via quarant’anni fa quel maggio che ha rivoluzionato l’Occidente, fa un certo effetto sentire proclamare: « Noi rivendichiamo le nostre radici cristiane » .
Strategie di consenso, necessità di ricreare una coesione sociale, si sono affannati a dire in molti, criticamente, e le testate francesi di sinistra subito hanno messo in pagina il presidente vestito da cardinale, o chierichetto – senza perdere l’occasione di ironizzare sui suoi numerosi matrimoni.
E tuttavia, qualcosa tra le righe del discorso, come già in dicembre a Roma, colpisce; come la voglia, e la libertà intellettuale, di svoltare pagina, di superare vecchie trincee e astiosi arroccamenti. Ha parlato, Sarkozy, di « ricerca di senso » dentro a una riflessione che, ha detto, la Francia ha intrapreso: « La crescita economica non ha senso se è fine a se stessa.
Consumare per consumare, crescere per crescere: non ha alcun senso. Solo il miglioramento della situazione del maggior numero degli individui e lo sviluppo della persona ne costituiscono gli obiettivi legittimi, e questo insegnamento è al centro della dottrina sociale della Chiesa, che è in perfetta sintonia con le sfide dell’economia mondializzata » .
La ricerca del senso nelle parole del presidente francese, come già, in Laterano, la speranza ( « condivido l’opinione di Benedetto XVI – aveva detto – che la speranza sia una delle questioni più importanti del nostro tempo » ). E Sarkozy aveva sottolineato che né il progresso né alcuna ideologia e nemmeno la democrazia si sono dimostrate in grado « di rispondere al bisogno profondo degli uomini di trovare un senso all’esistenza » .
Ammettendo dunque che la domanda fondamentale rimane, inappagata da tutte le soluzioni tentate dalla storia. E ipotizzando anzi, ben oltre i vecchi steccati novecenteschi, « che la frontiera tra fede e non- credenza attraversi ciascuno di noi » , come una tendenza a andare oltre a sé, all’uomo connaturale. Dal Laterano all’Eliseo, come lo svolgersi pacato e libero di un dialogo fra il Papa e il Presidente di un grande Paese profondamente laico: di una laicità che aspira a uscire da antiche acrimonie. Quasi un inizio di risposta a quella Spe salvi
che, è stato scritto, si situa storicamente nella eclisse della speranza in Occidente – caduta ogni illusione in promesse fallite. Il principio e la voglia di un laico desiderio di domandare, ascoltare e liberamente cercare.
«Le banche rispolverino i manuali anni ’50» , Avvenire, 19 settembre 2008
DA MILANO
« L a crisi è drammatica perché non c’è modo di capire se siamo arrivati alla fine, se possiamo tirare l’ultima riga alla fine del conto». Alberto Banfi, professore di Economia degli intermediari finanziari alla Cattolica di Milano, pur poggiando lo choc attuale su basi diverse, intravede delle analogie con quanto accadde nel ’29. Soprattutto per la perdita di fiducia, generalizzata e globale, nel sistema degli intermediari del credito. In primis delle banche.
La fiducia è un bene economico intangibile ed è difficilissimo ricostruirla. Ma quali sono, a suo parere, le cause che hanno contribuito a minarla così profondamente?
Anzitutto a crollare sono stati dei colossi come Lehman Brothers o Bearn Stearns: oltre che banche, dei simboli. Ma prima ancora pesa il fatto che le perdite degli istituti di credito siano state causate da prodotti finanziari opachi, contratti difficili da rintracciare, che si avvitano su se stessi, e non permettono di quantificare precisamente i buchi in bilancio.
Alle banche, cioè, sono sfuggiti di mano i propri conti?
Negli ultimi quindici anni molte grandi banche hanno ragionato in questo modo: facciamo gli utili subito e poi si vedrà. Sarà un problema di chi arriva dopo.
E come li facevano gli utili?
Andando a cercare la materia prima, il denaro, quello che in linguaggio tecnico si chiama «la raccolta », non presso i clienti allo sportello ma sul mercato. Dove? Dagli investitori istituzionali attraverso strumenti finanziari sofisticati.
E dove sta il problema?
Nel fatto che la solvibilità dei prestiti non è risultata garantita.
Tanto che alla fine è stata una banca del territorio, con gli sportelli, come Bank of America, a comprarsi una banca d’affari come Merrill Lynch...
È così. Paradossalmente – e da qualche tempo, gli economisti ne parlavano nei convegni – il nuovo modo di fare banca è quello tradizionale. Quello dei manuali degli anni ’50 in cui era già descritto tutto ciò che una banca non dovrebbe fare. E che invece è stato fatto.
Cosa fa la banca tradizionale?
Dice: raccolgo «x» dai miei clienti e garantisco il deposito. La banca degli ultimi 15 anni, invece, non faceva i suoi calcoli sulla raccolta effettiva ma su quella in qualche modo virtuale.
E in questo modo i bilanci si gonfiavano.
Va detto anche che i nuovi principi contabili internazionali, gli Ias («International Accounting Standards»), per molti versi ottimi strumenti, hanno manifestato tuttavia un limite: quello di far redigere i bilanci a «valori di mercato», contabilizzando cioè le voci sul loro valore del momento. I bilanci sono divenuti così molto più volatili.
Le banche europee non stanno vacillando come quelle americane: è perché sono rimaste «tradizionali »?
Il sistema italiano, quello francese e quello tedesco, è vero, non si sono lasciati prendere la mano. Continuando a raccogliere presso il pubblico. E questo ha messo le nostre banche al riparo dalla crisi.
Marco Girardo
L’economista Banfi (Cattolica): il modello vincente è quello tradizionale, con la raccolta allo sportello. Crisi grave perché ha distrutto la fiducia negli intermediari
1) Assalito un convento di carmelitane nel Madya Pradesh. - I dati sulle violenze contro i cristiani - Il guardiano del convento è stato ferito. Distrutta anche una statua della Madonna di Lourdes a Kolar. Nel solo stato dell’Orissa si registrano finora 45 morti; 5 scomparsi; 18 mila feriti...
2) La sorprendente geopolitica di Joseph Ratzinger, papa - Dopo tre anni di pontificato e smentendo le previsioni dei più, il raffinato teologo ha lasciato la sua impronta anche nella politica internazionale. In Occidente, con l'islam, con la Cina. La rivista dell'Aspen Institute in italia spiega come e perché - di Sandro Magister
3) La Fondazione “Pave the Way” cerca la verità su Pio XII - Dichiarazioni a ZENIT del suo presidente dopo l'incontro con il Papa
4) Cardinale Antonelli: le famiglie cristiane siano “fuoco acceso” nella società
5) I Tafazzi della trattativa Alitalia
6) DIBATTITO/ Quando la verità non c’è più. Perché dire no al relativismo di Vattimo - Redazione – IlSussidiario.net - venerdì 19 settembre 2008
7) Solo in un "legame" la libertà dell'individuo si può esprimere - Pigi Colognesi - venerdì 19 settembre 2008
8) UE, MAURO: “SOSTEGNO ALLA COMUNITÀ CRISTIANA PRIORITÀ DEL SUMMIT UE-INDIA" - mercoledì 17 settembre 2008
9) IL PAPA IN FRANCIA HA PARLATO MA ANCHE ASCOLTATO - La strana fretta di rimuovere gli sviluppi della «laïcité» - MARINA CORRADI, Avvenire, 19 settembre 2008
10) «Le banche rispolverino i manuali anni ’50» , Avvenire, 19 settembre 2008
Assalito un convento di carmelitane nel Madya Pradesh. - I dati sulle violenze contro i cristiani - Il guardiano del convento è stato ferito. Distrutta anche una statua della Madonna di Lourdes a Kolar. Nel solo stato dell’Orissa si registrano finora 45 morti; 5 scomparsi; 18 mila feriti...
Mumbai (AsiaNews) – Il guardiano del convento delle carmelitane di Banduha (Ujjain, Madya Pradesh) è stato ferito cercando di proteggere le suore; nel Karnataka, la chiesa siro-cattolica di St George a Ujire è stata devastata e incendiata; una statua della Madonna, nella grotta di Lourdes a Kolar è stata distrutta. Sono alcune nuove violenze contro i cristiani che si registrano oggi. Tutti questi attacchi sono avvenuti la scorsa notte o nelle prime ore del giorno. L’ondata di violenze, cominciata in Orissa 3 settimane fa, ha fatto finora almeno 45 morti e più di 18 mila feriti.
Stanotte all’1.30 un gruppo di 5 persone si sono presentati con fucili ad aria compressa al Carmelo di Banduha, ferendo Amar Singh, il guardiano con 3 colpi non mortali. Ora si trova all’ospedale fuori pericolo. Amar ha detto che “gli assalitori mi intimavano di chiamare le suore; mi hanno anche picchiato perché io gridassi e le suore venissero fuori. Io ho resistito e mi hanno sparato. Dopo di questo sono andati via”.
Una delle suore, sr Dhanya, ha dichiarato che 4 giorni prima un gruppo aveva attorniato il convento facendo rumore e gridando slogan, ma il custode li ha cacciati via. La polizia ha aperto un’inchiesta sull’accaduto. La scorsa settimana a Ratlam è stata bruciata una chiesa. Ma la polizia ha addossato la responsabilità ai guardiani.
P. Anand Muttungal, portavoce dei vescovi del Madya Pradesh, afferma che questi incidenti non sono casuali: “In Madya Pradesh sono avvenuti diversi attacchi, con metodi differenti ma con la stessa matrice. Noi siamo persone che amano la pace e rifiutiamo la violenza”.
A Ujire, questa mattina alle 5, un gruppo di sconosciuti è entrato nella chiesa siro-cattolica di St. George. Essi hanno bruciato bibbia, messali, libri di preghiera, dissacrato il tabernacolo, distrutto il crocifisso, le statue e le icone. Hanno anche versato kerosene sui tappeti per bruciare l’edificio, che per fortuna non si è incendiato.
Il p. Joseph Valiaparambil, portavoce della diocesi di Belthangady ha dichiarato: “Noi siamo persone pacifiche. La comunità cattolica perdona i colpevoli e prega per loro… La nostra è una nazione democratica e tutti i cittadini godono di uguali diritti e privilegi… Le violenze e brutalità contro i cristiani del Karnataka avvengono sulla base di false ideologie e su concezioni distorte che violano il tessuto della democrazia e lo spirito della Costituzione indiana”.
Stamane, nelle prime ore del giorno, è stato anche attaccata un simulacro della grotta di Lourdes vicino alla chiesa di St Mary, a Kolar. I malviventi hanno spezzato la statua della Vergine e i vetri che la proteggevano. Alla statua della Madonna sono devoti sia cristiani che musulmani e indù. La custode ed addetta alle pulizie della grotta è proprio una donna indù.
Il 14 settembre nel Karnataka sono state assaltate 20 chiese. La polizia è accusata di non aver prevenuto gli attacchi pur avendone avuto informazione. I cattolici hanno allora organizzato manifestazioni per criticare l’atteggiamento delle forze dell’ordine. In molti casi la polizia ha picchiato selvaggiamente i fedeli.
La nuova ondata di attacchi contro cristiani e le loro istituzioni è cominciata in Orissa dopo l’uccisione ad opera di un commando maoista di Swami Laxmanananda Saraswati, leader radicale indù, lo scorso 23 agosto. Le organizzazioni fondamentaliste indù accusano i cristiani di esere gli autori dell’assassinio e per questo hanno lanciato un pogrom uccidendo e ferendo fedeli, distruggendo e incendiando chiese, scuole, centro sociali, case. Dall’Orissa, le violenze si stanno allargando al Madya Pradesh, al Karnataka e al Kerala.
Secondo la All India Catholic Union, a tutt’oggi, le violenze nel solo stato dell’Orissa, hanno fatto 45 morti; 5 scomparsi; 18 mila feriti. Sono state distrutte 56 chiese; 11 scuole; 4 sedi di ong; attaccati 300 villaggi; incendiate o distrutte oltre 4 mila case spingendo alla fuga più di 50 mila persone. Di queste circa 40 mila sono tuttora nascosti nella foresta; 12 mila sono ospitati nei campi di rifugio approntati dal governo.
di Nirmala Carvalho
AsiaNews 17/09/2008
La sorprendente geopolitica di Joseph Ratzinger, papa - Dopo tre anni di pontificato e smentendo le previsioni dei più, il raffinato teologo ha lasciato la sua impronta anche nella politica internazionale. In Occidente, con l'islam, con la Cina. La rivista dell'Aspen Institute in italia spiega come e perché - di Sandro Magister
ROMA, 19 settembre 2008 – A differenza del predecessore, Benedetto XVI è ritenuto un papa impolitico. Ma non è così. Semplicemente, Joseph Ratzinger fa politica in forme originali. Talora imprudenti, secondo i canoni del realismo diplomatico anche vaticano. Eppure rivelatesi, dopo tre anni di pontificato, più produttive di quanto molti prevedessero, come ha provato anche l'inaspettato "successo" del recente viaggio del papa nella laicissima Francia.
Qui di seguito è analizzata più da vicino la geopolitica della Chiesa di Roma nel passaggio dall'epico papa condottiero Giovanni Paolo II al suo successore. Con le novità da questo introdotte.
L'analisi è uscita sull'ultimo numero di "Aspenia", la rivista trimestrale di politica internazionale dell'Aspen Institute in Italia, diretta da Marta Dassù.
Il numero è interamente dedicato al tema "Religione e politica", ritornato di primissimo piano dopo la fine del secolo delle ideologie, con diverse modalità nei diversi quadranti internazionali.
Più sotto, il lettore troverà l'indice completo della rivista, che comprende anche un'intervista al rabbino Jacob Neusner sui rapporti tra giudaismo e cristianesimo.
Il papa dell'Occidente - di Sandro Magister, da "Aspenia" n. 42, 2008, pp. 164-170
La Chiesa cattolica è una realtà bimillenaria. Ma l’attuale ruolo politico del papato sulla scena del mondo è una sua conquista recente, di questi ultimi decenni. Per tre secoli, dopo la pace di Westfalia, il papato visse ai margini degli Stati. La sua neutralità tra le potenze coincideva con l’irrilevanza. La denuncia della prima guerra mondiale come “inutile strage” condannò Benedetto XV all’isolamento. Alle conferenze di pace che posero termine alle due guerre globali del Novecento, la Santa Sede non fu neppure invitata.
La risalita cominciò a metà del secolo scorso, col pontificato di Pio XII. E proseguì con i suoi successori, Giovanni XXIII e Paolo VI. Quest’ultimo predicò dalla tribuna delle Nazioni Unite a nome di una Chiesa “esperta in umanità”. Nudo di potere temporale, il papato si rivestì di autorità morale. Ma metà del mondo gli restava irriducibilmente ostile. Stalin irrideva una Chiesa priva di divisioni armate. Lo strapotere sovietico costrinse la Chiesa al silenzio, sia dentro la cortina di ferro, sia fuori. Non una parola sul dominio comunista uscì dal Concilio Vaticano II, che pure discusse di tutto. La celebrata Östpolitik vaticana di quegli anni si attenne alla più stretta dottrina realista, a quel minimo necessario per assicurare alla Chiesa perseguitata la chance non tanto di vivere, ma semplicemente di non morire.
Poi venne un papa dalla Polonia e tutto cambiò. La rivoluzione spirituale da lui animata fu il fattore aggiunto che accelerò il crollo del sistema sovietico. Durante il suo pontificato, la Chiesa dispiegò l’intera gamma dei suoi registri. Alternò il realismo geopolitico a un idealismo di sapore wilsoniano. Agli Stati, il papato antepose i popoli. All’inviolabilità dei confini sostituì “il dovere e il diritto di ingerenza, per disarmare chi vuole uccidere”. Invocò l’intervento di eserciti internazionali in difesa dei popoli della Bosnia e del Kosovo. In entrambi i casi, si trattava di popolazioni musulmane, reliquie di quell’impero ottomano che tre secoli prima era giunto ad assediare Vienna; e il papa si schierava dalla loro parte.
Giovanni Paolo II era tutt’altro che un pacifista. Chiese interventi militari a Timor Est, a Haiti, nell’Africa dei Grandi Laghi: in quest’ultimo caso senza essere esaudito, col conseguente incontrollato genocidio di intere popolazioni. L’espansione della libertà e della democrazia era uno dei suoi principi guida.
Ma in altri momenti e su altri teatri Giovanni Paolo II optò per il rifiuto delle armi, all’insegna del realismo. Si oppose alla guerra del 1990-1991 contro l’Iraq, nonostante fosse approvata dall’ONU e fosse finalizzata a restituire la legittima sovranità a uno Stato invaso, il Kuwait. Tra gli “interessi” che motivarono questa opposizione del papa alla guerra, il primo fu la difesa della minoranza cristiana in Iraq. Un altro fu il rifiuto di un nuovo ordine mondiale a illimitata egemonia americana. Un altro ancora fu il proposito di instaurare tra la Chiesa e i paesi musulmani un rapporto non di scontro ma di “dialogo”, analogo a quello intercorso col blocco sovietico negli anni della Östpolitik, anche a costo di mantenere il silenzio sulle macroscopiche violazioni dei diritti umani perpetrate in quei paesi.
Dopo l’11 settembre 2001, papa Karol Wojtyla di fatto approvò le operazioni belliche in Afghanistan. Si oppose invece risolutamente alla seconda guerra contro l’Iraq. La contrastò con tutte le sue forze, ma senza mai condannarla come immorale. La logica di questa opposizione del papa alla guerra era, ancora una volta, realista. Tant’è vero che nel 2003, soprattutto dopo l’eccidio terrorista di Nassiriya del 13 novembre, la linea ufficiale della Santa Sede divenne – ed è rimasta tuttora – di aperto sostegno alla permanenza di truppe occidentali in quel paese, permanenza promossa a “missione di pace”, anche a protezione delle minoranze cristiane.
Non sorprese, quindi, che dopo la morte di papa Wojtyla, nel 2005, gli ultimi tre presidenti degli Stati Uniti si inginocchiassero di fronte al suo corpo e ai suoi funerali accorresse la quasi totalità dei governanti del globo. In un mondo divenuto più anarchico, dopo la dissoluzione dei blocchi, al capo della Chiesa cattolica si riconosceva un’autorità senza precedenti, morale prima che politica.
Uscito di scena un gigante della statura di Giovanni Paolo II, l’interrogativo naturale era se il suo successore sarebbe stato in grado, e come, di mantenere il papato al centro della scena mondiale. L’interrogativo era tanto più naturale in quanto il nuovo papa, il tedesco Joseph Ratzinger, era uomo d’altra tempra, teologo raffinato, difficile da immaginare come epico condottiero. E in effetti, sin da subito, Benedetto XVI rifiutò di imitare il suo predecessore. Ma nemmeno segnò rispetto a lui una rottura. Proseguì nel suo solco, ma con un passo proprio e originale. Anche sul teatro della politica internazionale.
Se Giovanni Paolo II era stato il papa delle folgoranti intuizioni, Benedetto XVI è il papa del ragionare e dell’agire metodico. Il primo era anzitutto immagine, il secondo è principalmente "logos". Di Giovanni Paolo II fecero colpo, all’esordio, queste parole della sua prima omelia: “Non abbiate paura, aprite le porte a Cristo”. In esse balenava già un lampo della pacifica rivoluzione che egli avrebbe suscitato nell’Est dell’Europa, e non solo. Di Benedetto XVI, invece, il primo atto che ha fatto colpo su scala mondiale è stata la poderosa lezione tenuta all’università di Ratisbona il 12 settembre 2006. Ha fatto così colpo da scuotere letteralmente il mondo, a ragione e a torto. In quella lezione erano argomentati il giudizio e il progetto del nuovo papa sulla Chiesa e sull’Occidente, incluso il rapporto con l’islam.
Stando ai canoni del realismo geopolitico, Benedetto XVI non avrebbe mai dovuto pronunciare quella lezione per intero. Avrebbe dovuto prima farla rivedere e purgare da diplomatici esperti, cosa che egli s’era guardato dal fare. E nella curia vaticana parecchi gliel’hanno rimproverato.
Eppure, a distanza di due anni, i fatti parlano diversamente. A dispetto delle cassandre, tra la Chiesa cattolica e l’islam è sbocciato un dialogo che prima di Ratisbona non c’era mai stato e sembrava persino impensabile. Un dialogo non solo intellettuale – rappresentato ad esempio dalle iniziative seguite alla “lettera dei 138 saggi musulmani” – ma anche politico. Quest’ultimo ha avuto un’accelerazione impressionante dopo l’udienza del 6 novembre 2007 in Vaticano, la prima nella storia, tra il papa e il re dell’Arabia Saudita.
Anche dopo Ratisbona, un aspetto che contraddistingue il rapporto col mondo musulmano inaugurato da Benedetto XVI è la sua apparente imprudenza. Papa Ratzinger non teme di alternare ai gesti di apertura – si pensi alla preghiera silenziosa da lui compiuta nella Moschea Blu di Istanbul – atti che fanno a pugni con le cautele diplomatiche. Ha ricevuto tranquillamente in udienza Oriana Fallaci, una delle voci più critiche dell’islam, da lei ritenuto costitutivamente violento. Ha battezzato in San Pietro, la notte di Pasqua del 2008, Magdi Allam, convertito dall’islam e critico radicale della sua religione d’origine. Ma ciò che più stupisce è il cuore del ragionamento di Benedetto XVI. Il papa chiede all’islam che inizi anch’esso a compiere quella impegnativa rigenerazione di sé che la Chiesa cattolica ha compiuto nell’arco di due secoli, a partire dall’Illuminismo.
C’è un passaggio di un discorso di Benedetto XVI – letto alla curia romana il 22 dicembre 2006 – che svolge questa sua tesi nel modo più limpido:
"In un dialogo da intensificare con l'islam dovremo tener presente il fatto che il mondo musulmano si trova oggi con grande urgenza davanti a un compito molto simile a quello che ai cristiani fu imposto a partire dai tempi dell'illuminismo e che il Concilio Vaticano II, come frutto di una lunga ricerca faticosa, ha portato a soluzioni concrete per la Chiesa cattolica. [...]
"Da una parte, ci si deve contrapporre a una dittatura della ragione positivista che esclude Dio dalla vita della comunità e dagli ordinamenti pubblici, privando così l'uomo di suoi specifici criteri di misura.
"D'altra parte, è necessario accogliere le vere conquiste dell'illuminismo, i diritti dell'uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi essenziali anche per l'autenticità della religione. Come nella comunità cristiana c'è stata una lunga ricerca circa la giusta posizione della fede di fronte a quelle convinzioni – una ricerca che certamente non sarà mai conclusa definitivamente – così anche il mondo islamico con la propria tradizione sta davanti al grande compito di trovare a questo riguardo le soluzioni adatte.
"Il contenuto del dialogo tra cristiani e musulmani sarà in questo momento soprattutto quello di incontrarsi in questo impegno per trovare le soluzioni giuste. Noi cristiani ci sentiamo solidali con tutti coloro che, proprio in base alla loro convinzione religiosa di musulmani, s'impegnano contro la violenza e per la sinergia tra fede e ragione, tra religione e libertà".
Come è facile ricavare da questo e da altri suoi discorsi, la “sinergia tra fede e ragione” è il cardine del pensiero di Joseph Ratzinger teologo e papa. All’origine della fede cristiana, per lui, non c’è solo Gerusalemme, c’è anche l’Atene dei filosofi. I due terzi della lezione di Ratisbona sono dedicati proprio a criticare le fasi in cui il cristianesimo si è pericolosamente distaccato dai suoi fondamenti razionali. E all’islam, il papa propone che faccia lo stesso: che intrecci la fede con la ragione, unica via capace di tenerlo al riparo dalla violenza. La difficoltà dell’impresa – riconosciuta ardua ma doverosa anche da pensatori musulmani di rilievo come Mohammed Arkoun – sta nel fatto che nella storia del pensiero islamico un rapporto fecondo tra fede e ragione si è praticamente interrotto con la morte del filosofo Averroè nel lontano 1198. Dopodiché, nell’islam, ha fino a oggi prevalso quella dissociazione tra fede e “ragionevolezza” da cui il papa ha messo in guardia tutti, musulmani e cristiani, nei passaggi più memorabili della sua lezione di Ratisbona.
Un teorico della politica potrebbe obiettare che le tesi papali esulano dal campo politico propriamente inteso. Ma per Benedetto XVI non è così. Egli è convinto che le società, gli Stati e la comunità internazionale debbano poggiarsi su fondamenti solidi. Come papa, il suo intento è anche di predicare una “grammatica” universale fondata sulla legge naturale, sui diritti inviolabili scolpiti nella coscienza di ogni uomo, quale che sia il credo di ciascuno.
Di questa “grammatica” – nel suo discorso alle Nazioni Unite del 18 aprile 2008 – Benedetto XVI ha sottolineato “il principio della responsabilità di proteggere”, ossia “il dovere primario di ogni Stato di proteggere la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani”. Aggiungendo che “se gli Stati non sono in grado di garantire simile protezione, la comunità internazionale deve intervenire”. Ma papa Ratzinger non si è fermato a questa enunciazione. È andato al suo fondamento, senza il quale la responsabilità di proteggere cadrebbe in balia degli interessi in contrasto. E ha individuato tale fondamento ultimo nell’“idea della persona quale immagine del Creatore”, col suo innato “desiderio di una assoluta ed essenziale libertà”.
Benedetto XVI sa bene che questo ancoraggio alla trascendenza non è da tutti accettato. Ed è respinto proprio da una cultura che ha nell’Occidente la sua matrice. Ma ritiene doveroso annunciare incessantemente alle potenze mondiali che “quando Dio viene eclissato, la nostra capacità di riconoscere l’ordine naturale, lo scopo e il bene comune comincia a svanire”. Papa Ratzinger ritiene esaurita la formula “laica” posta da Grozio alla base della convivenza tra i popoli: "etsi Deus non daretur" come se Dio non ci fosse. Propone a tutti, anche a chi non accetta la trascendenza, la scommessa opposta: quella di agire "etsi Deus daretur", come se Dio ci fosse. Perché solo così la dignità della persona trova un fondamento incrollabile.
Ha sorpreso tutti l’accoglienza straordinariamente amichevole data da Benedetto XVI al presidente americano George W. Bush, in occasione della sua ultima visita in Vaticano. Essa ha segnato certamente uno strappo rispetto al tradizionale antiamericanismo di parte della gerarchia cattolica: quello che identifica gli Stati Uniti col capitalismo sfrenato, il consumismo, il darwinismo sociale. Ma la vera molla della simpatia di papa Ratzinger per gli Stati Uniti è che sono un paese nato e fondato “sulla verità evidente che il Creatore ha dotato ogni essere umano di diritti inalienabili”, in testa ai quali la libertà. All’ambasciatore degli Stati Uniti Mary Ann Glendon, che gli presentava le credenziali, Benedetto XVI ha detto di ammirare “lo storico apprezzamento del popolo americano per il ruolo della religione nel forgiare il dibattito pubblico”, ruolo che invece altrove, leggi in Europa, “è contestato in nome di una comprensione limitata della vita politica”. Con le conseguenze che ne derivano sui punti che alla Chiesa stanno più a cuore, come “la tutela legale del dono divino della vita dal concepimento alla morte naturale”, il matrimonio, la famiglia.
Su questi punti, la severità con cui Benedetto XVI sferza i governi d’Europa e, viceversa, l’ammirazione che fa trasparire per gli Stati Uniti è un altro elemento che lo contraddistingue. I destini dell’Occidente, materiali e spirituali, sono sicuramente al centro degli interessi geopolitici di questo papa. Ma non solo. Basti pensare alla cura con cui egli segue il capitolo Cina. La lettera scritta dal papa ai cattolici cinesi è anch’essa d’impronta molto ratzingeriana. Anche lì, di prudenze e reticenze diplomatiche ve ne sono poche.
Quanto all’impronta ratzingeriana, è facile ravvisarla anche nei documenti che sono in larga parte il prodotto della segreteria di Stato vaticana. Ogni inizio d’anno, dopo la festa dell’Epifania, il papa riceve l’intero corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede e legge un discorso in cui fa il punto sulla geopolitica della Chiesa in tutto il mondo. L’ultimo che ha letto, lo scorso 7 gennaio, era di routine. Ma nel finale Benedetto XVI ha introdotto un paragrafo inconfondibilmente suo:
“La diplomazia è, in un certo modo, l’arte della speranza. Essa vive della speranza e cerca di discernerne persino i segni più tenui. La celebrazione del Natale viene ogni anno a ricordarci che, quando Dio si è fatto piccolo bambino, la speranza è venuta ad abitare nel mondo, al cuore della famiglia umana”.
Dalle arti della diplomazia a quel “piccolo bambino” che è Gesù il salto è vertiginoso. Eppure è tutta in questo nesso – secondo il papa – la missione originale della Chiesa, la sua teologia della storia, la sua “politica” nel mondo.
L'INDICE DELL'ULTIMO NUMERO DI "ASPENIA":
Dialogo fra Massimo D’Alema e Giulio Tremonti - Dèi, patrie e famiglie
Idea: Il secolo religioso
Carlo Jean - Ragione e oscurantismo
Thomas F. Farr - Una politica estera malata di laicismo
Maurizio Molinari - Dio e l’America
Intervista a Walter Russell Mead - La religione negli States
Laura R. Olson - La sinistra religiosa nella politica americana
Antonio Caprarica - La conversione di Tony Blair
Marina Valensise - La laicità positiva secondo Sarkozy
Felix Stanevskiy - La chiesa di Putin
Claudio Virgi - Altare e trono: la geopolitica della Chiesa ortodossa
Maarten van Aalderen - L’eredità di Atatürk e il velo islamico
Simonetta Della Seta - Lo Stato ebraico: religione e nazione
Francesca Paci - La posta di Gaza
Intervista a Jacob Neusner - Giudaismo e cristianesimo
Intervista a Richard Madsen - La religione in Cina
Preeti Bhattacharji - Tolleranza asiatica
Marco Vicenzino - America Latina: la sfida dell’evangelismo
Pew Forum on Religion and Public Life - Lo spirito e la forza
Sandro Magister - Il papa dell’Occidente
Scenario: Fede e ragione
Dialogo fra Giuliano Amato e Gaetano Quagliariello - Il ritorno di Dio
Roberto Toscano - Credere o appartenere
Martin Goodman - Dall’impero romano all’antisemitismo moderno
Philippe Raynaud - Fine dell’Illuminismo o fine della religione?
Rémi Brague - Fede e democrazia
Gaetano Rebecchini - Il modello americano
Adriano Pessina - Il pensiero indispensabile: la politica e la bioetica
Angelo Maria Petroni - Scienza e libertà
Ignazio R. Marino - La ricerca e i suoi limiti
Julian Gough - Il sacro mistero del capitale
La Fondazione “Pave the Way” cerca la verità su Pio XII - Dichiarazioni a ZENIT del suo presidente dopo l'incontro con il Papa
di Jesús Colina
CASTEL GANDOLFO, giovedì, 18 settembre 2008 (ZENIT.org).- La Fondazione “Pave the Way” ha organizzato un simposio a Roma per ristabilire la verità storica sull'impegno di Pio XII a favore degli ebrei. Il suo presidente Gary Krupp, ebreo, ha confidato a ZENIT le sue impressioni dopo che Benedetto XVI ha ricevuto i partecipanti al congresso questo giovedì.
Krupp riconosce che sarà difficile dissipare la “leggenda nera” su Pio XII, che alcuni hanno accusato di essere il Papa di Hitler.
“Il nostro simposio era estremamente significativo, dato che la Fondazione 'Pave the Way' crede che questo problema continuerà anche dopo l'apertura degli Archivi Segreti Vaticani relativi agli anni della Seconda Guerra Mondiale”, ha affermato Krupp, statunitense e fondatore della “Pave the Way”.
Nel congresso, spiega, si è scoperto che molti messaggi e molte istruzioni di Pio XII per salvare gli ebrei “sono stati verbali o in codice e i ricercatori degli archivi sembrano credere che ciò che non è stato scritto non sia accaduto, e di fronte alla mancanza di scoperta di nuovi documenti nasceranno accuse di distruzione intenzionale di documenti”.
Papa Benedetto XVI ha spiegato questo giovedì nel corso dell'udienza ai partecipanti al simposio che quest'opera del Pontefice è stata sviluppata “in modo segreto e silenzioso proprio perché, tenendo conto delle concrete situazioni di quel complesso momento storico, solo in tale maniera era possibile evitare il peggio e salvare il più gran numero possibile di ebrei”.
Di fronte a questi pregiudizi, la Fondazione ha raccolto le testimonianze di ebrei salvati da membri della Chiesa cattolica in obbedienza a indicazioni di Pio XII.
“Queste testimonianze in video e il nostro libro di documenti sono aperti all'analisi di tutti sulla nostra pagina web www.ptwf.org”, ha spiegato il fondatore.
Sull'udienza concessa da Benedetto XVI, Krupp ha confessato che “è stata molto gratificante, perché il Papa è stato estremamente gentile nel manifestare la sua gratitudine alla Fondazione 'Pave the Way' per i nostri sforzi di iniziare a offrire prove concrete”.
Cardinale Antonelli: le famiglie cristiane siano “fuoco acceso” nella società
di Roberta Sciamplicotti
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 18 settembre 2008 (ZENIT.org).- Le famiglie cristiane devono essere “fuoco acceso” nella società per mostrare apertamente la bellezza della vita cristiana, ha affermato questo giovedì il Cardinale Ennio Antonelli, presidente del Pontificio Consiglio della Famiglia.
Incontrando i giornalisti nella sede del dicastero, di cui ha assunto la guida recentemente (cfr. ZENIT, 8 giugno 2008), il porporato ha affermato che “se non abbiamo qualcosa da far vedere è difficile persuadere”.
E' per questo che “la bellezza della famiglia cristiana deve essere testimoniata concretamente”, ha dichiarato, esortando a “edificare autentiche famiglie cristiane che possano essere un fuoco acceso, un punto di riferimento per tutti” e siano caratterizzate “da un'unità profonda, nel rispetto delle differenze, con un'apertura generosa alla vita” e “la cura delle persone più deboli”.
Il Cardinale ha quindi ricordato le “due linee generali di impegno” del Pontificio Consiglio che presiede: “promuovere il rispetto della vita umana, l'etica della vita, cioè la cosiddetta bioetica”, e “promuovere la valorizzazione della famiglia nella Chiesa, nella cultura e nella società civile”.
Vita e famiglia, sostiene, sono “beni fondamentali” della persona, dove quest'ultima è “più che individuo”, cioè “soggetto singolo, irripetibile, autocosciente, libero, ma anche costitutivamente in relazione” “con gli altri e con l'Altro”.
Secondo il porporato, è proprio nella famiglia – nel rapporto uomo-donna e genitori-figli – che “si giocano le differenze fondamentali dell'umano”, e tali differenze “si intrecciano, si legano tra loro e sviluppano tutta la loro ricchezza, tutta la loro potenzialità”.
I progetti che il nuovo presidente vuole realizzare nel dicastero sono essenzialmente due: da un lato, “attivare maggiormente la consultazione con i Vescovi, le Conferenze Episcopali, le famiglie, gli esperti, le istituzioni che si interessano della famiglia, le associazioni”; dall'altro, “privilegiare la pastorale ordinaria per le famiglie e con le famiglie”, nelle parrocchie e nelle associazioni.
Questo secondo aspetto è particolarmente rilevante nel momento in cui si vuole far conoscere la realtà della famiglia cristiana felice, alla cui base deve esserci anche una grande attenzione alla preparazione dei coniugi, da iniziare già nel periodo del fidanzamento.
Per questo, il Cardinale ha auspicato che il cammino precedente il matrimonio sia non un corso, ma un vero e proprio itinerario, “il più possibile personalizzato”.
Allo stesso modo, è necessaria grande cura per le famiglie in difficoltà o che non sono in piena sintonia con la Chiesa.
A questo proposito, ha sottolineato, non si deve pensare soltanto alla situazione dei divorziati, ma anche alle violenze familiari, ai rapporti sbagliati tra genitori e figli e ad altri problemi che spesso sfuggono alle statistiche ma sono dolorosi quanto le separazioni.
In queste situazioni, la Chiesa deve essere presente e “sostenere le coppie in difficoltà, non lasciarle sole”, mostrando di voler “aprire degli spazi per tutti” per “essere maestra e madre”.
Circa la delicata questione dei divorziati risposati, il Cardinale ha affermato che si cerca di “accoglierli in tutti i modi possibili, per far sentire che la Chiesa è accanto a loro, li inserisce concretamente nella vita della comunità cristiana, crea anche anche dei cammini specifici di sostegno”.
Nonostante questo, ha affermato, “non possiamo dimenticare che il matrimonio indissolubile è nel Vangelo, e la Chiesa oggettivamente deve riconoscere che queste situazioni non sono in piena sintonia con il Vangelo stesso”.
Visto che la Chiesa non può approvare queste realtà “perché deve essere segno pubblico del Vangelo e delle sue istanze”, il Cardinale ammette di “non vedere spiragli” per la possibilità che i divorziati risposati possano ricevere l'Eucaristia, giacché quest'ultima richiede una piena comunione con la Chiesa “a livello interiore e a livello visibile”.
Il “peccato fondamentale” in questo caso, ha osservato, è quello di “non riconoscersi peccatori e bisognosi della misericordia di Dio, di essere salvati”; “gli uomini si autogiustificano, fanno la legge morale secondo la propria coscienza, come se fossero autosufficienti”.
Per il Cardinale Antonelli, questa situazione è la perfetta esemplificazione del “peccato originale”, “quello che è alla radice di tutti i peccati: l'uomo che vuole essere autonomo da Dio, autonomo dalla verità oggettiva, quindi non cerca la verità, non aderisce alla verità, ma pretende di costruire lui stesso la verità, di stabilire cosa è vero e cosa è falso”.
Compito della Chiesa è allora quello di aiutare a comprendere e a vivere la verità senza abdicare dall'insegnamento del Magistero. Come diceva Giovanni Paolo II, ha ricordato il presidente del dicastero vaticano, “non dobbiamo abbassare la montagna”.
“La montagna è alta, è difficile, il cristianesimo è difficile”, ha riconosciuto, ma bisogna “aiutare le persone a salire la montagna con il loro passo”, perché “possano almeno fare i passi che sono capaci di fare”.
I Tafazzi della trattativa Alitalia
Autore: Buggio, Nerella
Fonte: CulturaCattolica.it
giovedì 18 settembre 2008
Sul sito di Alitalia tra le “Informazioni ai Clienti “ si legge:
“Alitalia informa che continuerà ad operare i propri voli come da orario in vigore, e che onorerà prenotazioni e biglietti, mantenendo il proprio programma MilleMiglia e tutti i servizi verso la clientela.”
Vien da pensare che sono buoni propositi, ma non basteranno, quello di oggi è un giorno amaro.
Cai, Compagnia Aerea Italiana con una nota annuncia di aver deciso il ritiro dell'offerta su Alitalia. "L'assemblea di Cai, Compagnia Aerea Italiana, ha deciso all'unanimità di ritirare l'offerta presentata al Commissario di Alitalia per l'acquisto di attivi dalla stessa posseduti".
Cai annunciando il suo ritiro ha spiegato che "una delle condizioni più importanti di tale offerta era costituita dal raggiungimento di un largo accordo sindacale sul piano industriale della Nuova Alitalia e sul contratto di lavoro da dare alla nuova compagnia aerea. Tale accordo non è stato raggiunto, come dimostrato dalle sole tre lettere di accettazione ricevute da Cisl, Uil e Ugl".
Roberto Colaninno e altri soci di Compagnia Aerea Italiana non hanno rilasciato dichiarazioni, uscendo da Palazzo Clerici a Milano, dove si era tenuta l'assemblea della società che ha deciso di ritirare l'offerta su Alitalia.
All’uscita il presidio dei piloti e assistenti di volo che si era raggruppato di fronte all'ingresso del palazzo li ha accolti gridando: "buffoni, buffoni", "a lavorare".
Ora mi chiedo, e loro, “a lavorare” potranno tornarci?
A chi giova questo harakiri?
L’impressione è che manchino dei pezzi di puzzle, e quindi sia impossibile vedere il disegno finito.
Perché tutti a casa è meglio della proposta Cai?
Leggo sempre nella nota rilasciata da Cai, che l'accordo avrebbe permesso di "assumere circa 12.500 dipendenti in via diretta e creare le condizioni per ulteriori circa 1.700 assunzioni in via indiretta nei settori del full Cargo e della manutenzione pesante"inoltre, i lavoratori con contratto a tempo indeterminato avrebbero beneficiato di ammortizzatori sociali: “tali da permettere fino a sette anni di accompagnamento alla pensione”.
Allora qualcuno dovrebbe spiegare a noi povere casalinghe di periferia, perché per i lavoratori il fallimento è la migliore soluzione, perché meglio perdere il posto tutti che solo alcuni?
Se i sindacati difendono gli interessi dei lavoratori, vuol dire che i sindacati che hanno deciso di non accettare l’offerta, hanno pensato che “così è meglio”.
Altrimenti non si capisce perché un lavoratore dovrebbe delegare a un sindacato la difesa dei suoi diritti e poi trovarsi senza lavoro, senza ammortizzatori sociali e magari con il mutuo della da pagare.
Insomma, qualcuno ci spieghi se esiste ancora un’organizzazione che difende il bene comune, o non mi direte che hanno preferito non cedere per non darla vinta al “nemico”, in barba agli interessi di chi li ha delegati a rappresentarli, non mi direte che hanno pensato che se si chiudeva la trattativa quel narciso del Presidente del consiglio poi sarebbe andato in giro a dire che oltre a togliere l'immondizia da Napoli, aveva anche fatto volare l’Alitalia, e questo era davvero insopportabile.
Sta di fatto che a meno di stravolgimenti notturni, ora siamo tutti a piedi, compresi i piloti e gli assistenti di volo che raccontano le cronache, alla notizia del fallimento della trattativa hanno esultato, in tipico stile Tafazzi.
DIBATTITO/ Quando la verità non c’è più. Perché dire no al relativismo di Vattimo - Redazione – IlSussidiario.net - venerdì 19 settembre 2008
In un articolo su La stampa dell’11 settembre, intitolato «Mettiamoci d’accordo, la verità non c’è più» Gianni Vattimo spiega la filosofia dell’amico Richard Rorty e ne rileva l’aspetto decisivo: non si può più parlare di verità. Rorty lo diceva in modo secco: non si deve formulare una nuova teoria della verità – “perché di tutte conosciamo la menzogna”, già sosteneva Malraux –, è venuto il momento di cambiare discorso, di non porsi più queste domande che non hanno portato frutti socialmente utili. Vattimo riassume: la verità, intesa come un “sapere come stanno le cose” non serve a niente finché non ci cambia la vita. E questa è effettivamente la versione rortyana del pragmatismo (neo-pragmatismo), che oggi va per la maggiore nella nuova koiné naturalista della filosofia mondiale.
Il cuore dell’argomento è che la filosofia contemporanea ha stabilito che l’essere non determina il dover essere – secondo l’insegnamento di Hume –, la metafisica (le cose come sono) non determina le norme (come dobbiamo ragionare, comportarci, ecc.). Ma il fatto è che questa distinzione è una certa versione della verità, quella che si è imposta da Descartes in avanti, quella che divide pensiero e corpo, capire e fare e – ovviamente – sapere ed essere felici.
Curiosamente, proprio il pragmatismo originario (Peirce, James e Dewey) cercava con più o meno successo di attaccare questa posizione e di descrivere la verità in un modo più aderente all’esperienza. Per farla in breve, si voleva dire che per capire bisogna fare e non c’è fare che non sia impregnato di sapere. Il sapere senza fare è un vuoto razionalismo che non serve alla vita, il fare senza sapere è un cieco empirismo che la soffoca. Non è una scoperta di Dewey. Ogni educatore sa che uno ha capito se e solo se sa fare gli esercizi; d’altro canto, non si fanno gli esercizi per il gusto di farli ma per capire.
Ma rimaniamo all’esempio di Vattimo, che propone un caso più inquietante: “Se uno si ammala e gli viene spiegato che è malato perché le sue ossa si stanno erodendo, sarà felice?” Risposta: “No, a meno che gli si possa dare il farmaco che lo cura”. È qui che torna in campo il sapere e che il suo screditamento non sembra reggere: e se uno trova il farmaco che lo fa vivere e poi non “sa” per che cosa valga la pena vivere, sarà felice? (Ma secondo Vattimo questo non è sapere come stanno le cose, sono progetti). E se uno non può trovare il farmaco? Sarà felice di non porsi la domanda: “Perché succede questo? Che cosa significa? A che cosa serve?”
Ciò che non serve – e che purtroppo c’è ancora – è il sapere statico e astratto del razionalismo che ha generato tutte le ideologie degli ultimi secoli. Lo stesso razionalismo che alla fine, deluso dall’insufficienza delle proprie risposte, dice che non c’è risposta e guai a chi si pone delle domande sui fatti che accadono. Peccato che il “sapere” di chi vive qualsiasi esperienza sul serio – da chi fa scienza (“che cos’è questo?”) a chi lava i piatti a casa (“per chi lo sto facendo?”) – nasce dalla necessità di scoprire il significato che la vita porta con sé o dentro di sé (i fatti accadono lo stesso) e di cui – volenti o nolenti – siamo sempre curiosi collaboratori.
L’opzione fondamentale sta qui: Vattimo e Rorty pensano che questo significato sia un progetto che ciascuno inventa e su cui mettersi d’accordo (secondo i criteri di chi? Si ha sempre paura che alla fine vinca semplicemente il più forte, che fa agli altri la «carità» di elargire cultura, metodi, storia ecc.), mentre l’esperienza comune – e una filosofia che voglia rispettarla – dice che il significato si trova dentro la realtà e che ciascuno può provare a trovarlo. È l’antico scontro tra nominalismo e realismo. In questa seconda ipotesi vince solo chi si pone più domande.
(Giovanni Maddalena)
Solo in un "legame" la libertà dell'individuo si può esprimere - Pigi Colognesi - venerdì 19 settembre 2008
Il sociologo Zygmunt Bauman ha l’interessante capacità di sintetizzare in una immagine facilmente comprensibile ed evocativa la sua interpretazione di complessi fenomeni sociali. È lui che ha definito la nostra società come «liquida». E da allora questo aggettivo viene frequentemente, e a volte sbrigativamente, utilizzato in svariati contesti.
Nel suo ultimo libro Individualmente insieme, Bauman sostiene che alla celebre triade della rivoluzione francese – libertà, uguaglianza, fraternità – ne sia ormai subentrata, nella società contemporanea, un’altra: sicurezza, parità, rete. È su quest’ultima parola che vale la pena di riflettere. Bauman la descrive così: «Si assume che ogni singolo si porti dietro, assieme al proprio corpo, la sua specifica rete, un po’ come una chiocciola porta la sua casa». La rete sono i legami che il singolo stabilisce. Ma attenzione, non sono i legami della fratellanza, cioè in qualche modo dati da una storia (la famiglia, il quartiere, una comunità religiosa, una nazione). Sono, al contrario, legami fluidi, flessibili, liquidi appunto: «Le unità individuali vengono aggiunte o tolte [dalla rete che la singola chiocciola porta con sé] con uno sforzo non maggiore a quello con cui si mette o si cancella un numero dalla rubrica del cellulare». Ne deriva che i legami sono «eminentemente scioglibili» e «facilmente gestibili, senza durata determinata, senza clausole e sgravati da vincoli a lungo termine».
È facile trovare in questa immaginifica descrizione i tratti del tipo di convivenze che vediamo quotidianamente. Basta pensare al fatto che a Milano per la prima volta il numero dei single ha superato quello delle famiglie. O alla debolezza dei legami affettivi, normalmente concepiti come temporanei, non impegnativi, cancellabili non appena lo si voglia.
Qual è la ragione di questo fenomeno? Il fatto, risponde Bauman, che «la rete non ha dietro di sé alcuna storia» e, quindi, l’identità della persona non è definita da una appartenenza che la precede. Anzi, l’unica appartenenza è quella che l’individuo via via si costruisce e distrugge attraverso le sue labili e mutevoli reti.
Benedetto XVI a Parigi ha affermato: «Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami». La descrizione di Bauman sembra confermare questa triste fatalità. Ma, dice il Papa, c’è una tragica conseguenza: una libertà come assenza di legami è destinata a distruggersi. E, quindi, a diventare preda del potere. Come ai tempi dei monaci da cui ha preso spunto Benedetto XVI, anche oggi è indispensabile che si pongano esperienze di appartenenza in cui la libertà sia affermata come espressione di un legame che precede l’individuo (la «fraternità» implica una paternità) e che ne fonda l’identità. Un identità che non è nemica di nessun’altra. Infatti, ha concluso il Papa: «Questa tensione tra legame e libertà ha determinato il pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale. Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra».
UE, MAURO: “SOSTEGNO ALLA COMUNITÀ CRISTIANA PRIORITÀ DEL SUMMIT UE-INDIA" - mercoledì 17 settembre 2008
Bruxelles – 17/09/2008 - L’On. Mario Mauro, Vicepresidente del Parlamento europeo, a nome del Gruppo del Partito popolare europeo, ha presentato quest’oggi una Risoluzione sulla preparazione del summit Ue-India in programma il 29 settembre a Marsiglia – “Per prima cosa voglio sottolineare ancora una volta il bisogno impellente di garantire immediata assistenza e supporto alle vittime dei recenti attacchi alla comunità cristiana dell’Orissa che hanno causato la morte di 35 persone, inclusa una compensazione alla Chiesa per i gravissimi danni subiti” – Mauro auspica con fermezza che “le autorità indiane facciano tutto ciò che è in loro potere per proteggere pienamente la minoranza cristiana, che è parte integrante dell'enorme diversità linguistica sociale e religiosa dell'India” – prosegue ricordando come “non ci sia stato un effettivo intervento da parte della polizia locale, che deve fare in modo che tutte le persone costrette a fuggire durante gli attacchi possano tornare a casa propria” – “L’incontro con gli amici indiani sarà anche occasione per rafforzare la nostra collaborazione nella lotta al terrorismo, partendo dal conferimento all’india di uno status privilegiato all'interno dell’Europol, anche considerando il fatto che l'India sta emergendo come uno dei più importanti attori sulla scena internazionale e uno dei maggiori contribuenti alle operazioni di peace-keeping delle Nazioni Unite" - conclude Mauro - "l'Europa riafferma il suo supporto per il rafforzamento delle relazioni strategiche tra le due più vaste entità democratiche del Mondo che sono chiamate a raggiungere risultati concreti sotto l'aspetto economico, politico, della sicurezza, della non proliferazione nucleare e sotto altri aspetti di mutuo interesse come la promozione della diversità culturale".
IL PAPA IN FRANCIA HA PARLATO MA ANCHE ASCOLTATO - La strana fretta di rimuovere gli sviluppi della «laïcité» - MARINA CORRADI, Avvenire, 19 settembre 2008
N el suo viaggio il Papa ha parlato alla Francia, ma, anche, la Francia ha parlato al Papa.
Sarkozy all’Eliseo ha proseguito nel filo di quanto aveva detto a Roma, in San Giovanni in Laterano, lo scorso dicembre, circa il desiderio di una nuova « laicità positiva » che, vegliando sulla libertà di credere e non credere, non considera le religioni un pericolo ma una ricchezza cui attingere. A Parigi Sarkozy ha ribadito che « è legittimo per la democrazia e rispettoso della laicità dialogare con le religioni. Queste, e in particolare quella cristiana, con cui condividiamo una lunga storia, sono un patrimonio di riflessione e di pensiero… Sarebbe una follia privarcene, sarebbe un errore contro la natura e contro il pensiero » . Ed è andato oltre: « Noi non poniamo nessuno ( nessuna religione, ndr) davanti all’altro, ma rivendichiamo le nostre radici cristiane » .
E nel cuore di un Paese che con la Rivoluzione e poi i Lumi ha impresso un solco indelebile nella storia d’Europa; nella patria dell’esistenzialismo che ha segnato il Novecento, nella città dalla cui università prese il via quarant’anni fa quel maggio che ha rivoluzionato l’Occidente, fa un certo effetto sentire proclamare: « Noi rivendichiamo le nostre radici cristiane » .
Strategie di consenso, necessità di ricreare una coesione sociale, si sono affannati a dire in molti, criticamente, e le testate francesi di sinistra subito hanno messo in pagina il presidente vestito da cardinale, o chierichetto – senza perdere l’occasione di ironizzare sui suoi numerosi matrimoni.
E tuttavia, qualcosa tra le righe del discorso, come già in dicembre a Roma, colpisce; come la voglia, e la libertà intellettuale, di svoltare pagina, di superare vecchie trincee e astiosi arroccamenti. Ha parlato, Sarkozy, di « ricerca di senso » dentro a una riflessione che, ha detto, la Francia ha intrapreso: « La crescita economica non ha senso se è fine a se stessa.
Consumare per consumare, crescere per crescere: non ha alcun senso. Solo il miglioramento della situazione del maggior numero degli individui e lo sviluppo della persona ne costituiscono gli obiettivi legittimi, e questo insegnamento è al centro della dottrina sociale della Chiesa, che è in perfetta sintonia con le sfide dell’economia mondializzata » .
La ricerca del senso nelle parole del presidente francese, come già, in Laterano, la speranza ( « condivido l’opinione di Benedetto XVI – aveva detto – che la speranza sia una delle questioni più importanti del nostro tempo » ). E Sarkozy aveva sottolineato che né il progresso né alcuna ideologia e nemmeno la democrazia si sono dimostrate in grado « di rispondere al bisogno profondo degli uomini di trovare un senso all’esistenza » .
Ammettendo dunque che la domanda fondamentale rimane, inappagata da tutte le soluzioni tentate dalla storia. E ipotizzando anzi, ben oltre i vecchi steccati novecenteschi, « che la frontiera tra fede e non- credenza attraversi ciascuno di noi » , come una tendenza a andare oltre a sé, all’uomo connaturale. Dal Laterano all’Eliseo, come lo svolgersi pacato e libero di un dialogo fra il Papa e il Presidente di un grande Paese profondamente laico: di una laicità che aspira a uscire da antiche acrimonie. Quasi un inizio di risposta a quella Spe salvi
che, è stato scritto, si situa storicamente nella eclisse della speranza in Occidente – caduta ogni illusione in promesse fallite. Il principio e la voglia di un laico desiderio di domandare, ascoltare e liberamente cercare.
«Le banche rispolverino i manuali anni ’50» , Avvenire, 19 settembre 2008
DA MILANO
« L a crisi è drammatica perché non c’è modo di capire se siamo arrivati alla fine, se possiamo tirare l’ultima riga alla fine del conto». Alberto Banfi, professore di Economia degli intermediari finanziari alla Cattolica di Milano, pur poggiando lo choc attuale su basi diverse, intravede delle analogie con quanto accadde nel ’29. Soprattutto per la perdita di fiducia, generalizzata e globale, nel sistema degli intermediari del credito. In primis delle banche.
La fiducia è un bene economico intangibile ed è difficilissimo ricostruirla. Ma quali sono, a suo parere, le cause che hanno contribuito a minarla così profondamente?
Anzitutto a crollare sono stati dei colossi come Lehman Brothers o Bearn Stearns: oltre che banche, dei simboli. Ma prima ancora pesa il fatto che le perdite degli istituti di credito siano state causate da prodotti finanziari opachi, contratti difficili da rintracciare, che si avvitano su se stessi, e non permettono di quantificare precisamente i buchi in bilancio.
Alle banche, cioè, sono sfuggiti di mano i propri conti?
Negli ultimi quindici anni molte grandi banche hanno ragionato in questo modo: facciamo gli utili subito e poi si vedrà. Sarà un problema di chi arriva dopo.
E come li facevano gli utili?
Andando a cercare la materia prima, il denaro, quello che in linguaggio tecnico si chiama «la raccolta », non presso i clienti allo sportello ma sul mercato. Dove? Dagli investitori istituzionali attraverso strumenti finanziari sofisticati.
E dove sta il problema?
Nel fatto che la solvibilità dei prestiti non è risultata garantita.
Tanto che alla fine è stata una banca del territorio, con gli sportelli, come Bank of America, a comprarsi una banca d’affari come Merrill Lynch...
È così. Paradossalmente – e da qualche tempo, gli economisti ne parlavano nei convegni – il nuovo modo di fare banca è quello tradizionale. Quello dei manuali degli anni ’50 in cui era già descritto tutto ciò che una banca non dovrebbe fare. E che invece è stato fatto.
Cosa fa la banca tradizionale?
Dice: raccolgo «x» dai miei clienti e garantisco il deposito. La banca degli ultimi 15 anni, invece, non faceva i suoi calcoli sulla raccolta effettiva ma su quella in qualche modo virtuale.
E in questo modo i bilanci si gonfiavano.
Va detto anche che i nuovi principi contabili internazionali, gli Ias («International Accounting Standards»), per molti versi ottimi strumenti, hanno manifestato tuttavia un limite: quello di far redigere i bilanci a «valori di mercato», contabilizzando cioè le voci sul loro valore del momento. I bilanci sono divenuti così molto più volatili.
Le banche europee non stanno vacillando come quelle americane: è perché sono rimaste «tradizionali »?
Il sistema italiano, quello francese e quello tedesco, è vero, non si sono lasciati prendere la mano. Continuando a raccogliere presso il pubblico. E questo ha messo le nostre banche al riparo dalla crisi.
Marco Girardo
L’economista Banfi (Cattolica): il modello vincente è quello tradizionale, con la raccolta allo sportello. Crisi grave perché ha distrutto la fiducia negli intermediari