Nella rassegna stampa di oggi:
1) L’anticristo abita al 53° piano - Ogni edificio più alto di un campanile è un assalto all’incarnazione e alla presenza di Dio nella città…- C’è una nuova religione che sta innalzando i suoi templi in Europa, e non sto parlando di moschee. I politici e gli elettori, poveri, credono siano grattacieli, musei, università, sedi di banche e di parlamenti, teatri, centri commerciali, , e invece sono templi.
2) 22/09/2008 11:22 – VIETNAM - Sotto lo sguardo della polizia, picchiatori assaltano i cattolici di Thai Ha di J.B. An Dang
3) L'anencefalo è un cadavere?
4) Vite più o meno degne di essere vissute, inviato da Leo Miceli
5) SCUOLA/ Socci: chi educa ritorni ad essere un padre - INT. Antonio Socci - lunedì 22 settembre 2008 - IlSussidiario.net
6) CRISI FINANZIARIA/ Usa, via al risanamento. Rischi e costi di un’operazione da 700 mld di dollari - Carlo Pelanda - lunedì 22 settembre 2008 – IlSussidiario.net
7) Il fallimento Lehman Brothers e le conseguenze di un mercato “virtuale” - Graziano Tarantini - lunedì 22 settembre 2008 – IlSussidiario.net
8) DIBATTITO/ Alberoni: fuori da un legame non c’è libertà, ma solo distrazione - INT. Francesco Alberoni - lunedì 22 settembre 2008 – IlSussidiario.net
9) NEXT GENERATION/ In Inghilterra sostegni economici per le madri che restano a casa: un esempio anche per l’Italia? - Mauro Bottarelli - lunedì 22 settembre 2008 – IlSussidiario.net
10) Russia: gli effetti della crisi finanziaria su un popolo "dimenticato" - Aleksander Archangelskij - lunedì 22 settembre 2008 – IlSussidiario.net
L’anticristo abita al 53° piano - Ogni edificio più alto di un campanile è un assalto all’incarnazione e alla presenza di Dio nella città…- C’è una nuova religione che sta innalzando i suoi templi in Europa, e non sto parlando di moschee. I politici e gli elettori, poveri, credono siano grattacieli, musei, università, sedi di banche e di parlamenti, teatri, centri commerciali, , e invece sono templi.
C’è una nuova religione che sta innalzando i suoi templi in Europa, e non sto parlando di moschee. I politici e gli elettori, poveri, credono siano grattacieli, musei, università, sedi di banche e di parlamenti, teatri, centri commerciali, e invece sono templi. Spesso pagati coi soldi dei contribuenti, gente perbene o anche permale però con moderazione, persone che non metterebbero mai la crocetta sull’otto per mille al fine di sostenere un culto dichiaratamente nichilista ma che, senza saperlo, versano ogni anno un obolo alla chiesa dell’Architettura Antiumana. Come ogni chiesa che si rispetti anche questa ha dei testi sacri, ovvero intangibili, sconosciuti non perché segreti (sono anzi diuturnamente proclamati dai sommi sacerdoti sui mezzi di comunicazione di massa) ma perché, storia e saggezza popolare insegnano, non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere. Così come pochi non-nazisti negli anni Trenta lessero davvero il Mein Kampf, per poter continuare a pensare che Hitler si sarebbe accontentato di un pezzetto di Cecoslovacchia, così come pochi non-musulmani oggi leggono davvero il Corano, per poter continuare a figurarsi le religioni tutte uguali e ugualmente protese all’amore universale, allo stesso modo pochi non-architetti leggono davvero le interviste agli architetti antiumani, per poter continuare a immaginarseli come professionisti al servizio del funzionale e del razionale.
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“Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese del Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: ‘Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco’. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: ‘Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome’”. (Genesi 11, 1-4).
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“Non esiste né il buono, né il vero, né il bello. Sono un relativista. Sono un nichilista” dichiarò Philip Johnson, il re dei grattacieli, poco prima di rendere l’anima al diavolo. Omosessuale e nazista, il passaporto Usa gli evitò di fare la fine dell’omologo Ernst Röhm e continuò a lavorare per la propaganda del partito nazionalsocialista fino al 1939, quando descrisse estasiato l’incendio di Varsavia, anzi fino al 1940, anno in cui la posizione di americano crociuncinato divenne insostenibile perfino per un polivalente del suo livello, a proprio agio ai vernissage mondani del Moma di New York così come alle cerimonie pagane di Norimberga immortalate da Leni Riefenstahl. Se un nazista non può più fare il nazista può cominciare a fare l’architetto o meglio (essendo com’è ovvio un ardente ammiratore di Nietzsche) il super-architetto, l’architetto al di là del bene e del male. Nel ’49 costruisce la Glass House per distruggere l’idea di casa come guscio degli affetti. Dentro quattro pareti di vetro può vivere un’esibizionista, non una famiglia: l’assenza di intimità e la totale visibilità sarebbero piaciute all’orwelliano Grande Fratello ma pure a Jeremy Bentham, l’inventore del Panocticon, il carcere dove si vede tutto, “un nuovo modo per ottenere potere sulla mente”. La Glass House è un incunabolo dell’Architettura Antiumana che però offre il meglio di sé nel fuoriscala. Nel seguito di carriera Johnson si è dato ai grattacieli, il più famoso dei quali è l’At&t building di New York, riconoscibile fra mille per il timpano forato (oggi si chiama Sony Tower perché commissionare grattacieli non porta benissimo, anche a Milano c’è sempre il Pirellone ma non si sa dove sia finita la Pirelli).
Eppure il Sony è ancora troppo basso, solo 197 metri, poteva andar bene negli anni Ottanta ma oggi per farsi un nome bisogna spingersi oltre. “Per essere moderni bisogna progettare in verticale. Sopra i 400 metri” ha sentenziato Massimiliano Fuksas dall’ambone di Repubblica, nerovestito come Daniel Libeskind, come Rem Koolhaas, come Jean Nouvel (anche dal punto di vista degli abiti sacerdotali la chiesa dell’Architettura Antiumana è molto più rigida della chiesa cattolica, i cui preti vestono come gli pare e infatti hanno ormai meno ascendente degli adoratori del grattacielo). Il comandamento dell’altezza è una sfida malriuscita a Dio e un’aggressione riuscitissima alla sua creatura: più il grattacielo sale, più l’uomo si rattrappisce, ridotto al rango di formica laggiù sul marciapiede. Un grattacielo di 400 metri dialoga con la Muraglia Cinese, la Piramide di Cheope, le Linee di Nazca, non con bipedi 250 volte più piccoli e meno che meno con cuccioli di bipedi. Quando non si capisce se qualcosa è a misura d’uomo basta pensare se è a misura di bambino, e subito risulta evidente l’umanità o la disumanità dell’oggetto analizzato. E’ straziante solo immaginarlo, un bambino costretto a vivere in un appartamento al cinquantatreesimo piano. Secondo me Eric Clapton ancora si sveglia la notte per domandarsi come mai, quel maledetto giorno del 1991, suo figlio Conor fosse affacciato alla finestra di un edificio manhattaniano di altezza assurda e non giocasse invece con le papere davanti a un cottage negli Hamptons. Il teorico dell’architettura Nikos Salingaros ha individuato nel gigantismo il primo dei fattori disumanizzanti. Nemmeno facendosi venire il torcicollo si possono apprezzare forma e dimensioni di un grattacielo con mezzi naturali, c’è bisogno come minimo di un elicottero. Per innalzare e gestire centinaia di migliaia di metri cubi non bastano gli uomini ma occorrono società quotate in borsa e fondi di investimento meglio se degli Emirati Arabi perché il grattacielo è ritornato alle sue origini orientali, bibliche, e infatti nella lingua del culto non si chiama più building ma tower, come nel libro della Genesi: i primi sei edifici più alti del mondo si trovano in Asia (Dubai, Taipei, Shanghai, Kuala Lumpur…).
All’ombra della maggior parte di essi non esiste libertà religiosa: il dispotismo asiatico blandisce gli architetti, sempre al servizio del potere, e perseguita i preti, che servono i servi. Quando supera una certa dimensione l’architettura diventa totalitaria di per sé, indipendentemente dall’ideologia dell’architetto, del costruttore e perfino del regime politico del luogo. Il grattacielo babelico di Dubai è costruito da operai indiani, pachistani e bengalesi ridotti in semischiavitù, impossibilitati a tornare a casa per il fenomeno dell’indebitamento obbligatorio e il relativo sequestro dei passaporti, pagati un decimo degli impiegati arabi, senza diritti di alcun genere, falcidiati da incidenti sul lavoro il cui numero è tenuto segreto come segreta è l’altezza che sarà raggiunta dallo spaventoso edificio una volta completato (700 metri?). Sacrifici umani e misteri iniziatici: ecco altri due ingredienti tipici delle religioni precristiane.
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“Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: ‘Ecco, essi sono un popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro’” (Genesi 11, 5-7).
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Un’esaustiva collezione di dogmi della chiesa dell’Architettura Antiumana è stata recentemente pubblicata da Mondadori Arte. L’autore, o meglio il raccoglitore, si chiama Christian de Poorter (deve trattarsi di un convertito: a giudicare dal nome è nato in ambiente cristiano). Il libro si intitola “Atlante dell’architettura contemporanea in Europa” ma qui più delle foto, tragiche e bellissime, è la prefazione che ci interessa. Oltre alla completezza e all’apparato iconografico, il valore di questo testo divulgativo risiede nella sua trasparenza. Ci fu in tempo in cui gli architetti cercavano di nascondere grandi masse di cemento e di metallo dietro il dito dell’ideologia: Renzo Piano si atteggiava a benefattore e demoliva antichi palazzi di Parigi in nome della partecipazione sociale. Vecchie fisime anni Settanta. Oggi gli alibi non servono più e De Poorter espone senza falsi pudori i malvagi obiettivi dei progettisti alla moda. “L’architettura contemporanea seduce, stupisce e conquista”. Insomma vuole stordirci, invaderci, come una droga, come una metastasi. “Il contenitore diventa più attrattivo del contenuto”. L’architetto è quindi un vampiro capace di svuotare di senso qualsiasi tipologia edilizia, anche una chiesa del culto concorrente vale a dire una chiesa cristiana (non è difficile: basta sabotare l’incarnazione mimetizzando l’esterno, come Piano a San Giovanni Rotondo, o rendendo astratto l’interno, come Meier a Tor Tre Teste). “Il Kunsthaus di Graz, un’enorme bolla blu aliena atterrata nel cuore della città austriaca”.
Finalmente ammesso che i capolavori dell’architettura contemporanea in Europa altro non sono che elefanti in cristalleria. “Rogers nel progetto della nuova sede londinese del Lloyd’s Register of Shipping estremizza il concetto della trasparenza offrendo una sorprendente leggerezza visiva, al limite della fragilità psicologica”. Così De Poorter dà ragione a Salingaros, secondo il quale i sacerdoti dell’antiumano stanno operando “una deliberata aggressione ai nostri sensi che usa il meccanismo percettivo per generare ansietà fisica e angoscia”. Io per esempio se per uno scherzo del destino fossi costretto ad abitare nel Turning Torso disegnato da Santiago Calatrava in Svezia, 190 metri dall’aspetto poco stabile, sicuramente mi imbottirei di psicofarmaci. Poi De Poorter cade in alcune ingenuità devozionali, tipiche dei neofiti o degli adepti di scarsa cultura. In Olanda gli edifici nevrotizzanti si espandono senza freni e allora la si definisce un “piccolo paese dinamico e anticonformista” quando a prescindere dall’architettura vi impera un conformismo terrorizzato, dove non si possono proiettare film critici verso il Corano, dove gli anticonformisti giacciono per lo più sotto terra (vedi Pim Fortuyn e Theo Van Gogh). Il vocabolario formale di Frank Gehry è descritto come “nutrito e variegato” a pagina 11 ma De Poorter si smentisce da solo, con il suo stesso libro: basta andare alle pagine 220 (Berlino), 242 (Dusselforf) e 310 (Praga) per constatare la monotonia dell’architetto canadese, sempre le stesse finestrelle esoftalmiche.
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“Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra” (Genesi 11, 8-9).
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Gesù discende da Davide, il piccolo Davide che abbattè il gigante Golia. Nel discorso della montagna, che era poi una collinetta, Gesù non abolisce la Legge e non rinnega la punizione toccata a Babele (fra parentesi, nemmeno quella a Sodoma e Gomorra). Gesù proclama la beatitudine degli uomini miti. Gesù invita a imparare da lui, umile di cuore. Gesù dice che per convertirsi bisogna diventare come bambini. Gesù dice che per entrare nel regno dei cieli bisogna farsi piccoli. Gesù dice che gli ultimi saranno i primi e i primi ultimi. Gesù entra a Gerusalemme su un asinello. L’Antico Testamento colpisce la superbia con una spada di fuoco, il Vangelo testimonia la modestia e la misura in ogni pagina, quasi in ogni versetto. Per questo i grattacieli non possono dirsi cristiani. Anzi, ogni edificio più alto di un campanile è un assalto all’incarnazione, alla presenza di Dio nella storia e nella città.
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“Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori” (Salmo 127, 1).
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Sul Corriere della Sera ho letto un articolo di Pierluigi Panza, vi ho colto uno stile (dote rara in chi si occupa di architettura) e quindi ho cercato notizie su di lui. Vagando per la rete ho trovato uno spezzone in cui Panza viene intervistato da un signore dal cranio perfettamente lucido che poi ho scoperto chiamarsi Pier Moro. Moro cerca di strappare a Panza un giudizio favorevole sui grattacieli della Fiera di Milano firmati Hadid, Isozaki, Libeskind, ed è penoso vedere l’intervistato barcamenarsi per cercare di salvare l’anima senza però scontentare l’intervistatore, un chierichetto del grattacielismo. Per ridicolizzare gli avversari dei tre moloch antiumani e antimilanesi, Moro la butta sul caratteriale: forse ce l’hanno con Libeskind perché è antipatico. Sarebbe una triste vicenda se una scritta alle spalle dei due interlocutori non la rendesse tristissima: Radioformigoni.it. No, non sto per cominciare un discorso morale, qui siamo tutti simoniaci. Come dice Julián Carrón, un prete che il presidente della Regione Lombardia immagino conosca meglio di me, “il problema non è l’etica, il problema è l’ontologia, è il rapporto con il reale”. Nella fattispecie il problema è rispondere alla domanda messa da Eliot in bocca alla Straniera: “Qual è il significato di questa città?”. Sconfortato mi chiedo: Formigoni è ancora cristiano o è passato armi e bagagli all’anticristianesimo militante e architettante? No? E allora: avrà mai letto il filosofo Roger Scruton secondo il quale le opere di Libeskind sono fra le più arroganti espressioni del nichilismo contemporaneo, costruite “come in assenza di gravità, stabilità e comunità”?
Terza domanda: E’ consapevole che Libeskind rigetta pubblicamente qualsiasi nozione di sacro, di inviolabile, e sta all’urbanistica come Jack Kevorkian, il dottor Morte, sta alla medicina? Io capisco che un politico non abbia il tempo di leggere filosofi e poeti, quei perdigiorno, ma i giornali richiedono meno impegno. Basta sfogliarli distrattamente per capire dove ci vuole portare il sinedrio dell’Architettura Antiumana. L’architetto Paolo Caputo, concelebrante del grattacielismo milanese, quando viene intervistato sguinzaglia la hybris: “Le torri andranno a dichiarare nuove centralità urbane”. Sono parole chiarissime che significano il progetto di strappare Milano a Milano, portando il suo cuore lontano da Piazza Duomo e Piazza Sant’Ambrogio, in nuovi quartieri dove i bambini cresceranno senza mai vedere un crocifisso, senza mai ascoltare le campane, e umiliando ulteriormente la Madonnina, via via sminuita a partire dal 1954 quando il grattacielo di Piazza della Repubblica superò per la prima volta la guglia maggiore della cattedrale. Ma non voglio più parlare, io non sono nessuno, dispero di poter convincere colui che la domenica va a messa e il lunedì guarda la Madonna dall’alto in basso, dal suo ufficio al Pirellone. La superbia è il peccato del primo uomo e lo sarà anche dell’ultimo. Io taccio per lasciar parlare qualcun altro.
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Un discepolo gli disse: “Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!”. Gesù gli rispose: “Vedi queste grandi costruzioni? Non rimarrà qui pietra su pietra che non sia distrutta” (Vangelo di Marco 13, 1-2).
di Camillo Langone
Il Foglio 20 settembre 2008
22/09/2008 11:22 – VIETNAM - Sotto lo sguardo della polizia, picchiatori assaltano i cattolici di Thai Ha di J.B. An Dang
Una squadraccia in azione, mentre 500 agenti stanno a guardare: saccheggi, distrutto l’altare delle messe all’aperto, oltraggiato una statua della Madonna. Le autorità di Hanoi fanno circondare l’arcivescovado e minacciano di “punire severamente” l’arcivescovo: tra le sue colpe, aver chiesto di esercitare i diritti che la legge gli riconosce.
Hanoi (AsiaNews) – Squadracce in azione stanotte ad Hanoi: minacce a chi stava pregando, una cappella distrutta, una statua della Madonna oltraggiata con un lancio di olio di macchina. E’ il bilancio del raid che un centinaio di picchiatori, presenti 500 agenti di polizia, ha compiuto contro i fedeli della parrocchia di Thai Ha, raccolti per una veglia di preghiera. L’accaduto è la replica di quanto era avvenuto venerdì notte, quando un gruppo di picchiatori, sempre alla presenza della polizia, ha attaccato i fedeli, saccheggiato la cappella di San Gerardo e l’altare usato per celebrare messe all’aperto, distrutto statue ed immagini. “Gli assalitori – raccontano i Redentoristi – gridavano slogan e chiedevano l’uccisione dell’arcivescovo e del superiore di Thai Ha, padre Matthew Vu Khoi Phung”.
Ieri, domenica, intanto il capo del Comitato del popolo (municipio) di Hanoi, Nguyen The Thao, ha minacciato di “punire severamente” l’arcivescovo di Hanoi, mons. Joseph Ngo Quang Kiet, e quanti, insieme con lui, “sobillano la popolazione, lanciano false accuse al governo, si fanno beffe della legge e disgregano la nazione”. A far infuriare particolarmente Thai la lettera di protesta che l’arcivescovo ha indirizzato al presidente della Repubblica Nguyen Minh Triet, al primo ministro ed al capo della Commissione per gli affari religiosi, nella quale “accusava falsamente il governo” della città di violare la legge e “sfidava” lo Stato con affermazioni come “abbiamo il diritto di usare tutte le nostre capacità per proteggere la nostra proprietà”. Ed inoltre “ha fatto usare un altoparlante per leggerle”.
Le autorità di Hanoi hanno dunque deciso di usare la violenza per porre fine alle pacifiche manifestazioni con le quali i cattolici chiedevano la restituzione di due terreni di loro proprietà che sostengono essere stati illegalmente sottratti: il complesso che ospitava la nunziatura, vicino alla cattedrale di San Giuseppe, ed il terreno della parrocchia di Thai Ha e del monastero dei Redentoristi.
In un Paese nel quale il governo continua a promuovere leggi e campagne contro la corruzione, le autorità di Hanoi avevano destinato i terreni requisiti “per pubblica utilità” ad un ristorante (la ex nunziatura) e ad una fabbrica di confezioni (Thai Ha). Alla richiesta di giustizia, il Comitato popolare ha risposto con una campagna di disinformazione, minacce, arresti, ed ora violenze. Ancora ieri, l’agenzia ufficiale VNA riportava un’affermazione di Thao, secondo il quale le rivendicazioni della Chiesa per Thai Ha sono “infondate” in quanto è la Chiesa stessa ad aver donato il terreno. Affermazione già smentita dai Redentoristi che hanno tutti i documenti di proprietà e hanno chiesto (invano) al Comitato popolare di mostrare quelli della “donazione”.
La reazione dei cattolici all’uso che si vuol fare dei loro terreni è stata pacifica, ma si è concretizzata nelle più grandi manifestazioni di protesta mai viste nella capitale da quando, nel 1954, i comunisti vi hanno preso il potere. La vicenda, inoltre, ha superato i confini di Hanoi, con una decina di vescovi del nord del Paese che si sono recati nella capitale per esprimere solidarietà. Ancora ieri, mons. Joseph Dang Duc Ngan di Lang Son e centinaia di sacerdoti di Ha Nam, Ha Tay e Nam Dinh hanno guidato una marcia di migliaia di cattolici (nella foto) verso i cancelli della ex nunziatura.
Vicino non sono riusciti ad arrivare. Da venerdì la polizia ha circondato il complesso, e chiuso con le transenne anche gli accessi alla cattedrale e all’arcivescovado. Un vero stato d’assedio, con agenti in tenuta antisommossa, cani e attrezzature per disturbare le comunicazioni telefoniche.
All’interno, da venerdì, stanno demolendo il complesso della ex nunziatura. Che ora, ha annunciato il Comitato popolare, diventerà un parco pubblico con biblioteca. Eppure il 2 febbraio l’arcivescovo di Hanoi aveva annunciato la promessa del governo di restituire alla Chiesa il complesso ed il 27 febbraio, pur non facendo cenno del precedente impegno, Trân Dinh Phung, membro permanente del Fronte patriottico ed incaricato degli Affari religiosi ed etnici, esprimendo il punto di vista del primo ministro sulla vicenda aveva definito “del tutto legittima” la richiesta della Chiesa di poter utilizzare il complesso per le attività della Conferenza episcopale.
Oggi, infine, un appello urgente per la difesa dei diritti umani e religiosi dei cattolici vietnamiti è stato lanciato dalla Federation of Vietnamese Catholic Mass Media, che raccoglie varie testate religiose fuori dal Vietnam.
Ad Hanoi, le campane della cattedrale continuano a chiedere aiuto.
L'anencefalo è un cadavere?
ROMA, domenica, 21 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo per la rubrica di Bioetica le risposte ai quesiti posti da due lettori da parte della dottoressa Chiara Mantovani, Presidente dell'Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI) di Ferrara e Presidente di Scienza & Vita di Ferrara, e di Carlo Casini, già magistrato di Cassazione e membro del Comitato Nazionale per la Bioetica, Presidente del Movimento per la Vita italiano, membro della Pontificia Accademia per la Vita e docente presso l'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma.
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L'anencefalo è un cadavere?
Sì?
Dobbiamo rivedere le posizioni sull'interruzione di gravidanza degli anencefali.
No?
Allora l'espianto viene eseguito su uomini non ancora cadaveri.
In attesa di riscontro porgo distinti saluti.
Risponde Chiara Mantovani
Il bambino anencefalico che nasce, nasce vivo. La sua vita può durare pochi minuti, qualche ora o qualche giorno; talvolta qualche settimana. Ciò dipende dalla gravità della sua anencefalia. Già, perché il termine "anencefalico" non significa "senza cervello", totalmente privo di tutto il cervello. Il termine è generico e denomina una grave condizione patologica malformativa che consiste in una mancanza di alcune parti dell'encefalo. Di solito è proprio la corteccia cerebrale, quella che allo stato attuale delle conoscenze è individuata come la sede della coscienza e dei movimenti volontari, la parte più gravemente mancante. Ma i centri profondi, che presiedono alla funzioni di respirazione, per esempio, hanno ancora una certa funzionalità. Proprio per questo la diagnosi di morte del bimbo anencafalico va fatta esaminando la presenza di queste funzionalità e dichiarata solo quando questi segni cessano di essere presenti. I protocolli al riguardo sono molti precisi. Il neonato non sarà dichiarato morto, e dunque non saranno eventualmente espiantati gli organi, fino a quando tutto il silenzio elettrico di quel poco di encefalo è documentato.
Il problema in gravidanza non sussiste: la placenta garantisce al piccolo tutto ciò che abbisogna alla sua vitalità intrauterina. Sarà la nascita a "lasciarlo solo" nella gestione della sua respirazione e circolazione e dunque a evidenziare la sua incapacità di vita autonoma, ma non sussiste alcun dubbio della sua vita in utero.
Riassumendo: è lecito espiantare gli organi di un bimbo anecefalico solo quando - come per qualsiasi altra persona - ci sarà sicurezza che tutto l'encefalo sia totalmente non funzionante. E questo solo dopo un tempo ancora più prolungato che nel caso di un adulto.
Anche il neonato anencefalico nasce e muore: in tempi fortemente ravvicinati, ma pur sempre presenti e diversificati.
A disposizione per eventuali approfondimenti (sebbene la materia sia strettamente specialistica) la saluto caramente.
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Come è possibile considerare uomo chi non ha il cervello? Non è contraddittorio che per favorire il trapianto di organi si consideri morta una persona per il solo fatto che il suo cervello ha cessato totalmente di funzionare, e che invece l' embrione sia considerato un individuo vivente anche quando non si è formato il cervello?
Risponde Carlo Casini
L' argomento è inconsistente, anzi - a ben guardare - rafforza la tesi che il concepito è pienamente un essere umano vivente fin dal momento dell'incontro dello spermatozoo con l' ovocita. Infatti la morte (totale e reale, non parziale o apparente) del cervello è considerata morte dell'uomo anche quando artificialmente si riesce a far circolare il sangue nel suo corpo e a riempire ritmicamente di aria i suoi polmoni, perché il cervello è la parte che rende un organismo unitario il corpo umano.
Esso unifica e finalizza le varie funzioni. Tant'è vero che la morte è chiamata anche "decomposizione". Le singole parti possono continuare per qualche tempo a vivere (è noto il fenomeno della crescita della barba e delle unghie anche nei cadaveri), ma l' uomo, in quanto unità organica, non c'è più.
Se così è, se cioè il dato decisivo per ritenere l' esistenza di una vita umana individuale è l' unità organica determinata da un principio unificatore e finalizzatore, allora è evidente che nell'embrione un tale principio unificatore e organizzatore che lo rende un organismo non solo è presente, ma svolge una funzione possente e mirabile tutta proiettata verso il futuro. L' uomo non è il suo cervello anche se il cervello ne coordina le funzioni vitali. L' adulto che non ha più cervello non ha più futuro nel mondo visibile: è morto.
Ma l' embrione che non ha cervello non è equiparabile ad un cadavere perché ha in sé una forza coordinatrice che gli garantisce non solo uno sviluppo vitale straordinario, ma anche un futuro. Egli non è affatto morto. Anzi è particolarmente vivo.
Vite più o meno degne di essere vissute, inviato da Leo Miceli
Il celebre genetista francese Jérome Lejeune (1926-1994), scopritore della trisomia 21 quale
causa della sindrome di Down, raccontò durante una trasmissione televisiva la seguente
storia vera accaduta al padre medico del professor Varkani docente di embriologia a
Cincinnati e riferitagli dallo stesso:
“una notte, quella del 20 aprile 1889, mio padre, medico a Braunau in Austria, è chiamato per due parti.
Uno era un bel bambino che strillava a pieni polmoni; l’altro una povera bambina trisomica.
Mio padre ha seguito i destini di questi due bambini.
Il bambino ha avuto una carriera straordinariamente brillante; la ragazzina, invece, un cupo futuro. Tuttavia quando la mamma è stata colpita da emiplegia, la ragazza, il cui quoziente intellettivo era assai mediocre, è riuscita con l’aiuto dei vicini ad occuparsi della casa e a rendere felici i quattro anni in cui sua madre è rimasta immobile a letto”.
L’anziano medico austriaco non ricordava più il nome della ragazza, ma non ha potuto mai dimenticare quello del bambino: Adolf Hitler.
Dal libro di J. M. le Méné. Il Professor Lejeune, fondatore della genetica moderna (Cantagalli, 2008).
SCUOLA/ Socci: chi educa ritorni ad essere un padre - INT. Antonio Socci - lunedì 22 settembre 2008 - IlSussidiario.net
Solo uno dei tanti modi con cui il potere cerca di «braccare» bambini e ragazzi: questo, secondo Antonio Socci, è ciò che accade quando certi maestri riversano sugli alunni le loro proteste politico-sindacali. E, quel che è peggio, è che in tutto questo dimenticano completamente quella che dovrebbe essere la loro missione educativa: essere dei padri.
Socci, sono in tanti a parlare di emergenza educativa: anche chi fa occupazioni e inscena proteste bizzarre dice di agire per difendere l’importanza della scuola e dell’educazione dei giovani. Come distinguere tra chi ha veramente a cuore l’emergenza educativa e chi invece la utilizza come pretesto?
Per capire bene il problema bisogna partire da qualcosa che sta prima, e che può essere rintracciabile in questa frase di George Steiner: «può darsi che gli storici futuri finiscano per definire l’epoca attuale in Occidente come un’era di attacco massiccio all’intimità umana, ai delicati processi tramite i quali cerchiamo di realizzare la nostra identità unica e individuale, di sentire l’eco della nostra propria natura». Io parlo da padre di famiglia, con due figli grandi e uno più piccolo di 11 anni. Quest’ultimo si trova in un’età molto delicata, in cui, anche a causa dell’impatto con la prima media, si vive un piccolo ingresso nel mondo degli adulti, con l’allargarsi delle amicizie oltre la cerchia protetta della sfera familiare. Osservando dunque la fragilità della condizione di un bambino di 11 anni ho avvertito in maniera lampante la verità di una cosa che don Giussani diceva spesso: la nostra umanità si trova ad essere quasi braccata dal potere e dalla mentalità dominante, che è letteralmente a caccia delle nostre anime, e soprattutto di quelle dei bambini.
In cosa si vede questa sorta di attacco da parte del potere?
Basta guardare il tipo di aggressione con cui si cerca di fare dei bambini degli acquirenti; basta vedere la violenza, vera, ancora più nell’anima che nel corpo (perché il peggior bullismo è quello dell’anima) di ragazzini diventati adulti, cui è stata rubata l’infanzia, e la violenza con cui a questi ragazzi viene buttata addosso tutta la dinamica dei rapporti umani nella società, che sono rapporti di dominio e di possesso.
Di cosa hanno bisogno i nostri figli?
Il punto di partenza è lo sguardo che dobbiamo avere su di loro; e direi anche su noi stessi, perché la nostra umanità, anche se forse più protetta, non è comunque meno braccata della loro. Non viviamo in un’ampolla neutra, viviamo in una «selva selvaggia», dove letteralmente l’umanità, le anime, gli individui sono merce preziosa, che viene contesa da tanti padroni, ma che non trova padri. Invece, l’unica libertà, l’unica possibilità che abbiamo di sfuggire ai padroni è quella di avere dei padri. Qui sta la grande questione.
La scuola però è diversa dall’ambito familiare: come fare a realizzare anche in classe, tra insegnanti e studenti, quello stesso rapporto di paternità?
Penso a una bellissima provocazione di don Milani, con la quale scandalizzava tanti benpensanti, e cioè che gli unici che possono fare veramente i maestri sono i preti. Lo diceva come paradosso, ma intendeva dire che per essere educatori bisogna essere disposti a dare tutto. Tant’è vero che sfidava gli insegnanti dicendo loro: «siete disposti a non sposarvi?». Una provocazione che mette con le spalle al muro: l’educazione non è un mestiere. Il problema è che la scuola è immersa in questo accecamento generale, per cui non si sa nulla né di che cos’è l’umanità dei ragazzi, né di qual è la società in cui vivono, né di qual è la missione, lo scopo di chi è educatore. Ecco allora che la scuola diventa spesso il luogo dove ognuno avanza le proprie rivendicazioni, le proprie battaglie ideologiche, il tutto a spese dei ragazzi, che a scuola dovrebbero invece essere educati. È d’altronde molto facile usare i ragazzi: al tempo nostro eravamo usati come massa di manovra per progetti politici, oggi in maniera diversa, ma il problema è lo stesso.
Pensare a insegnanti come padri che danno tutto per educare i ragazzi sembra veramente in contrasto con l’immagine di maestri e professori, come vediamo in questi giorni, che coinvolgono gli studenti nelle loro proteste: non è un vero e proprio venire meno a quella paternità di cui lei parla?
È un venir meno soprattutto per l’oggetto di questo coinvolgimento. Intendo dire che se fosse per una costruzione, il coinvolgimento andrebbe bene; invece li sfruttano per affermare un interesse corporativo. Sia chiaro, professori, maestri e insegnanti hanno tutto il diritto di dire la loro opinione e di fare le loro rivendicazioni sindacali. Quello in cui sbagliano è che non hanno il diritto di usare la scuola e il rapporto educativo per fare questo tipo di battaglia. Ma questa, ripeto, è l’ultima conseguenza di uno smarrimento generale, perché quando parliamo della scuola parliamo in realtà della società, di noi. Di che padri siamo, di che uomini siamo. Purtroppo l’errore è quello di aver ridotto la scuola ad un settore: a un mestiere come un altro, per alcuni; a un settore della pubblica amministrazione, per altri; a un parcheggio, per altri ancora. È strano l’effetto che suscita il fatto di sentire mamme che difendono il tempo pieno dicendo: “altrimenti noi come facciamo, dove mettiamo i nostri bambini?”. Non ho nulla contro il tempo pieno: ma non concepisco che scelte che dovrebbero essere eminentemente educative, come i tre maestri o il tempo pieno, vengano fatte non nell’interesse dei ragazzi, ma per ragioni personali, sindacali o per salvaguardare il posto di lavoro.
Da un punto di vista culturale le occupazioni e certe proteste sindacali sono ancora un retaggio ultimo è un po’ stanco del Sessantotto…
Sì, è la rivoluzione che è diventata “para-Stato”. Ed è una cosa triste, che per di più, all’opposto, porta anche a un’ondata di ritorno: l’alternativa rispetto al “casino” è il ritorno un po’ vuoto all’ordine, al proibire e al vietare. Ma questa non è autorevolezza, e rischia anzi di divenire autoritarismo ridicolo, soprattutto perché poi in Italia diventa tutto burletta. E questo non lascia mai spazio al fatto di interrogarsi sulla mancanza di padri, che è il vero punto della questione.
Quali sono, in questa situazione, le responsabilità della politica?
Premetto una cosa: la sinistra secondo me è stata devastante, perché ha usato la scuola come luogo per soggiogare ideologicamente generazioni di giovani, rendendoli dei galoppini. D’altro canto, il rischio è che il centrodestra invece consideri la scuola soltanto un costo, come si può vedere nei tagli indiscriminati fatti sul versante dell’università. Ci sono certamente cose da tagliare, come sedi universitarie e corsi inutili; però bisogna tagliare accuratamente, non dando l’impressione che questo Paese non voglia puntare su università e ricerca. La vera urgenza è che il centrodestra, attraverso la libertà e la sussidiarietà, deve porsi l’obiettivo di far crescere le realtà e le presenze che sono veramente educative. Questa è la grande responsabilità della politica. Non è il ministro, e non è lo Stato che educa; il loro compito è un altro, aiutare cioè le realtà educative che già ci sono, e che non riguardano solo il mondo della scuola. Questa, ripeto, è la grande responsabilità, perché il deserto avanza, e l’unico modo per contrastarlo è irrigare le oasi.
CRISI FINANZIARIA/ Usa, via al risanamento. Rischi e costi di un’operazione da 700 mld di dollari - Carlo Pelanda - lunedì 22 settembre 2008 – IlSussidiario.net
La soluzione individuata in America per chiudere la crisi di finanziaria è radicale. Il governo potrà comprare i contratti dei mutui insolventi e così liberare il mercato da questi prodotti “tossici” che hanno avvelenato tutto il ciclo del credito. Due interrogativi: basterà a chiudere la crisi? Se sì, a quali costi e conseguenze?
Il Tesoro potrà comprare, da istituti statunitensi, fino a 700 miliardi di dollari di prodotti finanziari con dentro mutui insolventi. Le stime della loro quantità assoluta in quel mercato oscillano tra i 500 miliardi ed il trilione di dollari. La cifra stanziata è il massimo di spesa che il Congresso può approvare senza creare nuova, e complessa, legislazione. Ma dovrebbe bastare. In sintesi, invece che fornire liquidità e garanzie di denaro pubblico volta per volta agli istituti in crisi per le perdite nei loro bilanci, il governo statunitense ha deciso di fare un’operazione di pulizia sistemica.
Avrà l’effetto desiderato? Sembra molto probabile. Il salvataggio avrà due effetti positivi: (a) fine della crisi della fiducia e ripristino del credito nel mercato privato; (b) contenimento, e poi inversione, della caduta dei prezzi degli immobili. Il secondo effetto è tanto importante quanto il primo. I soldi statali, in sostanza, compreranno le case messe sotto sequestro per l’insolvenza dei mutui, rivalorizzandole di fatto. Lo scongelamento del credito permetterà l’accensione di nuovi mutui, a pressi accessibili, e pian piano il settore si riprenderà. I bilanci degli istituti finanziari saranno puliti e ciò rimetterà in moto i prestiti interbancari e ridurrà lo specifico saggio di interesse. Ciò ridurrà i costi dei mutui a tasso variabile e, dopo un po’, dovrebbe per effetto catena farlo anche da noi in Europa. Nel momento in cui questo avverrà il sistema del credito tornerà a girare a prezzi normali permettendo investimenti delle imprese e crediti al consumo.
Tutto bene quindi? In relazione al rischio di catastrofe sì, ma sarà inevitabile una contrazione economica nel mercato statunitense da un minimo di 8 mesi ad un massimo di 18. Il rallentamento della crescita americana, forse recessione, ridurrà la crescita globale in quanto saranno minori le esportazioni nel mercato statunitense, ancora locomotiva dell’economia globale non sostituita da altre. Ciò avverrà perché ci vuole un tempo tecnico affinché l’ottimismo, il mercato immobiliare ed il volano degli investimenti si rimettano in moto. Comunque ci sarà la ripresa anche favorita, se non vi saranno guerre, dal fatto che la tendenza recessiva globale tiene bassa la domanda di petrolio riducendone il prezzo. Ma ci sono dei dubbi sull’entità della ripresa futura, in particolare sulla capacità dell’America di crescere tanto e trainare tutto il mondo. Il debito americano aumenterà perché i 700 miliardi di dollari, più altri per diverse misure stimolative o di garanzia, verranno ricavati dall’emissione di titoli. C’è un rischio di inflazione ed uno di compressione del valore di cambio del dollaro. Inoltre il sistema del credito in America, pur tornando fluido, sarà più restrittivo e ciò pomperà meno sangue nel corpo reale dell’economia. Sono rischi veri? Difficile dirlo ora. In realtà il salvataggio, comprando case poi rivendibili, potrebbe essere perfino un profitto per lo Stato. Il cambio dipende dalla relazione con altre monete/economie e nessuna sta meglio di quella americana. L’inflazione non è così certa. Non possiamo ancora scommettere, ma le sensazioni sono ottimistiche.
Il fallimento Lehman Brothers e le conseguenze di un mercato “virtuale” - Graziano Tarantini - lunedì 22 settembre 2008 – IlSussidiario.net
Quello di Lehman Brothers è considerato il più grande fallimento della storia. Di gran lunga più pesante dei crac di Enron e del gigante hi-tech Worldcom. In questo caso, dopo i salvataggi prima di Bear Stern attraverso Jp Morgan, e poi di Fannie Mae e Freddie Mac con l’intervento diretto del governo federale, la Casa Bianca non si è mossa. Il mercato così ha sancito la fine di un’impresa bancaria nata 158 anni fa. Di fatto si chiude anche l’epoca iniziata dopo la crisi del ’29, che portò alla netta separazione tra banche commerciali e di investimento. Si torna così a premiare gli intermediari che possiedono una rete di sportelli capaci di raccogliere capitali in proprio. E questo è un primo passo verso la necessità di riprendere un legame con la realtà, dunque con i bisogni e con le opportunità dell’economia reale.
Con oltre 600 miliardi di attivi e solo 30 di capitale proprio, Lehman non poteva stare in piedi per il semplice fatto che operava con una leva - quindi con soldi di altri - insostenibile dopo una crisi come quella dell’ultimo anno. Per fortuna gli effetti negativi sui mercati finanziari sono stati in parte contenuti dall’acquisto nelle stesse ore di Merrill Lynch da parte di Bank of America e, successivamente, dal salvagente lanciato dalla Fed al colosso assicurativo AIG, con un prestito di 85 miliardi di dollari in cambio dell’80% del capitale azionario.
Una prima domanda che molti si pongono è sul ruolo delle authority preposte al controllo: dov’erano? Sono ancora idonee? Non è un caso che Lester Thurow, uno dei massimi economisti americani, suggerisca di regolamentare di nuovo il mercato, per evitare che si ripeta la crisi nel giro di qualche anno.
Ma l’economista risponde anche a una seconda domanda altrettanto ricorrente: si può ancora avere una fiducia cieca nel libero mercato? A suo giudizio il governo degli Stati Uniti non ne ha avuta. Ha mostrato una buona dose di pragmatismo salvando alcune banche e, quindi, evitando per ora il tonfo del ’29 che ebbe luogo proprio perché l’allora presidente Hoover si rifiutò di intervenire con denaro pubblico a sostegno del sistema bancario.
Una terza domanda è infine opportuna: il mercato, in questo caso il listino di borsa, è un indicatore ancora credibile del valore di un’azienda? Due grandi banche, due protagonisti della storia americana e mondiale come Merrill Lynch e Lehman Brothers oggi non compaiono più nel listino di Wall Street. Basti pensare che un’azione di Lehman a gennaio valeva 60 dollari e venerdì scorso solo 3,5 dollari, in uno scenario tutto sommato immutato.
Non voglio discutere del valore del mercato ma di alcuni suoi limiti nella comprensione dei dati che conferiscono valore all’economia. Oltre all’opportuna rivisitazione della normativa di vigilanza e al funzionamento dei controlli, servono anche profonde riflessioni di natura culturale, cioè una riconsiderazione delle idee che hanno determinato le attuali strutture dell’economia capitalistica di mercato. Questo per le banche, e per il sistema finanziario in generale, significa che:
- la crisi attuale dà ragione a chi dice che le banche, oltre a essere imprese, svolgono anche il ruolo di infrastrutture, quindi si pongono nell’area del quasi-mercato (un loro fallimento produce sempre un effetto domino oggi difficile da circoscrivere);
- bisogna tornare a legare maggiormente le banche al territorio di riferimento; si accrescono così le responsabilità e si migliora la conoscenza, e quindi l’operatività con prodotti mirati;
- occorre premiare tutti i fattori che contribuiscono alla creazione di ricchezza duratura (quindi vanno ripensati anzitutto i parametri a cui legare le stock option e ogni altra forma di incentivo del management);
- la crisi evidenzia infine che i soldi vanno prestati soprattutto a chi ha capacità e rischia con concreti progetti imprenditoriali. E proprio per svolgere tale compito di selezione e sostegno, il sistema bancario è chiamato a rinnovarsi sul piano qualitativo.
DIBATTITO/ Alberoni: fuori da un legame non c’è libertà, ma solo distrazione - INT. Francesco Alberoni - lunedì 22 settembre 2008 – IlSussidiario.net
Professor Alberoni, nel discorso al Collège des Bernardins di Parigi Benedetto XVI ha parlato di «tensione tra legame e libertà» come di uno dei fondamenti della nostra cultura, e, viceversa, ha messo in guardia da una concezione della libertà come «mancanza totale di legami». Come si realizza questo rapporto tra libertà e legame?
La libertà per esprimersi ha bisogno degli estremi di una scelta. C’è un bellissimo testo di Sartre in cui egli dice che l’amore è libertà. È vero: io non posso amare una persona se lei non è libera di amarmi. Nel momento in cui sono convinto che lei è schiava, non posso più amarla. Io desidero che lei mi ami, e faccio di tutto perché questo accada; ma nel momento in cui lei, sottoposta a costrizione, divenisse schiava io non potrei più amarla. Nell’amore umano, così come anche nell’amore mistico, l’altro mette in discussione il tuo amore. L’amore te lo devi sempre guadagnare, e lo devi sempre ottenere per grazia: non ti è mai concesso per sempre. Gli innamorati domandano sempre all’altro: “mi ami?” E così anche il mistico chiede sempre a Dio: “fatti vedere, mostrati”, perché Dio può scomparire, può allontanarsi. In questo senso la libertà realizza il suo massimo proprio all’interno di un legame forte, com’è il legame amoroso.
Eppure siamo spesso propensi a pensare al legame come qualcosa che, appunto, “lega”, e quindi non lascia liberi: non le sembra paradossale che proprio nel legame si eserciti la libertà?
Ma se uno non sceglie non esercita la libertà! Se hai di fronte mille tartine, solo quando ne scegli una eserciti la tua libertà. È forse libertà quella di assaggiarle tutte, di passare da una tartina all’altra? È proprio concettualmente, filosoficamente che non lo è. Se una persona passa da una cosa all’altra, come un vagabondo, non si trova in una situazione di esercizio della libertà, bensì di distrazione. Facciamo un altro esempio: se vivo sotto un regime dittatoriale, non sono libero perché non posso accedere a determinate comunicazioni e a determinati messaggi; nel momento invece in cui mi ritrovassi improvvisamente nella possibilità di accedere a tutte le fonti di informazione, ma non me ne importasse niente e l’una o l’altra fossero per me indifferenti, non inizierei certo ad esercitare la mia libertà. Avrei solo potenzialmente la libertà di scegliere, ma non in atto.
Bauman, come ricordava un nostro recente editoriale, ha parlato, a tal proposito, di “società liquida”, in cui non esistono legami duraturi: condivide questa analisi?
Bauman è partito dallo studio di determinate relazioni per poi trarne regole di carattere generale, parlando così di “società liquida”, di “amore liquido”, di “impresa liquida”. Come sempre le generalizzazioni universali partono da un punto di verità, ma rischiano di diventare una sciocchezza proprio nel momento in cui questi punti di partenza vengono generalizzati. È molto difficile immaginare, ad esempio, che la Cina, l’impero cinese, nella fase in cui risorge, non abbia al suo interno dei legami forti. Lo stesso vale per l’Islam: non solo l’integralismo islamico, ma in genere la società islamica ha al suo interno legami molto forti. Quindi quel che Bauman dice vale solo per la realtà occidentale. Questo è un errore in cui i sociologi cadono spesso: quando parlano del mondo, parlano in realtà del gruppo che sta intorno a loro, e poi lo generalizzano.
Limitando allora il discorso alla sola società occidentale, quella in cui noi viviamo, possiamo dire di trovarci in una situazione in cui si ha difficoltà a stringere legami forti?
Se restiamo all’interno della nostra società e del nostro orizzonte, allora questa considerazione può essere giudicata vera in ambiti diversi, sia per quanto riguarda, ad esempio, la lealtà verso le imprese, come anche per una certa fragilità nelle relazioni erotiche. È vero che nella nostra società c’è una certa mobilità, e “liquido” vuol dire proprio questo, non essere in grado di creare legami stabili con un ambiente definito. Lo studente che viaggia, che fa un master da una parte e poi si sposta altrove per lavoro, è evidente che stabilisce relazioni precarie, come ad esempio quelle del navigante di un tempo. Ma non dobbiamo dimenticare che queste sono caratteristiche legate a fasi storiche. L’impressione negativa che mi dà Bauman è quella di dire: da qui all’eternità la situazione è questa, o peggiorerà. Io non ne sono assolutamente sicuro. Se si descrive un fatto storico mi va bene: ma se se ne vuole fare una legge generale, non ci sono prove, e nessuno può stabilirlo. L’accadimento storico è per sua natura imprevedibile.
Sembra di capire che lei abbia una visione più ottimistica della nostra società.
Dico semplicemente che non è vero che gli esseri umani non continuano a stabilire legami forti. Poche donne hanno figli, questo è vero, e il rapporto con il figlio si è ridotto di importanza, ma non possiamo affatto dire che sia stato eliminato. Le donne che hanno figli instaurano con loro un legame forte, che va anche al di là della prima infanzia. Non c’è nessun segno che il legame tra genitori e figli sia più debole che nel passato. Un altro caso è quello dei rapporti amorosi: è vero che la situazione è cambiata, che è stato separato il sesso dalla riproduzione, che c’è una tendenza ad avere rapporti erotici più che amorosi, con legami più deboli. Ma non è affatto vero che la gente non si innamora, che non ci sia chi perde la vita dietro a un amore. Ci si innamora esattamente come prima; e la riprova di questo è che le vicende erotiche sono esse stesse causa di grandi dolori. Quando una persona ama un’altra e questa va con una terza, quella sta malissimo esattamente come stava male cent’anni fa. La natura umana non è cambiata. Un conto è dire che c’è l’amore “liquido”, un altro è dire che non ci sono più amori solidi. Questo è l’errore di cui parlavo prima: che nel tentativo di costruire una legge universale ci si dimentica di guardare la realtà che ci circonda.
NEXT GENERATION/ In Inghilterra sostegni economici per le madri che restano a casa: un esempio anche per l’Italia? - Mauro Bottarelli - lunedì 22 settembre 2008 – IlSussidiario.net
Il dibattito nato dallo studio “The next generation” condotto dal Centre for Social Justice, il think tank conservatore guidato da Iain Duncan Smith, rischia di essere pesantemente condizionato dall’incompletezza con cui è stato presentato lo stesso documento.
Porre l’accento sulle fantomatiche 500 sterline alla settimana che verrebbero accordate alle madri che decidono di non lavorare e restare a casa con i figli per i primi tre anni di vita è riduttivo oltre che mistificante: all’interno dello studio non si parla di cifre precise e soprattutto le politiche che vengono presentate come possibile soluzione alla crisi della gioventù in Gran Bretagna sono un mix di ricollocazione delle politiche del primo Labour di Tony Blair (ovvero il programma Sure Start e i tax credits, i crediti d’imposta) e una forte iniezione di sussidiarietà, basata sulla ricostruzione sociale e umana dei quartieri.
La base è infatti quella che ruota attorno alle nursery sociali, i Family Services Hubs, queste sì fortemente finanziate dallo Stato, gestite dalla comunità e in grado di garantire un controllo oltre che sociale e pedagogico anche territoriale, nel senso che chi abita in una zona ne conosce le problematiche meglio di chi vi viene catapultato dall’esterno per mera ragione di collocazione occupazionale. Queste strutture nasceranno dalle ceneri di attività già esistenti e vedranno coinvolti professionisti come volontari, tutti abilitati da corsi ad hoc.
Inoltre la politica di 20 sterline settimanali di tax allowances viene ampliata al di là del mero nucleo familiare (padre, madre, figli) a patto che sia comprovato che il membro familiare “esterno” badi realmente alla crescita e all’educazione del bambino. Inoltre sarà reso flessibile il meccanismo di elargizione dei benefit per l’infanzia, il cui ammontare verrà ampliato e reso facilmente ottenibile in forme più rapide e di maggior importo proprio per il periodo che va dagli 0 ai 3 anni. Ovvero quello più delicato e durante il quale un’entrata extra può consentire, questo sì, di poter veramente passare più tempo con i figli magari optando per un lavoro part-time.
Nascerà poi l’Early Years Internet Portal, un portale telematico nel quale trovare tutto senza dover impazzire tra mille siti e uffici: informazioni, documenti scaricabili, indirizzi, insomma il classico one-stop-shop, ovvero il posto dove si trova tutto. Appare quindi fuorviante basare il ragionamento riguardo quelli che ad oggi sono solo i riscontri di un think tank - e non ancora le politiche definitive di un possibile governo conservatore - come una tantum in odore di assistenzialismo: il programma avanzato dal Centre for Social Justice si basa soprattutto su un concetto nuovo per la politica inglese - Tory in particolare - ovvero il concetto sussidiario di delocalizzazione, responsabilizzazione e sostegno indiretto.
Insomma, dopo le strambe sparate di chi voleva punire con pene pecuniarie o addirittura detentive i genitori dei figli che si rendevano protagonisti di atti criminali (la fallimentare esperienza degli Asbo avrebbe dovuto insegnare qualcosa al riguardo), si comincia a ragionare partendo dalla persona. Che ha certamente bisogno dello Stato e del suo aiuto economico ma ha soprattutto necessità di una nuova capacità di ripartire dal bene comune. E David Cameron pare averlo capito: la sua sfida più grande sarà proprio questa.
Russia: gli effetti della crisi finanziaria su un popolo "dimenticato" - Aleksander Archangelskij - lunedì 22 settembre 2008 – IlSussidiario.net
Non esiste nessun legame diretto tra la morte clinica del mercato azionario russo e il riconoscimento dell’Ossezia e dell’Abchazia.
Se non fosse per la bufera mondiale che imperversa e perché è arrivato il momento di pagare il conto dell’arrischiato incremento degli anni scorsi, ce la saremmo potuta cavare benissimo. E anche con l’Ossezia e l’Abchazia. Avremmo potuto tirare avanti tranquillamente, magari non in maniera eccelsa, ma senza passarcela neppure troppo male.
Tanto più che in Russia a giocare nel mercato fondiario sono così in pochi, che le sue oscillazioni non colpiscono direttamente l’uomo della strada. Colpiscono gli americani, che in questo mercato hanno investito strategicamente denari considerevoli. Solo la situazione mondiale ha indotto gli investitori ad insospettirsi al momento del rifiuto della WTO come obiettivo di negoziati, perché noi non viviamo nella repubblica delle banane, e la carota si usa solo con gli asini.
L’uomo della strada è addirittura contento; per lui la WTO non comporta alcun beneficio, anzi le limitazioni in campo agricolo sono svantaggiose. E che cosa importa al banchiere americano che investe sul mercato russo, se noi entriamo o no nella WTO? Che cosa siamo, la repubblica delle banane o dei cedri? Lui se ne infischia di tutte le strategie di sviluppo della Russia. Gli basta che i profitti siano alti, e l’instabilità monetaria, possibilmente, bassa. Quindi, bisogna riconoscerlo: le decisioni degli ultimi mesi, che in gran parte sono state imposte dalle decisioni di tutti gli ultimi anni, di per sé automaticamente, non comportano necessariamente il crollo del mercato. Purtroppo però è vero anche il contrario. Non ci fossero state, la frana non si sarebbe verificata in queste proporzioni, non avrebbe avuto questa violenza ingovernabile. E questo perché le decisioni degli ultimi mesi non si sono basate sulle possibilità del Paese, non rispondevano alle sue finalità reali, hanno rafforzato la sensazione di rischio, hanno polverizzato l’energia del potere e hanno distolto dal prendere le dovute misure negli ambiti che realmente influiscono sulle sorti della Russia.
In altri termini, hanno preparato le condizioni perché la Russia risultasse l’anello più debole nella grave crisi finanziaria. A proposito delle possibilità. C’è una regola, semplice, che è la pace. Se hai un mercato fondiario manovrato dall’estero, dove i soldi sono principalmente di altri, cerca di litigare con il resto del mondo solo nel caso in cui sia impossibile far diversamente. Ad esempio, se ammazzano i civili. Se invece si può far a meno di litigare, sta’ fermo. L’orgoglio patriottico (“gliel’abbiamo fatta vedere!”), darà anche soddisfazione, ma è una soddisfazione totalmente irresponsabile. Non sarà questo sentimento a rispondere delle conseguenze. Del fatto che gli investitori impauriti faranno marcia indietro. Nei problemi dell’ambito del petrolio. Nel campo tributario. Nella situazione dei trasporti aerei. Nei costi dei missili Bulava quando abbiamo dei carri armati obsoleti. Come dice il proverbio: sta’ attento a non fare il passo più lungo della gamba. A proposito delle decisioni prese: nella riunione convocata urgentemente il 18 settembre Medvedev ha pronunciato una frase cruciale. «il potere oggi ha come obiettivo prioritario sostenere la stabilità finanziaria». E ha comunicato lo stanziamento di mezzo trilione di rubli a sostegno del mercato. E la riduzione delle riserve. E la diminuzione dei dazi sull’esportazione del petrolio.
Ma erano parole da pronunciare ieri, l’altro ieri, o fors’anche una settimana fa. Il fatto è che ieri il presidente era interamente assorbito dall’accordo di amicizia con l’Abchazia, come si fa a trattarla diversamente dall’Ossezia meridionale!
Non faccio assolutamente dell’ironia, constato semplicemente la triste realtà. Questo processo che ormai si osserva da tempo è troppo accentuato per poterlo esautorare. E come tale è inevitabile. Perché con una decisione politica si può aprire un vaso di Pandora. Oppure una gran matrioshka. Da cui poi bisogna continuamente tirar fuori di volta in volta altre matrioshke, sempre più piccole. E non si può più fermarsi, finché non si arriva alla fine. Prima di arrivare alla fine d’anno salteranno altri grossi istituti; la gente inizierà a cercar lavoro; il mercato del lavoro comincerà a calare i prezzi. Sia per quanti sono alla ricerca, sia per quelli che l’hanno già trovato. I crediti si insabbieranno, i prezzi degli immobili cominceranno inevitabilmente a scendere, ma saranno anche di meno i compratori solvibili pure a questi prezzi inferiori. Le banche medio-piccole vacilleranno, l’inflazione avrà un’impennata.
Ormai, tutto questo è inevitabile. Ma le proporzioni della calamità sarebbero state completamente diverse, se la politica non avesse servito ambizioni imperialistiche a scoppio ritardato, ma piuttosto i reali bisogni della popolazione russa. Del resto l’America, che i governanti russi amano tanto additare (condannandola e invidiandola), all’inizio si è preoccupata si assicurare al cittadino americano un livello di vita dignitoso, e poi si è buttata a riformare tutto il mondo (magari era meglio che si fermasse alla prima fase). Conclusione. Quel che stato è stato, non si può tornare indietro, ma solo tentare di porre qualche rimedio. Si può però cercare di salvaguardarsi in futuro dal ricreare i problemi attuali, sviluppando la politica interna, all’insegna di un sano egoismo preoccupato di salvaguardare gli interessi della nazione.
(Articolo pubblicato il 18/09(2008 e tratto dalla rubrica personale dell'autore sull'agenzia "RIA Novosti")
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L’anticristo abita al 53° piano - Ogni edificio più alto di un campanile è un assalto all’incarnazione e alla presenza di Dio nella città…- C’è una nuova religione che sta innalzando i suoi templi in Europa, e non sto parlando di moschee. I politici e gli elettori, poveri, credono siano grattacieli, musei, università, sedi di banche e di parlamenti, teatri, centri commerciali, , e invece sono templi.
C’è una nuova religione che sta innalzando i suoi templi in Europa, e non sto parlando di moschee. I politici e gli elettori, poveri, credono siano grattacieli, musei, università, sedi di banche e di parlamenti, teatri, centri commerciali, e invece sono templi. Spesso pagati coi soldi dei contribuenti, gente perbene o anche permale però con moderazione, persone che non metterebbero mai la crocetta sull’otto per mille al fine di sostenere un culto dichiaratamente nichilista ma che, senza saperlo, versano ogni anno un obolo alla chiesa dell’Architettura Antiumana. Come ogni chiesa che si rispetti anche questa ha dei testi sacri, ovvero intangibili, sconosciuti non perché segreti (sono anzi diuturnamente proclamati dai sommi sacerdoti sui mezzi di comunicazione di massa) ma perché, storia e saggezza popolare insegnano, non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere. Così come pochi non-nazisti negli anni Trenta lessero davvero il Mein Kampf, per poter continuare a pensare che Hitler si sarebbe accontentato di un pezzetto di Cecoslovacchia, così come pochi non-musulmani oggi leggono davvero il Corano, per poter continuare a figurarsi le religioni tutte uguali e ugualmente protese all’amore universale, allo stesso modo pochi non-architetti leggono davvero le interviste agli architetti antiumani, per poter continuare a immaginarseli come professionisti al servizio del funzionale e del razionale.
***
“Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese del Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: ‘Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco’. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: ‘Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome’”. (Genesi 11, 1-4).
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“Non esiste né il buono, né il vero, né il bello. Sono un relativista. Sono un nichilista” dichiarò Philip Johnson, il re dei grattacieli, poco prima di rendere l’anima al diavolo. Omosessuale e nazista, il passaporto Usa gli evitò di fare la fine dell’omologo Ernst Röhm e continuò a lavorare per la propaganda del partito nazionalsocialista fino al 1939, quando descrisse estasiato l’incendio di Varsavia, anzi fino al 1940, anno in cui la posizione di americano crociuncinato divenne insostenibile perfino per un polivalente del suo livello, a proprio agio ai vernissage mondani del Moma di New York così come alle cerimonie pagane di Norimberga immortalate da Leni Riefenstahl. Se un nazista non può più fare il nazista può cominciare a fare l’architetto o meglio (essendo com’è ovvio un ardente ammiratore di Nietzsche) il super-architetto, l’architetto al di là del bene e del male. Nel ’49 costruisce la Glass House per distruggere l’idea di casa come guscio degli affetti. Dentro quattro pareti di vetro può vivere un’esibizionista, non una famiglia: l’assenza di intimità e la totale visibilità sarebbero piaciute all’orwelliano Grande Fratello ma pure a Jeremy Bentham, l’inventore del Panocticon, il carcere dove si vede tutto, “un nuovo modo per ottenere potere sulla mente”. La Glass House è un incunabolo dell’Architettura Antiumana che però offre il meglio di sé nel fuoriscala. Nel seguito di carriera Johnson si è dato ai grattacieli, il più famoso dei quali è l’At&t building di New York, riconoscibile fra mille per il timpano forato (oggi si chiama Sony Tower perché commissionare grattacieli non porta benissimo, anche a Milano c’è sempre il Pirellone ma non si sa dove sia finita la Pirelli).
Eppure il Sony è ancora troppo basso, solo 197 metri, poteva andar bene negli anni Ottanta ma oggi per farsi un nome bisogna spingersi oltre. “Per essere moderni bisogna progettare in verticale. Sopra i 400 metri” ha sentenziato Massimiliano Fuksas dall’ambone di Repubblica, nerovestito come Daniel Libeskind, come Rem Koolhaas, come Jean Nouvel (anche dal punto di vista degli abiti sacerdotali la chiesa dell’Architettura Antiumana è molto più rigida della chiesa cattolica, i cui preti vestono come gli pare e infatti hanno ormai meno ascendente degli adoratori del grattacielo). Il comandamento dell’altezza è una sfida malriuscita a Dio e un’aggressione riuscitissima alla sua creatura: più il grattacielo sale, più l’uomo si rattrappisce, ridotto al rango di formica laggiù sul marciapiede. Un grattacielo di 400 metri dialoga con la Muraglia Cinese, la Piramide di Cheope, le Linee di Nazca, non con bipedi 250 volte più piccoli e meno che meno con cuccioli di bipedi. Quando non si capisce se qualcosa è a misura d’uomo basta pensare se è a misura di bambino, e subito risulta evidente l’umanità o la disumanità dell’oggetto analizzato. E’ straziante solo immaginarlo, un bambino costretto a vivere in un appartamento al cinquantatreesimo piano. Secondo me Eric Clapton ancora si sveglia la notte per domandarsi come mai, quel maledetto giorno del 1991, suo figlio Conor fosse affacciato alla finestra di un edificio manhattaniano di altezza assurda e non giocasse invece con le papere davanti a un cottage negli Hamptons. Il teorico dell’architettura Nikos Salingaros ha individuato nel gigantismo il primo dei fattori disumanizzanti. Nemmeno facendosi venire il torcicollo si possono apprezzare forma e dimensioni di un grattacielo con mezzi naturali, c’è bisogno come minimo di un elicottero. Per innalzare e gestire centinaia di migliaia di metri cubi non bastano gli uomini ma occorrono società quotate in borsa e fondi di investimento meglio se degli Emirati Arabi perché il grattacielo è ritornato alle sue origini orientali, bibliche, e infatti nella lingua del culto non si chiama più building ma tower, come nel libro della Genesi: i primi sei edifici più alti del mondo si trovano in Asia (Dubai, Taipei, Shanghai, Kuala Lumpur…).
All’ombra della maggior parte di essi non esiste libertà religiosa: il dispotismo asiatico blandisce gli architetti, sempre al servizio del potere, e perseguita i preti, che servono i servi. Quando supera una certa dimensione l’architettura diventa totalitaria di per sé, indipendentemente dall’ideologia dell’architetto, del costruttore e perfino del regime politico del luogo. Il grattacielo babelico di Dubai è costruito da operai indiani, pachistani e bengalesi ridotti in semischiavitù, impossibilitati a tornare a casa per il fenomeno dell’indebitamento obbligatorio e il relativo sequestro dei passaporti, pagati un decimo degli impiegati arabi, senza diritti di alcun genere, falcidiati da incidenti sul lavoro il cui numero è tenuto segreto come segreta è l’altezza che sarà raggiunta dallo spaventoso edificio una volta completato (700 metri?). Sacrifici umani e misteri iniziatici: ecco altri due ingredienti tipici delle religioni precristiane.
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“Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: ‘Ecco, essi sono un popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro’” (Genesi 11, 5-7).
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Un’esaustiva collezione di dogmi della chiesa dell’Architettura Antiumana è stata recentemente pubblicata da Mondadori Arte. L’autore, o meglio il raccoglitore, si chiama Christian de Poorter (deve trattarsi di un convertito: a giudicare dal nome è nato in ambiente cristiano). Il libro si intitola “Atlante dell’architettura contemporanea in Europa” ma qui più delle foto, tragiche e bellissime, è la prefazione che ci interessa. Oltre alla completezza e all’apparato iconografico, il valore di questo testo divulgativo risiede nella sua trasparenza. Ci fu in tempo in cui gli architetti cercavano di nascondere grandi masse di cemento e di metallo dietro il dito dell’ideologia: Renzo Piano si atteggiava a benefattore e demoliva antichi palazzi di Parigi in nome della partecipazione sociale. Vecchie fisime anni Settanta. Oggi gli alibi non servono più e De Poorter espone senza falsi pudori i malvagi obiettivi dei progettisti alla moda. “L’architettura contemporanea seduce, stupisce e conquista”. Insomma vuole stordirci, invaderci, come una droga, come una metastasi. “Il contenitore diventa più attrattivo del contenuto”. L’architetto è quindi un vampiro capace di svuotare di senso qualsiasi tipologia edilizia, anche una chiesa del culto concorrente vale a dire una chiesa cristiana (non è difficile: basta sabotare l’incarnazione mimetizzando l’esterno, come Piano a San Giovanni Rotondo, o rendendo astratto l’interno, come Meier a Tor Tre Teste). “Il Kunsthaus di Graz, un’enorme bolla blu aliena atterrata nel cuore della città austriaca”.
Finalmente ammesso che i capolavori dell’architettura contemporanea in Europa altro non sono che elefanti in cristalleria. “Rogers nel progetto della nuova sede londinese del Lloyd’s Register of Shipping estremizza il concetto della trasparenza offrendo una sorprendente leggerezza visiva, al limite della fragilità psicologica”. Così De Poorter dà ragione a Salingaros, secondo il quale i sacerdoti dell’antiumano stanno operando “una deliberata aggressione ai nostri sensi che usa il meccanismo percettivo per generare ansietà fisica e angoscia”. Io per esempio se per uno scherzo del destino fossi costretto ad abitare nel Turning Torso disegnato da Santiago Calatrava in Svezia, 190 metri dall’aspetto poco stabile, sicuramente mi imbottirei di psicofarmaci. Poi De Poorter cade in alcune ingenuità devozionali, tipiche dei neofiti o degli adepti di scarsa cultura. In Olanda gli edifici nevrotizzanti si espandono senza freni e allora la si definisce un “piccolo paese dinamico e anticonformista” quando a prescindere dall’architettura vi impera un conformismo terrorizzato, dove non si possono proiettare film critici verso il Corano, dove gli anticonformisti giacciono per lo più sotto terra (vedi Pim Fortuyn e Theo Van Gogh). Il vocabolario formale di Frank Gehry è descritto come “nutrito e variegato” a pagina 11 ma De Poorter si smentisce da solo, con il suo stesso libro: basta andare alle pagine 220 (Berlino), 242 (Dusselforf) e 310 (Praga) per constatare la monotonia dell’architetto canadese, sempre le stesse finestrelle esoftalmiche.
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“Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra” (Genesi 11, 8-9).
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Gesù discende da Davide, il piccolo Davide che abbattè il gigante Golia. Nel discorso della montagna, che era poi una collinetta, Gesù non abolisce la Legge e non rinnega la punizione toccata a Babele (fra parentesi, nemmeno quella a Sodoma e Gomorra). Gesù proclama la beatitudine degli uomini miti. Gesù invita a imparare da lui, umile di cuore. Gesù dice che per convertirsi bisogna diventare come bambini. Gesù dice che per entrare nel regno dei cieli bisogna farsi piccoli. Gesù dice che gli ultimi saranno i primi e i primi ultimi. Gesù entra a Gerusalemme su un asinello. L’Antico Testamento colpisce la superbia con una spada di fuoco, il Vangelo testimonia la modestia e la misura in ogni pagina, quasi in ogni versetto. Per questo i grattacieli non possono dirsi cristiani. Anzi, ogni edificio più alto di un campanile è un assalto all’incarnazione, alla presenza di Dio nella storia e nella città.
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“Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori” (Salmo 127, 1).
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Sul Corriere della Sera ho letto un articolo di Pierluigi Panza, vi ho colto uno stile (dote rara in chi si occupa di architettura) e quindi ho cercato notizie su di lui. Vagando per la rete ho trovato uno spezzone in cui Panza viene intervistato da un signore dal cranio perfettamente lucido che poi ho scoperto chiamarsi Pier Moro. Moro cerca di strappare a Panza un giudizio favorevole sui grattacieli della Fiera di Milano firmati Hadid, Isozaki, Libeskind, ed è penoso vedere l’intervistato barcamenarsi per cercare di salvare l’anima senza però scontentare l’intervistatore, un chierichetto del grattacielismo. Per ridicolizzare gli avversari dei tre moloch antiumani e antimilanesi, Moro la butta sul caratteriale: forse ce l’hanno con Libeskind perché è antipatico. Sarebbe una triste vicenda se una scritta alle spalle dei due interlocutori non la rendesse tristissima: Radioformigoni.it. No, non sto per cominciare un discorso morale, qui siamo tutti simoniaci. Come dice Julián Carrón, un prete che il presidente della Regione Lombardia immagino conosca meglio di me, “il problema non è l’etica, il problema è l’ontologia, è il rapporto con il reale”. Nella fattispecie il problema è rispondere alla domanda messa da Eliot in bocca alla Straniera: “Qual è il significato di questa città?”. Sconfortato mi chiedo: Formigoni è ancora cristiano o è passato armi e bagagli all’anticristianesimo militante e architettante? No? E allora: avrà mai letto il filosofo Roger Scruton secondo il quale le opere di Libeskind sono fra le più arroganti espressioni del nichilismo contemporaneo, costruite “come in assenza di gravità, stabilità e comunità”?
Terza domanda: E’ consapevole che Libeskind rigetta pubblicamente qualsiasi nozione di sacro, di inviolabile, e sta all’urbanistica come Jack Kevorkian, il dottor Morte, sta alla medicina? Io capisco che un politico non abbia il tempo di leggere filosofi e poeti, quei perdigiorno, ma i giornali richiedono meno impegno. Basta sfogliarli distrattamente per capire dove ci vuole portare il sinedrio dell’Architettura Antiumana. L’architetto Paolo Caputo, concelebrante del grattacielismo milanese, quando viene intervistato sguinzaglia la hybris: “Le torri andranno a dichiarare nuove centralità urbane”. Sono parole chiarissime che significano il progetto di strappare Milano a Milano, portando il suo cuore lontano da Piazza Duomo e Piazza Sant’Ambrogio, in nuovi quartieri dove i bambini cresceranno senza mai vedere un crocifisso, senza mai ascoltare le campane, e umiliando ulteriormente la Madonnina, via via sminuita a partire dal 1954 quando il grattacielo di Piazza della Repubblica superò per la prima volta la guglia maggiore della cattedrale. Ma non voglio più parlare, io non sono nessuno, dispero di poter convincere colui che la domenica va a messa e il lunedì guarda la Madonna dall’alto in basso, dal suo ufficio al Pirellone. La superbia è il peccato del primo uomo e lo sarà anche dell’ultimo. Io taccio per lasciar parlare qualcun altro.
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Un discepolo gli disse: “Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!”. Gesù gli rispose: “Vedi queste grandi costruzioni? Non rimarrà qui pietra su pietra che non sia distrutta” (Vangelo di Marco 13, 1-2).
di Camillo Langone
Il Foglio 20 settembre 2008
22/09/2008 11:22 – VIETNAM - Sotto lo sguardo della polizia, picchiatori assaltano i cattolici di Thai Ha di J.B. An Dang
Una squadraccia in azione, mentre 500 agenti stanno a guardare: saccheggi, distrutto l’altare delle messe all’aperto, oltraggiato una statua della Madonna. Le autorità di Hanoi fanno circondare l’arcivescovado e minacciano di “punire severamente” l’arcivescovo: tra le sue colpe, aver chiesto di esercitare i diritti che la legge gli riconosce.
Hanoi (AsiaNews) – Squadracce in azione stanotte ad Hanoi: minacce a chi stava pregando, una cappella distrutta, una statua della Madonna oltraggiata con un lancio di olio di macchina. E’ il bilancio del raid che un centinaio di picchiatori, presenti 500 agenti di polizia, ha compiuto contro i fedeli della parrocchia di Thai Ha, raccolti per una veglia di preghiera. L’accaduto è la replica di quanto era avvenuto venerdì notte, quando un gruppo di picchiatori, sempre alla presenza della polizia, ha attaccato i fedeli, saccheggiato la cappella di San Gerardo e l’altare usato per celebrare messe all’aperto, distrutto statue ed immagini. “Gli assalitori – raccontano i Redentoristi – gridavano slogan e chiedevano l’uccisione dell’arcivescovo e del superiore di Thai Ha, padre Matthew Vu Khoi Phung”.
Ieri, domenica, intanto il capo del Comitato del popolo (municipio) di Hanoi, Nguyen The Thao, ha minacciato di “punire severamente” l’arcivescovo di Hanoi, mons. Joseph Ngo Quang Kiet, e quanti, insieme con lui, “sobillano la popolazione, lanciano false accuse al governo, si fanno beffe della legge e disgregano la nazione”. A far infuriare particolarmente Thai la lettera di protesta che l’arcivescovo ha indirizzato al presidente della Repubblica Nguyen Minh Triet, al primo ministro ed al capo della Commissione per gli affari religiosi, nella quale “accusava falsamente il governo” della città di violare la legge e “sfidava” lo Stato con affermazioni come “abbiamo il diritto di usare tutte le nostre capacità per proteggere la nostra proprietà”. Ed inoltre “ha fatto usare un altoparlante per leggerle”.
Le autorità di Hanoi hanno dunque deciso di usare la violenza per porre fine alle pacifiche manifestazioni con le quali i cattolici chiedevano la restituzione di due terreni di loro proprietà che sostengono essere stati illegalmente sottratti: il complesso che ospitava la nunziatura, vicino alla cattedrale di San Giuseppe, ed il terreno della parrocchia di Thai Ha e del monastero dei Redentoristi.
In un Paese nel quale il governo continua a promuovere leggi e campagne contro la corruzione, le autorità di Hanoi avevano destinato i terreni requisiti “per pubblica utilità” ad un ristorante (la ex nunziatura) e ad una fabbrica di confezioni (Thai Ha). Alla richiesta di giustizia, il Comitato popolare ha risposto con una campagna di disinformazione, minacce, arresti, ed ora violenze. Ancora ieri, l’agenzia ufficiale VNA riportava un’affermazione di Thao, secondo il quale le rivendicazioni della Chiesa per Thai Ha sono “infondate” in quanto è la Chiesa stessa ad aver donato il terreno. Affermazione già smentita dai Redentoristi che hanno tutti i documenti di proprietà e hanno chiesto (invano) al Comitato popolare di mostrare quelli della “donazione”.
La reazione dei cattolici all’uso che si vuol fare dei loro terreni è stata pacifica, ma si è concretizzata nelle più grandi manifestazioni di protesta mai viste nella capitale da quando, nel 1954, i comunisti vi hanno preso il potere. La vicenda, inoltre, ha superato i confini di Hanoi, con una decina di vescovi del nord del Paese che si sono recati nella capitale per esprimere solidarietà. Ancora ieri, mons. Joseph Dang Duc Ngan di Lang Son e centinaia di sacerdoti di Ha Nam, Ha Tay e Nam Dinh hanno guidato una marcia di migliaia di cattolici (nella foto) verso i cancelli della ex nunziatura.
Vicino non sono riusciti ad arrivare. Da venerdì la polizia ha circondato il complesso, e chiuso con le transenne anche gli accessi alla cattedrale e all’arcivescovado. Un vero stato d’assedio, con agenti in tenuta antisommossa, cani e attrezzature per disturbare le comunicazioni telefoniche.
All’interno, da venerdì, stanno demolendo il complesso della ex nunziatura. Che ora, ha annunciato il Comitato popolare, diventerà un parco pubblico con biblioteca. Eppure il 2 febbraio l’arcivescovo di Hanoi aveva annunciato la promessa del governo di restituire alla Chiesa il complesso ed il 27 febbraio, pur non facendo cenno del precedente impegno, Trân Dinh Phung, membro permanente del Fronte patriottico ed incaricato degli Affari religiosi ed etnici, esprimendo il punto di vista del primo ministro sulla vicenda aveva definito “del tutto legittima” la richiesta della Chiesa di poter utilizzare il complesso per le attività della Conferenza episcopale.
Oggi, infine, un appello urgente per la difesa dei diritti umani e religiosi dei cattolici vietnamiti è stato lanciato dalla Federation of Vietnamese Catholic Mass Media, che raccoglie varie testate religiose fuori dal Vietnam.
Ad Hanoi, le campane della cattedrale continuano a chiedere aiuto.
L'anencefalo è un cadavere?
ROMA, domenica, 21 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo per la rubrica di Bioetica le risposte ai quesiti posti da due lettori da parte della dottoressa Chiara Mantovani, Presidente dell'Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI) di Ferrara e Presidente di Scienza & Vita di Ferrara, e di Carlo Casini, già magistrato di Cassazione e membro del Comitato Nazionale per la Bioetica, Presidente del Movimento per la Vita italiano, membro della Pontificia Accademia per la Vita e docente presso l'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma.
* * *
L'anencefalo è un cadavere?
Sì?
Dobbiamo rivedere le posizioni sull'interruzione di gravidanza degli anencefali.
No?
Allora l'espianto viene eseguito su uomini non ancora cadaveri.
In attesa di riscontro porgo distinti saluti.
Risponde Chiara Mantovani
Il bambino anencefalico che nasce, nasce vivo. La sua vita può durare pochi minuti, qualche ora o qualche giorno; talvolta qualche settimana. Ciò dipende dalla gravità della sua anencefalia. Già, perché il termine "anencefalico" non significa "senza cervello", totalmente privo di tutto il cervello. Il termine è generico e denomina una grave condizione patologica malformativa che consiste in una mancanza di alcune parti dell'encefalo. Di solito è proprio la corteccia cerebrale, quella che allo stato attuale delle conoscenze è individuata come la sede della coscienza e dei movimenti volontari, la parte più gravemente mancante. Ma i centri profondi, che presiedono alla funzioni di respirazione, per esempio, hanno ancora una certa funzionalità. Proprio per questo la diagnosi di morte del bimbo anencafalico va fatta esaminando la presenza di queste funzionalità e dichiarata solo quando questi segni cessano di essere presenti. I protocolli al riguardo sono molti precisi. Il neonato non sarà dichiarato morto, e dunque non saranno eventualmente espiantati gli organi, fino a quando tutto il silenzio elettrico di quel poco di encefalo è documentato.
Il problema in gravidanza non sussiste: la placenta garantisce al piccolo tutto ciò che abbisogna alla sua vitalità intrauterina. Sarà la nascita a "lasciarlo solo" nella gestione della sua respirazione e circolazione e dunque a evidenziare la sua incapacità di vita autonoma, ma non sussiste alcun dubbio della sua vita in utero.
Riassumendo: è lecito espiantare gli organi di un bimbo anecefalico solo quando - come per qualsiasi altra persona - ci sarà sicurezza che tutto l'encefalo sia totalmente non funzionante. E questo solo dopo un tempo ancora più prolungato che nel caso di un adulto.
Anche il neonato anencefalico nasce e muore: in tempi fortemente ravvicinati, ma pur sempre presenti e diversificati.
A disposizione per eventuali approfondimenti (sebbene la materia sia strettamente specialistica) la saluto caramente.
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Come è possibile considerare uomo chi non ha il cervello? Non è contraddittorio che per favorire il trapianto di organi si consideri morta una persona per il solo fatto che il suo cervello ha cessato totalmente di funzionare, e che invece l' embrione sia considerato un individuo vivente anche quando non si è formato il cervello?
Risponde Carlo Casini
L' argomento è inconsistente, anzi - a ben guardare - rafforza la tesi che il concepito è pienamente un essere umano vivente fin dal momento dell'incontro dello spermatozoo con l' ovocita. Infatti la morte (totale e reale, non parziale o apparente) del cervello è considerata morte dell'uomo anche quando artificialmente si riesce a far circolare il sangue nel suo corpo e a riempire ritmicamente di aria i suoi polmoni, perché il cervello è la parte che rende un organismo unitario il corpo umano.
Esso unifica e finalizza le varie funzioni. Tant'è vero che la morte è chiamata anche "decomposizione". Le singole parti possono continuare per qualche tempo a vivere (è noto il fenomeno della crescita della barba e delle unghie anche nei cadaveri), ma l' uomo, in quanto unità organica, non c'è più.
Se così è, se cioè il dato decisivo per ritenere l' esistenza di una vita umana individuale è l' unità organica determinata da un principio unificatore e finalizzatore, allora è evidente che nell'embrione un tale principio unificatore e organizzatore che lo rende un organismo non solo è presente, ma svolge una funzione possente e mirabile tutta proiettata verso il futuro. L' uomo non è il suo cervello anche se il cervello ne coordina le funzioni vitali. L' adulto che non ha più cervello non ha più futuro nel mondo visibile: è morto.
Ma l' embrione che non ha cervello non è equiparabile ad un cadavere perché ha in sé una forza coordinatrice che gli garantisce non solo uno sviluppo vitale straordinario, ma anche un futuro. Egli non è affatto morto. Anzi è particolarmente vivo.
Vite più o meno degne di essere vissute, inviato da Leo Miceli
Il celebre genetista francese Jérome Lejeune (1926-1994), scopritore della trisomia 21 quale
causa della sindrome di Down, raccontò durante una trasmissione televisiva la seguente
storia vera accaduta al padre medico del professor Varkani docente di embriologia a
Cincinnati e riferitagli dallo stesso:
“una notte, quella del 20 aprile 1889, mio padre, medico a Braunau in Austria, è chiamato per due parti.
Uno era un bel bambino che strillava a pieni polmoni; l’altro una povera bambina trisomica.
Mio padre ha seguito i destini di questi due bambini.
Il bambino ha avuto una carriera straordinariamente brillante; la ragazzina, invece, un cupo futuro. Tuttavia quando la mamma è stata colpita da emiplegia, la ragazza, il cui quoziente intellettivo era assai mediocre, è riuscita con l’aiuto dei vicini ad occuparsi della casa e a rendere felici i quattro anni in cui sua madre è rimasta immobile a letto”.
L’anziano medico austriaco non ricordava più il nome della ragazza, ma non ha potuto mai dimenticare quello del bambino: Adolf Hitler.
Dal libro di J. M. le Méné. Il Professor Lejeune, fondatore della genetica moderna (Cantagalli, 2008).
SCUOLA/ Socci: chi educa ritorni ad essere un padre - INT. Antonio Socci - lunedì 22 settembre 2008 - IlSussidiario.net
Solo uno dei tanti modi con cui il potere cerca di «braccare» bambini e ragazzi: questo, secondo Antonio Socci, è ciò che accade quando certi maestri riversano sugli alunni le loro proteste politico-sindacali. E, quel che è peggio, è che in tutto questo dimenticano completamente quella che dovrebbe essere la loro missione educativa: essere dei padri.
Socci, sono in tanti a parlare di emergenza educativa: anche chi fa occupazioni e inscena proteste bizzarre dice di agire per difendere l’importanza della scuola e dell’educazione dei giovani. Come distinguere tra chi ha veramente a cuore l’emergenza educativa e chi invece la utilizza come pretesto?
Per capire bene il problema bisogna partire da qualcosa che sta prima, e che può essere rintracciabile in questa frase di George Steiner: «può darsi che gli storici futuri finiscano per definire l’epoca attuale in Occidente come un’era di attacco massiccio all’intimità umana, ai delicati processi tramite i quali cerchiamo di realizzare la nostra identità unica e individuale, di sentire l’eco della nostra propria natura». Io parlo da padre di famiglia, con due figli grandi e uno più piccolo di 11 anni. Quest’ultimo si trova in un’età molto delicata, in cui, anche a causa dell’impatto con la prima media, si vive un piccolo ingresso nel mondo degli adulti, con l’allargarsi delle amicizie oltre la cerchia protetta della sfera familiare. Osservando dunque la fragilità della condizione di un bambino di 11 anni ho avvertito in maniera lampante la verità di una cosa che don Giussani diceva spesso: la nostra umanità si trova ad essere quasi braccata dal potere e dalla mentalità dominante, che è letteralmente a caccia delle nostre anime, e soprattutto di quelle dei bambini.
In cosa si vede questa sorta di attacco da parte del potere?
Basta guardare il tipo di aggressione con cui si cerca di fare dei bambini degli acquirenti; basta vedere la violenza, vera, ancora più nell’anima che nel corpo (perché il peggior bullismo è quello dell’anima) di ragazzini diventati adulti, cui è stata rubata l’infanzia, e la violenza con cui a questi ragazzi viene buttata addosso tutta la dinamica dei rapporti umani nella società, che sono rapporti di dominio e di possesso.
Di cosa hanno bisogno i nostri figli?
Il punto di partenza è lo sguardo che dobbiamo avere su di loro; e direi anche su noi stessi, perché la nostra umanità, anche se forse più protetta, non è comunque meno braccata della loro. Non viviamo in un’ampolla neutra, viviamo in una «selva selvaggia», dove letteralmente l’umanità, le anime, gli individui sono merce preziosa, che viene contesa da tanti padroni, ma che non trova padri. Invece, l’unica libertà, l’unica possibilità che abbiamo di sfuggire ai padroni è quella di avere dei padri. Qui sta la grande questione.
La scuola però è diversa dall’ambito familiare: come fare a realizzare anche in classe, tra insegnanti e studenti, quello stesso rapporto di paternità?
Penso a una bellissima provocazione di don Milani, con la quale scandalizzava tanti benpensanti, e cioè che gli unici che possono fare veramente i maestri sono i preti. Lo diceva come paradosso, ma intendeva dire che per essere educatori bisogna essere disposti a dare tutto. Tant’è vero che sfidava gli insegnanti dicendo loro: «siete disposti a non sposarvi?». Una provocazione che mette con le spalle al muro: l’educazione non è un mestiere. Il problema è che la scuola è immersa in questo accecamento generale, per cui non si sa nulla né di che cos’è l’umanità dei ragazzi, né di qual è la società in cui vivono, né di qual è la missione, lo scopo di chi è educatore. Ecco allora che la scuola diventa spesso il luogo dove ognuno avanza le proprie rivendicazioni, le proprie battaglie ideologiche, il tutto a spese dei ragazzi, che a scuola dovrebbero invece essere educati. È d’altronde molto facile usare i ragazzi: al tempo nostro eravamo usati come massa di manovra per progetti politici, oggi in maniera diversa, ma il problema è lo stesso.
Pensare a insegnanti come padri che danno tutto per educare i ragazzi sembra veramente in contrasto con l’immagine di maestri e professori, come vediamo in questi giorni, che coinvolgono gli studenti nelle loro proteste: non è un vero e proprio venire meno a quella paternità di cui lei parla?
È un venir meno soprattutto per l’oggetto di questo coinvolgimento. Intendo dire che se fosse per una costruzione, il coinvolgimento andrebbe bene; invece li sfruttano per affermare un interesse corporativo. Sia chiaro, professori, maestri e insegnanti hanno tutto il diritto di dire la loro opinione e di fare le loro rivendicazioni sindacali. Quello in cui sbagliano è che non hanno il diritto di usare la scuola e il rapporto educativo per fare questo tipo di battaglia. Ma questa, ripeto, è l’ultima conseguenza di uno smarrimento generale, perché quando parliamo della scuola parliamo in realtà della società, di noi. Di che padri siamo, di che uomini siamo. Purtroppo l’errore è quello di aver ridotto la scuola ad un settore: a un mestiere come un altro, per alcuni; a un settore della pubblica amministrazione, per altri; a un parcheggio, per altri ancora. È strano l’effetto che suscita il fatto di sentire mamme che difendono il tempo pieno dicendo: “altrimenti noi come facciamo, dove mettiamo i nostri bambini?”. Non ho nulla contro il tempo pieno: ma non concepisco che scelte che dovrebbero essere eminentemente educative, come i tre maestri o il tempo pieno, vengano fatte non nell’interesse dei ragazzi, ma per ragioni personali, sindacali o per salvaguardare il posto di lavoro.
Da un punto di vista culturale le occupazioni e certe proteste sindacali sono ancora un retaggio ultimo è un po’ stanco del Sessantotto…
Sì, è la rivoluzione che è diventata “para-Stato”. Ed è una cosa triste, che per di più, all’opposto, porta anche a un’ondata di ritorno: l’alternativa rispetto al “casino” è il ritorno un po’ vuoto all’ordine, al proibire e al vietare. Ma questa non è autorevolezza, e rischia anzi di divenire autoritarismo ridicolo, soprattutto perché poi in Italia diventa tutto burletta. E questo non lascia mai spazio al fatto di interrogarsi sulla mancanza di padri, che è il vero punto della questione.
Quali sono, in questa situazione, le responsabilità della politica?
Premetto una cosa: la sinistra secondo me è stata devastante, perché ha usato la scuola come luogo per soggiogare ideologicamente generazioni di giovani, rendendoli dei galoppini. D’altro canto, il rischio è che il centrodestra invece consideri la scuola soltanto un costo, come si può vedere nei tagli indiscriminati fatti sul versante dell’università. Ci sono certamente cose da tagliare, come sedi universitarie e corsi inutili; però bisogna tagliare accuratamente, non dando l’impressione che questo Paese non voglia puntare su università e ricerca. La vera urgenza è che il centrodestra, attraverso la libertà e la sussidiarietà, deve porsi l’obiettivo di far crescere le realtà e le presenze che sono veramente educative. Questa è la grande responsabilità della politica. Non è il ministro, e non è lo Stato che educa; il loro compito è un altro, aiutare cioè le realtà educative che già ci sono, e che non riguardano solo il mondo della scuola. Questa, ripeto, è la grande responsabilità, perché il deserto avanza, e l’unico modo per contrastarlo è irrigare le oasi.
CRISI FINANZIARIA/ Usa, via al risanamento. Rischi e costi di un’operazione da 700 mld di dollari - Carlo Pelanda - lunedì 22 settembre 2008 – IlSussidiario.net
La soluzione individuata in America per chiudere la crisi di finanziaria è radicale. Il governo potrà comprare i contratti dei mutui insolventi e così liberare il mercato da questi prodotti “tossici” che hanno avvelenato tutto il ciclo del credito. Due interrogativi: basterà a chiudere la crisi? Se sì, a quali costi e conseguenze?
Il Tesoro potrà comprare, da istituti statunitensi, fino a 700 miliardi di dollari di prodotti finanziari con dentro mutui insolventi. Le stime della loro quantità assoluta in quel mercato oscillano tra i 500 miliardi ed il trilione di dollari. La cifra stanziata è il massimo di spesa che il Congresso può approvare senza creare nuova, e complessa, legislazione. Ma dovrebbe bastare. In sintesi, invece che fornire liquidità e garanzie di denaro pubblico volta per volta agli istituti in crisi per le perdite nei loro bilanci, il governo statunitense ha deciso di fare un’operazione di pulizia sistemica.
Avrà l’effetto desiderato? Sembra molto probabile. Il salvataggio avrà due effetti positivi: (a) fine della crisi della fiducia e ripristino del credito nel mercato privato; (b) contenimento, e poi inversione, della caduta dei prezzi degli immobili. Il secondo effetto è tanto importante quanto il primo. I soldi statali, in sostanza, compreranno le case messe sotto sequestro per l’insolvenza dei mutui, rivalorizzandole di fatto. Lo scongelamento del credito permetterà l’accensione di nuovi mutui, a pressi accessibili, e pian piano il settore si riprenderà. I bilanci degli istituti finanziari saranno puliti e ciò rimetterà in moto i prestiti interbancari e ridurrà lo specifico saggio di interesse. Ciò ridurrà i costi dei mutui a tasso variabile e, dopo un po’, dovrebbe per effetto catena farlo anche da noi in Europa. Nel momento in cui questo avverrà il sistema del credito tornerà a girare a prezzi normali permettendo investimenti delle imprese e crediti al consumo.
Tutto bene quindi? In relazione al rischio di catastrofe sì, ma sarà inevitabile una contrazione economica nel mercato statunitense da un minimo di 8 mesi ad un massimo di 18. Il rallentamento della crescita americana, forse recessione, ridurrà la crescita globale in quanto saranno minori le esportazioni nel mercato statunitense, ancora locomotiva dell’economia globale non sostituita da altre. Ciò avverrà perché ci vuole un tempo tecnico affinché l’ottimismo, il mercato immobiliare ed il volano degli investimenti si rimettano in moto. Comunque ci sarà la ripresa anche favorita, se non vi saranno guerre, dal fatto che la tendenza recessiva globale tiene bassa la domanda di petrolio riducendone il prezzo. Ma ci sono dei dubbi sull’entità della ripresa futura, in particolare sulla capacità dell’America di crescere tanto e trainare tutto il mondo. Il debito americano aumenterà perché i 700 miliardi di dollari, più altri per diverse misure stimolative o di garanzia, verranno ricavati dall’emissione di titoli. C’è un rischio di inflazione ed uno di compressione del valore di cambio del dollaro. Inoltre il sistema del credito in America, pur tornando fluido, sarà più restrittivo e ciò pomperà meno sangue nel corpo reale dell’economia. Sono rischi veri? Difficile dirlo ora. In realtà il salvataggio, comprando case poi rivendibili, potrebbe essere perfino un profitto per lo Stato. Il cambio dipende dalla relazione con altre monete/economie e nessuna sta meglio di quella americana. L’inflazione non è così certa. Non possiamo ancora scommettere, ma le sensazioni sono ottimistiche.
Il fallimento Lehman Brothers e le conseguenze di un mercato “virtuale” - Graziano Tarantini - lunedì 22 settembre 2008 – IlSussidiario.net
Quello di Lehman Brothers è considerato il più grande fallimento della storia. Di gran lunga più pesante dei crac di Enron e del gigante hi-tech Worldcom. In questo caso, dopo i salvataggi prima di Bear Stern attraverso Jp Morgan, e poi di Fannie Mae e Freddie Mac con l’intervento diretto del governo federale, la Casa Bianca non si è mossa. Il mercato così ha sancito la fine di un’impresa bancaria nata 158 anni fa. Di fatto si chiude anche l’epoca iniziata dopo la crisi del ’29, che portò alla netta separazione tra banche commerciali e di investimento. Si torna così a premiare gli intermediari che possiedono una rete di sportelli capaci di raccogliere capitali in proprio. E questo è un primo passo verso la necessità di riprendere un legame con la realtà, dunque con i bisogni e con le opportunità dell’economia reale.
Con oltre 600 miliardi di attivi e solo 30 di capitale proprio, Lehman non poteva stare in piedi per il semplice fatto che operava con una leva - quindi con soldi di altri - insostenibile dopo una crisi come quella dell’ultimo anno. Per fortuna gli effetti negativi sui mercati finanziari sono stati in parte contenuti dall’acquisto nelle stesse ore di Merrill Lynch da parte di Bank of America e, successivamente, dal salvagente lanciato dalla Fed al colosso assicurativo AIG, con un prestito di 85 miliardi di dollari in cambio dell’80% del capitale azionario.
Una prima domanda che molti si pongono è sul ruolo delle authority preposte al controllo: dov’erano? Sono ancora idonee? Non è un caso che Lester Thurow, uno dei massimi economisti americani, suggerisca di regolamentare di nuovo il mercato, per evitare che si ripeta la crisi nel giro di qualche anno.
Ma l’economista risponde anche a una seconda domanda altrettanto ricorrente: si può ancora avere una fiducia cieca nel libero mercato? A suo giudizio il governo degli Stati Uniti non ne ha avuta. Ha mostrato una buona dose di pragmatismo salvando alcune banche e, quindi, evitando per ora il tonfo del ’29 che ebbe luogo proprio perché l’allora presidente Hoover si rifiutò di intervenire con denaro pubblico a sostegno del sistema bancario.
Una terza domanda è infine opportuna: il mercato, in questo caso il listino di borsa, è un indicatore ancora credibile del valore di un’azienda? Due grandi banche, due protagonisti della storia americana e mondiale come Merrill Lynch e Lehman Brothers oggi non compaiono più nel listino di Wall Street. Basti pensare che un’azione di Lehman a gennaio valeva 60 dollari e venerdì scorso solo 3,5 dollari, in uno scenario tutto sommato immutato.
Non voglio discutere del valore del mercato ma di alcuni suoi limiti nella comprensione dei dati che conferiscono valore all’economia. Oltre all’opportuna rivisitazione della normativa di vigilanza e al funzionamento dei controlli, servono anche profonde riflessioni di natura culturale, cioè una riconsiderazione delle idee che hanno determinato le attuali strutture dell’economia capitalistica di mercato. Questo per le banche, e per il sistema finanziario in generale, significa che:
- la crisi attuale dà ragione a chi dice che le banche, oltre a essere imprese, svolgono anche il ruolo di infrastrutture, quindi si pongono nell’area del quasi-mercato (un loro fallimento produce sempre un effetto domino oggi difficile da circoscrivere);
- bisogna tornare a legare maggiormente le banche al territorio di riferimento; si accrescono così le responsabilità e si migliora la conoscenza, e quindi l’operatività con prodotti mirati;
- occorre premiare tutti i fattori che contribuiscono alla creazione di ricchezza duratura (quindi vanno ripensati anzitutto i parametri a cui legare le stock option e ogni altra forma di incentivo del management);
- la crisi evidenzia infine che i soldi vanno prestati soprattutto a chi ha capacità e rischia con concreti progetti imprenditoriali. E proprio per svolgere tale compito di selezione e sostegno, il sistema bancario è chiamato a rinnovarsi sul piano qualitativo.
DIBATTITO/ Alberoni: fuori da un legame non c’è libertà, ma solo distrazione - INT. Francesco Alberoni - lunedì 22 settembre 2008 – IlSussidiario.net
Professor Alberoni, nel discorso al Collège des Bernardins di Parigi Benedetto XVI ha parlato di «tensione tra legame e libertà» come di uno dei fondamenti della nostra cultura, e, viceversa, ha messo in guardia da una concezione della libertà come «mancanza totale di legami». Come si realizza questo rapporto tra libertà e legame?
La libertà per esprimersi ha bisogno degli estremi di una scelta. C’è un bellissimo testo di Sartre in cui egli dice che l’amore è libertà. È vero: io non posso amare una persona se lei non è libera di amarmi. Nel momento in cui sono convinto che lei è schiava, non posso più amarla. Io desidero che lei mi ami, e faccio di tutto perché questo accada; ma nel momento in cui lei, sottoposta a costrizione, divenisse schiava io non potrei più amarla. Nell’amore umano, così come anche nell’amore mistico, l’altro mette in discussione il tuo amore. L’amore te lo devi sempre guadagnare, e lo devi sempre ottenere per grazia: non ti è mai concesso per sempre. Gli innamorati domandano sempre all’altro: “mi ami?” E così anche il mistico chiede sempre a Dio: “fatti vedere, mostrati”, perché Dio può scomparire, può allontanarsi. In questo senso la libertà realizza il suo massimo proprio all’interno di un legame forte, com’è il legame amoroso.
Eppure siamo spesso propensi a pensare al legame come qualcosa che, appunto, “lega”, e quindi non lascia liberi: non le sembra paradossale che proprio nel legame si eserciti la libertà?
Ma se uno non sceglie non esercita la libertà! Se hai di fronte mille tartine, solo quando ne scegli una eserciti la tua libertà. È forse libertà quella di assaggiarle tutte, di passare da una tartina all’altra? È proprio concettualmente, filosoficamente che non lo è. Se una persona passa da una cosa all’altra, come un vagabondo, non si trova in una situazione di esercizio della libertà, bensì di distrazione. Facciamo un altro esempio: se vivo sotto un regime dittatoriale, non sono libero perché non posso accedere a determinate comunicazioni e a determinati messaggi; nel momento invece in cui mi ritrovassi improvvisamente nella possibilità di accedere a tutte le fonti di informazione, ma non me ne importasse niente e l’una o l’altra fossero per me indifferenti, non inizierei certo ad esercitare la mia libertà. Avrei solo potenzialmente la libertà di scegliere, ma non in atto.
Bauman, come ricordava un nostro recente editoriale, ha parlato, a tal proposito, di “società liquida”, in cui non esistono legami duraturi: condivide questa analisi?
Bauman è partito dallo studio di determinate relazioni per poi trarne regole di carattere generale, parlando così di “società liquida”, di “amore liquido”, di “impresa liquida”. Come sempre le generalizzazioni universali partono da un punto di verità, ma rischiano di diventare una sciocchezza proprio nel momento in cui questi punti di partenza vengono generalizzati. È molto difficile immaginare, ad esempio, che la Cina, l’impero cinese, nella fase in cui risorge, non abbia al suo interno dei legami forti. Lo stesso vale per l’Islam: non solo l’integralismo islamico, ma in genere la società islamica ha al suo interno legami molto forti. Quindi quel che Bauman dice vale solo per la realtà occidentale. Questo è un errore in cui i sociologi cadono spesso: quando parlano del mondo, parlano in realtà del gruppo che sta intorno a loro, e poi lo generalizzano.
Limitando allora il discorso alla sola società occidentale, quella in cui noi viviamo, possiamo dire di trovarci in una situazione in cui si ha difficoltà a stringere legami forti?
Se restiamo all’interno della nostra società e del nostro orizzonte, allora questa considerazione può essere giudicata vera in ambiti diversi, sia per quanto riguarda, ad esempio, la lealtà verso le imprese, come anche per una certa fragilità nelle relazioni erotiche. È vero che nella nostra società c’è una certa mobilità, e “liquido” vuol dire proprio questo, non essere in grado di creare legami stabili con un ambiente definito. Lo studente che viaggia, che fa un master da una parte e poi si sposta altrove per lavoro, è evidente che stabilisce relazioni precarie, come ad esempio quelle del navigante di un tempo. Ma non dobbiamo dimenticare che queste sono caratteristiche legate a fasi storiche. L’impressione negativa che mi dà Bauman è quella di dire: da qui all’eternità la situazione è questa, o peggiorerà. Io non ne sono assolutamente sicuro. Se si descrive un fatto storico mi va bene: ma se se ne vuole fare una legge generale, non ci sono prove, e nessuno può stabilirlo. L’accadimento storico è per sua natura imprevedibile.
Sembra di capire che lei abbia una visione più ottimistica della nostra società.
Dico semplicemente che non è vero che gli esseri umani non continuano a stabilire legami forti. Poche donne hanno figli, questo è vero, e il rapporto con il figlio si è ridotto di importanza, ma non possiamo affatto dire che sia stato eliminato. Le donne che hanno figli instaurano con loro un legame forte, che va anche al di là della prima infanzia. Non c’è nessun segno che il legame tra genitori e figli sia più debole che nel passato. Un altro caso è quello dei rapporti amorosi: è vero che la situazione è cambiata, che è stato separato il sesso dalla riproduzione, che c’è una tendenza ad avere rapporti erotici più che amorosi, con legami più deboli. Ma non è affatto vero che la gente non si innamora, che non ci sia chi perde la vita dietro a un amore. Ci si innamora esattamente come prima; e la riprova di questo è che le vicende erotiche sono esse stesse causa di grandi dolori. Quando una persona ama un’altra e questa va con una terza, quella sta malissimo esattamente come stava male cent’anni fa. La natura umana non è cambiata. Un conto è dire che c’è l’amore “liquido”, un altro è dire che non ci sono più amori solidi. Questo è l’errore di cui parlavo prima: che nel tentativo di costruire una legge universale ci si dimentica di guardare la realtà che ci circonda.
NEXT GENERATION/ In Inghilterra sostegni economici per le madri che restano a casa: un esempio anche per l’Italia? - Mauro Bottarelli - lunedì 22 settembre 2008 – IlSussidiario.net
Il dibattito nato dallo studio “The next generation” condotto dal Centre for Social Justice, il think tank conservatore guidato da Iain Duncan Smith, rischia di essere pesantemente condizionato dall’incompletezza con cui è stato presentato lo stesso documento.
Porre l’accento sulle fantomatiche 500 sterline alla settimana che verrebbero accordate alle madri che decidono di non lavorare e restare a casa con i figli per i primi tre anni di vita è riduttivo oltre che mistificante: all’interno dello studio non si parla di cifre precise e soprattutto le politiche che vengono presentate come possibile soluzione alla crisi della gioventù in Gran Bretagna sono un mix di ricollocazione delle politiche del primo Labour di Tony Blair (ovvero il programma Sure Start e i tax credits, i crediti d’imposta) e una forte iniezione di sussidiarietà, basata sulla ricostruzione sociale e umana dei quartieri.
La base è infatti quella che ruota attorno alle nursery sociali, i Family Services Hubs, queste sì fortemente finanziate dallo Stato, gestite dalla comunità e in grado di garantire un controllo oltre che sociale e pedagogico anche territoriale, nel senso che chi abita in una zona ne conosce le problematiche meglio di chi vi viene catapultato dall’esterno per mera ragione di collocazione occupazionale. Queste strutture nasceranno dalle ceneri di attività già esistenti e vedranno coinvolti professionisti come volontari, tutti abilitati da corsi ad hoc.
Inoltre la politica di 20 sterline settimanali di tax allowances viene ampliata al di là del mero nucleo familiare (padre, madre, figli) a patto che sia comprovato che il membro familiare “esterno” badi realmente alla crescita e all’educazione del bambino. Inoltre sarà reso flessibile il meccanismo di elargizione dei benefit per l’infanzia, il cui ammontare verrà ampliato e reso facilmente ottenibile in forme più rapide e di maggior importo proprio per il periodo che va dagli 0 ai 3 anni. Ovvero quello più delicato e durante il quale un’entrata extra può consentire, questo sì, di poter veramente passare più tempo con i figli magari optando per un lavoro part-time.
Nascerà poi l’Early Years Internet Portal, un portale telematico nel quale trovare tutto senza dover impazzire tra mille siti e uffici: informazioni, documenti scaricabili, indirizzi, insomma il classico one-stop-shop, ovvero il posto dove si trova tutto. Appare quindi fuorviante basare il ragionamento riguardo quelli che ad oggi sono solo i riscontri di un think tank - e non ancora le politiche definitive di un possibile governo conservatore - come una tantum in odore di assistenzialismo: il programma avanzato dal Centre for Social Justice si basa soprattutto su un concetto nuovo per la politica inglese - Tory in particolare - ovvero il concetto sussidiario di delocalizzazione, responsabilizzazione e sostegno indiretto.
Insomma, dopo le strambe sparate di chi voleva punire con pene pecuniarie o addirittura detentive i genitori dei figli che si rendevano protagonisti di atti criminali (la fallimentare esperienza degli Asbo avrebbe dovuto insegnare qualcosa al riguardo), si comincia a ragionare partendo dalla persona. Che ha certamente bisogno dello Stato e del suo aiuto economico ma ha soprattutto necessità di una nuova capacità di ripartire dal bene comune. E David Cameron pare averlo capito: la sua sfida più grande sarà proprio questa.
Russia: gli effetti della crisi finanziaria su un popolo "dimenticato" - Aleksander Archangelskij - lunedì 22 settembre 2008 – IlSussidiario.net
Non esiste nessun legame diretto tra la morte clinica del mercato azionario russo e il riconoscimento dell’Ossezia e dell’Abchazia.
Se non fosse per la bufera mondiale che imperversa e perché è arrivato il momento di pagare il conto dell’arrischiato incremento degli anni scorsi, ce la saremmo potuta cavare benissimo. E anche con l’Ossezia e l’Abchazia. Avremmo potuto tirare avanti tranquillamente, magari non in maniera eccelsa, ma senza passarcela neppure troppo male.
Tanto più che in Russia a giocare nel mercato fondiario sono così in pochi, che le sue oscillazioni non colpiscono direttamente l’uomo della strada. Colpiscono gli americani, che in questo mercato hanno investito strategicamente denari considerevoli. Solo la situazione mondiale ha indotto gli investitori ad insospettirsi al momento del rifiuto della WTO come obiettivo di negoziati, perché noi non viviamo nella repubblica delle banane, e la carota si usa solo con gli asini.
L’uomo della strada è addirittura contento; per lui la WTO non comporta alcun beneficio, anzi le limitazioni in campo agricolo sono svantaggiose. E che cosa importa al banchiere americano che investe sul mercato russo, se noi entriamo o no nella WTO? Che cosa siamo, la repubblica delle banane o dei cedri? Lui se ne infischia di tutte le strategie di sviluppo della Russia. Gli basta che i profitti siano alti, e l’instabilità monetaria, possibilmente, bassa. Quindi, bisogna riconoscerlo: le decisioni degli ultimi mesi, che in gran parte sono state imposte dalle decisioni di tutti gli ultimi anni, di per sé automaticamente, non comportano necessariamente il crollo del mercato. Purtroppo però è vero anche il contrario. Non ci fossero state, la frana non si sarebbe verificata in queste proporzioni, non avrebbe avuto questa violenza ingovernabile. E questo perché le decisioni degli ultimi mesi non si sono basate sulle possibilità del Paese, non rispondevano alle sue finalità reali, hanno rafforzato la sensazione di rischio, hanno polverizzato l’energia del potere e hanno distolto dal prendere le dovute misure negli ambiti che realmente influiscono sulle sorti della Russia.
In altri termini, hanno preparato le condizioni perché la Russia risultasse l’anello più debole nella grave crisi finanziaria. A proposito delle possibilità. C’è una regola, semplice, che è la pace. Se hai un mercato fondiario manovrato dall’estero, dove i soldi sono principalmente di altri, cerca di litigare con il resto del mondo solo nel caso in cui sia impossibile far diversamente. Ad esempio, se ammazzano i civili. Se invece si può far a meno di litigare, sta’ fermo. L’orgoglio patriottico (“gliel’abbiamo fatta vedere!”), darà anche soddisfazione, ma è una soddisfazione totalmente irresponsabile. Non sarà questo sentimento a rispondere delle conseguenze. Del fatto che gli investitori impauriti faranno marcia indietro. Nei problemi dell’ambito del petrolio. Nel campo tributario. Nella situazione dei trasporti aerei. Nei costi dei missili Bulava quando abbiamo dei carri armati obsoleti. Come dice il proverbio: sta’ attento a non fare il passo più lungo della gamba. A proposito delle decisioni prese: nella riunione convocata urgentemente il 18 settembre Medvedev ha pronunciato una frase cruciale. «il potere oggi ha come obiettivo prioritario sostenere la stabilità finanziaria». E ha comunicato lo stanziamento di mezzo trilione di rubli a sostegno del mercato. E la riduzione delle riserve. E la diminuzione dei dazi sull’esportazione del petrolio.
Ma erano parole da pronunciare ieri, l’altro ieri, o fors’anche una settimana fa. Il fatto è che ieri il presidente era interamente assorbito dall’accordo di amicizia con l’Abchazia, come si fa a trattarla diversamente dall’Ossezia meridionale!
Non faccio assolutamente dell’ironia, constato semplicemente la triste realtà. Questo processo che ormai si osserva da tempo è troppo accentuato per poterlo esautorare. E come tale è inevitabile. Perché con una decisione politica si può aprire un vaso di Pandora. Oppure una gran matrioshka. Da cui poi bisogna continuamente tirar fuori di volta in volta altre matrioshke, sempre più piccole. E non si può più fermarsi, finché non si arriva alla fine. Prima di arrivare alla fine d’anno salteranno altri grossi istituti; la gente inizierà a cercar lavoro; il mercato del lavoro comincerà a calare i prezzi. Sia per quanti sono alla ricerca, sia per quelli che l’hanno già trovato. I crediti si insabbieranno, i prezzi degli immobili cominceranno inevitabilmente a scendere, ma saranno anche di meno i compratori solvibili pure a questi prezzi inferiori. Le banche medio-piccole vacilleranno, l’inflazione avrà un’impennata.
Ormai, tutto questo è inevitabile. Ma le proporzioni della calamità sarebbero state completamente diverse, se la politica non avesse servito ambizioni imperialistiche a scoppio ritardato, ma piuttosto i reali bisogni della popolazione russa. Del resto l’America, che i governanti russi amano tanto additare (condannandola e invidiandola), all’inizio si è preoccupata si assicurare al cittadino americano un livello di vita dignitoso, e poi si è buttata a riformare tutto il mondo (magari era meglio che si fermasse alla prima fase). Conclusione. Quel che stato è stato, non si può tornare indietro, ma solo tentare di porre qualche rimedio. Si può però cercare di salvaguardarsi in futuro dal ricreare i problemi attuali, sviluppando la politica interna, all’insegna di un sano egoismo preoccupato di salvaguardare gli interessi della nazione.
(Articolo pubblicato il 18/09(2008 e tratto dalla rubrica personale dell'autore sull'agenzia "RIA Novosti")