Nella rassegna stampa di oggi:
1) IO GIACCIO CON LA VERGINITA’ - Al Meeting di Rimini c’è un bambino fuggito verso Gesù, travolto dal ’68, toccato dall’amore e graziato dalla depressione. Giussani ne ha fatto lo sposo della purezza e il padre degli ultimi..., di Don Aldo Trento
2) Rotondi: «E ora facciamo i Dico» - Un versione riveduta e corretta dei Dico. Una proposta di legge sulla quale contano di far convergere anche l'opposizione. È questa l'intenzione del cattolico Rotondi e del laico Brunetta che stanno scrivendo a quattro mani il provvedimento con l'intenzione di presentarlo in Parlamento per novembre e aprire una discussione nel mondo laico e cattolico... La nuova legge che Rotondi anticipa a Il Tempo, riguarderà tutte le coppie, anche gay
3) La nuova legge spagnola potrebbe portare gli aborti a 230.000 all'anno - Monsignor Sebastián: "La Spagna diventerà la patria dell'aborto in Europa"
4) Stare con Cristo, "forma perfetta dell'esistenza cristiana", dice il Papa
5) L’aborto è la sconfitta dell’Europa - Carlo Casini lancia una petizione per riconoscere la vita dal concepimento
6) BIOPOLITICA/ Quando l’obiezione di coscienza non basta più - INT. Assuntina Morresi
7) Quando Gadamer si espose al fuoco di fila degli studenti - La ferita salutare di una vera domanda - "Processo esegetico ed ermeneutica credente" è il tema della quarantesima Settimana nazionale biblica in corso fino al 12 settembre a Roma. Pubblichiamo la prima parte della relazione inaugurale - di Bruno Forte - Arcivescovo di Chieti-Vasto, Osservatore Romano 10.9.2008
8) Le elezioni americane più importanti dal 1980 - Che cosa c’è in ballo (punto per punto) nella gara tra Obama e McCain, dal Foglio.it
9) Caffarra: assordante silenzio dei media - L’arcivescovo di Bologna: «Il martire esalta la dignità della persona». Dai fratelli indiani «il più grande insegnamento», Avvenire, 10 set. 08
ANNO XIII NUMERO 235 - PAG II IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 30 AGOSTO 2008
IO GIACCIO CON LA VERGINITA’ - Al Meeting di Rimini c’è un bambino fuggito verso Gesù, travolto dal ’68, toccato dall’amore e graziato dalla depressione. Giussani ne ha fatto lo sposo della purezza e il padre degli ultimi...
di don Aldo Trento
Missionario della Fraternità sacerdotale San Carlo Borromeo in Paraguay dal 1989, don Aldo Trento ha sessantadue anni. Bellunese, parroco della chiesa di San Rafael ad Asunción, dal 2004 è responsabile della clinica per malati terminali intitolata a san Riccardo Pampuri. In questo luogo arrivano pazienti in fin di vita, malati di cancro o di Aids, e persone abbandonate a loro stesse, che non hanno più nessuno in grado di accudirle. Il 2 giugno di quest’anno il presidente della Repubblica italiana gli ha conferito il titolo di Cavaliere dell’Ordine della Stella della solidarietà. Il testo qui pubblicato è il discorso tenuto al Meeting di Rimini giovedì 28 agosto all’interno del ciclo di incontri intitolati: “Si può vivere così”.
“Corazón maldito por què palpitas?”, “Cuore maledetto perché batti?”, dice Violeta Parra. E poi: “Gracias alla vida che m’ha dato tanto”. E poco tempo dopo si toglie la vita. Perché incomincio così?
Perché vorrei riprendere qui quello che mi ha commosso molti anni fa quando Giussani ha detto: “Vi auguro di non essere mai tranquilli”.
Luglio 2008, sono lì con i bebè (che cura nella sua casa in Paraguay e lo chiamano “papà”, ndr) a cui sto dando il biberon.
Torna Cristina, la mamma che mi aiuta coi bambini piccoli malati di Aids o violentati, tornano con le pagelle, li metto in girotondo, leggo le pagelle. Lì si va dall’uno al cinque. Uno, uno, uno, uno, tutti uno. Sorrido e gli dico: “Assomigliate a vostro padre che ha sempre avuto problemi di scuola e di risultati, era buono a nulla. ‘Placido si chiamava’ e spera di diventare Santo.
Però c’è un motivo che mi fa contento. Perché nella vita la cosa difficile non è passare da uno a cinque, ma da zero a uno, e voi da febbraio a luglio siete passati da zero a uno”. Poi ho spiegato alla mamma cosa volevo dire. Bene, io sono questo ragazzino di sessantadue anni che forse è arrivato a due, per pura grazia divina. Per questo più che parlarvi delle opere, ho scritto in omaggio a Giussani, perché io vivo di lui: è lui, è Dio, è lui dietro tutto quello che potete vedere o leggere. “Padre Aldo – mi disse Giussani – ho deciso, adesso che stai diventando un uomo, di
mandarti in Paraguay”. “Ma come, mio fratello mi ha detto che sarebbe meglio che mi ricoverassi al reparto per esauriti mentali a Feltre, vista la grande depressione che sto vivendo, una malattia inattesa che mi ha tolto la voglia di vivere, che mi ha portato d’improvviso a perdere il gusto della vita, mi ha reso difficile ma non impossibile il nesso con la realtà e, tu, mi vuoi mandare in missione?”.
Giussani mi guardò come quella volta che Gesù fissò con tenerezza il giovane ricco, Zaccheo, la Maddalena, Matteo e mi disse: “Ebbene, io ti mando in missione perché solo adesso mi sento sicuro di te. Parti. Ti faranno il biglietto e io ti accompagnerò a Linate con lei e i suoi tre bambini”. Era il maggio del 1989, a Riva del Garda. Ma cosa era successo prima, perché mi accadesse tutto questo? Perché il Giuss mi prendesse per mano e mi dicesse quelle parole?
A sette anni la chiamata chiara ad essere tutto di Gesù. Cinquant’anni fa, il 28 luglio 1958, abbandonai la mia famiglia alla quale non chiesi il permesso, semplicemente la posi al corrente della decisione e in autostop fermai un trattore che mi portò in seminario. Mia madre mi guardava sbalordita e incredula dalla finestra e piangeva, e io: “Mamma verrai a trovarmi?”, ed il trattore si avviò lentamente verso un destino in cui era chiara una sola cosa in me, dentro la mia irrequietezza: Gesù mi voleva tutto, tutto per sé. Molti anni più tardi compresi che tutto questo si chiamava verginità, che è la bellezza, lo stupore, la capacità di commuoversi di fronte alla realtà, paternità, pienezza affettiva. Il seminario: anni difficili, belli e rabbiosi.
Finalmente, nel pieno della contestazione del ’68, nel ’71 mi ordinano sacerdote.
Dubitavo che mi ammettessero.
Ero totalmente di Cristo, ma l’insoddisfazione e il desiderio di un mondo nuovo, l’irrequietezza per un vuoto esistenzialmente e socialmente poco interessante, mi portò a simpatizzare per Potere Operaio. L’ideologia piano piano cercava di riempire quel vuoto, ma il male di vivere già faceva capolino dentro le fibre del mio cuore e si manifestava in ribellione. Così mi spedirono a Salerno, fra i figli dei carcerati, per vedere se entravo nell’ordine, nel politicamente corretto, diremmo oggi. Lì un giorno quattro ragazzini di Battipaglia, come un fulmine, cambiarono la mia vita. Prima avevo partecipato a organizzare uno sciopero contro l’imperialismo del Vietnam e insegnavo la teoria di Paulo Freire invece di religione.
Quei ragazzi mi dissero: “Professore non è così che lei cambia il mondo, il mondo cambia se cambia lei, e lei cambia se si lascia amare da Gesù”.
Sconvolto da quel momento, una possibilità di vita nuova apparì nell’orizzonte della mia vita: potevo prendere sul serio la mia umanità senza paura, senza censurare niente. Le cose però precipitarono e i miei superiori mi spedirono al nord, vicino a mia madre, per vedere un possibile miracolo nella mia vita.
Così mi stabilii a Feltre, in provincia di Belluno. Tutto continuava in una guerra interiore tra l’ideologia e il vuoto esistenziale, la domanda sul perché della vita e una aridità affettiva terribile, perché si era pietrificato il cuore. Si diceva (e l’avevo imparato a memoria): “Il privato non esiste, ciò che conta è il politico”. Due anni durissimi dove solo quella scintilla accesa a Salerno mi dava una fragile speranza.
Però la disperazione cresceva e fu così che un giorno un amico mi invitò ad un’assemblea a Padova con don Giussani.
Sul palco, ricordo come adesso, ad un certo momento salì una giovane bella donna, vedova con tre bambini piccoli, lesse il suo dramma e la sua fede di fronte a quanto le era accaduto. Rimasi sconvolto e da quel gennaio ’87 non ebbi più pace. Ero rimasto affascinato.
Un fascino che dopo alcuni mesi si trasformò in una grande affezione. Mi sembrava di sognare.
Ma date le reciproche condizioni di vita il tutto sfociò in disperazione che diventerà presto una depressione che non mi abbandonerà più. Da quel momento mi spaventai perché non potevo credere che la mia umanità fosse un impasto di desideri, di aspirazione di infinito, di amare e di essere amato, di bellezza e di giustizia e anche di gelosia e di possessività.
Ma che fare?
Il grido, l’umano è solo grido, mi rese mendicante; mendicante di un rapporto di qualcuno che mi facesse vedere che quell’affetto non solo era incompatibile con quello che ero, con il mio sacerdozio, ma era come il cammino necessario per gustare la bellezza della verginità, il possesso senza possedere, per vincere quel vuoto affettivo riempito per anni dall’anestesia dell’ideologia.
E così il 25 marzo 1988, in ginocchio, piangendo, andai da Giussani.
Mi accolse come lui sapeva fare, perché nel suo cuore c’era posto per uno come per un milione. Mi abbracciò, mi lasciò piangere, mi dette le caramelle dopo un lungo tempo di singhiozzi e mi disse: “Che bello, adesso finalmente cominci ad essere un uomo! Quanto stai vivendo è una grazia per te, per lei, per i suoi figli, per il movimento e per la Chiesa.
Vai e porta loro l’uovo di Pasqua”.
Da quel giorno fino alla sua morte mi tenne con sé.
Prima di uscire da quella stanza a Milano mi richiamò indietro e mi disse: “Come sarebbe bello che quest’estate qualcuno ti facesse compagnia!”.
Lo guardai e dissi: “Ma Giussani, dove potrei incontrare un uomo, un prete, disposto a condividere l’estate con uno schizzato, un ossesso, con tutto quello che devono fare?”.
Mi fissò come Gesù: “Va bene, ti porterò via con me”.
Per due mesi, fino alla partenza per il Paraguay, mi tenne con sé, pagandomi tutto e trasferendomi dalla mia prima congregazione alla Fraternità San Carlo.
Don Massimo Camisasca (rettore della Fraternità sacerdotale San Carlo ndr) si vide arrivare questo pacco, questo povero uomo, buono a nulla, nelle sue mani e mi accolse. “Prendere sul serio la propria umanità senza censurarla – dice Giussani in “Tracce d’esperienza cristiana” – è la strada necessaria perché riaccada l’incontro con Cristo”. Ma che terribile, che bella la propria umanità così fragile, così povera e grande allo stesso tempo! Mi ha fatto paura il mio io. Non pensavo che l’umano fosse una miscela, un insieme di queste cose belle e disperate, che fosse insieme ironia e disperazione.
Così per non perdere quanto amavo, mi accompagnò all’aeroporto e volle che ci fosse quel segno sacramentale dell’amore divino con i suoi tre bambini.
Ricordo, quando con gli occhi rossi sul marciapiede di Linate, guardando lei sofferente dissi a Giussani: “E lei?”.
La guardò e le disse: “Al prossimo ritiro del Gruppo adulto ti aspetto (il Gruppo adulto, o Memores Domini, è un’associazione che riunisce le persone di Comunione e Liberazione che hanno compiuto una scelta di dedizione totale a Dio vivendo come forma la virtù che la Chiesa chiama verginità, ndr)”.
Era il giorno della natività della Madonna quando giunsi in Paraguay. Passò un anno e il 15 ottobre 1990, giorno del compleanno di Giuss, mi chiamò lui per telefono: “Padre Aldo, chiama lei e dille che il direttivo del gruppo adulto ha deciso di accoglierla nel suo grembo”. Non riuscii neanche ad augurargli “buon compleanno” per la commozione, perché non potevo capire tanta tenerezza sua e tanta umanità. Non poteva fare lui questa cosa? Dirglielo lui! Perché si preoccupa che sia io a dirlo a lei, che stavo a dodicimila chilometri di distanza?
Solo un uomo come lui poteva essere capace di amare così. Da quel giorno sono dovuti passare quindici lunghi anni
dove solo la compagnia di Padre Alberto, continuità visibile di quella del Giuss, non solo ha impedito che la facessi finita con la vita, diventata insopportabile per l’acuirsi ogni giorno di più della depressione, ma mi ha fatto lentamente capire una cosa essenziale nella vita: solo un grande amore, un grande dolore, dentro la forte tenera amicizia, per quanto fragile, fanno di un io un uomo, cioè un padre.
Padre Alberto ha vissuto per dieci anni solo per far compagnia ad un disperato, dibattuto fra la percezione che amare ed essere amato è possibile e la crudeltà della vita che pareva fregarmi.
Ma la realtà, l’umano di ognuno, non sono mai nemici dell’io neanche quando ti rendi conto che non ti fanno nessuno sconto. Perché vi garantisco, è terribile prendere sul serio la realtà, la propria umanità. Perché non puoi che gridare, mendicare, consegnarti, come da quando ho sette anni a oggi continuo a gridare.
E così ad un certo punto Dio, la realtà mi toglie anche la compagnia di Alberto e rimango solo. Solo col mio dramma, con la mia non voglia di vivere, con la mia stanchezza.
L’unico conforto, da quel momento, sarà l’eucarestia che porrò come parroco e signore di tutto.
Da lontano Alberto e Monsignor Pezzi mi guidano ogni giorno: “Aldo, in alto i cuori!”. La chiarezza del destino, pur nella confusione della mente e nell’assenza di ogni emotività; la percezione della distanza come condizione del “già”, di una possibile pienezza affettiva, l’unica che fa di un uomo un uomo; la possibilità di amare virilmente colei che Dio mi aveva posto sul cammino come inizio di un cambiamento: tutto questo si chiama verginità che ha dato origine a quella piccola città della carità che, in compagnia di Paolino ed Ettore, è diventata la comunità di San Rafael in Paraguay.
La verginità, ossia la carità, è la pienezza oggi, è come l’albore dell’io a cui è data la grazia di sperimentare adesso quello che ogni ragazzino con la tenerezza che porta dentro dice alla sua ragazzina, quando si innamora: “Tuo per sempre, ti voglio bene per sempre”.
In fondo siamo realisti, aveva ragione Camus quando metteva in bocca a Caligola: “Voglio la luna”. O quanto scriveva Carl Marx a sua moglie: “Ciò che fa di me un uomo è il mio amore per te e il tuo per me”. Si ama, si è padri solo se si è amati, attraversando tutte le belle, drammatiche e ironiche pieghe dell’umano.
Io vivo facendo compagnia all’uomo che grida, piccolo, giovane o ammalato terminale che sia.
Quanto è nato e creato da Dio, mediante questo povero uomo, è stato da Lui voluto perché io possa fare a tutti quello che Giussani ha fatto a me: compagnia.
E’ così che quando ho visto per la prima volta un cadavere per la strada me lo sono preso, l’ho portato a casa, l’ho pulito. E così di giorno in giorno. Ho preso i moribondi, gli abbandonati, quelli putrefatti, delle favelas.
E Dio ha creato quell’insieme di opere che oggi vedono impegnate più di 100 persone pagate e centinaia di volontari.
L’uomo sano, bello o putrefatto non ha bisogno di consigli, ma di qualcuno che lo tenga per mano.
Prendere sul serio il grido che siamo. Dare fiducia a qualcuno che Dio certamente mette sul tuo cammino per indicarti il destino.
Accogliere il sacrificio, il dolore, non come una malattia ma come una grazia.
Ricordo un editoriale su un settimanale di molti anni fa, in Paraguay, l’Osservatore
della settimana: “La depressione non è una malattia ma una grazia”.
Un senatore molto conosciuto si avvicina dopo avermi cercato.
Voleva togliersi la vita: questo editoriale lo cambia. Da quel momento diventa un altro.
Presiede la commissione Bicamerale.
Riesce a mettere tutte le nostre opere nella legge finanziaria. Così un governo del terzo mondo applica un articolo in cui sostiene, finanzia per mille milioni, duecentocinquantamila dollari, un’opera di una realtà che certamente non ha appoggiato il governo attuale.
Una cosa impressionante; e così tutto quello che viene dopo.
La depressione non è una malattia, è una grazia, perché ti spoglia di tutto. Oggi la chiamano malattia, un tempo la chiamavano purificazione, notte dell’anima, possibilità alla santità: per me è ancora quello. Per questo oggi raccolgo anche i matti. Mi facevano tremendamente paura anni fa, perché mi vedevo un possibile candidato ad essere uno di loro. Oggi li guardo con ironia e rido con loro perché anche nella pazzia ho visto che in tutti c’è un minimo di libertà. Perché ho sperimentato che se non fosse vero questo non esisterebbe Dio, perché non ci sarebbe l’uomo. L’uomo è libero anche quando perde la ragione. Ho la certezza perché l’ho visto su di me.
Voglio dire che realmente il dolore è una grazia che ti permette di essere contento perché ti permette di amare, ti permette di vivere la verginità, che è l’unica e reale e concreta vocazione dell’uomo: la pienezza dell’io.
Perché cos’è la verginità? L’io compiuto già come possibilità adesso, come possibilità affettiva. Grazie Gesù per il tanto amore, per il tanto dolore che mi permetti di vivere ogni giorno. Stretto a te sulla croce per poter dire a tutti: “Ti voglio bene per l’eternità, così come io sono voluto bene adesso da te oh Gesù”.
Davvero si è compiuta quella promessa.
Io a 62 anni sono un uomo contento dentro un inizio di compiutezza che mi fa guardare la morte con serenità. Ho accompagnato a morire più di cinquecento persone in quattro anni. Tutte con il sorriso sulle labbra. Son diventato padre di decine di bambini che non hanno nessuno e mi chiamano papà: “Papà quando torni, perché te ne vai?”.
Li metto a letto la sera, li prendo la mattina e li accompagno a scuola. In me si è compiuta, si sta compiendo quella profezia di Giussani: “E’ una grazia per te”. Per lei anche, perché è una donna contenta, per i suoi figli: due consacrati e uno sposato, per il movimento.
Credo che l’esperienza che vivo sia un esempio per la Chiesa. Io vivo per quello. Anche oggi che in Paraguay c’è un governo socialista, il vicepresidente, pur sapendo tutta la battaglia che abbiamo fatto perché non vincesse questo governo, mi ha chiesto: “Padre, posso ogni lunedì alle sei venire a pregare lodi con te?”. Ebbene da quando è stato nominato, il 15 agosto, tutti i lunedì mattina il vicepresidente prega lodi con me e fa un po’ di adorazione. Un miracolo insperato. E’ nato perfino un partito trasversale per i temi della vita, per i temi dei poveri. Perché anche dentro a questa condizione impensata del socialismo del Ventunesimo secolo che vuole svuotare il cristianesimo di Cristo, uno deve lavorare con intelligenza, con amore, con Cristo, partendo da Dio. Anche il vescovo presidente ha detto al Nunzio: “Padre Aldo io lo rispetto, e così i suoi confratelli. Perché di fronte a quello che lì accade non è possibile fare rappresaglie, perché è qualcosa che noi desidereremmo che accadesse in tutto il Paraguay”.
Grazie, e pregate per me.
Rotondi: «E ora facciamo i Dico» - Un versione riveduta e corretta dei Dico. Una proposta di legge sulla quale contano di far convergere anche l'opposizione. È questa l'intenzione del cattolico Rotondi e del laico Brunetta che stanno scrivendo a quattro mani il provvedimento con l'intenzione di presentarlo in Parlamento per novembre e aprire una discussione nel mondo laico e cattolico... La nuova legge che Rotondi anticipa a Il Tempo, riguarderà tutte le coppie, anche gay.
La nuova legge che Rotondi anticipa a Il Tempo, riguarderà tutte quelle coppie, anche gay, che non costituiscono una famiglia così come la religione e la Costituzione prevedono. Si tratta di quele unioni che non hanno alcuni tipo di riconoscimento legislativo e non hanno quindi diritti. L'intento di Rotondi e di Brunetta è quindi di regolamentare queste unioni dal punto di vista legislativo. «Fermo restando che il tutto - precisa il responsabile dell'Attuazione del Programma - sarà a costo zero per lo Stato».
Il governo riapre quindi la delicata questione dei Dico?
«Sia ben chiara una cosa: il governo sarà tenuto fuori da questa iniziativa. Sarà un progetto di legge a firma mia e di Brunetta».
Ci faccia capire meglio, in che consiste?
«Il governo non ha nel suo programma altro che politiche di sostegno alla famiglia e si intende quella tradizionale. Con molta franchezza dico che le unioni civili non fanno parte del programma di governo e non saranno realizzate da questo esecutivo. Fermo restando questo punto, alcuni di noi, cattolici e laici, sono attenti a forme di convivenza che sono sprovviste di qualsiasi tutela legislativa pubblica e anche privata. Ne ho ragionato con il collega Brunetta e siamo arrivati, io cattolico e lui laico, alla conclusione di dover fare qualcosa. Ma ci siamo arrivati come parlamentari e non come membri del governo. Tant'è che terremo il governo accuratamente fuori dal dibattito culturale che vogliamo animare sul tema».
Sarà una proposta di legge?
«Quello è l'esito possibile. Per quanto mi riguarda voglio portare il tema nel mondo cattolico. Il no ai Dico è stato non tanto per il loro testo quanto per l'idea che era passata di una sorta di famiglia diversa da quella che sta nella natura, in Dio e nella Costituzione. Lo preciso: non è un'iniziativa di governo ma sarebbe bello però che dopo tante chiacchiere nella scorsa legislatura, il centrodestra in Parlamento potesse dare qualcosa di più in termini di diritto a quei mondi che l'hanno chiesto alla sinistra ricevendone, fin qui come risposta, solo una strumentalizzazione elettorale.
Che tipo di unioni andrete a regolamentare?
«C'è da legiferare in ordine a un fenomeno che non è marginale che riguarda le persone che a vario titolo convivono senza essere sposati. Spesso indipendentemente dal fatto sessuale.
Facciamo qualche esempio?
«Basta andare nei quartieri periferici di Roma per trovare le più svariate forme di convivenza che non sono la famiglia nè una cosa che gli somigli. Non pensiamo a leggi che implichino costi per lo Stato. Ma è innegabile che una convivenza stabile e duratura faccia venir fuori dei diritti e è ipocrita dire che l'ordinamento attuale li tutela».
Che tipi di tutele introdurrete?
«Certamente alcuni diritti sono fondamentali, quello all'assistenza in caso di malattia, alla successione, i diritti relativi all'alloggio, insomma tutti i diritti che rendono il convivente prioritario rispetto ai parenti e che ora non esistono».
Riguarderà anche le coppie gay?
«Sì, ci occupiamo anche delle coppie gay».
Può farci dei casi concreti?
«Nel caso di malattia, uno dei due conviventi può prendere delle decisioni sulla cura. Per la casa, pensiamo a stabilire l'assoluto diritto alla successione nel contratto di affitto e nella proprietà».
Anche se ci sono eredi diretti?
«Ritengo di sì anche se sarà la legge a approfondirlo. Nella parte finale della legislatura già si profilava un quadro legislativo equilibrato ed è prevalsa la voglia della sinistra di ideologizzare il discorso sul modello Zapatero e quindi la reazione del mondo cattolico è stata giustamente difensiva».
Il convivente potrà anche avere la pensione di reversibilità?
«Questo no, salterebbero gli equilibri previdenziali e perchè la reversibilità è posta a tutela del concetto di famiglia, intesa come comunità finalizzata all'educazione dei figli. La reversibilità tutela i figli e il coniuge superstite che li ha educati. Insomma non è possibile con il pretesto dei diritti dei conviventi alterare gli equilibri del sistema sociale».
Dopo quanti anni di convivenza maturano questi diritti?
«È tutto da definire. Prima faremo un giro di dibattiti nel mondo cattolico e giuridico per raggiungere una buona sintesi legislativa».
Ne avete già parlato con l'opposizione?
«Ne ho parlato davanti all'asilo prendendo le mie bambine e incontrando tante mamme e si sentono sprovviste di diritti che solo una legge così può dare».
di Laura Della Pasqua
Il Tempo 07/09/2008
La nuova legge spagnola potrebbe portare gli aborti a 230.000 all'anno - Monsignor Sebastián: "La Spagna diventerà la patria dell'aborto in Europa"
di Inmaculada Álvarez
MADRID, mercoledì, 10 settembre 2008 (ZENIT.org).- Il disegno di legge che il Governo spagnolo si propone di approvare nei prossimi mesi presupporrà un enorme aumento del numero degli aborti, arrivando a superare i 230.000 all'anno nel 2015.
Sono le stime dell'Istituto per la Politica Familiare (IPF), il cui presidente, Eduardo Hertfelder, ha chiesto al Governo di "rettificare immediatamente" il provvedimento.
Se il progetto venisse approvato nei suoi termini attuali, l'IPF, tenendo conto della progressione storica dell'aumento della percentuale di aborti, calcola che entro 7 anni morirebbero 637 bambini al giorno, il che significa un aborto ogni 2,3 minuti.
Secondo Hertfelder, "l'aborto libero fino alla 12ª settimana, insieme al 'colabrodo attuale' degli aborti permessi fino all'ultima settimana di gestazione per il cosiddetto 'rischio psicologico per la madre', così come il decreto-legge approvato recentemente di mancata registrazione dei dati che aumenterà la frode della legge attuale, provocherà un 'effetto di richiamo' nel resto dei Paesi dell'UE".
La Spagna diventerebbe così nei prossimi anni il Paese con il più alto numero di aborti in Europa, il che contrasta con la tendenza alla stasi e perfino alla diminuzione in altri Paesi europei.
"Mentre sia nei Paesi dell'allargamento (la Romania ha visto una diminuzione del 67%) che in quelli dell'Europa a 15 (Germania, Italia, ecc.) in cui storicamente si è registrato un gran numero di aborti il loro numero diminuisce, la Spagna è passata dal rappresentare uno su 31 aborti europei a 1 su 12", ha affermato Herteflder.
"La patria dell'aborto in Europa"
In una lettera pubblicata da vari media digitali, l'Arcivescovo emerito di Pamplona, monsignor Fernando Sebastián, ha criticato duramente l'annuncio del Governo, che trasformerebbe la Spagna nella "patria dell'aborto in Europa".
"La permissività di fronte all'aborto sta facendo di noi una Nazione degradata e corrotta", ha osservato il presule. "Non possiamo essere complici in questa corsa per la distruzione morale della Spagna e degli Spagnoli".
"Vogliamo che l'aborto sia considerato per quello che è, un crimine disumano e distruttore, anziché essere presentato come un diritto e una soluzione".
Monsignor Sebastián ha aggiunto che gli abortisti "ricorrono sempre allo stesso sofisma: considerare e presentare l'aborto dal punto di vista degli adulti. E' come interpretare il furto dal punto di vista degli interessi dei ladri".
"Il vero punto de vista per valutare umanamente l'aborto è quello del bambino abortito. Se non è lecito uccidere un bambino appena nato, perché sarebbe lecito ucciderlo qualche settimana prima della sua nascita? Solo per la convenienza dei più forti", denuncia.
Il presule chiede "urgentemente" alle famiglie cattoliche di reagire contro l'"esaltazione del 'sessualismo' selvaggio" che si sta impiantando nella nostra società "con l'impulso delle minoranze nichiliste e il silenzio codardo di quasi tutti gli altri", nel cui contesto l'aborto non è altro che "un ulteriore elemento del sistema".
Monsignor Sebastián chiede poi ai politici "un dibattito serio" e in cui "tutti possiamo parlare alle stesse condizioni, un dibattito in cui i cattolici e tutte le persone oneste possano parlare e manifestarsi con chiarezza e libertà".
Allo stesso modo, chiede ai politici e agli intellettuali contrari all'aborto di "avere il coraggio di dirlo chiaramente" e di chiedere ai loro partiti "libertà di coscienza per votare".
Un progetto ideologico
Secondo Lola Velarde, presidente dell'IPF European Network, "in questo momento non esiste una domanda sociale in Spagna che giustifichi la promulgazione di una nuova legge sull'aborto", per cui "si tratta di un progetto meramente ideologico con implicazioni a livello mondiale".
La Velarde ha confermato che il numero degli aborti "sta arrivando a una stasi in Europa Occidentale, ed è in diminuzione in molti Paesi dell'ex Europa dell'Est", anche se in alcuni Stati "già esiste un provvedimento come quello che si vuole approvare in Spagna", pur se "con maggiori controlli sulla sua applicazione".
"In questo momento in Spagna esiste di fatto l'aborto libero, visto che c'è un'enorme frode nel ricorso al presunto pericolo fisico o psicologico per la madre, al quale si può far appello durante tutta la gravidanza", ha affermato.
La legge, inoltre, "aggrava ancor di più il problema delle donne che ricorrono all'aborto, sulle cui conseguenze fisiche e psicologiche ci sono sempre meno dubbi in ambito scientifico".
Dall'altro lato, secondo la Velarde, la "rete di esperti" creata dal Governo per assistere la redazione della legge è "totalmente unilaterale", visto che in essa, afferma, "sono stati vietati i gruppi di difesa della vita".
"Per fare un esempio, è presente Javier Martínez Salmeán, membro dell'Equipo Dafne, che elabora ricerche per i Laboratori Schering, responsabili della commercializzazione della pillola anticoncezionale".
Dietro tutto ciò, spiega, c'è "un progetto ideologico a livello internazionale, del quale la Spagna sta diventando la punta di diamante", portato avanti da "lobbies molto forti che hanno interessi non solo ideologici, ma anche economici".
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]
Stare con Cristo, "forma perfetta dell'esistenza cristiana", dice il Papa
Nell'omelia della Messa esequiale del Cardinale Antonio Innocenti
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 10 settembre 2008 (ZENIT.org).- La vicinanza a Cristo è la "forma perfetta dell'esistenza cristiana", ha affermato Benedetto XVI questo mercoledì mattina durante la Messa funebre del Cardinale Antonio Innocenti, morto sabato scorso all'età di 93 anni.
Il porporato, del Titolo di Santa Maria in Aquiro, era Prefetto emerito della Congregazione per il Clero e Presidente emerito della Pontificia Commissione per la conservazione del Patrimonio artistico e storico della Chiesa e della Pontificia Commissione "Ecclesia Dei".
Dopo la Messa celebrata dal Cardinale Angelo Sodano, Decano del Collegio Cardinalizio, insieme ai Cardinali, il Papa ha presieduto la liturgia esequiale tenendo l'omelia e il rito dell'Ultima Commendatio e della Valedictio.
Nel suo intervento, il Pontefice ha ricordato la "lunga vita, spesa al servizio del Signore", del Cardinale Innocenti, sottolineando che "come per Gesù, così per quanti sono chiamati a seguirlo più da vicino, la vita intera diventa un combattimento spirituale, che si sostiene e si vince corrispondendo generosamente e gioiosamente alla grazia di Dio e alla sua indefettibile fedeltà".
"Fede e sapienza di vita, strettamente intrecciate, caratterizzano lo stile del discepolo del Signore e in modo particolare del suo ministro ordinato, fino a giungere a quella conformazione piena, che l'apostolo Paolo confessava di se stesso: 'Mihi vivere Christus est' (Fil 1,21)".
Queste parole di Paolo, ha spiegato il Pontefice, esprimono "la forma perfetta dell'esistenza cristiana": "uno stare con Gesù, un essere in Lui a tal punto che questa comunione supera la soglia di separazione tra la vita terrena e l'aldilà, così che la morte stessa del corpo non è più una perdita ma un guadagno".
Questa meta "sta sempre in qualche modo dinanzi a noi", ma si può già "anticipare in questa vita, specialmente grazie al sacramento dell'Eucaristia, vincolo reale di comunione con Cristo morto e risorto".
"Se l'Eucaristia diventa forma della nostra esistenza, allora veramente per noi vivere è Cristo e il morire equivale a passare pienamente in Lui e nella vita trinitaria di Dio, dove sarà piena anche la comunione con i nostri fratelli", ha osservato.
Ripercorrendo la vita del porporato defunto, Benedetto XVI ha ricordato che il Cardinale Innocenti aveva ricevuto l'ordinazione sacerdotale nel 1938 e nella Seconda Guerra Mondiale "si distinse per abnegazione e generosità nell'aiutare la gente e salvare quanti erano destinati alla deportazione", venendo per questo arrestato e condannato alla fucilazione, ordine che venne revocato quando già si trovava dinanzi al plotone d'esecuzione.
Entrato nel servizio diplomatico della Santa Sede, "ebbe modo di conoscere diversi Paesi in Africa, in Europa e nel vicino Oriente, senza mai dimenticare la sua profonda e genuina ispirazione sacerdotale, prodigandosi in favore dei fratelli, infondendo coraggio e alimentando in tutti la fede e la speranza cristiana".
Il porporato aveva ricevuto l'ordinazione episcopale nel 1968. Nel 1985 venne creato Cardinale da Giovanni Paolo II, divenendo poi Prefetto della Congregazione per il Clero, Presidente della Pontificia Commissione per la conservazione del patrimonio artistico e storico della Chiesa e della Pontificia Commissione "Ecclesia Dei".
Benedetto XVI ha voluto concludere la sua omelia ricordando il motto episcopale del Cardinale defunto: "Lucem spero fide", definendo queste parole "quanto mai appropriate in questo momento".
"Ora che ha varcato l'ultima soglia - ha affermato -, preghiamo affinché la fede e la speranza lascino il posto alla realtà 'di tutte più grande', la carità, che 'non avrà mai fine' (1 Cor 13,8.13)".
L’aborto è la sconfitta dell’Europa - Carlo Casini lancia una petizione per riconoscere la vita dal concepimento
di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 10 settembre 2008 (ZENT.org).- Intervenendo il 7 settembre al XXIII Congresso Internazionale per la Famiglia che si è svolto nell’Università Cattolica di Ruzomberok in Slovacchia, Carlo Casini, Presidente del Movimento per la Vita (MpV), ha denunciato la vasta diffusione dell’aborto in Europa e ha rilanciato la petizione per riconoscere la vita fin dal concepimento.
Al congresso promosso dal World Organisation for the Family (Washington, DC) e dalla fondazione Famille de Demain, il Presidente del MpV ha spiegato che “il più grande problema politico del momento è quello di restituire verità ai diritti dell’uomo” e che per questo motivo “il tema della vita e quello della famiglia sono centrali”.
Il giurista ha precisato che il tema della vita è legato “alla stessa identificazione del soggetto titolare dei diritti. Se non sappiamo chi è l’uomo, tutto il quadro dei diritti umani cade e va in frantumi”.
Mentre il tema della famiglia è collegato con “la dignità umana, di cui la famiglia è rivelatrice in quanto luogo dove si può fare esperienza di un amore che vuole vincere i limiti del tempo e di una libertà che è bella perché accetta la regola”.
Il Presidente del MpV ha ribadito che “il compito della politica è quello di perseguire il bene comune attraverso una complessa organizzazione della società civile” ed ha ricordato che la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo “afferma che la dignità umana, e quindi il valore della vita e della famiglia, è fondamento della costruzione civile”.
A questo proposito, ha sottolineato l’eurodeputato, “è urgente che la politica definisca in modo chiaro che l’uomo è sempre uomo dal concepimento fino alla morte naturale. The man is the man: lo slogan che ha liberato gli schiavi d’America deve essere ripetuto per liberare i bambini non ancora nati, i malati e i morenti”.
Parlando dell’Europa, Casini ha valutato positivamente il processo di unificazione, ma ha criticato aspramente le politiche antivita.
“Proprio dai vertici europei – ha sottolineato – giungono sempre più forti i segnali di una cultura di morte che nega dignità umana e diritti ai più deboli, quali sono i bambini non ancora nati, i malati e i morenti e che disconosce nella famiglia il nucleo fondamentale della società e dello Stato basato sul matrimonio di un uomo e di una donna”.
“Questa negativa deriva europea – ha aggiunto – non deve essere sottovalutata”.
L’onorevole Casini ha infatti espresso il proprio disappunto perchè nella Carta di Nizza “la tendenza sessuale ha sostituito la distinzione dei sessi”: vi è “la dimenticanza dei concepiti nella proclamazione del diritto alla vita” ed è stata “abbandonata la formula con cui la Dichiarazione Universale (art. 16) aveva definito la famiglia nucleo fondamentale”.
Inoltre, viene ammessa la cosiddetta “clonazione terapeutica implicitamente risultante dalla proibizione della sola cosiddetta clonazione riproduttiva”.
Il Presidente del MpV ha ricordato che “l’aborto è la sconfitta dell’Europa”, come disse ai Vescovi Europei nel 1985, Giovanni Paolo II.
Casini ha anche ricordato che lo stesso Pontefice, il 19 dicembre 1987, rivolgendosi ai Movimenti per la Vita europei lanciò un forte richiamo alla responsabilità dei popoli europei.
“Il nostro compito – ha affermato Casini – è farci sentire. E’ rompere la congiura del silenzio che favorisce il diffondersi della cultura antivita e antifamiglia promossa da pochi, ma che si avvale della potenza schiavizzante dei grandi mezzi di comunicazione. E’ nostra responsabilità dare voce a chi non ha voce”.
Tra le tante iniziative di cui il Presidente del MpV è promotore, una il particolare è stata sollecitata ai popoli dei 27 Paesi dell’Unione Europea. Si tratta della petizione per riconoscere il diritto alla vita di ogni essere umano come esistente fin dal concepimento e il riconoscimento della famiglia in quanto fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna, cui spetta il diritto-dovere di scegliere l’educazione da dare ai figli.
Casini ha poi ricordato che a Strasburgo l’11 e il 12 dicembre 2007 e a Roma l'11 maggio 2008 un primo nucleo di rappresentanti di Movimenti e Associazioni per la vita e la famiglia di vari paesi d’Europa si sono riuniti ed hanno approvato il progetto di petizione.
“Il nostro impegno a difesa della vita e della famiglia deve influenzare anche la politica e quindi il voto dei cittadini europei”, ha poi concluso ricordando che nel 2009 si svolgeranno le elezioni europee.
[Per avere informazioni e/o sottoscrivere la petizione europea: http://www.mpv.org/mpv/download/petizione/petizione.html]
BIOPOLITICA/ Quando l’obiezione di coscienza non basta più - INT. , Il Sussidiario.net
mercoledì 10 settembre 2008
Gregory Katz, docente di Bioetica e innovazione terapeutica all’Essec di Parigi, sta per pubblicare in Italia il suo ultimo libro “La cifra della vita”. Al Meeting di Rimini, dove ha anticipato alcuni contenuti del volume, Ilsussidiario.net lo ha intervistato sui temi principali che la ricerca genetica pone all’uomo e alla sua domanda sul significato delle cose: se cioè il codice genetico predetermina in qualche modo la libertà umana, e quindi l’interazione tra spirito e materia; l’esistenza di un protolinguaggio universale che ha determinato i meccanismi evolutivi e lo scambio di informazioni. Fino alle questioni di più scottante attualità, come i problemi che stanno al confine tra scienza ed etica e che riguardano quello che l’uomo può fare oggi della natura e quindi di se stesso.
Dei temi emersi durante l’intervista a Katz ilsussidiario ha parlato con Assuntina Morresi, docente di Chimica fisica all’Università di Perugia e opinionista.
Secondo Gregory Katz «esiste uno stretto legame tra delle strutture chimiche, il DNA, e delle strutture semantiche basate su un codice, e – aggiunge – in tutto questo c’è un vero mistero». E dice che il linguaggio genetico, di fatto, fa da trait d’union tra la materia e il mondo del significato, tra il substrato chimico e la domanda sul senso.
Sempre, nel progresso della scienza, c’è stato un richiamo a domande “altre”, sul significato e sul senso delle scoperte che si venivano facendo, e su dove sono collocate queste scoperte nel tutto del pensiero dell’uomo. La scienza non è autoreferenziale, ci sono domande che la scienza pone a cui possono rispondere altre discipline, ma la scienza è sempre “amica” di chi pone domande autentiche e se uno la interroga essa darà sempre indicazioni preziose.
Può fare un esempio?
L’epigenetica studia l’influenza dell’ambiente sui geni. Ci sono caratteristiche che appartengono al codice genetico e che sono immutabili ma che possono essere attivate o no a seconda di reazioni chimiche che avvengono a carico del Dna e a seconda dell’ambiente in cui il Dna si trova. Due gemelli omozigoti sono identici nel codice genetico, ma non sono certamente fotocopia o clone l’uno dell’altro. Quindi anche l’ambiente influenza il codice genetico e questo risponde al principio filosofico dell’unicità della persona, al fatto che non siamo predeterminati e non siamo solo frutto del nostro codice genetico.
Secondo Katz molto del dibattito che oggi riguarda temi scottanti, come ricerca su cellule staminali, aborto ed eutanasia non è più soltanto etico, ma politico. Lei che ne pensa?
È proprio così, perché se noi releghiamo nel campo della coscienza e delle risposte personali temi come quelli citati, rischiamo di non capire l’impatto che possono avere sul bene comune. Ed è un impatto che si misura in termini politici.
L'esempio classico è quello del cordone ombelicale: le cellule staminali contenute nel sangue del cordone ombelicale di per sé non dovrebbero porre problemi etici, perché non coinvolgono embrioni. La questione è: si possono donare o vengono considerate un bene per se stessi? Secondo problema: le conserviamo nel circuito pubblico o privato? Mettendo da parte l'aspetto scientifico, sembrerebbe che si tratti di una questione semplicemente organizzativa, ma non è così. Perché, se queste cellule sono contenute nel sangue, immaginiamo cosa succederebbe se il circuito del sangue o quello dei trapianti fossero affidati a una rete privata anziché pubblica. Non potremmo mai accettarlo: non è un diritto individuale quello di donare il sangue o di donare organi per i trapianti, ma una considerazione di solidarietà e di bene pubblico. Non esistono cittadini di serie A e di serie B e deve esserci la solidarietà di ciascuno verso tutti. In teoria si potrebbe dire che ogni famiglia può tenersi il proprio sangue, invece col circuito solidaristico del sangue si crea un bene comune.
Ma non è tutto. Se tenere per sé e per il figlio il sangue del cordone ombelicale è un diritto e io pago per goderne, cosa succede in sala parto quando un'ostetrica deve scegliere tra raccogliere il sangue del cordone ombelicale di un bambino, e aiutare un'altra donna incinta per assisterla meglio durante il parto? Se una persona ha il diritto di donare il sangue del cordone ombelicale e lo Stato non la mette in condizioni di farlo, questa persona può sporgere denuncia. Si crea un conflitto tra assistenza al parto e donazione del sangue, che a questo punto diventa un servizio personale. Occorre stare attenti nel trattare questi temi in termini di diritti individuali: non sono solo questo, si traducono in scelte politiche.
La semplice scelta etica dell'obiezione di coscienza allora non basta più?
No e possiamo fare l'esempio della pillola del giorno dopo, cioè quella che si assume entro 72 ore da un rapporto non protetto. Molti medici, dal momento che la pillola potrebbe essere abortiva, fanno obiezione di coscienza: ciò va bene per i farmacisti, che possono avere problemi a negare un farmaco per cui viene una regolare ricetta, ma il medico chiude la questione se sceglie di fare obiezione di coscienza.
Invece, se io fossi un medico direi: per questa pillola è stato deciso in Italia che è necessaria la ricetta (tra l'altro questo è stato stabilito da Umberto Veronesi che non è un medico cattolico). Si tratta quindi di un farmaco con controindicazioni. Il medico, in scienza e coscienza, può non prescrivere direttamente la pillola (ad esempio, se una ragazza arriva in pronto soccorso nel mezzo della notte), ma mandare la ragazza il giorno dopo dal suo medico di base, che potrà verificare se ci sono le condizioni per prescrivere il farmaco.
Si tratta perciò di considerare, accanto agli oggettivi risvolti etici, anche gli aspetti di deontologia professionale che influenzano anche la sfera politica, perché risulta evidente che non basta a risolvere il problema una legge che consenta l’obiezione di coscienza. Si pone cioè anche una domanda radicale su cosa sia la professione medica, quindi non solo una questione etica in senso stretto, abortiva o non abortiva, ma si tratta di una presa di posizione che può anche cambiare l'organizzazione sanitaria.
Il caso di Eluana Englaro ha sortito l'effetto di aprire il dibattito e render urgente la scelta sull’opportunità o meno di fare una legge sul testamento biologico. Quali sono i requisiti che dovrebbe avere in Italia una legge su questa materia?
È stata determinante la sentenza della Cassazione dello scorso ottobre, stabilendo che le volontà di una persona possono essere dedotte dagli stili di vita e dai comportamenti presunti, per cui a Eluana Englaro si potrebbe staccare il sondino per affermazioni fatte a 15 anni davanti ad amiche. È lecito pensare che non fosse pienamente informata su cosa fosse uno stato vegetativo, di quali fossero le diverse condizioni di coma.
Una sentenza che ha scavalcato le prerogative del Parlamento, che non ha caso ha sollevato il conflitto di attribuzione.
Una sentenza che è andata oltre l'organo legislativo e oltre tutte le proposte di legge depositate in Parlamento. Neanche i Radicali hanno depositato una proposta di legge sul testamento biologico con le dichiarazioni anticipate orali. Questo precedente richiede una nuova azione legislativa che disciplini la materia. La sentenza della Cassazione si basa su un'interpretazione ampiamente liberale dell’autodeterminazione di cui all'articolo 32 della nostra Costituzione. Occorre correggere e specificare quest'interpretazione: c'é senz'altro la libertà di cura, ma non è la libertà di suicidio assistito.
Ipotizziamo una legge sul testamento biologico: come deve essere per non scivolare verso l'eutanasia?
A mio avviso dovrebbe avere tre punti: gli stessi – sui quali discuterà il Parlamento – posti dal Comitato nazionale di Bioetica del 2003. Anzitutto il testamento biologico non deve essere obbligatorio per i cittadini, non deve essere vincolante per il medico - che ne deve tenere conto, ma non sentirsi obbligato a eseguire le volontà del paziente, deve cioè essere libero di agire secondo scienza e coscienza – e infine l'alimentazione e l'idratazione artificiale non devono essere in nessun modo considerate terapie, altrimenti il passaggio dal sondino nasogastrico di Eluana al cucchiaio del malato di Alzheimer è breve.
La Regione Lombardia ha detto che il suo personale sanitario non può sospendere l’idratazione e l’alimentazione artificiale che tiene in vita Eluana. Che ne pensa?
La Regione fa bene a rifiutarsi, perché la sentenza della Corte d’Appello di Milano non obbliga qualcuno a staccare il sondino a Eluana, ma dà l'autorizzazione al tutore, cioè al padre, di interrompere l'idratazione e l'alimentazione. Non dice chi deve farlo e soprattutto non obbliga a farlo, quindi non spetta alla Regione intervenire in merito.
Quando Gadamer si espose al fuoco di fila degli studenti - La ferita salutare di una vera domanda - "Processo esegetico ed ermeneutica credente" è il tema della quarantesima Settimana nazionale biblica in corso fino al 12 settembre a Roma. Pubblichiamo la prima parte della relazione inaugurale - di Bruno Forte - Arcivescovo di Chieti-Vasto
Una citazione, tratta da un quodlibet di Tommaso d'Aquino, mi sembra possa introdurre opportunamente la riflessione su fede e ragione nell'interpretazione delle Scritture: "Se il maestro risolverà la questione soltanto con argomenti di autorità, chi l'ascolta sarà certo rassicurato che le cose stanno così, ma non acquisterà nulla in scienza ed intelletto, e se ne andrà via senza alcun guadagno". Queste parole possono considerarsi una sorta di manifesto di quell'attività fiorente nell'universitas medioevale, che fu la quaestio quodlibetalis o quodlibet.
Riservata ai grandi magistri la quaestio su qualsivoglia argomento sostituiva la lectio e lasciava gli uditori - studenti o colleghi - liberi di provocare il maestro con le domande più varie e non di rado inquietanti.
La ragione per la quale il magister accettava la sfida può individuarsi precisamente nella considerazione proposta dall'Aquinate: si incontrano risposte vere solo quando si hanno domande vere; si esercita la forza del pensiero ben più quando si pongono quelle domande, che quando si danno risposte a buon mercato.
La quaestio quodlibetalis diveniva allora un gioco dialettico, teso a provocare l'interrogante ben più che l'interrogato, per far scaturire dal costato degli uditori quei fiumi d'acqua viva in essi nascosti, che solo la lancia acuminata di una vera domanda - sorta dall'affannosa ricerca di sfidare la genialità del magister - riusciva a liberare analogamente a come - secondo la bella interpretazione di Origene, estesa da lui stesso alla potenza del domandare - la lancia che trapassò il costato del Redentore crocifisso fece scaturire l'acqua e il sangue della vita vera.
Anche il testo delle Scritture Sacre - né più né meno del costato di Cristo - si offre a questa ferita salutare: anch'esso, opportunamente interrogato, fa scaturire dal suo seno fiumi di acqua viva e sangue corroborante per le vene del nostro cuore e della nostra intelligenza. È questa la convinzione che ha ispirato sin dalle origini la lettura credente della Parola di Dio, secondo un atteggiamento di interrogazione e di ascolto che unisce l'interprete cristiano alla tradizione dei maestri ebrei, come innesto sulla santa radice.
Quali sono le condizioni che rendono corretto questo approccio? Di quali presupposti deve valersi l'interpretazione perché non si traduca in violenza sul testo, che lo esponga al dominio dell'interprete, o in una presunta obbedienza a-critica, che favorisca ogni sorta di fondamentalismo? E nella risposta a queste domande che si può cogliere il ruolo specifico della fede e della ragione nell'atto ermeneutico condotto sulle Sacre Scritture.
Nelle riflessioni che seguono vorrei approfondire il modello di approccio, che più di altri mi pare coniugare correttamente ragione e fede nell'interpretazione del testo sacro, senza trascurare il riferimento ad altri modelli che - ispirati a grandi progetti speculativi - mostrano le conseguenze dell'esasperazione di uno dei due poli in gioco a scapito dell'altro e della verità del risultato.
Quanto segue si presenta pertanto nella forma di un dittico: nella prima tavola, è la proposta ermeneutica di Gadamer e il suo rapporto con la rivelazione cristiana a costituire l'oggetto di attenzione; nella seconda, è la critica alle ermeneutiche rispettivamente dell'identità e della differenza assoluta a far spazio all'analisi del corretto rapporto fra fede e ragione nell'interpretazione del testo biblico.
Un dialogo con Hans Georg Gadamer, di cui ho potuto riportare la testimonianza diretta, ci introduce nella prima tavola del dittico.
Avevo voluto iniziare l'esperienza della quaestio quodlibetalis nella facoltà di Teologia napoletana, negli anni in cui essa era affidata alla mia guida accademica. Perché l'impresa risultasse feconda occorreva che la qualità dei magistri invitati fosse pari all'ambizioso livello dei frutti che si speravano.
Fu così che tra gli altri proposi a Gadamer di accogliere la sfida della quaestio, esponendosi al fuoco di fila delle domande che da chiunque e su qualunque argomento avrebbero potuto essergli poste.
Il maestro accettò di buon grado: e fu così che in un'aula affollatissima di studenti e di docenti, in una splendida mattinata primaverile napoletana della fine degli anni Ottanta del secolo scorso, l'ultraottuagenario magister si offrì in pasto ai suoi interlocutori. In verità agli studenti - soprattutto alle matricole - qualcosa era stato detto del maestro: il colloquio si svolse tuttavia in assoluta libertà e franchezza. Delle tante, due domande e la risposta a esse mi pare possano risultare illuminanti per comprendere il rapporto fra ragione e fede nell'interpretazione delle Scritture.
La prima fu posta con assoluto candore da una matricola: "Ci hanno detto che lei è il padre dell'ermeneutica contemporanea. Può spiegarmi, per favore, che cos'è l'ermeneutica?". Il magister - senza minimamente scomporsi di fronte alla risata generale seguita a un interrogativo così diretto e naive - prontamente rispose: "Ermeneutica significa che quando Lei e io dialoghiamo dobbiamo sforzarci di cogliere il mondo vitale che sta dietro le parole dell'altro, da cui esse provengono e che esse esprimono".
Lo studente sembrò soddisfatto: e invero ne aveva materia, forse al di là della sua stessa consapevolezza. La risposta di Gadamer era riuscita a sintetizzare efficacemente alcune fra le pagine più alte della sua riflessione: sgombrando il campo da ogni astratta definizione, il magister aveva evocato in maniera essenziale le condizioni dell'atto ermeneutico, così come da lui esposte ad esempio nella sua opera maggiore, Verità e metodo.
In primo luogo, egli aveva ricordato che l'evento nel quale l'essere accede alla comprensione e alla comunicazione degli uomini è il linguaggio: in esso accade il dirsi dell'essere, altrimenti silenzioso e raccolto; attraverso di esso diviene possibile l'intelligenza della cosa; in esso si stabilisce la comunicazione fra gli interlocutori, grazie alla quale essi possono comprendersi e intendersi sulla cosa stessa.
Il linguaggio si presenta come il mezzo in cui l'io e il mondo vengono a incontrarsi e congiungersi, manifestando la loro reciproca appartenenza e insieme la loro distinzione, attuando grazie a esso quella "fusione di orizzonti", in cui consiste propriamente il comprendere. Nel linguaggio si profila così una totalità di senso, che non va intesa come qualcosa di statico e di fisso, ma come un attuarsi sempre nuovo. In quanto evento della comprensione, il linguaggio accade all'interno del più vasto mondo dell'essere, senza esaurirlo o dissolverlo, ma anche senza separarsi da esso: in questo senso, "l'essere che può venir compreso è linguaggio".
In forza di questo gioco di espressione e di ulteriorità rispetto a essa, si può affermare che noi conosciamo grazie alle cose che non conosceremo mai, e che non è la conoscenza che illumina la profondità della cosa, ma è la misteriosa profondità della cosa che - accadendo nel linguaggio - illumina la conoscenza.
Il vero problema nella comprensione sta allora nel modo di interpretare il rapporto che nel linguaggio si stabilisce fra la parola e la cosa, fra il soggetto interpretante e l'oggetto interpreto. Questo rapporto vive per Gadamer di tre condizioni: in primo luogo, la reciproca estraneità; quindi, un'originaria e strutturale coappartenenza; e, infine, la "fusione di orizzonti", in cui consiste propriamente la comprensione interpretante. L'estraneità (Entfremdung) sottolinea che eventi o parole altri dal mondo dell'interprete sono anzitutto e vanno riconosciuti come "altro": come tali essi non sono riducibili alle istanze del soggetto, ma hanno uno spessore e una complessità oggettivi, che impediscono di disporne in maniera unicamente funzionale agli interessi di chi interpreta.
Bisogna pertanto accostarsi all'altro mediante un'indagine che miri a utilizzare tutte le informazioni accessibili in vista della ricostruzione dell'ambiente e del processo vitale in cui eventi e parole altrui si collocano, per accertare in tal modo i contenuti e le sfide che - proprio nella loro diversità - essi propongono all'interprete. In rapporto alle Sacre Scritture, questa prima condizione giustifica l'imprescindibile ricorso agli strumenti del metodo storico-critico, che consentono di mantenere la necessaria maggiore oggettività possibile rispetto al testo.
In secondo luogo, fra chi interpreta e ciò che è interpretato si deve riconoscere una certa coappartenenza (Zugehörigkeit), senza la quale nessuna comunicazione potrebbe sussistere fra di essi: questa comune appartenenza è fondata sul fatto che ogni essere umano di ieri o di oggi si situa in un complesso di relazioni storiche e ha bisogno per viverle della mediazione linguistica, sempre storicamente determinata. Non è la storia che appartiene a noi, ma siamo noi che apparteniamo alla storia!
E la stessa rivelazione divina attestata nelle Scritture ebraico-cristiane si compie nella storia, con eventi e parole intimamente connessi, dai quali è semplicemente impossibile prescindere se si vuole accogliere la comunicazione divina. Mettere in luce la coappartenenza fra l'interprete e l'oggetto dell'interpretazione, vuol dire giudicare della correttezza delle possibili corrispondenze e delle eventuali difficoltà di comunicazione rilevate dalla propria intelligenza nelle parole o negli eventi altrui: ciò esige di tener conto delle domande che motivano l'interpretazione e della loro incidenza sulle risposte ottenute, del contesto vitale in cui si opera, nonché della comunità interpretante, il cui linguaggio si parla e alla quale si intende parlare.
A tal fine è necessario rendere il più possibile riflessa e consapevole la precomprensione, che di fatto è sempre inclusa in ogni interpretazione, per misurarne e temperarne la reale incidenza sul processo interpretativo: anche quando esso ha per oggetto il testo delle Sacre Scritture, in cui la Parola abita nelle parole degli uomini.
Infine, fra chi interpreta e l'oggetto dell'interpretazione viene a compiersi, attraverso lo sforzo conoscitivo e valutativo, una "fusione di orizzonti" (Horizontverschmelzung), in cui consiste propriamente l'atto ermeneutico, l' affacciarsi della comprensione dell'altro. In esso si esprime quella che si giudica essere l'intelligenza corretta degli eventi o delle parole altrui: il che equivale a cogliere il significato che essi possono avere per l'interprete e il suo mondo.
Grazie a questo incontro di mondi vitali la comprensione dell'altro si traduce nella sua applicazione al soggetto interpretante: il linguaggio è colto nelle potenzialità che schiude, nello stimolo che offre a modificare il presente.
Capire la testimonianza dell'altro vuol dire allora raggiungerla il più possibile nella sua oggettività, attraverso tutte le fonti di cui è possibile disporre; giudicare della correttezza della propria interpretazione significa verificare con onestà e rigore in che misura essa possa essere stata orientata o comunque condizionata dalla precomprensione e dai possibili pregiudizi dell'interprete; esprimere l'interpretazione raggiunta significa rendere gli altri partecipi del dialogo intessuto con altri sia per verificarne la rilevanza, sia per esporsi al confronto di eventuali, diverse interpretazioni.
Si comprende qui come l'applicazione di questa terza condizione al testo sacro, considerato dal credente come ispirato da Dio, ponga alla ragione dell'interprete non pochi problemi: essa deve accettare il superamento necessario della totalità dei propri orizzonti, per lasciarsi stupire dalla novità di un avvento, che non è né deducibile da conoscenze a-priori o semplicemente precedenti, né ricavabile dal vasto mondo dei fenomeni accessibili al nostro conoscere.
E tuttavia questo atto non è né contrario alla ragione nella sua apertura radicale, né tale da risultare imprigionante per essa: anzi, l'apertura all'eccedenza dell'autocomunicazione divina rende l'intelligenza non meno, ma più libera, non meno, ma più ricca e feconda. Se la "fusione di orizzonti" fra oggetto e interprete esclusivamente mondano è già crescita e arricchimento del soggetto, in maniera analoga una tale fusione - sia pur realizzata in maniera necessariamente asimmetrica - stabilisce fra il Dio che si comunica nelle parole della rivelazione e l'intelligenza credente che a essa si apre un reale legame comunicativo, capace di potenziare, stimolare e allargare le capacità di comprensione del soggetto, portandole a una "sovraconoscenza" che non solo non è nemica dell'uomo, ma ne esalta la dignità e la vocazione alla trascendenza.
A riprova di una tale possibile, reciproca fecondazione fra fede e ragione nell'ermeneutica delle Sacre Scritture, vorrei qui citare un'altra risposta di Gadamer nella medesima quaestio. La domanda era stata posta questa volta da uno studente apparentemente più smaliziato: da teologo in erba, questi intendeva portare il magister sul proprio terreno, pensando probabilmente di trascinarlo in un'inquietante disputa in munere alieno.
L'interrogativo era dunque: "Che cosa significa per lei la Croce di Cristo?". Anche qui la risposta fu lapidaria, fulminea: "Che Dio abbia fatto sua la morte è quanto di più alto la mente umana abbia mai concepito. E questo le è stato donato".
Qualche attimo di stupito silenzio fece seguito a queste parole, che rivelavano in realtà un pensiero, caratteristico della riflessione del "padre" dell'ermeneutica contemporanea: Gadamer riassumeva in esse una tesi storica centrale della sua indagine, e cioè che l'unica vera novità nello sviluppo del concetto di linguaggio in Occidente è stata la dottrina cristiana dell'incarnazione e della kènosis del Verbo eterno.
"Il più grande miracolo del linguaggio non consiste nel fatto che la parola si fa carne e si manifesta nel mondo esterno, ma nel fatto che quello che così si manifesta nel mondo esterno è già sempre parola. La dottrina che si impone nella Chiesa contro il subordinazionismo è che la parola è presso Dio dall'eternità, e questo trasferisce radicalmente il problema del linguaggio nell'intimità del pensiero".
(©L'Osservatore Romano - 10 settembre 2008)
10 settembre 2008
Le elezioni americane più importanti dal 1980 - Che cosa c’è in ballo (punto per punto) nella gara tra Obama e McCain, dal Foglio.it
Quest’anno le differenze politiche e ideologiche tra democratici e repubblicani sono più profonde che in tutte le precedenti elezioni sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, fatta eccezione per la donchisciottesca sfida di Barry Goldwater alla Great Society di Lyndon Johnson nel 1964, la missione suicida di George McGovern contro Richard Nixon nel 1972 e la vittoria di Ronald Reagan su Jimmy Carter nel 1980.
Le differenze su tasse, economia e assistenza medica sono radicali e complesse. Barack Obama intende proporre uno dei più pesanti aumenti di tasse della storia mondiale, da far ricadere sulle spalle del 40 per cento più ricco della popolazione. Obama cerca di nasconderlo dietro una ridda di spesso fittizi crediti fiscali rimborsabili. L’aumento del prelievo fiscale sui redditi elevati andrà a beneficio di persone che pagano pochissime tasse o addirittura nessuna. Nessun elemento di questo procedimento può essere definito un “taglio alle tasse”, anche se è stato presentato in questi termini. L’aliquota fiscale massima e la tassa sui guadagni e i dividendi in conto capitale aumenteranno di un terzo, l’imposta di successione subirà un aumento del 45 per cento, l’imposta sul ruolo paga sarà aumentata per le famiglie con un reddito superiore a 250 mila dollari all’anno. La tesi che tutto questo manterrebbe le tasse al 18,2 per cento del pil è una pura e semplice assurdità.
John McCain intende stimolare l’aumento di produttività con incentivi fiscali, legittimare la ricerca e le tecnologie, favorire gli ammortamenti fiscali, incoraggiando l’investimento di capitali, nonché ridurre moderatamente le imposte sul reddito delle società e quelle sul reddito individuale. Intende concedere a ogni persona adulta crediti fiscali per l’assistenza sanitaria, incoraggiando la gente a cercarla al prezzo migliore.
Obama, al contrario, propone un’assicurazione medica obbligatoria, cosicché circa la metà della popolazione otterrà la copertura finanziaria dal governo federale. Nessuno dei due candidati propone di porre limiti massimi a risarcimenti, premi assicurativi o prezzi delle medicine. In tal modo, quale che sia la proposta vincente, i costi per l’assistenza sanitaria supereranno notevolmente l’attuale strabiliante cifra di duemila miliardi di dollari, vale a dire il 16 per cento del pil percentuale più alta di quella di tutto il resto del mondo. Il nuovo presidente dovrà prendere difficili decisioni sul piano economico, e per questo compito il programma di McCain è più adatto di quello di Obama. Alzare le tasse quando l’economia è sull’orlo di una recessione è un piano di ripresa uscito di moda già al tempo di Herbert Hoover, 75 anni fa.
Le differenze su aborto e armi. Le differenze su altre tradizionali questioni, come l’aborto e il controllo sulle armi, sono ancora più nette, anche se Obama ha cercato di mascherarle nel discorso di accettazione alla convention democratica. Ha proclamato di rispettare il diritto costituzionale a portare armi, ma ha detto di non volere vendere kalashnikov AK-47 a bande di criminali – come se qualcuno l’avesse mai voluto! (I lettori sapranno che io, in questo momento, sono tecnicamente un criminale negli Stati Uniti, grazie alla perversità del sistema giudiziario del paese. Posso affermare con certezza che distribuire AK-47 ai detenuti del carcere in cui mi trovo al momento della loro liberazione non farebbe alzare il tasso di criminalità. Quei pochi che desiderassero mettere le mani su un kalashnikov lo potrebbero fare facilmente qualsiasi cosa ne pensi il governo federale). Obama ha detto di rispettare il diritto alla vita, ma anche che ci sono “troppi bambini indesiderati” – una sorta di apertura all’aborto, insomma. McCain e la sua candidata alla vicepresidenza, invece, hanno sull’aborto e il controllo sulle armi una posizione netta, ma non intransigente. Ancora più dirompenti sul piano sociologico sono gli appelli agli elettori bianchi da parte dei democratici e quelli agli elettori di sesso femminile da parte dei repubblicani. Obama ha detto alla comunità nera di mettersi in forma, porre fine alla frammentazione della famiglia e cessare di giocare la carta della vittima.
La candidatura di Sarah Palin è, in parte, un tentativo di strappare la leadership del movimento femminista all’élite militante della sinistra e metterla nelle mani di una maggioranza silenziosa di donne ambiziose ma tradizionali. E’ una mossa coraggiosa per cercare di separare l’aborto da altre questioni generalmente associate ai diritti delle donne. I democratici e i media femministi non sono riusciti a spacciare l’immagine della governatrice Sarah Palin come uno zuccone Dan Quayle travestito, una mogliettina dal grilletto facile e una madre negligente (perché avrebbe scelto di candidarsi alla vicepresidenza nonostante la sua giovane famiglia e la gravidanza della sua figlia diciassettenne e non sposata).
La frenesia dell’assalto iniziale, e l’ipocrita affermazione che le donne sarebbero state offese dalla candidatura di una simile stupida cafona, ha dimostrato che McCain non ha dimenticato la strategia militare di applicare la massima forza possibile al momento decisivo e di ottenere la massima sorpresa: se i liberal stanno cercando di impadronirsi del terreno più vantaggioso sulle questioni del sesso extraconiugale e delle madri lavoratrici, vuol davvero dire che hanno paura. Ma neppure i repubblicani erano preparati al virtuosismo del debutto di Sarah Palin alla convention. Riuscire a essere accattivante e candida, e allo stesso tempo spiritosa; dura e decisa senza apparire come una vecchia megera; un’autentica femminista sulle cose cui le donne aspirano veramente, ma allo stesso tempo tradizionalista; una brava e onesta governatrice e una nemica degli eccessi delle compagnie petrolifere e degli ormai proverbiali interessi speciali. Le prime repliche dei democratici e dei media su un’offesa alle donne americane, su una sciocca mediocrità borghese, con l’immagine di una primitiva donna della frontiera con il fucile in una mano e la Bibbia nell’altra non hanno avuto alcun effetto.
Palin è una persona di naturale popolarità, l’esatto opposto di Joe Biden, un noioso e mediocre burocrate di sinistra, pieno di arroganza e vuote parole. Quando Palin ha raccontato che Harry Reid, quel tedioso nonnulla che i democratici hanno inflitto al Senato come leader di maggioranza, aveva dichiarato di detestare McCain e ha aggiunto che quello era il maggior complimento che poteva ricevere il candidato repubblicano, è stata sommersa dagli applausi.
L’America che verrà. George W. Bush ha un tasso di popolarità del 30 per cento, piuttosto basso ma non senza precedenti. Quello del Congresso, però, è a una sola cifra, una percentuale persino inferiore a quella degli americani convinti che Elvis Presley sia ancora vivo. Per tutti gli ultimi due anni i democratici hanno pensato che l’unica cosa che dovessero fare era menzionare il nome del presidente uscente e spedire in giro grossi camion a raccogliere tutti i voti per il loro partito. I lettori attenti ricorderanno che non l’ho mai pensata così. I candidati democratici propongono una politica estera di eterni negoziati, a parte l’irresponsabile promessa di Obama che, per dare la caccia a Osama bin Laden, sarebbe pronto a invadere il Pakistan, una potenza nucleare e un alleato, con una popolazione otto volte maggiore di quella dell’Iraq.
McCain, il veterano, l’ex prigioniero di guerra, figlio e nipote di ammiragli, non ha dubbi sull’uso dell’immensa potenza militare degli Stati Uniti per difendere i legittimi interessi nazionali. McCain è convinto che la guerra del Vietnam poteva e avrebbe dovuto essere vinta, e ha sempre sostenuto la guerra in Iraq, anche se ha giustamente criticato il modo in cui l’occupazione era gestita prima dell’avvio dell’operazione surge. Obama e Biden ritengono che il ricorso alla forza militare non sia praticamente mai giustificato. McCain e Palin credono che, se necessario, si debba mantenere la credibilità della propria deterrenza anche con un moderato uso della forza. Queste differenze filosofiche potrebbero portare a risposte molto diverse agli eventi internazionali.
Obama resterà il leader degli afroamericani, sia che vinca sia che perda. Quest’elezione dovrebbe mettere la leadership di questa comunità nelle sue mani; potrebbe porre la leadership del movimento femminista in gioco tra le militanti e le tradizionaliste; determinerà se gli Stati Uniti si muoveranno verso una maggiore influenza del settore pubblico sull’economia e i servizi sociali; e deciderà se le forze armate si ridurranno a un fragile colosso di Osimandia o se continueranno a essere il più potente fattore geopolitico del mondo. Queste sono le elezioni più importanti del mondo dai giorni dell’ascesa di Ronald Reagan nel 1980.
Conrad Black
© New York Sun
(traduzione di Aldo Piccato)
Caffarra: assordante silenzio dei media - L’arcivescovo di Bologna: «Il martire esalta la dignità della persona». Dai fratelli indiani «il più grande insegnamento», Avvenire, 10 set. 08
DA BOLOGNA STEFANO ANDRINI
erché ci si mostra più preoccupati della sorte degli orsi polari che di uomini e donne colpevoli solo di aver scelto la fede cristiana? È questa la domanda da cui è partito il cardinale Carlo Caffarra durante la Messa celebrata in occasione della Giornata di preghiera e digiuno per i cristiani perseguitati dello Stato indiano dell’Orissa.
«Noi ci troviamo – ha detto l’arcivescovo di Bologna – perché, facendo nostro l’accorato appello del Santo Padre, vogliamo condividere la stessa passione di chi è perseguitato per il nome del Signore ». «Non possiamo però non sentire – ha aggiunto – l’assordante silenzio che i mezzi della comunicazione (esclusi quelli cattolici) stanno mantenendo su queste gravi violazioni a fondamentali diritti della persona: il diritto alla vita, e il diritto alla libertà religiosa». Il martirio, ha ricordato Caffarra, P «disturba gravemente chi ritiene che alla fine tutto è negoziabile; chi nega che esista qualcosa di indisponibile e che non può essere mercanteggiato. Il martire esalta la dignità della persona in modo che non può che essere censurato da chi pensa che alla fine l’uomo è solo un frammento corruttibile di un tutto impersonale. La grandezza del martire smaschera la povera nudità del relativismo».
In questa prospettiva i fratelli e le sorelle perseguitati « ci stanno dando il più grande insegnamento sull’uomo, sulla sua dignità, sulla sua altissima vocazione ». «La radice della nostra forza – ha concluso il cardinale – è la nostra adorazione di Cristo. Solo chi riconosce come unico Signore il Cristo, non piega le ginocchia davanti a nessun altro padrone. È l’atto di adorazione la vera liberazione della nostra libertà. Libertà da ogni tradizione culturale, da ogni costume e classificazione
1) IO GIACCIO CON LA VERGINITA’ - Al Meeting di Rimini c’è un bambino fuggito verso Gesù, travolto dal ’68, toccato dall’amore e graziato dalla depressione. Giussani ne ha fatto lo sposo della purezza e il padre degli ultimi..., di Don Aldo Trento
2) Rotondi: «E ora facciamo i Dico» - Un versione riveduta e corretta dei Dico. Una proposta di legge sulla quale contano di far convergere anche l'opposizione. È questa l'intenzione del cattolico Rotondi e del laico Brunetta che stanno scrivendo a quattro mani il provvedimento con l'intenzione di presentarlo in Parlamento per novembre e aprire una discussione nel mondo laico e cattolico... La nuova legge che Rotondi anticipa a Il Tempo, riguarderà tutte le coppie, anche gay
3) La nuova legge spagnola potrebbe portare gli aborti a 230.000 all'anno - Monsignor Sebastián: "La Spagna diventerà la patria dell'aborto in Europa"
4) Stare con Cristo, "forma perfetta dell'esistenza cristiana", dice il Papa
5) L’aborto è la sconfitta dell’Europa - Carlo Casini lancia una petizione per riconoscere la vita dal concepimento
6) BIOPOLITICA/ Quando l’obiezione di coscienza non basta più - INT. Assuntina Morresi
7) Quando Gadamer si espose al fuoco di fila degli studenti - La ferita salutare di una vera domanda - "Processo esegetico ed ermeneutica credente" è il tema della quarantesima Settimana nazionale biblica in corso fino al 12 settembre a Roma. Pubblichiamo la prima parte della relazione inaugurale - di Bruno Forte - Arcivescovo di Chieti-Vasto, Osservatore Romano 10.9.2008
8) Le elezioni americane più importanti dal 1980 - Che cosa c’è in ballo (punto per punto) nella gara tra Obama e McCain, dal Foglio.it
9) Caffarra: assordante silenzio dei media - L’arcivescovo di Bologna: «Il martire esalta la dignità della persona». Dai fratelli indiani «il più grande insegnamento», Avvenire, 10 set. 08
ANNO XIII NUMERO 235 - PAG II IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 30 AGOSTO 2008
IO GIACCIO CON LA VERGINITA’ - Al Meeting di Rimini c’è un bambino fuggito verso Gesù, travolto dal ’68, toccato dall’amore e graziato dalla depressione. Giussani ne ha fatto lo sposo della purezza e il padre degli ultimi...
di don Aldo Trento
Missionario della Fraternità sacerdotale San Carlo Borromeo in Paraguay dal 1989, don Aldo Trento ha sessantadue anni. Bellunese, parroco della chiesa di San Rafael ad Asunción, dal 2004 è responsabile della clinica per malati terminali intitolata a san Riccardo Pampuri. In questo luogo arrivano pazienti in fin di vita, malati di cancro o di Aids, e persone abbandonate a loro stesse, che non hanno più nessuno in grado di accudirle. Il 2 giugno di quest’anno il presidente della Repubblica italiana gli ha conferito il titolo di Cavaliere dell’Ordine della Stella della solidarietà. Il testo qui pubblicato è il discorso tenuto al Meeting di Rimini giovedì 28 agosto all’interno del ciclo di incontri intitolati: “Si può vivere così”.
“Corazón maldito por què palpitas?”, “Cuore maledetto perché batti?”, dice Violeta Parra. E poi: “Gracias alla vida che m’ha dato tanto”. E poco tempo dopo si toglie la vita. Perché incomincio così?
Perché vorrei riprendere qui quello che mi ha commosso molti anni fa quando Giussani ha detto: “Vi auguro di non essere mai tranquilli”.
Luglio 2008, sono lì con i bebè (che cura nella sua casa in Paraguay e lo chiamano “papà”, ndr) a cui sto dando il biberon.
Torna Cristina, la mamma che mi aiuta coi bambini piccoli malati di Aids o violentati, tornano con le pagelle, li metto in girotondo, leggo le pagelle. Lì si va dall’uno al cinque. Uno, uno, uno, uno, tutti uno. Sorrido e gli dico: “Assomigliate a vostro padre che ha sempre avuto problemi di scuola e di risultati, era buono a nulla. ‘Placido si chiamava’ e spera di diventare Santo.
Però c’è un motivo che mi fa contento. Perché nella vita la cosa difficile non è passare da uno a cinque, ma da zero a uno, e voi da febbraio a luglio siete passati da zero a uno”. Poi ho spiegato alla mamma cosa volevo dire. Bene, io sono questo ragazzino di sessantadue anni che forse è arrivato a due, per pura grazia divina. Per questo più che parlarvi delle opere, ho scritto in omaggio a Giussani, perché io vivo di lui: è lui, è Dio, è lui dietro tutto quello che potete vedere o leggere. “Padre Aldo – mi disse Giussani – ho deciso, adesso che stai diventando un uomo, di
mandarti in Paraguay”. “Ma come, mio fratello mi ha detto che sarebbe meglio che mi ricoverassi al reparto per esauriti mentali a Feltre, vista la grande depressione che sto vivendo, una malattia inattesa che mi ha tolto la voglia di vivere, che mi ha portato d’improvviso a perdere il gusto della vita, mi ha reso difficile ma non impossibile il nesso con la realtà e, tu, mi vuoi mandare in missione?”.
Giussani mi guardò come quella volta che Gesù fissò con tenerezza il giovane ricco, Zaccheo, la Maddalena, Matteo e mi disse: “Ebbene, io ti mando in missione perché solo adesso mi sento sicuro di te. Parti. Ti faranno il biglietto e io ti accompagnerò a Linate con lei e i suoi tre bambini”. Era il maggio del 1989, a Riva del Garda. Ma cosa era successo prima, perché mi accadesse tutto questo? Perché il Giuss mi prendesse per mano e mi dicesse quelle parole?
A sette anni la chiamata chiara ad essere tutto di Gesù. Cinquant’anni fa, il 28 luglio 1958, abbandonai la mia famiglia alla quale non chiesi il permesso, semplicemente la posi al corrente della decisione e in autostop fermai un trattore che mi portò in seminario. Mia madre mi guardava sbalordita e incredula dalla finestra e piangeva, e io: “Mamma verrai a trovarmi?”, ed il trattore si avviò lentamente verso un destino in cui era chiara una sola cosa in me, dentro la mia irrequietezza: Gesù mi voleva tutto, tutto per sé. Molti anni più tardi compresi che tutto questo si chiamava verginità, che è la bellezza, lo stupore, la capacità di commuoversi di fronte alla realtà, paternità, pienezza affettiva. Il seminario: anni difficili, belli e rabbiosi.
Finalmente, nel pieno della contestazione del ’68, nel ’71 mi ordinano sacerdote.
Dubitavo che mi ammettessero.
Ero totalmente di Cristo, ma l’insoddisfazione e il desiderio di un mondo nuovo, l’irrequietezza per un vuoto esistenzialmente e socialmente poco interessante, mi portò a simpatizzare per Potere Operaio. L’ideologia piano piano cercava di riempire quel vuoto, ma il male di vivere già faceva capolino dentro le fibre del mio cuore e si manifestava in ribellione. Così mi spedirono a Salerno, fra i figli dei carcerati, per vedere se entravo nell’ordine, nel politicamente corretto, diremmo oggi. Lì un giorno quattro ragazzini di Battipaglia, come un fulmine, cambiarono la mia vita. Prima avevo partecipato a organizzare uno sciopero contro l’imperialismo del Vietnam e insegnavo la teoria di Paulo Freire invece di religione.
Quei ragazzi mi dissero: “Professore non è così che lei cambia il mondo, il mondo cambia se cambia lei, e lei cambia se si lascia amare da Gesù”.
Sconvolto da quel momento, una possibilità di vita nuova apparì nell’orizzonte della mia vita: potevo prendere sul serio la mia umanità senza paura, senza censurare niente. Le cose però precipitarono e i miei superiori mi spedirono al nord, vicino a mia madre, per vedere un possibile miracolo nella mia vita.
Così mi stabilii a Feltre, in provincia di Belluno. Tutto continuava in una guerra interiore tra l’ideologia e il vuoto esistenziale, la domanda sul perché della vita e una aridità affettiva terribile, perché si era pietrificato il cuore. Si diceva (e l’avevo imparato a memoria): “Il privato non esiste, ciò che conta è il politico”. Due anni durissimi dove solo quella scintilla accesa a Salerno mi dava una fragile speranza.
Però la disperazione cresceva e fu così che un giorno un amico mi invitò ad un’assemblea a Padova con don Giussani.
Sul palco, ricordo come adesso, ad un certo momento salì una giovane bella donna, vedova con tre bambini piccoli, lesse il suo dramma e la sua fede di fronte a quanto le era accaduto. Rimasi sconvolto e da quel gennaio ’87 non ebbi più pace. Ero rimasto affascinato.
Un fascino che dopo alcuni mesi si trasformò in una grande affezione. Mi sembrava di sognare.
Ma date le reciproche condizioni di vita il tutto sfociò in disperazione che diventerà presto una depressione che non mi abbandonerà più. Da quel momento mi spaventai perché non potevo credere che la mia umanità fosse un impasto di desideri, di aspirazione di infinito, di amare e di essere amato, di bellezza e di giustizia e anche di gelosia e di possessività.
Ma che fare?
Il grido, l’umano è solo grido, mi rese mendicante; mendicante di un rapporto di qualcuno che mi facesse vedere che quell’affetto non solo era incompatibile con quello che ero, con il mio sacerdozio, ma era come il cammino necessario per gustare la bellezza della verginità, il possesso senza possedere, per vincere quel vuoto affettivo riempito per anni dall’anestesia dell’ideologia.
E così il 25 marzo 1988, in ginocchio, piangendo, andai da Giussani.
Mi accolse come lui sapeva fare, perché nel suo cuore c’era posto per uno come per un milione. Mi abbracciò, mi lasciò piangere, mi dette le caramelle dopo un lungo tempo di singhiozzi e mi disse: “Che bello, adesso finalmente cominci ad essere un uomo! Quanto stai vivendo è una grazia per te, per lei, per i suoi figli, per il movimento e per la Chiesa.
Vai e porta loro l’uovo di Pasqua”.
Da quel giorno fino alla sua morte mi tenne con sé.
Prima di uscire da quella stanza a Milano mi richiamò indietro e mi disse: “Come sarebbe bello che quest’estate qualcuno ti facesse compagnia!”.
Lo guardai e dissi: “Ma Giussani, dove potrei incontrare un uomo, un prete, disposto a condividere l’estate con uno schizzato, un ossesso, con tutto quello che devono fare?”.
Mi fissò come Gesù: “Va bene, ti porterò via con me”.
Per due mesi, fino alla partenza per il Paraguay, mi tenne con sé, pagandomi tutto e trasferendomi dalla mia prima congregazione alla Fraternità San Carlo.
Don Massimo Camisasca (rettore della Fraternità sacerdotale San Carlo ndr) si vide arrivare questo pacco, questo povero uomo, buono a nulla, nelle sue mani e mi accolse. “Prendere sul serio la propria umanità senza censurarla – dice Giussani in “Tracce d’esperienza cristiana” – è la strada necessaria perché riaccada l’incontro con Cristo”. Ma che terribile, che bella la propria umanità così fragile, così povera e grande allo stesso tempo! Mi ha fatto paura il mio io. Non pensavo che l’umano fosse una miscela, un insieme di queste cose belle e disperate, che fosse insieme ironia e disperazione.
Così per non perdere quanto amavo, mi accompagnò all’aeroporto e volle che ci fosse quel segno sacramentale dell’amore divino con i suoi tre bambini.
Ricordo, quando con gli occhi rossi sul marciapiede di Linate, guardando lei sofferente dissi a Giussani: “E lei?”.
La guardò e le disse: “Al prossimo ritiro del Gruppo adulto ti aspetto (il Gruppo adulto, o Memores Domini, è un’associazione che riunisce le persone di Comunione e Liberazione che hanno compiuto una scelta di dedizione totale a Dio vivendo come forma la virtù che la Chiesa chiama verginità, ndr)”.
Era il giorno della natività della Madonna quando giunsi in Paraguay. Passò un anno e il 15 ottobre 1990, giorno del compleanno di Giuss, mi chiamò lui per telefono: “Padre Aldo, chiama lei e dille che il direttivo del gruppo adulto ha deciso di accoglierla nel suo grembo”. Non riuscii neanche ad augurargli “buon compleanno” per la commozione, perché non potevo capire tanta tenerezza sua e tanta umanità. Non poteva fare lui questa cosa? Dirglielo lui! Perché si preoccupa che sia io a dirlo a lei, che stavo a dodicimila chilometri di distanza?
Solo un uomo come lui poteva essere capace di amare così. Da quel giorno sono dovuti passare quindici lunghi anni
dove solo la compagnia di Padre Alberto, continuità visibile di quella del Giuss, non solo ha impedito che la facessi finita con la vita, diventata insopportabile per l’acuirsi ogni giorno di più della depressione, ma mi ha fatto lentamente capire una cosa essenziale nella vita: solo un grande amore, un grande dolore, dentro la forte tenera amicizia, per quanto fragile, fanno di un io un uomo, cioè un padre.
Padre Alberto ha vissuto per dieci anni solo per far compagnia ad un disperato, dibattuto fra la percezione che amare ed essere amato è possibile e la crudeltà della vita che pareva fregarmi.
Ma la realtà, l’umano di ognuno, non sono mai nemici dell’io neanche quando ti rendi conto che non ti fanno nessuno sconto. Perché vi garantisco, è terribile prendere sul serio la realtà, la propria umanità. Perché non puoi che gridare, mendicare, consegnarti, come da quando ho sette anni a oggi continuo a gridare.
E così ad un certo punto Dio, la realtà mi toglie anche la compagnia di Alberto e rimango solo. Solo col mio dramma, con la mia non voglia di vivere, con la mia stanchezza.
L’unico conforto, da quel momento, sarà l’eucarestia che porrò come parroco e signore di tutto.
Da lontano Alberto e Monsignor Pezzi mi guidano ogni giorno: “Aldo, in alto i cuori!”. La chiarezza del destino, pur nella confusione della mente e nell’assenza di ogni emotività; la percezione della distanza come condizione del “già”, di una possibile pienezza affettiva, l’unica che fa di un uomo un uomo; la possibilità di amare virilmente colei che Dio mi aveva posto sul cammino come inizio di un cambiamento: tutto questo si chiama verginità che ha dato origine a quella piccola città della carità che, in compagnia di Paolino ed Ettore, è diventata la comunità di San Rafael in Paraguay.
La verginità, ossia la carità, è la pienezza oggi, è come l’albore dell’io a cui è data la grazia di sperimentare adesso quello che ogni ragazzino con la tenerezza che porta dentro dice alla sua ragazzina, quando si innamora: “Tuo per sempre, ti voglio bene per sempre”.
In fondo siamo realisti, aveva ragione Camus quando metteva in bocca a Caligola: “Voglio la luna”. O quanto scriveva Carl Marx a sua moglie: “Ciò che fa di me un uomo è il mio amore per te e il tuo per me”. Si ama, si è padri solo se si è amati, attraversando tutte le belle, drammatiche e ironiche pieghe dell’umano.
Io vivo facendo compagnia all’uomo che grida, piccolo, giovane o ammalato terminale che sia.
Quanto è nato e creato da Dio, mediante questo povero uomo, è stato da Lui voluto perché io possa fare a tutti quello che Giussani ha fatto a me: compagnia.
E’ così che quando ho visto per la prima volta un cadavere per la strada me lo sono preso, l’ho portato a casa, l’ho pulito. E così di giorno in giorno. Ho preso i moribondi, gli abbandonati, quelli putrefatti, delle favelas.
E Dio ha creato quell’insieme di opere che oggi vedono impegnate più di 100 persone pagate e centinaia di volontari.
L’uomo sano, bello o putrefatto non ha bisogno di consigli, ma di qualcuno che lo tenga per mano.
Prendere sul serio il grido che siamo. Dare fiducia a qualcuno che Dio certamente mette sul tuo cammino per indicarti il destino.
Accogliere il sacrificio, il dolore, non come una malattia ma come una grazia.
Ricordo un editoriale su un settimanale di molti anni fa, in Paraguay, l’Osservatore
della settimana: “La depressione non è una malattia ma una grazia”.
Un senatore molto conosciuto si avvicina dopo avermi cercato.
Voleva togliersi la vita: questo editoriale lo cambia. Da quel momento diventa un altro.
Presiede la commissione Bicamerale.
Riesce a mettere tutte le nostre opere nella legge finanziaria. Così un governo del terzo mondo applica un articolo in cui sostiene, finanzia per mille milioni, duecentocinquantamila dollari, un’opera di una realtà che certamente non ha appoggiato il governo attuale.
Una cosa impressionante; e così tutto quello che viene dopo.
La depressione non è una malattia, è una grazia, perché ti spoglia di tutto. Oggi la chiamano malattia, un tempo la chiamavano purificazione, notte dell’anima, possibilità alla santità: per me è ancora quello. Per questo oggi raccolgo anche i matti. Mi facevano tremendamente paura anni fa, perché mi vedevo un possibile candidato ad essere uno di loro. Oggi li guardo con ironia e rido con loro perché anche nella pazzia ho visto che in tutti c’è un minimo di libertà. Perché ho sperimentato che se non fosse vero questo non esisterebbe Dio, perché non ci sarebbe l’uomo. L’uomo è libero anche quando perde la ragione. Ho la certezza perché l’ho visto su di me.
Voglio dire che realmente il dolore è una grazia che ti permette di essere contento perché ti permette di amare, ti permette di vivere la verginità, che è l’unica e reale e concreta vocazione dell’uomo: la pienezza dell’io.
Perché cos’è la verginità? L’io compiuto già come possibilità adesso, come possibilità affettiva. Grazie Gesù per il tanto amore, per il tanto dolore che mi permetti di vivere ogni giorno. Stretto a te sulla croce per poter dire a tutti: “Ti voglio bene per l’eternità, così come io sono voluto bene adesso da te oh Gesù”.
Davvero si è compiuta quella promessa.
Io a 62 anni sono un uomo contento dentro un inizio di compiutezza che mi fa guardare la morte con serenità. Ho accompagnato a morire più di cinquecento persone in quattro anni. Tutte con il sorriso sulle labbra. Son diventato padre di decine di bambini che non hanno nessuno e mi chiamano papà: “Papà quando torni, perché te ne vai?”.
Li metto a letto la sera, li prendo la mattina e li accompagno a scuola. In me si è compiuta, si sta compiendo quella profezia di Giussani: “E’ una grazia per te”. Per lei anche, perché è una donna contenta, per i suoi figli: due consacrati e uno sposato, per il movimento.
Credo che l’esperienza che vivo sia un esempio per la Chiesa. Io vivo per quello. Anche oggi che in Paraguay c’è un governo socialista, il vicepresidente, pur sapendo tutta la battaglia che abbiamo fatto perché non vincesse questo governo, mi ha chiesto: “Padre, posso ogni lunedì alle sei venire a pregare lodi con te?”. Ebbene da quando è stato nominato, il 15 agosto, tutti i lunedì mattina il vicepresidente prega lodi con me e fa un po’ di adorazione. Un miracolo insperato. E’ nato perfino un partito trasversale per i temi della vita, per i temi dei poveri. Perché anche dentro a questa condizione impensata del socialismo del Ventunesimo secolo che vuole svuotare il cristianesimo di Cristo, uno deve lavorare con intelligenza, con amore, con Cristo, partendo da Dio. Anche il vescovo presidente ha detto al Nunzio: “Padre Aldo io lo rispetto, e così i suoi confratelli. Perché di fronte a quello che lì accade non è possibile fare rappresaglie, perché è qualcosa che noi desidereremmo che accadesse in tutto il Paraguay”.
Grazie, e pregate per me.
Rotondi: «E ora facciamo i Dico» - Un versione riveduta e corretta dei Dico. Una proposta di legge sulla quale contano di far convergere anche l'opposizione. È questa l'intenzione del cattolico Rotondi e del laico Brunetta che stanno scrivendo a quattro mani il provvedimento con l'intenzione di presentarlo in Parlamento per novembre e aprire una discussione nel mondo laico e cattolico... La nuova legge che Rotondi anticipa a Il Tempo, riguarderà tutte le coppie, anche gay.
La nuova legge che Rotondi anticipa a Il Tempo, riguarderà tutte quelle coppie, anche gay, che non costituiscono una famiglia così come la religione e la Costituzione prevedono. Si tratta di quele unioni che non hanno alcuni tipo di riconoscimento legislativo e non hanno quindi diritti. L'intento di Rotondi e di Brunetta è quindi di regolamentare queste unioni dal punto di vista legislativo. «Fermo restando che il tutto - precisa il responsabile dell'Attuazione del Programma - sarà a costo zero per lo Stato».
Il governo riapre quindi la delicata questione dei Dico?
«Sia ben chiara una cosa: il governo sarà tenuto fuori da questa iniziativa. Sarà un progetto di legge a firma mia e di Brunetta».
Ci faccia capire meglio, in che consiste?
«Il governo non ha nel suo programma altro che politiche di sostegno alla famiglia e si intende quella tradizionale. Con molta franchezza dico che le unioni civili non fanno parte del programma di governo e non saranno realizzate da questo esecutivo. Fermo restando questo punto, alcuni di noi, cattolici e laici, sono attenti a forme di convivenza che sono sprovviste di qualsiasi tutela legislativa pubblica e anche privata. Ne ho ragionato con il collega Brunetta e siamo arrivati, io cattolico e lui laico, alla conclusione di dover fare qualcosa. Ma ci siamo arrivati come parlamentari e non come membri del governo. Tant'è che terremo il governo accuratamente fuori dal dibattito culturale che vogliamo animare sul tema».
Sarà una proposta di legge?
«Quello è l'esito possibile. Per quanto mi riguarda voglio portare il tema nel mondo cattolico. Il no ai Dico è stato non tanto per il loro testo quanto per l'idea che era passata di una sorta di famiglia diversa da quella che sta nella natura, in Dio e nella Costituzione. Lo preciso: non è un'iniziativa di governo ma sarebbe bello però che dopo tante chiacchiere nella scorsa legislatura, il centrodestra in Parlamento potesse dare qualcosa di più in termini di diritto a quei mondi che l'hanno chiesto alla sinistra ricevendone, fin qui come risposta, solo una strumentalizzazione elettorale.
Che tipo di unioni andrete a regolamentare?
«C'è da legiferare in ordine a un fenomeno che non è marginale che riguarda le persone che a vario titolo convivono senza essere sposati. Spesso indipendentemente dal fatto sessuale.
Facciamo qualche esempio?
«Basta andare nei quartieri periferici di Roma per trovare le più svariate forme di convivenza che non sono la famiglia nè una cosa che gli somigli. Non pensiamo a leggi che implichino costi per lo Stato. Ma è innegabile che una convivenza stabile e duratura faccia venir fuori dei diritti e è ipocrita dire che l'ordinamento attuale li tutela».
Che tipi di tutele introdurrete?
«Certamente alcuni diritti sono fondamentali, quello all'assistenza in caso di malattia, alla successione, i diritti relativi all'alloggio, insomma tutti i diritti che rendono il convivente prioritario rispetto ai parenti e che ora non esistono».
Riguarderà anche le coppie gay?
«Sì, ci occupiamo anche delle coppie gay».
Può farci dei casi concreti?
«Nel caso di malattia, uno dei due conviventi può prendere delle decisioni sulla cura. Per la casa, pensiamo a stabilire l'assoluto diritto alla successione nel contratto di affitto e nella proprietà».
Anche se ci sono eredi diretti?
«Ritengo di sì anche se sarà la legge a approfondirlo. Nella parte finale della legislatura già si profilava un quadro legislativo equilibrato ed è prevalsa la voglia della sinistra di ideologizzare il discorso sul modello Zapatero e quindi la reazione del mondo cattolico è stata giustamente difensiva».
Il convivente potrà anche avere la pensione di reversibilità?
«Questo no, salterebbero gli equilibri previdenziali e perchè la reversibilità è posta a tutela del concetto di famiglia, intesa come comunità finalizzata all'educazione dei figli. La reversibilità tutela i figli e il coniuge superstite che li ha educati. Insomma non è possibile con il pretesto dei diritti dei conviventi alterare gli equilibri del sistema sociale».
Dopo quanti anni di convivenza maturano questi diritti?
«È tutto da definire. Prima faremo un giro di dibattiti nel mondo cattolico e giuridico per raggiungere una buona sintesi legislativa».
Ne avete già parlato con l'opposizione?
«Ne ho parlato davanti all'asilo prendendo le mie bambine e incontrando tante mamme e si sentono sprovviste di diritti che solo una legge così può dare».
di Laura Della Pasqua
Il Tempo 07/09/2008
La nuova legge spagnola potrebbe portare gli aborti a 230.000 all'anno - Monsignor Sebastián: "La Spagna diventerà la patria dell'aborto in Europa"
di Inmaculada Álvarez
MADRID, mercoledì, 10 settembre 2008 (ZENIT.org).- Il disegno di legge che il Governo spagnolo si propone di approvare nei prossimi mesi presupporrà un enorme aumento del numero degli aborti, arrivando a superare i 230.000 all'anno nel 2015.
Sono le stime dell'Istituto per la Politica Familiare (IPF), il cui presidente, Eduardo Hertfelder, ha chiesto al Governo di "rettificare immediatamente" il provvedimento.
Se il progetto venisse approvato nei suoi termini attuali, l'IPF, tenendo conto della progressione storica dell'aumento della percentuale di aborti, calcola che entro 7 anni morirebbero 637 bambini al giorno, il che significa un aborto ogni 2,3 minuti.
Secondo Hertfelder, "l'aborto libero fino alla 12ª settimana, insieme al 'colabrodo attuale' degli aborti permessi fino all'ultima settimana di gestazione per il cosiddetto 'rischio psicologico per la madre', così come il decreto-legge approvato recentemente di mancata registrazione dei dati che aumenterà la frode della legge attuale, provocherà un 'effetto di richiamo' nel resto dei Paesi dell'UE".
La Spagna diventerebbe così nei prossimi anni il Paese con il più alto numero di aborti in Europa, il che contrasta con la tendenza alla stasi e perfino alla diminuzione in altri Paesi europei.
"Mentre sia nei Paesi dell'allargamento (la Romania ha visto una diminuzione del 67%) che in quelli dell'Europa a 15 (Germania, Italia, ecc.) in cui storicamente si è registrato un gran numero di aborti il loro numero diminuisce, la Spagna è passata dal rappresentare uno su 31 aborti europei a 1 su 12", ha affermato Herteflder.
"La patria dell'aborto in Europa"
In una lettera pubblicata da vari media digitali, l'Arcivescovo emerito di Pamplona, monsignor Fernando Sebastián, ha criticato duramente l'annuncio del Governo, che trasformerebbe la Spagna nella "patria dell'aborto in Europa".
"La permissività di fronte all'aborto sta facendo di noi una Nazione degradata e corrotta", ha osservato il presule. "Non possiamo essere complici in questa corsa per la distruzione morale della Spagna e degli Spagnoli".
"Vogliamo che l'aborto sia considerato per quello che è, un crimine disumano e distruttore, anziché essere presentato come un diritto e una soluzione".
Monsignor Sebastián ha aggiunto che gli abortisti "ricorrono sempre allo stesso sofisma: considerare e presentare l'aborto dal punto di vista degli adulti. E' come interpretare il furto dal punto di vista degli interessi dei ladri".
"Il vero punto de vista per valutare umanamente l'aborto è quello del bambino abortito. Se non è lecito uccidere un bambino appena nato, perché sarebbe lecito ucciderlo qualche settimana prima della sua nascita? Solo per la convenienza dei più forti", denuncia.
Il presule chiede "urgentemente" alle famiglie cattoliche di reagire contro l'"esaltazione del 'sessualismo' selvaggio" che si sta impiantando nella nostra società "con l'impulso delle minoranze nichiliste e il silenzio codardo di quasi tutti gli altri", nel cui contesto l'aborto non è altro che "un ulteriore elemento del sistema".
Monsignor Sebastián chiede poi ai politici "un dibattito serio" e in cui "tutti possiamo parlare alle stesse condizioni, un dibattito in cui i cattolici e tutte le persone oneste possano parlare e manifestarsi con chiarezza e libertà".
Allo stesso modo, chiede ai politici e agli intellettuali contrari all'aborto di "avere il coraggio di dirlo chiaramente" e di chiedere ai loro partiti "libertà di coscienza per votare".
Un progetto ideologico
Secondo Lola Velarde, presidente dell'IPF European Network, "in questo momento non esiste una domanda sociale in Spagna che giustifichi la promulgazione di una nuova legge sull'aborto", per cui "si tratta di un progetto meramente ideologico con implicazioni a livello mondiale".
La Velarde ha confermato che il numero degli aborti "sta arrivando a una stasi in Europa Occidentale, ed è in diminuzione in molti Paesi dell'ex Europa dell'Est", anche se in alcuni Stati "già esiste un provvedimento come quello che si vuole approvare in Spagna", pur se "con maggiori controlli sulla sua applicazione".
"In questo momento in Spagna esiste di fatto l'aborto libero, visto che c'è un'enorme frode nel ricorso al presunto pericolo fisico o psicologico per la madre, al quale si può far appello durante tutta la gravidanza", ha affermato.
La legge, inoltre, "aggrava ancor di più il problema delle donne che ricorrono all'aborto, sulle cui conseguenze fisiche e psicologiche ci sono sempre meno dubbi in ambito scientifico".
Dall'altro lato, secondo la Velarde, la "rete di esperti" creata dal Governo per assistere la redazione della legge è "totalmente unilaterale", visto che in essa, afferma, "sono stati vietati i gruppi di difesa della vita".
"Per fare un esempio, è presente Javier Martínez Salmeán, membro dell'Equipo Dafne, che elabora ricerche per i Laboratori Schering, responsabili della commercializzazione della pillola anticoncezionale".
Dietro tutto ciò, spiega, c'è "un progetto ideologico a livello internazionale, del quale la Spagna sta diventando la punta di diamante", portato avanti da "lobbies molto forti che hanno interessi non solo ideologici, ma anche economici".
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]
Stare con Cristo, "forma perfetta dell'esistenza cristiana", dice il Papa
Nell'omelia della Messa esequiale del Cardinale Antonio Innocenti
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 10 settembre 2008 (ZENIT.org).- La vicinanza a Cristo è la "forma perfetta dell'esistenza cristiana", ha affermato Benedetto XVI questo mercoledì mattina durante la Messa funebre del Cardinale Antonio Innocenti, morto sabato scorso all'età di 93 anni.
Il porporato, del Titolo di Santa Maria in Aquiro, era Prefetto emerito della Congregazione per il Clero e Presidente emerito della Pontificia Commissione per la conservazione del Patrimonio artistico e storico della Chiesa e della Pontificia Commissione "Ecclesia Dei".
Dopo la Messa celebrata dal Cardinale Angelo Sodano, Decano del Collegio Cardinalizio, insieme ai Cardinali, il Papa ha presieduto la liturgia esequiale tenendo l'omelia e il rito dell'Ultima Commendatio e della Valedictio.
Nel suo intervento, il Pontefice ha ricordato la "lunga vita, spesa al servizio del Signore", del Cardinale Innocenti, sottolineando che "come per Gesù, così per quanti sono chiamati a seguirlo più da vicino, la vita intera diventa un combattimento spirituale, che si sostiene e si vince corrispondendo generosamente e gioiosamente alla grazia di Dio e alla sua indefettibile fedeltà".
"Fede e sapienza di vita, strettamente intrecciate, caratterizzano lo stile del discepolo del Signore e in modo particolare del suo ministro ordinato, fino a giungere a quella conformazione piena, che l'apostolo Paolo confessava di se stesso: 'Mihi vivere Christus est' (Fil 1,21)".
Queste parole di Paolo, ha spiegato il Pontefice, esprimono "la forma perfetta dell'esistenza cristiana": "uno stare con Gesù, un essere in Lui a tal punto che questa comunione supera la soglia di separazione tra la vita terrena e l'aldilà, così che la morte stessa del corpo non è più una perdita ma un guadagno".
Questa meta "sta sempre in qualche modo dinanzi a noi", ma si può già "anticipare in questa vita, specialmente grazie al sacramento dell'Eucaristia, vincolo reale di comunione con Cristo morto e risorto".
"Se l'Eucaristia diventa forma della nostra esistenza, allora veramente per noi vivere è Cristo e il morire equivale a passare pienamente in Lui e nella vita trinitaria di Dio, dove sarà piena anche la comunione con i nostri fratelli", ha osservato.
Ripercorrendo la vita del porporato defunto, Benedetto XVI ha ricordato che il Cardinale Innocenti aveva ricevuto l'ordinazione sacerdotale nel 1938 e nella Seconda Guerra Mondiale "si distinse per abnegazione e generosità nell'aiutare la gente e salvare quanti erano destinati alla deportazione", venendo per questo arrestato e condannato alla fucilazione, ordine che venne revocato quando già si trovava dinanzi al plotone d'esecuzione.
Entrato nel servizio diplomatico della Santa Sede, "ebbe modo di conoscere diversi Paesi in Africa, in Europa e nel vicino Oriente, senza mai dimenticare la sua profonda e genuina ispirazione sacerdotale, prodigandosi in favore dei fratelli, infondendo coraggio e alimentando in tutti la fede e la speranza cristiana".
Il porporato aveva ricevuto l'ordinazione episcopale nel 1968. Nel 1985 venne creato Cardinale da Giovanni Paolo II, divenendo poi Prefetto della Congregazione per il Clero, Presidente della Pontificia Commissione per la conservazione del patrimonio artistico e storico della Chiesa e della Pontificia Commissione "Ecclesia Dei".
Benedetto XVI ha voluto concludere la sua omelia ricordando il motto episcopale del Cardinale defunto: "Lucem spero fide", definendo queste parole "quanto mai appropriate in questo momento".
"Ora che ha varcato l'ultima soglia - ha affermato -, preghiamo affinché la fede e la speranza lascino il posto alla realtà 'di tutte più grande', la carità, che 'non avrà mai fine' (1 Cor 13,8.13)".
L’aborto è la sconfitta dell’Europa - Carlo Casini lancia una petizione per riconoscere la vita dal concepimento
di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 10 settembre 2008 (ZENT.org).- Intervenendo il 7 settembre al XXIII Congresso Internazionale per la Famiglia che si è svolto nell’Università Cattolica di Ruzomberok in Slovacchia, Carlo Casini, Presidente del Movimento per la Vita (MpV), ha denunciato la vasta diffusione dell’aborto in Europa e ha rilanciato la petizione per riconoscere la vita fin dal concepimento.
Al congresso promosso dal World Organisation for the Family (Washington, DC) e dalla fondazione Famille de Demain, il Presidente del MpV ha spiegato che “il più grande problema politico del momento è quello di restituire verità ai diritti dell’uomo” e che per questo motivo “il tema della vita e quello della famiglia sono centrali”.
Il giurista ha precisato che il tema della vita è legato “alla stessa identificazione del soggetto titolare dei diritti. Se non sappiamo chi è l’uomo, tutto il quadro dei diritti umani cade e va in frantumi”.
Mentre il tema della famiglia è collegato con “la dignità umana, di cui la famiglia è rivelatrice in quanto luogo dove si può fare esperienza di un amore che vuole vincere i limiti del tempo e di una libertà che è bella perché accetta la regola”.
Il Presidente del MpV ha ribadito che “il compito della politica è quello di perseguire il bene comune attraverso una complessa organizzazione della società civile” ed ha ricordato che la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo “afferma che la dignità umana, e quindi il valore della vita e della famiglia, è fondamento della costruzione civile”.
A questo proposito, ha sottolineato l’eurodeputato, “è urgente che la politica definisca in modo chiaro che l’uomo è sempre uomo dal concepimento fino alla morte naturale. The man is the man: lo slogan che ha liberato gli schiavi d’America deve essere ripetuto per liberare i bambini non ancora nati, i malati e i morenti”.
Parlando dell’Europa, Casini ha valutato positivamente il processo di unificazione, ma ha criticato aspramente le politiche antivita.
“Proprio dai vertici europei – ha sottolineato – giungono sempre più forti i segnali di una cultura di morte che nega dignità umana e diritti ai più deboli, quali sono i bambini non ancora nati, i malati e i morenti e che disconosce nella famiglia il nucleo fondamentale della società e dello Stato basato sul matrimonio di un uomo e di una donna”.
“Questa negativa deriva europea – ha aggiunto – non deve essere sottovalutata”.
L’onorevole Casini ha infatti espresso il proprio disappunto perchè nella Carta di Nizza “la tendenza sessuale ha sostituito la distinzione dei sessi”: vi è “la dimenticanza dei concepiti nella proclamazione del diritto alla vita” ed è stata “abbandonata la formula con cui la Dichiarazione Universale (art. 16) aveva definito la famiglia nucleo fondamentale”.
Inoltre, viene ammessa la cosiddetta “clonazione terapeutica implicitamente risultante dalla proibizione della sola cosiddetta clonazione riproduttiva”.
Il Presidente del MpV ha ricordato che “l’aborto è la sconfitta dell’Europa”, come disse ai Vescovi Europei nel 1985, Giovanni Paolo II.
Casini ha anche ricordato che lo stesso Pontefice, il 19 dicembre 1987, rivolgendosi ai Movimenti per la Vita europei lanciò un forte richiamo alla responsabilità dei popoli europei.
“Il nostro compito – ha affermato Casini – è farci sentire. E’ rompere la congiura del silenzio che favorisce il diffondersi della cultura antivita e antifamiglia promossa da pochi, ma che si avvale della potenza schiavizzante dei grandi mezzi di comunicazione. E’ nostra responsabilità dare voce a chi non ha voce”.
Tra le tante iniziative di cui il Presidente del MpV è promotore, una il particolare è stata sollecitata ai popoli dei 27 Paesi dell’Unione Europea. Si tratta della petizione per riconoscere il diritto alla vita di ogni essere umano come esistente fin dal concepimento e il riconoscimento della famiglia in quanto fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna, cui spetta il diritto-dovere di scegliere l’educazione da dare ai figli.
Casini ha poi ricordato che a Strasburgo l’11 e il 12 dicembre 2007 e a Roma l'11 maggio 2008 un primo nucleo di rappresentanti di Movimenti e Associazioni per la vita e la famiglia di vari paesi d’Europa si sono riuniti ed hanno approvato il progetto di petizione.
“Il nostro impegno a difesa della vita e della famiglia deve influenzare anche la politica e quindi il voto dei cittadini europei”, ha poi concluso ricordando che nel 2009 si svolgeranno le elezioni europee.
[Per avere informazioni e/o sottoscrivere la petizione europea: http://www.mpv.org/mpv/download/petizione/petizione.html]
BIOPOLITICA/ Quando l’obiezione di coscienza non basta più - INT. , Il Sussidiario.net
mercoledì 10 settembre 2008
Gregory Katz, docente di Bioetica e innovazione terapeutica all’Essec di Parigi, sta per pubblicare in Italia il suo ultimo libro “La cifra della vita”. Al Meeting di Rimini, dove ha anticipato alcuni contenuti del volume, Ilsussidiario.net lo ha intervistato sui temi principali che la ricerca genetica pone all’uomo e alla sua domanda sul significato delle cose: se cioè il codice genetico predetermina in qualche modo la libertà umana, e quindi l’interazione tra spirito e materia; l’esistenza di un protolinguaggio universale che ha determinato i meccanismi evolutivi e lo scambio di informazioni. Fino alle questioni di più scottante attualità, come i problemi che stanno al confine tra scienza ed etica e che riguardano quello che l’uomo può fare oggi della natura e quindi di se stesso.
Dei temi emersi durante l’intervista a Katz ilsussidiario ha parlato con Assuntina Morresi, docente di Chimica fisica all’Università di Perugia e opinionista.
Secondo Gregory Katz «esiste uno stretto legame tra delle strutture chimiche, il DNA, e delle strutture semantiche basate su un codice, e – aggiunge – in tutto questo c’è un vero mistero». E dice che il linguaggio genetico, di fatto, fa da trait d’union tra la materia e il mondo del significato, tra il substrato chimico e la domanda sul senso.
Sempre, nel progresso della scienza, c’è stato un richiamo a domande “altre”, sul significato e sul senso delle scoperte che si venivano facendo, e su dove sono collocate queste scoperte nel tutto del pensiero dell’uomo. La scienza non è autoreferenziale, ci sono domande che la scienza pone a cui possono rispondere altre discipline, ma la scienza è sempre “amica” di chi pone domande autentiche e se uno la interroga essa darà sempre indicazioni preziose.
Può fare un esempio?
L’epigenetica studia l’influenza dell’ambiente sui geni. Ci sono caratteristiche che appartengono al codice genetico e che sono immutabili ma che possono essere attivate o no a seconda di reazioni chimiche che avvengono a carico del Dna e a seconda dell’ambiente in cui il Dna si trova. Due gemelli omozigoti sono identici nel codice genetico, ma non sono certamente fotocopia o clone l’uno dell’altro. Quindi anche l’ambiente influenza il codice genetico e questo risponde al principio filosofico dell’unicità della persona, al fatto che non siamo predeterminati e non siamo solo frutto del nostro codice genetico.
Secondo Katz molto del dibattito che oggi riguarda temi scottanti, come ricerca su cellule staminali, aborto ed eutanasia non è più soltanto etico, ma politico. Lei che ne pensa?
È proprio così, perché se noi releghiamo nel campo della coscienza e delle risposte personali temi come quelli citati, rischiamo di non capire l’impatto che possono avere sul bene comune. Ed è un impatto che si misura in termini politici.
L'esempio classico è quello del cordone ombelicale: le cellule staminali contenute nel sangue del cordone ombelicale di per sé non dovrebbero porre problemi etici, perché non coinvolgono embrioni. La questione è: si possono donare o vengono considerate un bene per se stessi? Secondo problema: le conserviamo nel circuito pubblico o privato? Mettendo da parte l'aspetto scientifico, sembrerebbe che si tratti di una questione semplicemente organizzativa, ma non è così. Perché, se queste cellule sono contenute nel sangue, immaginiamo cosa succederebbe se il circuito del sangue o quello dei trapianti fossero affidati a una rete privata anziché pubblica. Non potremmo mai accettarlo: non è un diritto individuale quello di donare il sangue o di donare organi per i trapianti, ma una considerazione di solidarietà e di bene pubblico. Non esistono cittadini di serie A e di serie B e deve esserci la solidarietà di ciascuno verso tutti. In teoria si potrebbe dire che ogni famiglia può tenersi il proprio sangue, invece col circuito solidaristico del sangue si crea un bene comune.
Ma non è tutto. Se tenere per sé e per il figlio il sangue del cordone ombelicale è un diritto e io pago per goderne, cosa succede in sala parto quando un'ostetrica deve scegliere tra raccogliere il sangue del cordone ombelicale di un bambino, e aiutare un'altra donna incinta per assisterla meglio durante il parto? Se una persona ha il diritto di donare il sangue del cordone ombelicale e lo Stato non la mette in condizioni di farlo, questa persona può sporgere denuncia. Si crea un conflitto tra assistenza al parto e donazione del sangue, che a questo punto diventa un servizio personale. Occorre stare attenti nel trattare questi temi in termini di diritti individuali: non sono solo questo, si traducono in scelte politiche.
La semplice scelta etica dell'obiezione di coscienza allora non basta più?
No e possiamo fare l'esempio della pillola del giorno dopo, cioè quella che si assume entro 72 ore da un rapporto non protetto. Molti medici, dal momento che la pillola potrebbe essere abortiva, fanno obiezione di coscienza: ciò va bene per i farmacisti, che possono avere problemi a negare un farmaco per cui viene una regolare ricetta, ma il medico chiude la questione se sceglie di fare obiezione di coscienza.
Invece, se io fossi un medico direi: per questa pillola è stato deciso in Italia che è necessaria la ricetta (tra l'altro questo è stato stabilito da Umberto Veronesi che non è un medico cattolico). Si tratta quindi di un farmaco con controindicazioni. Il medico, in scienza e coscienza, può non prescrivere direttamente la pillola (ad esempio, se una ragazza arriva in pronto soccorso nel mezzo della notte), ma mandare la ragazza il giorno dopo dal suo medico di base, che potrà verificare se ci sono le condizioni per prescrivere il farmaco.
Si tratta perciò di considerare, accanto agli oggettivi risvolti etici, anche gli aspetti di deontologia professionale che influenzano anche la sfera politica, perché risulta evidente che non basta a risolvere il problema una legge che consenta l’obiezione di coscienza. Si pone cioè anche una domanda radicale su cosa sia la professione medica, quindi non solo una questione etica in senso stretto, abortiva o non abortiva, ma si tratta di una presa di posizione che può anche cambiare l'organizzazione sanitaria.
Il caso di Eluana Englaro ha sortito l'effetto di aprire il dibattito e render urgente la scelta sull’opportunità o meno di fare una legge sul testamento biologico. Quali sono i requisiti che dovrebbe avere in Italia una legge su questa materia?
È stata determinante la sentenza della Cassazione dello scorso ottobre, stabilendo che le volontà di una persona possono essere dedotte dagli stili di vita e dai comportamenti presunti, per cui a Eluana Englaro si potrebbe staccare il sondino per affermazioni fatte a 15 anni davanti ad amiche. È lecito pensare che non fosse pienamente informata su cosa fosse uno stato vegetativo, di quali fossero le diverse condizioni di coma.
Una sentenza che ha scavalcato le prerogative del Parlamento, che non ha caso ha sollevato il conflitto di attribuzione.
Una sentenza che è andata oltre l'organo legislativo e oltre tutte le proposte di legge depositate in Parlamento. Neanche i Radicali hanno depositato una proposta di legge sul testamento biologico con le dichiarazioni anticipate orali. Questo precedente richiede una nuova azione legislativa che disciplini la materia. La sentenza della Cassazione si basa su un'interpretazione ampiamente liberale dell’autodeterminazione di cui all'articolo 32 della nostra Costituzione. Occorre correggere e specificare quest'interpretazione: c'é senz'altro la libertà di cura, ma non è la libertà di suicidio assistito.
Ipotizziamo una legge sul testamento biologico: come deve essere per non scivolare verso l'eutanasia?
A mio avviso dovrebbe avere tre punti: gli stessi – sui quali discuterà il Parlamento – posti dal Comitato nazionale di Bioetica del 2003. Anzitutto il testamento biologico non deve essere obbligatorio per i cittadini, non deve essere vincolante per il medico - che ne deve tenere conto, ma non sentirsi obbligato a eseguire le volontà del paziente, deve cioè essere libero di agire secondo scienza e coscienza – e infine l'alimentazione e l'idratazione artificiale non devono essere in nessun modo considerate terapie, altrimenti il passaggio dal sondino nasogastrico di Eluana al cucchiaio del malato di Alzheimer è breve.
La Regione Lombardia ha detto che il suo personale sanitario non può sospendere l’idratazione e l’alimentazione artificiale che tiene in vita Eluana. Che ne pensa?
La Regione fa bene a rifiutarsi, perché la sentenza della Corte d’Appello di Milano non obbliga qualcuno a staccare il sondino a Eluana, ma dà l'autorizzazione al tutore, cioè al padre, di interrompere l'idratazione e l'alimentazione. Non dice chi deve farlo e soprattutto non obbliga a farlo, quindi non spetta alla Regione intervenire in merito.
Quando Gadamer si espose al fuoco di fila degli studenti - La ferita salutare di una vera domanda - "Processo esegetico ed ermeneutica credente" è il tema della quarantesima Settimana nazionale biblica in corso fino al 12 settembre a Roma. Pubblichiamo la prima parte della relazione inaugurale - di Bruno Forte - Arcivescovo di Chieti-Vasto
Una citazione, tratta da un quodlibet di Tommaso d'Aquino, mi sembra possa introdurre opportunamente la riflessione su fede e ragione nell'interpretazione delle Scritture: "Se il maestro risolverà la questione soltanto con argomenti di autorità, chi l'ascolta sarà certo rassicurato che le cose stanno così, ma non acquisterà nulla in scienza ed intelletto, e se ne andrà via senza alcun guadagno". Queste parole possono considerarsi una sorta di manifesto di quell'attività fiorente nell'universitas medioevale, che fu la quaestio quodlibetalis o quodlibet.
Riservata ai grandi magistri la quaestio su qualsivoglia argomento sostituiva la lectio e lasciava gli uditori - studenti o colleghi - liberi di provocare il maestro con le domande più varie e non di rado inquietanti.
La ragione per la quale il magister accettava la sfida può individuarsi precisamente nella considerazione proposta dall'Aquinate: si incontrano risposte vere solo quando si hanno domande vere; si esercita la forza del pensiero ben più quando si pongono quelle domande, che quando si danno risposte a buon mercato.
La quaestio quodlibetalis diveniva allora un gioco dialettico, teso a provocare l'interrogante ben più che l'interrogato, per far scaturire dal costato degli uditori quei fiumi d'acqua viva in essi nascosti, che solo la lancia acuminata di una vera domanda - sorta dall'affannosa ricerca di sfidare la genialità del magister - riusciva a liberare analogamente a come - secondo la bella interpretazione di Origene, estesa da lui stesso alla potenza del domandare - la lancia che trapassò il costato del Redentore crocifisso fece scaturire l'acqua e il sangue della vita vera.
Anche il testo delle Scritture Sacre - né più né meno del costato di Cristo - si offre a questa ferita salutare: anch'esso, opportunamente interrogato, fa scaturire dal suo seno fiumi di acqua viva e sangue corroborante per le vene del nostro cuore e della nostra intelligenza. È questa la convinzione che ha ispirato sin dalle origini la lettura credente della Parola di Dio, secondo un atteggiamento di interrogazione e di ascolto che unisce l'interprete cristiano alla tradizione dei maestri ebrei, come innesto sulla santa radice.
Quali sono le condizioni che rendono corretto questo approccio? Di quali presupposti deve valersi l'interpretazione perché non si traduca in violenza sul testo, che lo esponga al dominio dell'interprete, o in una presunta obbedienza a-critica, che favorisca ogni sorta di fondamentalismo? E nella risposta a queste domande che si può cogliere il ruolo specifico della fede e della ragione nell'atto ermeneutico condotto sulle Sacre Scritture.
Nelle riflessioni che seguono vorrei approfondire il modello di approccio, che più di altri mi pare coniugare correttamente ragione e fede nell'interpretazione del testo sacro, senza trascurare il riferimento ad altri modelli che - ispirati a grandi progetti speculativi - mostrano le conseguenze dell'esasperazione di uno dei due poli in gioco a scapito dell'altro e della verità del risultato.
Quanto segue si presenta pertanto nella forma di un dittico: nella prima tavola, è la proposta ermeneutica di Gadamer e il suo rapporto con la rivelazione cristiana a costituire l'oggetto di attenzione; nella seconda, è la critica alle ermeneutiche rispettivamente dell'identità e della differenza assoluta a far spazio all'analisi del corretto rapporto fra fede e ragione nell'interpretazione del testo biblico.
Un dialogo con Hans Georg Gadamer, di cui ho potuto riportare la testimonianza diretta, ci introduce nella prima tavola del dittico.
Avevo voluto iniziare l'esperienza della quaestio quodlibetalis nella facoltà di Teologia napoletana, negli anni in cui essa era affidata alla mia guida accademica. Perché l'impresa risultasse feconda occorreva che la qualità dei magistri invitati fosse pari all'ambizioso livello dei frutti che si speravano.
Fu così che tra gli altri proposi a Gadamer di accogliere la sfida della quaestio, esponendosi al fuoco di fila delle domande che da chiunque e su qualunque argomento avrebbero potuto essergli poste.
Il maestro accettò di buon grado: e fu così che in un'aula affollatissima di studenti e di docenti, in una splendida mattinata primaverile napoletana della fine degli anni Ottanta del secolo scorso, l'ultraottuagenario magister si offrì in pasto ai suoi interlocutori. In verità agli studenti - soprattutto alle matricole - qualcosa era stato detto del maestro: il colloquio si svolse tuttavia in assoluta libertà e franchezza. Delle tante, due domande e la risposta a esse mi pare possano risultare illuminanti per comprendere il rapporto fra ragione e fede nell'interpretazione delle Scritture.
La prima fu posta con assoluto candore da una matricola: "Ci hanno detto che lei è il padre dell'ermeneutica contemporanea. Può spiegarmi, per favore, che cos'è l'ermeneutica?". Il magister - senza minimamente scomporsi di fronte alla risata generale seguita a un interrogativo così diretto e naive - prontamente rispose: "Ermeneutica significa che quando Lei e io dialoghiamo dobbiamo sforzarci di cogliere il mondo vitale che sta dietro le parole dell'altro, da cui esse provengono e che esse esprimono".
Lo studente sembrò soddisfatto: e invero ne aveva materia, forse al di là della sua stessa consapevolezza. La risposta di Gadamer era riuscita a sintetizzare efficacemente alcune fra le pagine più alte della sua riflessione: sgombrando il campo da ogni astratta definizione, il magister aveva evocato in maniera essenziale le condizioni dell'atto ermeneutico, così come da lui esposte ad esempio nella sua opera maggiore, Verità e metodo.
In primo luogo, egli aveva ricordato che l'evento nel quale l'essere accede alla comprensione e alla comunicazione degli uomini è il linguaggio: in esso accade il dirsi dell'essere, altrimenti silenzioso e raccolto; attraverso di esso diviene possibile l'intelligenza della cosa; in esso si stabilisce la comunicazione fra gli interlocutori, grazie alla quale essi possono comprendersi e intendersi sulla cosa stessa.
Il linguaggio si presenta come il mezzo in cui l'io e il mondo vengono a incontrarsi e congiungersi, manifestando la loro reciproca appartenenza e insieme la loro distinzione, attuando grazie a esso quella "fusione di orizzonti", in cui consiste propriamente il comprendere. Nel linguaggio si profila così una totalità di senso, che non va intesa come qualcosa di statico e di fisso, ma come un attuarsi sempre nuovo. In quanto evento della comprensione, il linguaggio accade all'interno del più vasto mondo dell'essere, senza esaurirlo o dissolverlo, ma anche senza separarsi da esso: in questo senso, "l'essere che può venir compreso è linguaggio".
In forza di questo gioco di espressione e di ulteriorità rispetto a essa, si può affermare che noi conosciamo grazie alle cose che non conosceremo mai, e che non è la conoscenza che illumina la profondità della cosa, ma è la misteriosa profondità della cosa che - accadendo nel linguaggio - illumina la conoscenza.
Il vero problema nella comprensione sta allora nel modo di interpretare il rapporto che nel linguaggio si stabilisce fra la parola e la cosa, fra il soggetto interpretante e l'oggetto interpreto. Questo rapporto vive per Gadamer di tre condizioni: in primo luogo, la reciproca estraneità; quindi, un'originaria e strutturale coappartenenza; e, infine, la "fusione di orizzonti", in cui consiste propriamente la comprensione interpretante. L'estraneità (Entfremdung) sottolinea che eventi o parole altri dal mondo dell'interprete sono anzitutto e vanno riconosciuti come "altro": come tali essi non sono riducibili alle istanze del soggetto, ma hanno uno spessore e una complessità oggettivi, che impediscono di disporne in maniera unicamente funzionale agli interessi di chi interpreta.
Bisogna pertanto accostarsi all'altro mediante un'indagine che miri a utilizzare tutte le informazioni accessibili in vista della ricostruzione dell'ambiente e del processo vitale in cui eventi e parole altrui si collocano, per accertare in tal modo i contenuti e le sfide che - proprio nella loro diversità - essi propongono all'interprete. In rapporto alle Sacre Scritture, questa prima condizione giustifica l'imprescindibile ricorso agli strumenti del metodo storico-critico, che consentono di mantenere la necessaria maggiore oggettività possibile rispetto al testo.
In secondo luogo, fra chi interpreta e ciò che è interpretato si deve riconoscere una certa coappartenenza (Zugehörigkeit), senza la quale nessuna comunicazione potrebbe sussistere fra di essi: questa comune appartenenza è fondata sul fatto che ogni essere umano di ieri o di oggi si situa in un complesso di relazioni storiche e ha bisogno per viverle della mediazione linguistica, sempre storicamente determinata. Non è la storia che appartiene a noi, ma siamo noi che apparteniamo alla storia!
E la stessa rivelazione divina attestata nelle Scritture ebraico-cristiane si compie nella storia, con eventi e parole intimamente connessi, dai quali è semplicemente impossibile prescindere se si vuole accogliere la comunicazione divina. Mettere in luce la coappartenenza fra l'interprete e l'oggetto dell'interpretazione, vuol dire giudicare della correttezza delle possibili corrispondenze e delle eventuali difficoltà di comunicazione rilevate dalla propria intelligenza nelle parole o negli eventi altrui: ciò esige di tener conto delle domande che motivano l'interpretazione e della loro incidenza sulle risposte ottenute, del contesto vitale in cui si opera, nonché della comunità interpretante, il cui linguaggio si parla e alla quale si intende parlare.
A tal fine è necessario rendere il più possibile riflessa e consapevole la precomprensione, che di fatto è sempre inclusa in ogni interpretazione, per misurarne e temperarne la reale incidenza sul processo interpretativo: anche quando esso ha per oggetto il testo delle Sacre Scritture, in cui la Parola abita nelle parole degli uomini.
Infine, fra chi interpreta e l'oggetto dell'interpretazione viene a compiersi, attraverso lo sforzo conoscitivo e valutativo, una "fusione di orizzonti" (Horizontverschmelzung), in cui consiste propriamente l'atto ermeneutico, l' affacciarsi della comprensione dell'altro. In esso si esprime quella che si giudica essere l'intelligenza corretta degli eventi o delle parole altrui: il che equivale a cogliere il significato che essi possono avere per l'interprete e il suo mondo.
Grazie a questo incontro di mondi vitali la comprensione dell'altro si traduce nella sua applicazione al soggetto interpretante: il linguaggio è colto nelle potenzialità che schiude, nello stimolo che offre a modificare il presente.
Capire la testimonianza dell'altro vuol dire allora raggiungerla il più possibile nella sua oggettività, attraverso tutte le fonti di cui è possibile disporre; giudicare della correttezza della propria interpretazione significa verificare con onestà e rigore in che misura essa possa essere stata orientata o comunque condizionata dalla precomprensione e dai possibili pregiudizi dell'interprete; esprimere l'interpretazione raggiunta significa rendere gli altri partecipi del dialogo intessuto con altri sia per verificarne la rilevanza, sia per esporsi al confronto di eventuali, diverse interpretazioni.
Si comprende qui come l'applicazione di questa terza condizione al testo sacro, considerato dal credente come ispirato da Dio, ponga alla ragione dell'interprete non pochi problemi: essa deve accettare il superamento necessario della totalità dei propri orizzonti, per lasciarsi stupire dalla novità di un avvento, che non è né deducibile da conoscenze a-priori o semplicemente precedenti, né ricavabile dal vasto mondo dei fenomeni accessibili al nostro conoscere.
E tuttavia questo atto non è né contrario alla ragione nella sua apertura radicale, né tale da risultare imprigionante per essa: anzi, l'apertura all'eccedenza dell'autocomunicazione divina rende l'intelligenza non meno, ma più libera, non meno, ma più ricca e feconda. Se la "fusione di orizzonti" fra oggetto e interprete esclusivamente mondano è già crescita e arricchimento del soggetto, in maniera analoga una tale fusione - sia pur realizzata in maniera necessariamente asimmetrica - stabilisce fra il Dio che si comunica nelle parole della rivelazione e l'intelligenza credente che a essa si apre un reale legame comunicativo, capace di potenziare, stimolare e allargare le capacità di comprensione del soggetto, portandole a una "sovraconoscenza" che non solo non è nemica dell'uomo, ma ne esalta la dignità e la vocazione alla trascendenza.
A riprova di una tale possibile, reciproca fecondazione fra fede e ragione nell'ermeneutica delle Sacre Scritture, vorrei qui citare un'altra risposta di Gadamer nella medesima quaestio. La domanda era stata posta questa volta da uno studente apparentemente più smaliziato: da teologo in erba, questi intendeva portare il magister sul proprio terreno, pensando probabilmente di trascinarlo in un'inquietante disputa in munere alieno.
L'interrogativo era dunque: "Che cosa significa per lei la Croce di Cristo?". Anche qui la risposta fu lapidaria, fulminea: "Che Dio abbia fatto sua la morte è quanto di più alto la mente umana abbia mai concepito. E questo le è stato donato".
Qualche attimo di stupito silenzio fece seguito a queste parole, che rivelavano in realtà un pensiero, caratteristico della riflessione del "padre" dell'ermeneutica contemporanea: Gadamer riassumeva in esse una tesi storica centrale della sua indagine, e cioè che l'unica vera novità nello sviluppo del concetto di linguaggio in Occidente è stata la dottrina cristiana dell'incarnazione e della kènosis del Verbo eterno.
"Il più grande miracolo del linguaggio non consiste nel fatto che la parola si fa carne e si manifesta nel mondo esterno, ma nel fatto che quello che così si manifesta nel mondo esterno è già sempre parola. La dottrina che si impone nella Chiesa contro il subordinazionismo è che la parola è presso Dio dall'eternità, e questo trasferisce radicalmente il problema del linguaggio nell'intimità del pensiero".
(©L'Osservatore Romano - 10 settembre 2008)
10 settembre 2008
Le elezioni americane più importanti dal 1980 - Che cosa c’è in ballo (punto per punto) nella gara tra Obama e McCain, dal Foglio.it
Quest’anno le differenze politiche e ideologiche tra democratici e repubblicani sono più profonde che in tutte le precedenti elezioni sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, fatta eccezione per la donchisciottesca sfida di Barry Goldwater alla Great Society di Lyndon Johnson nel 1964, la missione suicida di George McGovern contro Richard Nixon nel 1972 e la vittoria di Ronald Reagan su Jimmy Carter nel 1980.
Le differenze su tasse, economia e assistenza medica sono radicali e complesse. Barack Obama intende proporre uno dei più pesanti aumenti di tasse della storia mondiale, da far ricadere sulle spalle del 40 per cento più ricco della popolazione. Obama cerca di nasconderlo dietro una ridda di spesso fittizi crediti fiscali rimborsabili. L’aumento del prelievo fiscale sui redditi elevati andrà a beneficio di persone che pagano pochissime tasse o addirittura nessuna. Nessun elemento di questo procedimento può essere definito un “taglio alle tasse”, anche se è stato presentato in questi termini. L’aliquota fiscale massima e la tassa sui guadagni e i dividendi in conto capitale aumenteranno di un terzo, l’imposta di successione subirà un aumento del 45 per cento, l’imposta sul ruolo paga sarà aumentata per le famiglie con un reddito superiore a 250 mila dollari all’anno. La tesi che tutto questo manterrebbe le tasse al 18,2 per cento del pil è una pura e semplice assurdità.
John McCain intende stimolare l’aumento di produttività con incentivi fiscali, legittimare la ricerca e le tecnologie, favorire gli ammortamenti fiscali, incoraggiando l’investimento di capitali, nonché ridurre moderatamente le imposte sul reddito delle società e quelle sul reddito individuale. Intende concedere a ogni persona adulta crediti fiscali per l’assistenza sanitaria, incoraggiando la gente a cercarla al prezzo migliore.
Obama, al contrario, propone un’assicurazione medica obbligatoria, cosicché circa la metà della popolazione otterrà la copertura finanziaria dal governo federale. Nessuno dei due candidati propone di porre limiti massimi a risarcimenti, premi assicurativi o prezzi delle medicine. In tal modo, quale che sia la proposta vincente, i costi per l’assistenza sanitaria supereranno notevolmente l’attuale strabiliante cifra di duemila miliardi di dollari, vale a dire il 16 per cento del pil percentuale più alta di quella di tutto il resto del mondo. Il nuovo presidente dovrà prendere difficili decisioni sul piano economico, e per questo compito il programma di McCain è più adatto di quello di Obama. Alzare le tasse quando l’economia è sull’orlo di una recessione è un piano di ripresa uscito di moda già al tempo di Herbert Hoover, 75 anni fa.
Le differenze su aborto e armi. Le differenze su altre tradizionali questioni, come l’aborto e il controllo sulle armi, sono ancora più nette, anche se Obama ha cercato di mascherarle nel discorso di accettazione alla convention democratica. Ha proclamato di rispettare il diritto costituzionale a portare armi, ma ha detto di non volere vendere kalashnikov AK-47 a bande di criminali – come se qualcuno l’avesse mai voluto! (I lettori sapranno che io, in questo momento, sono tecnicamente un criminale negli Stati Uniti, grazie alla perversità del sistema giudiziario del paese. Posso affermare con certezza che distribuire AK-47 ai detenuti del carcere in cui mi trovo al momento della loro liberazione non farebbe alzare il tasso di criminalità. Quei pochi che desiderassero mettere le mani su un kalashnikov lo potrebbero fare facilmente qualsiasi cosa ne pensi il governo federale). Obama ha detto di rispettare il diritto alla vita, ma anche che ci sono “troppi bambini indesiderati” – una sorta di apertura all’aborto, insomma. McCain e la sua candidata alla vicepresidenza, invece, hanno sull’aborto e il controllo sulle armi una posizione netta, ma non intransigente. Ancora più dirompenti sul piano sociologico sono gli appelli agli elettori bianchi da parte dei democratici e quelli agli elettori di sesso femminile da parte dei repubblicani. Obama ha detto alla comunità nera di mettersi in forma, porre fine alla frammentazione della famiglia e cessare di giocare la carta della vittima.
La candidatura di Sarah Palin è, in parte, un tentativo di strappare la leadership del movimento femminista all’élite militante della sinistra e metterla nelle mani di una maggioranza silenziosa di donne ambiziose ma tradizionali. E’ una mossa coraggiosa per cercare di separare l’aborto da altre questioni generalmente associate ai diritti delle donne. I democratici e i media femministi non sono riusciti a spacciare l’immagine della governatrice Sarah Palin come uno zuccone Dan Quayle travestito, una mogliettina dal grilletto facile e una madre negligente (perché avrebbe scelto di candidarsi alla vicepresidenza nonostante la sua giovane famiglia e la gravidanza della sua figlia diciassettenne e non sposata).
La frenesia dell’assalto iniziale, e l’ipocrita affermazione che le donne sarebbero state offese dalla candidatura di una simile stupida cafona, ha dimostrato che McCain non ha dimenticato la strategia militare di applicare la massima forza possibile al momento decisivo e di ottenere la massima sorpresa: se i liberal stanno cercando di impadronirsi del terreno più vantaggioso sulle questioni del sesso extraconiugale e delle madri lavoratrici, vuol davvero dire che hanno paura. Ma neppure i repubblicani erano preparati al virtuosismo del debutto di Sarah Palin alla convention. Riuscire a essere accattivante e candida, e allo stesso tempo spiritosa; dura e decisa senza apparire come una vecchia megera; un’autentica femminista sulle cose cui le donne aspirano veramente, ma allo stesso tempo tradizionalista; una brava e onesta governatrice e una nemica degli eccessi delle compagnie petrolifere e degli ormai proverbiali interessi speciali. Le prime repliche dei democratici e dei media su un’offesa alle donne americane, su una sciocca mediocrità borghese, con l’immagine di una primitiva donna della frontiera con il fucile in una mano e la Bibbia nell’altra non hanno avuto alcun effetto.
Palin è una persona di naturale popolarità, l’esatto opposto di Joe Biden, un noioso e mediocre burocrate di sinistra, pieno di arroganza e vuote parole. Quando Palin ha raccontato che Harry Reid, quel tedioso nonnulla che i democratici hanno inflitto al Senato come leader di maggioranza, aveva dichiarato di detestare McCain e ha aggiunto che quello era il maggior complimento che poteva ricevere il candidato repubblicano, è stata sommersa dagli applausi.
L’America che verrà. George W. Bush ha un tasso di popolarità del 30 per cento, piuttosto basso ma non senza precedenti. Quello del Congresso, però, è a una sola cifra, una percentuale persino inferiore a quella degli americani convinti che Elvis Presley sia ancora vivo. Per tutti gli ultimi due anni i democratici hanno pensato che l’unica cosa che dovessero fare era menzionare il nome del presidente uscente e spedire in giro grossi camion a raccogliere tutti i voti per il loro partito. I lettori attenti ricorderanno che non l’ho mai pensata così. I candidati democratici propongono una politica estera di eterni negoziati, a parte l’irresponsabile promessa di Obama che, per dare la caccia a Osama bin Laden, sarebbe pronto a invadere il Pakistan, una potenza nucleare e un alleato, con una popolazione otto volte maggiore di quella dell’Iraq.
McCain, il veterano, l’ex prigioniero di guerra, figlio e nipote di ammiragli, non ha dubbi sull’uso dell’immensa potenza militare degli Stati Uniti per difendere i legittimi interessi nazionali. McCain è convinto che la guerra del Vietnam poteva e avrebbe dovuto essere vinta, e ha sempre sostenuto la guerra in Iraq, anche se ha giustamente criticato il modo in cui l’occupazione era gestita prima dell’avvio dell’operazione surge. Obama e Biden ritengono che il ricorso alla forza militare non sia praticamente mai giustificato. McCain e Palin credono che, se necessario, si debba mantenere la credibilità della propria deterrenza anche con un moderato uso della forza. Queste differenze filosofiche potrebbero portare a risposte molto diverse agli eventi internazionali.
Obama resterà il leader degli afroamericani, sia che vinca sia che perda. Quest’elezione dovrebbe mettere la leadership di questa comunità nelle sue mani; potrebbe porre la leadership del movimento femminista in gioco tra le militanti e le tradizionaliste; determinerà se gli Stati Uniti si muoveranno verso una maggiore influenza del settore pubblico sull’economia e i servizi sociali; e deciderà se le forze armate si ridurranno a un fragile colosso di Osimandia o se continueranno a essere il più potente fattore geopolitico del mondo. Queste sono le elezioni più importanti del mondo dai giorni dell’ascesa di Ronald Reagan nel 1980.
Conrad Black
© New York Sun
(traduzione di Aldo Piccato)
Caffarra: assordante silenzio dei media - L’arcivescovo di Bologna: «Il martire esalta la dignità della persona». Dai fratelli indiani «il più grande insegnamento», Avvenire, 10 set. 08
DA BOLOGNA STEFANO ANDRINI
erché ci si mostra più preoccupati della sorte degli orsi polari che di uomini e donne colpevoli solo di aver scelto la fede cristiana? È questa la domanda da cui è partito il cardinale Carlo Caffarra durante la Messa celebrata in occasione della Giornata di preghiera e digiuno per i cristiani perseguitati dello Stato indiano dell’Orissa.
«Noi ci troviamo – ha detto l’arcivescovo di Bologna – perché, facendo nostro l’accorato appello del Santo Padre, vogliamo condividere la stessa passione di chi è perseguitato per il nome del Signore ». «Non possiamo però non sentire – ha aggiunto – l’assordante silenzio che i mezzi della comunicazione (esclusi quelli cattolici) stanno mantenendo su queste gravi violazioni a fondamentali diritti della persona: il diritto alla vita, e il diritto alla libertà religiosa». Il martirio, ha ricordato Caffarra, P «disturba gravemente chi ritiene che alla fine tutto è negoziabile; chi nega che esista qualcosa di indisponibile e che non può essere mercanteggiato. Il martire esalta la dignità della persona in modo che non può che essere censurato da chi pensa che alla fine l’uomo è solo un frammento corruttibile di un tutto impersonale. La grandezza del martire smaschera la povera nudità del relativismo».
In questa prospettiva i fratelli e le sorelle perseguitati « ci stanno dando il più grande insegnamento sull’uomo, sulla sua dignità, sulla sua altissima vocazione ». «La radice della nostra forza – ha concluso il cardinale – è la nostra adorazione di Cristo. Solo chi riconosce come unico Signore il Cristo, non piega le ginocchia davanti a nessun altro padrone. È l’atto di adorazione la vera liberazione della nostra libertà. Libertà da ogni tradizione culturale, da ogni costume e classificazione