Nella rassegna stampa di oggi:
1) 24/09/2008 11:38 – VATICANO - Papa: il cristianesimo non nasce da un mito, ma dall’incontro con Gesù - Continuando nelle riflessioni su San Paolo, Benedetto XVI evidenzia l’importanza che l’apostolo annette alla vita terrena del Risorto ed il suo voler riferire fedelmente quanto appreso. Ciò mostra l’errore di chi definisce Paolo fondatore del cristianesimo.
2) CHIESA/ Magister: da Bagnasco una svolta sul testamento biologico - INT. Sandro Magister - mercoledì 24 settembre 2008 – IlSussidiario.net
3) ALITALIA/ Non solo banalità nella lettera di Veltroni a Berlusconi - Renato Farina - mercoledì 24 settembre 2008 – IlSussidiario.net
4) FINLANDIA/ Meluzzi: la strage in una scuola, espressione di un mondo privo di senso - INT. Alessandro Meluzzi - mercoledì 24 settembre 2008 – IlSussidiario.net
5) Una lettera di padre Aldo Trento, intervenuto quest’anno al Meeting di Rimini
6) Si apre a Recanati l'XI convegno internazionale di studi dedicati al poeta - L'antropologo Leopardi - alla fine incontra Giobbe - di Claudio Toscani, L’Osservatore Romano, 24 settembre 2008
7) Sulle tracce di Pavese per scoprire la propria umanità - È da pochi giorni in libreria La traccia di Cesare Pavese di Gianfranco Lauretano (Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, collana "I libri dello spirito cristiano", 2008, pagine 251, euro 10). Ne pubblichiamo la prefazione - di Davide Rondoni – L’Osservatore Romano, 24 settembre 2008
8) 24 settembre 2008 - Dopo l'editoriale del Foglio la replica di Avvenire - Bagnasco e la proposta sulla legge di fine vita - Possenti e Ippolito chiosano il presidente della Cei, Dal Foglio.it
9) BIOETICA & RICERCA - Con le «nuove» staminali sarà una vera rivoluzione - DA MADISON (WISCONSIN) - ELENA MOLINARI, Avvenire 24 settembre 2008
1) 24/09/2008 11:38 – VATICANO - Papa: il cristianesimo non nasce da un mito, ma dall’incontro con Gesù - Continuando nelle riflessioni su San Paolo, Benedetto XVI evidenzia l’importanza che l’apostolo annette alla vita terrena del Risorto ed il suo voler riferire fedelmente quanto appreso. Ciò mostra l’errore di chi definisce Paolo fondatore del cristianesimo.
2) CHIESA/ Magister: da Bagnasco una svolta sul testamento biologico - INT. Sandro Magister - mercoledì 24 settembre 2008 – IlSussidiario.net
3) ALITALIA/ Non solo banalità nella lettera di Veltroni a Berlusconi - Renato Farina - mercoledì 24 settembre 2008 – IlSussidiario.net
4) FINLANDIA/ Meluzzi: la strage in una scuola, espressione di un mondo privo di senso - INT. Alessandro Meluzzi - mercoledì 24 settembre 2008 – IlSussidiario.net
5) Una lettera di padre Aldo Trento, intervenuto quest’anno al Meeting di Rimini
6) Si apre a Recanati l'XI convegno internazionale di studi dedicati al poeta - L'antropologo Leopardi - alla fine incontra Giobbe - di Claudio Toscani, L’Osservatore Romano, 24 settembre 2008
7) Sulle tracce di Pavese per scoprire la propria umanità - È da pochi giorni in libreria La traccia di Cesare Pavese di Gianfranco Lauretano (Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, collana "I libri dello spirito cristiano", 2008, pagine 251, euro 10). Ne pubblichiamo la prefazione - di Davide Rondoni – L’Osservatore Romano, 24 settembre 2008
8) 24 settembre 2008 - Dopo l'editoriale del Foglio la replica di Avvenire - Bagnasco e la proposta sulla legge di fine vita - Possenti e Ippolito chiosano il presidente della Cei, Dal Foglio.it
9) BIOETICA & RICERCA - Con le «nuove» staminali sarà una vera rivoluzione - DA MADISON (WISCONSIN) - ELENA MOLINARI, Avvenire 24 settembre 2008
24/09/2008 11:38 – VATICANO - Papa: il cristianesimo non nasce da un mito, ma dall’incontro con Gesù
Continuando nelle riflessioni su San Paolo, Benedetto XVI evidenzia l’importanza che l’apostolo annette alla vita terrena del Risorto ed il suo voler riferire fedelmente quanto appreso. Ciò mostra l’errore di chi definisce Paolo fondatore del cristianesimo.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Il cristianesimo “non nasce da un mito, da un’idea, bensì dall'incontro con la persona di Gesù di Nazaret, il Cristo risorto”, la vicenda umana del quale San Paolo volle conoscere e, già negli anni 30, riferì. L’importanza che San Paolo dedica alla tradizione ed alle vicende terrene di Gesù è stata illustrata oggi da Benedetto XVI ai 15milafedeli presenti in piazza San Pietro per l’udienza generale, in una bella giornata di inizio autunno.
Proprio l’importanza e l’attenzione che l’apostolo evidenzia verso quanto detto e fatto da Gesù “nelle strade della Galilea”, ha detto il Papa, mostra “l’errore” di chi gli attribuisce un ruolo di “fondatore del cristianesimo: prima di evangelizzare, ha incontrato Cristo sulla via di Damasco e frequentato nella Chiesa, osservandolo nella vita dei Dodici e in coloro che l'hanno seguito sulle strade della Galilea”. Paolo infatti “non incontrò mai Gesù, per questo avvertì il bisogno di consultare i primi discepoli”. Nella Lettera ai Galati racconta dei suoi contatti, “anzitutto con Pietro, scelto come roccia su cui si stava edificando la Chiesa”.
Con Pietro, ha ricordato Benedetto XVI si è incontrato a Gerusalemme, “dove stette 15 giorni per consultarlo, per essere informato sulla vita terrena del Risorto” che dopo Damasco “gli stava cambiano radicalmente l’esistenza”, “trasformandolo da persecutore della Chiesa in apostolo”. Guardando a “quale genere di informazioni ebbe a Gerusalemme” - e Paolo più volte scrive di “trasmettere con fedeltà quanto ricevuto” – il Papa ha sottolineato che in esse si evidenziano gli “elementi costitutivi della Chiesa: eucaristia e risurrezione”. Essi “sono già formulati negli anni 30”. “Le parole dell’Ultima cena sono per Paolo centro della vita della Chiesa che si costruisce da questo centro”, dal quale essa “nasce continuamente”. Parole “di notevole impatto”, “da una parte attestano che l’Eucaristia illumina la maledizione della Croce rendendola benedizione”, “dall’altra illustrano la Risurrezione”.
La scansione delle apparizioni agli apostoli fatta da Paolo “si chiude con Damasco: ultimo tra tutti apparve anche a me”. Egli sottolinea “la sua indegnità di essere considerato apostolo come coloro che lo hanno preceduti, ma la grazia divina non è stata vana”. “Cosi io e loro predichiamo la stessa fede, lo stesso vangelo di Gesù”.
Paolo “pone l’accento sul dono fatto di sé al Padre per liberarci dai nostri peccati e dalla morte”, nella Lettera ai Corinzi scrive: “da ricco che era si è fatto povero per noi perché diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà”. “Merita di essere segnalato – ha sottolineato poi il Papa - l’uso del verbo: è resuscitato invece del fu”. “La Risurrezione incide fino al presente dell’esistenza dei credenti. Possiamo tradurre è risorto come continua a vivere nell’Eucaristia”.
CHIESA/ Magister: da Bagnasco una svolta sul testamento biologico - INT. Sandro Magister - mercoledì 24 settembre 2008 – IlSussidiario.net
La prolusione del Cardinal Bagnasco in apertura dei lavori del Consiglio permanente della Cei ha fatto discutere soprattutto per le dichiarazioni sul tema del testamento biologico. Ma sono molte le tematiche toccate dal presidente della Cei, in un discorso da cui è emersa, secondo il vaticanista dell’Espresso Sandro Magister, una posizione di estrema «tranquillità» ed «equanimità».
Magister, quanto detto dal cardinal Bagnasco sul testamento biologico rappresenta un cambiamento nella posizione della Chiesa: era prevedibile questo mutamento, dopo la sentenza Englaro?
Una svolta c’è stata certamente: fino a qualche mese fa la Chiesa – sia la Conferenza episcopale, sia i laici cattolici impegnati pubblicamente su questi argomenti – sembrava compatta nel respingere qualsiasi ipotesi di appoggio a una legiferazione in questa materia, ritenendola troppo delicata per essere costretta dentro le maglie di una legge. Invece adesso abbiamo una linea che si discosta da quella di qualche mese fa. La variante naturalmente, come ha fatto ben capire Bagnasco nella sua prolusione, è data dalle sentenze che hanno aperto la strada a un intervento di arresto della vita di un malato grave, addirittura interrompendo quelle che non sono affatto cure, come l’alimentazione e l’idratazione. Questo l’elemento che ha indotto la Cei, nella figura del suo presidente, a ritenere che occorra mettere mano a una legge che blocchi le vie di fuga che si sono aperte con questa sentenza. È dunque accaduto qualcosa, che ha portato a ritenere che sia meno rischioso intervenire in termini legislativi sulla questione.
C’è stato un passaggio nella prolusione di Bagnasco, poco ripreso dai giornali, su «un certo sguardo laico sulla Chiesa» e sulle «parzialità o l’ostinazione di taluni giudizi», rispetto ai quali la Chiesa non sempre ritiene di dover intervenire. Perché questo passaggio, e a cosa si riferiva in particolare Bagnasco?
Anch’io mi sono chiesto se vi fossero riferimenti precisi, che probabilmente ci sono; ma il testo della prolusione non è così chiaro da permettere di dire con certezza quali siano questi interventi. Di sicuro c’è un clima generale, che consiste in una sorta di martellamento abbastanza continuo da parte di voci laiche, sui media e nei libri, che attaccano abbastanza frontalmente la Chiesa. C’è chi si aspetta che ogniqualvolta una di queste voci si esprime la Chiesa nella sua ufficialità debba intervenire. Bagnasco a questo ha detto no, sottolineando il fatto che ci troviamo di fronte a una sorta di ripetitività di questi attacchi, che non hanno, da qualche tempo a questa parte, nulla di particolarmente nuovo e originale. Si vanno ripetendo formule anticristiane un po’ scontate («ossificate», come ha detto Bagnasco), e che non meritano risposte volta per volta.
Qualche esempio concreto si può fare?
Se si vuole esemplificare, non c’è dubbio che l’uscita in serie dei volumi di Corrado Augias, prima Inchiesta su Gesù e oggi Inchiesta sul cristianesimo sono parte di questo attacco; l’ateismo gridato e sicuramente greve di Piergiorgio Odifreddi è un’altra parte di questi attacchi; una certa linea insistente di un quotidiano come Repubblica rientra anch’essa nello stesso ambito. Queste le situazione principali che presumibilmente hanno indotto Bagnasco a fare questa sorta di chiarificazione generale. Un chiarificazione che oltretutto denota alla fin fine una certa tranquillità da parte della Chiesa gerarchica nei confronti di questa offensiva.
Qual è sinteticamente il giudizio sulla situazione politica italiana che emerge dal discorso di Bagnasco?
Direi che è un giudizio molto equilibrato. Non si può ricavare da quello che Bagnasco ha detto che la Chiesa italiana sia oggi in modo ostentato a sostegno dell’attuale governo. Di ciascun problema egli ha delineato, in termini abbastanza generali, che vi sono sia elementi positivi, sia inadempienze. Ma l’ha detto in modo sostanzialmente equanime, senza prendere una posizione né di sostegno né di avversione nei confronto dell’operato dell’attuale governo.
Al termine del Consiglio permanente si attende la nomina del successore di Giuseppe Betori, già segretario della Cei e ora nominato arcivescovo di Firenze: che cosa bisogna attendersi da questa nomina?
La mia lettura dei fatti è che la scelta del segretario della Conferenza episcopale cadrà su una persona che garantisce in partenza al presidente della Cei, per conoscenza e fiducia reciproca, un futuro di lavoro collaborativo molto forte. Non è infatti pensabile che all’interno della Cei il segretario rappresenti una sorta di contro-potere rispetto al potere del presidente. Il cardinal Bagnasco, che è in carica da poco, si sentirà ulteriormente garantito dalla presenza di un segretario di cui ha piena fiducia. I nomi sono stati fatti, e sono abbastanza ricorrenti; a dir la verità ci si può aspettare una sorpresa, perché abbastanza spesso accade così. In ogni caso la procedura per la nomina del segretario della Conferenza episcopale qui in Italia – ed è l’unico caso al mondo – è fatta direttamente dal Papa, su proposta del presidente della Conferenza episcopale, sentito il Consiglio permanente. Ora il Consiglio permanente è riunito, e la presidenza al termine presenterà al Papa una terna di candidati. Il Papa ha la scelta finale, anche se naturalmente saprà bene, anche all’interno della terna, quale sarà il candidato preferito dal presidente.
ALITALIA/ Non solo banalità nella lettera di Veltroni a Berlusconi - Renato Farina - mercoledì 24 settembre 2008 – IlSussidiario.net
Ci vorrebbe una vignetta di Guareschi per ritrarre la mossa finale di Walter Veltroni per Alitalia: «Contrordine compagni!». Merita di certo molta ironia. Ma è un segno, seppure tardivo, di resipiscenza. Il premier ombra ha scritto una lettera a Berlusconi composta di due parti. Nella prima gliene dice di tutti i colori. Sostiene che il disastro della Compagnia di bandiera è dovuto agli errori del Cavaliere e del suo governo fino al 2006. Ignora le assunzioni clientelari praticate tra il 1998 e il 2001, governi D’Alema e Amato: circa tremila assunti senza necessità, nessun rinnovo della flotta aerea. E salta a piè pari il disgraziatissimo periodo del governo Prodi: due anni in cui si sarebbe potuto bloccare la catastrofe. Questa è politichetta.
Poi si offre di dare una mano. Tre strade. La prima, e non è un caso, è un atto implicito di accusa alla Cai. Infatti, soprassiede alle incresciose manifestazioni di corporativismo giubilante alla faccia dei povericristi messe in scena a Fiumicino, e chiede a Colaninno & C. di fare «un passo in avanti verso le posizioni espresse dai sindacati, come le indubbie condizioni di vantaggio ad essa offerte dal decreto del governo consentono e richiedono».
La seconda: «ci si attivi per riprendere i fili di quei negoziati con soggetti esteri».
Infine: «il commissario, in rappresentanza di Alitalia, e su preciso mandato del Governo, concluda immediatamente e positivamente una intesa con tutti i sindacati consentendo così poi a CAI e/o a compagnie aeree straniere di acquisire Alitalia, garantendone la sopravvivenza».
Come ha risposto il ministro Sacconi è la banalità allo stato puro, filosofia alla Catalano, scoperta dell’acqua calda.
Segnala però quanto segue: Veltroni è consapevole che l’elettorato (non parliamo di opinione pubblica perché non si sa più bene che cosa sia) ha identificato i colpevoli della situazione attuale nei sindacati. Anzi in un sindacato grosso più alcuni gruppetti di estremisti: la Cgil che si è rivelata serva non degli interessi dei lavoratori ma della volontà del tanto peggio tanto meglio. E tutti sanno che Epifani e Veltroni sono una cosa sola, stessa cipria, stessa idea vecchissima di sindacato impigliato in disegni politici, incapace di concepire l’idea di bene comune.
Veltroni vuole uscire da questa immagine negativa. La gente che lo ha votato ci tiene come tutti a volare in condizioni di sicurezza e di puntualità. Non ha capito questa volontà di fornire continuamente alibi ai sindacati per dire di no e far precipitare le prospettive di rinascita nella Geenna delle buone intenzioni.
Detto questo. C’è un dato importante. Veltroni ha mostrato di rendersi conto che è la pancia del Paese a volere che non si ostacolino i tentativi del governo e degli uomini di buona volontà per consentire alla nostra patria di rialzarsi. Non è più disposta, e forse non lo è in realtà mai stata, a sacrificare il proprio calante benessere sull’altare di una disfida tra politicanti. L’antiberlusconismo non paga più, o paga poco. È sufficiente appena per fare crescere un partito forcaiolo come quello di Di Pietro al dieci per cento.
Dunque, sia pur tardivo, benvenuto Veltroni nel club di chi prova a sacrificarsi per il bene comune. Ha la possibilità di esercitare una seria moral suasion specie sulla Cgil, che non è il caso si riscopra proprio adesso bizzosamente autonoma dall’antica casa madre. Contrordine compagni! Non vale più la logica denunciata da Eduardo De Filippo in “Napoli milionaria” quando il padre ruba i maccheroni al figlio e teorizza cinicamente: "Vuò sapè 'a verita? Arruobbe tu? Arrobbo pur'io! si salvi chi può!". Se si ragiona così si muore tutti.
FINLANDIA/ Meluzzi: la strage in una scuola, espressione di un mondo privo di senso - INT. Alessandro Meluzzi - mercoledì 24 settembre 2008 – IlSussidiario.net
La notizia è di dieci ragazzi morti e di un suicidio. Nella scuola finlandese di Kauhajoki, ieri mattina, uno studente, colto da raptus omicida, ha fatto fuoco contro alcuni dei suoi compagni tentando poi di togliersi la vita.
Subito la mente ricorre ai numerosi episodi analoghi. Dalla storica strage del 1927 alla statunitense Bath School, che vide 45 morti, ai più recenti avvenimenti della Columbine School, raccontati da ben due film. Per non parlare dell'eccidio al Virginia Politechnic avvenuto il 16 aprile 2007 che causò la morte di ben 32 individui.
Ma anche la stessa Finlandia non è priva di precedenti. Basti pensare a quanto avvenne, sempre lo scorso anno, al liceo Tuusula, quando uno studente, dopo aver annunciato le proprie intenzioni su youtube, uccise a sangue freddo otto compagni e si suicidò.
Una lunga serie di casi dalla somiglianza impressionante, tanto da sembrare quasi riconducibili a una patologia a se stante.
Ma è davvero così? Abbiamo chiesto allo psichiatra Alessandro Meluzzi un'opinione in merito.
Dottor Meluzzi, non è la prima volta che assistiamo a simili tragedie. Quali sono, a suo avviso le dinamiche scatenanti?
Ci sono diverse considerazioni che vanno fatte. La prima è di carattere generale ed è legata alla preoccupante assuefazione alla circolazione e all'uso delle armi. È statisticamente provato che più le armi sono accessibili più vengono utilizzate. La disponibilità di mezzi offensivi è dunque un potente fattore di rischio, molto spesso si tratta infatti di armi domestiche di solito rimediate in casa. Infine si tende a usare l'arma in modo improprio. Difatti una volta brandite le armi devono essere usate, occorre essere pronti a usarle.
Questo fattore fa scattare nei soggetti deboli una sorta di tentazione all'utilizzo.
Ma le cause non si limitano, com'è presumibile, soltanto a questa condizione sociale.
Infatti vi è un'importante seconda considerazione: l'omicidio suicidio è frequentemente la conseguenza di una situazione psicopatologica che si chiama raptus del malinconico.
Si tratta di una sindrome di tipo depressivo, o paradepressivo, in cui la vita a un certo punto appare talmente insopportabile da ritenersi in dovere di cancellare la propria e quella degli altri. Nella stragrande maggioranza dei casi di omicidio suicidio, però, il raptus malinconico si riferisce a persone che sono solitamente amate. Classica la situazione di un padre che spara a moglie e figli e si suicida. Uccide i propri cari perché la vita gli appare talmente insopportabile che pensare che qualcuno possa sopravvivere in quello che egli concepisce come un vero e proprio inferno per lui diviene un'idea intollerabile.
Quanto avviene in un istituto scolastico può avere le stesse caratteristiche da lei descritte?
In queste situazioni di omicidio suicidio prevale non la depressione, ma l'aggressività e l'ostilità che è tipica dei disturbi di personalità i quali, non a caso, rappresentano una patologia che dilaga nel mondo giovanile e adolescenziale.
Alla base del disturbo di personalità vi è un'inadeguatezza affettiva, cioè un'incapacità di vivere le emozioni in maniera adeguata ai contesti, un'incapacità di controllo degli impulsi, un'impossibilità di programmare la vita in un modo ragionevole e c'è una tendenza al passaggio all'atto, al cosiddetto acting out.
Tale passaggio non sempre, per fortuna, è così cruento, ma in generale si può benissimo considerare un acting out il correre in macchina a velocità folli, o il gettare sassi dal cavalcavia.
Questa specie di tossicodipendenza da adrenalina, combinata ad una situazione di ostilità, genera poi questo tipo di passaggi all'atto che spesso hanno nel suicidio finale il loro esito naturale.
Come mai gesti di questo tipo accadono spesso nell'ambiente scolastico?
In primo luogo preciserei che la scuola dovrebbe essere in grado di registrare situazioni a rischio. È molto difficile che terremoti di questo tipo non diano scosse di avvertimento. Solitamente ci sono segnali che dovrebbero essere interpretati, registrati, ma che purtroppo passano spesso sotto silenzio o, anche se talora diagnosticati, non danno luogo a una risposta all'altezza del bisogno. La salute mentale di un individuo è legata anche alla natura dell'istituzione scolastica.
Educare significa in primo luogo educere, ossia condurre l'individuo fuori da se stesso verso un orizzonte di significato che dia senso all'esistenza. Se la scuola si riduce solo a luogo di fredda informazione, e perde il suo significato di formazione, abdica alla sua funzione primaria.
Può accadere che i soggetti più sensibili a questo tipo di raptus siano persone emarginate? Sono situazioni piuttosto consuete nelle classi di giovani.
Certo, è molto facile che una situazione del genere possa riguardare soggetti vittime di emarginazione che, in un certo senso, applicano un'azione di vendetta contro la società e contro se stessi in ultimo. Ma, come dicevo prima, se manca l'anima dell'educazione al personale docente non si può pretendere che una personalità complessa trovi da sé la propria guarigione.
È un caso che queste stragi avvengano spesso in un paese, la Finlandia, che appartiene alla regione scandinava, dove il tasso di suicidi è uno dei più elevati al mondo?
Anche questa è un'osservazione intelligente. Ma non esaustiva. I disturbi affettivi stagionali (SAD), legati a scarsa illuminazione e alle molte ore di buio, producono un fattore di rischio importante per gli equilibri dell'umore. Così come c'è un elevato tasso di suicidi, dal momento che spessissimo il suicidio è un atto intrinsecamente aggressivo, e non passivo come si sarebbe facilmente indotti a pensare, può benissimo assumere la forma di omicidio suicidio. Un aspetto molto interessante, che però non spiega interamente il fenomeno di cui stiamo parlando.
Esiste una forma davvero efficace di terapia per i soggetti suscettibili di queste terribili patologie mentali?
La terapia farmacologica può essere utile soprattutto se accompagnata da una terapia psichiatrica. Ma occorre effettuare un lavoro che vada ad incidere anche sul profilo esistenziale dei soggetti a rischio. Bisogna cioè che siano accompagnati umanamente e non lasciati a se stessi.
Parafrasando Clemenceau che diceva «la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai generali» affermo che la salute mentale è troppo seria per affidarla soltanto agli psichiatri.
Una lettera di padre Aldo Trento, intervenuto quest’anno al Meeting di Rimini
Cari amici,
sono ogni giorno più sorpreso per un popolo che il Signore ha fatto sorgere, dopo quelle povere ma sincere parole dette al Meeting di Rimini, intorno alla mia insignificante persona.
Centinaia di e-mail, a cui tento di rispondere e non posso non farlo, perchè ogni lettera è un grido, è una ferita, è l’umano nella sua verità più profonda, più vera, più drammatica.
Tutte lettere che non hanno bisogno di risposta, di discorsi, ma di una compagnia umana, la stessa compagnia che Giussani ha fatto a me, che P.Alberto ha fatto a me.
Quella compagnia che non ha bisogno di appuntamenti, di segretarie, di colloqui, ma di un affetto che abbraccia tutto dell’altro nelle 24 ore del giorno.
Rileggendo più volte i vostri scritti, o meglio, il vostro grido, rivivo quel dramma terribile e bello di quando Giussani nel Maggio 1989 a Riva del Garda mi disse: “Come sarebbe bello che qualcuno ti facesse compagnia durante i prossimi mesi”.
Alzai la testa, sorpreso e pieno di dolore gli dissi: “Ma don Giuss dove incontrerei un prete, un laico, che dicono di avere tanto da fare sempre, disposto a fare compagnia a un depresso?”.
Ricordo i suoi occhi pieni di tenerezza e le sue parole: “ebbene ti porto via con me e ti pagherò tutto.”
Ma capite, cari amici che soffrite, voi che nelle vostre e-mail piene di dolore, di ferite, di quell’umanità che ognuno, seriamente compromesso con il proprio io, si porta dentro, cosa vuol dire incontrare un uomo che ti dice così?
Dopo il Giuss ho trovato solo P.Alberto di Forlì, oggi in Equador, del quale Giussani ha detto: “è un uomo intelligente e umile”.
Ecco io vorrei, e ve lo dico con il cuore in mano, essere per ognuno di voi che soffrite, un po’ come questi uomini, di cui Dio si è servito per fare di me un uomo.
Sento la mia impotenza che offro tutte le mattine, alzandomi alle 4:45 per stare con voi davanti al Santissimo, in Sua compagnia perchè Lui si occupi di ognuno di voi.
E poi, tutti abbiamo dei testimoni a cui guardare, piccoli o grandi che siano.
Chiediamo la grazia di accorgerci dove sono perchè il clericalismo (invidia, gelosia, schematismo) può fregarci tutti.
In particolare guardiamo a Julian Carron, la persona che più vive, sente, ama facendoci vibrare, il carisma di don Giussani.
Da subito, come l’ho sentito parlare, ho detto come quelli che ascoltavano Gesù: “questo sì che parla con autorità”.
Ricordo bene la prima volta che l’ho sentito: mi sembrava di sentire il Giuss.
Ed era il mio cuore a dirmelo, tant’è vero che sono poi tornato a casa come quei due di Emmaus dicendo: “non ci ardeva il cuore mentre parlavamo con Lui?”
A lui dobbiamo guardare, perchè non è un “prete”, ma un uomo e solo un uomo può fare compagnia all’uomo.
Ed oggi, guardando ad ognuno di voi, sento che non mi cercate perchè sono un “prete”, ma un povero uomo, però uomo, consegnato a Gesù.
Nella sofferenza più acuta com’è quella che Pavese definiva “il male del vivere”, Dio mi ha fatto conoscere tutta la mia umanità che per anni mi ha fatto schifo e paura, perchè è terribile scoprirsi quello che di fatto si è, un misto di fango e di grandezza,...però attraverso questa disperazione, ho incontrato una grande compagnia e mi sono affidato completamente.
Dopo quasi 20 anni posso gridare dalla gioia di vivere. Gioia che non ha nulla di emotivo, ma che è la certezza di essere ogni istante scelto da Gesù.
Vivo commosso pensando ogni giorno a quell’uomo che a dispetto di mio fratello e di tutti gli esperti e, forse anche di formatori di coscienze, invece di mandarmi al neuro di Feltre mi ha mandato in Paraguay dicendomi: “adesso mi sento sicuro di te”.
Ed io incredulo più dell’apostolo Tommaso ho obbedito e guardate cosa Dio sta facendo con questo depresso.
Per questo soffro molto quando leggo o ascolto certi commentari nello scegliere una persona per un lavoro o per qualunque iniziativa.
Vedo un abisso fra la posizione di come Giussani mi ha guardato e la maggioranza di coloro che scelgono le persone per un lavoro.
Dico sempre: immaginatevi nelle mie condizioni che io avessi presentato il progetto di quello che Dio qui ha fatto a chi di dovere...mi avrebbero messo in manicomio con una ragione in più: “ma tu che già sei schizzato non vorrai mica lasciarti prendere dall’immaginazione facendo un’opera impossibile e che costa milioni di Euro?”
Qualunque persona che mi avesse visto in quelle condizioni avrebbe reagito in questo modo.
Ma Dio, una volta in più, ha voluto mostrare che “se ne frega” dei nostri pensieri, dei nostri equilibri, dei nostri progetti. E la mia storia è un’evidenza. Per questo quando mi dicono: “devi riposarti, devi, devi etc...” rispondo: “scusate, ma io non faccio niente, io riposo.
E’ Lui che fa e mi chiede solo di annunciare a quanti incontro ciò che Lui è per me.
Io non ho rapporti economici, politici o sociali, ho solo rapporti missionari: comunicare la bellezza di Cristo a tutti”.
Cari amici, desidero per ognuno quell’abbraccio con cui Giussani mi ha fatto rivivere, desidero per tutti voi che mi scrivete, spesso lacerati dal dolore, che possiate incontrare un prete che sia un uomo, o un laico che sia un uomo che accogliendovi come io sono accolto da quando ho incontrato Giussani, vi permetta di scoprire la bellezza drammatica della vita.
Da parte mia, non conosco stanchezza nè un orario per rispondervi, per dirvi i miracoli che vedo tutti i giorni.
Vi auguro solo di essere semplici e di non avere paura della vostra umanità e non cercate mai i mediocri, gli “intellettuali”, gli “esperti” o i “direttori spirituali” cioè quelli che vi ricevono solo su appuntamento per darvi consigli...cercate uomini veri.
Non dite: è difficile, perchè tutto dipende dalle domande che uno ha.
Domande piccole, risposte piccole, uomini piccoli.
Quando uno sta male, cerca il meglio per guarire.
Grazie a tutti per l’amicizia che mi testimoniate.
P.Aldo
Si apre a Recanati l'XI convegno internazionale di studi dedicati al poeta - L'antropologo Leopardi - alla fine incontra Giobbe - di Claudio Toscani, L’Osservatore Romano, 24 settembre 2008
Istituiti nel 1962 con cadenza quadriennale, i Convegni internazionali recanatesi sono ormai appuntamenti culturali di consolidata tradizione.
Quest'anno, in occasione del settantesimo anno di vita del Centro nazionale di studi leopardiani, e in memoria del suo presidente Franco Foschi, morto di recente, è stato scelto un argomento complesso e ambizioso, che ha richiamato l'interesse di un inatteso numero di studiosi italiani e stranieri. E ha inoltre obbligato il convegno a quattro giornate piene (23-26 settembre), trentacinque interventi (tra relazioni e comunicazioni) e una tavola rotonda conclusiva.
Il convegno ha come titolo "La prospettiva antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi" e i relatori percorreranno gli scritti teorici in cerca di riscontri nelle opere letterarie e d'invenzione.
Il tema della "prospettiva antropologica" si pone quindi come uno dei fattori costitutivi tanto del pensiero quanto della poesia dell'autore dello Zibaldone, delle Operette morali e dei Canti, declinato com'è dal poeta e pensatore in una articolata gamma di modalità anticipatrici delle impostazioni metodologiche di una disciplina che solo in anni recenti ha assunto un proprio specifico statuto.
A Lucio Felici, presidente del comitato scientifico del convegno, abbiamo posto alcune domande.
Come è nata l'idea di dedicare il convegno alla prospettiva antropologica del pensiero e della poesia del Recanatese?
I convegni internazionali leopardiani sono stati istituiti nel 1962. Tutta una prima serie è stata dedicata ai rapporti tra l'opera di Leopardi e gli autori dei diversi secoli della letteratura italiana. Quindi si è proceduto a esaminare altri temi inerenti a vari aspetti interni alla costituzione e all'evoluzione del pensiero e della poesia: lingua e stile del poeta e del prosatore; il rapporto con le città da lui abitate - ovviamente Recanati, e poi Roma, Firenze, Bologna, Pisa, Milano, Napoli. Quindi la componente "comica", principalmente nelle Operette morali e nei Paralipomeni della Batracomiomachia; la "dimensione teatrale" presente, ancora una volta, soprattutto nelle Operette. Nel 1998, bicentenario della nascita, un grande convegno fu riservato allo Zibaldone, di cui in quell'anno ricorreva, fra l'altro, il centenario della prima edizione (1898), quella curata da una commissione presieduta da Giosuè Carducci.
Questo dodicesimo convegno coincide con un momento particolare della storia del Centro studi. Poco più di un anno fa, nell'agosto 2007, moriva Franco Foschi, presidente del Centro per più di vent'anni. Durante la sua malattia, e per sua volontà, si costituì un comitato scientifico, col compito di dare attuazione ai programmi già definiti e di promuovere altre iniziative, facendo capo alla contessa Anna Leopardi, vicepresidente del Centro, e a Fabio Corvatta, sindaco di Recanati, recentemente eletto nuovo presidente del Centro stesso. Il comitato, da me presieduto, è composto da Luigi Blasucci, Gilberto Lonardi, Alberto Folin, Fiorenza Ceragioli, Emilio Peruzzi, Antonio Prete, Fabiana Cacciapuoti, Franco D'Intino, Ermanno Carini: tutti nomi ben noti ai leopardisti. Tra i primissimi compiti da affrontare ci sono state le celebrazioni dei settant'anni del Centro, svoltesi nell'autunno 2007; e ora questo convegno internazionale, il dodicesimo. Fra i vari argomenti esaminati, si è scelto quello, proposto da Antonio Prete - "La prospettiva antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi" - un tema impegnativo che tocca la radice dell'opera leopardiana e ha riscosso immediato successo, tant'è che abbiamo ricevuto un centinaio di proposte di interventi da parte di studiosi di ogni Paese.
Tra l'origine etimologica del termine e la sua lunga avventura semantica, come giunge l'antropologia ad attagliarsi al pensiero e alla poesia di Leopardi?
Poiché, alla lettera, "antropologia" significa "studio dell'uomo", il termine risulta, per così dire, molto "largo" e si presta a equivoci. Prima ancora di essere definiti come "antropologia", gli studi antropologici si sono differenziati sostanzialmente in tre direzioni: studio degli usi e costumi dei popoli antichi e moderni, occidentali, orientali, con uno spiccato interesse per i "primitivi" e le civiltà lontane dall'occidente - etnografia, storia delle tradizioni popolari, esotismo - "antropologia filosofica" - pratica e morale - risalente ad Aristotele, volta allo studio dei comportamenti degli individui in se stessi e nelle relazioni sociali; "antropologia scientifica", volta allo studio delle caratteristiche fisiche delle singole personalità e delle singole etnie, in connessione con altre branche come l'anatomia e la medicina.
In italiano il termine "antropologia" compare per la prima volta nel titolo di un trattato di Galeazzo Capella, umanista al servizio di Francesco Sforza, uscito nel 1533. Poi il termine si diffuse largamente tra Sette e Ottocento. Nei suoi scritti teorici - Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, discorsi, trattati, Zibaldone - Leopardi mostra di meditare con profondità su tutti e tre i campi antropologici ora indicati. L'originalità del suo approccio sta nel risolvere l'antropologia in ontologia - cioè in domanda sull'essere e sull'esistente - al di là di ogni differenza geografica e temporale. In sostanza, la "prospettiva antropologica" è costitutiva tanto del pensiero quanto della poesia di Leopardi. Basti pensare al Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: lo spunto viene dalla lettura di una cronaca sulle usanze, sulla solitudine dei Kirghisi della steppa, ma poi il "pastore" diventa figura universale e atemporale dell'uomo che si interroga sul senso della esistenza propria e di quella dell'intero creato.
Ma allora Leopardi è, riguardo a questa che oggi si codifica come scienza, più moderno di molti antropologi contemporanei.
Quanto meno, Leopardi è moderno al pari dei moderni antropologi. Perché, nel suo attuale statuto, l'antropologia culturale è scientifica, etnografica e filosofica, proprio come l'aveva pensata il grande poeta di Recanati.
Il programma del convegno definisce suggestivo, ma anche insolito, l'argomento scelto. Ma quando si parla della vita e dell'opera del Recanatese non si fa in ogni caso dell'antropologia?
Questa è la prospettiva antropologica del critico, dello studioso. Mentre il convegno si occupa della dimensione antropologica interna alla mente e all'opera di Leopardi.
In dettaglio il convegno prevede motivi antropologici quali il passaggio dall'oralità alla scrittura, l'interesse per le tradizioni popolari e per le narrazioni di viaggiatori ed esploratori, la "felicità" attribuita agli antichi e ai primitivi, il concetto di "società larga" e "società stretta", le idee sul progresso, lo studio della lingua e delle lingue dal punto di vista delle relazioni tra popoli e civiltà fra loro distanti nel tempo e nello spazio, la teoria dell'"assuefazione", la natura del piacere e del dolore, il concetto di "corpo", l'inclinazione dell'uomo al "vago" e all'"infinito". Può approfondire alcuni di questi concetti tenendo presente la rete di possibili riferimenti all'opera critica e creativa di Leopardi?
Ho già portato come esempio la genesi del Canto notturno. Per l'inclinazione innata di ciascuna creatura umana, al "vago" e all'"infinito", si possono indicare L'infinito e Le ricordanze. Sul "corpo" - e il suo fatale degrado operato dalla malattia e dalla morte - rimando alle due "sepolcrali". Ma anche nel Sabato del villaggio si affaccia la connotazione antropologica. La donzelletta, col suo "fascio dell'erba" che reca in mano il "mazzolin di rose e viole" è una figura poetica che racchiude in sé due modi di essere: l'esser contadina, adusa al lavoro faticoso dei campi, e l'esser giovinetta, ansiosa di apparir bella e seducente. Si pensi poi al tema della "festa" - antropologico per eccellenza - poeticamente riassunto nella Sera del dì di festa, nel Sabato del villaggio e in alcuni versi indimenticabili del Passero solitario.
Ma allora lei avrà sicuramente previsto un intreccio interdisciplinare di relazioni e comunicazioni?
Sicuramente. Il convegno è interdisciplinare: vi partecipano italianisti e cultori di Leopardi - Antonio Prete, Gilberto Lonardi, Giulio Ferroni e molti altri - antropologi - Pietro Clemente, Luigi M. Lombardi Satriani, Mario Niola - linguisti - Stefano Genuini, Claudio Costa - studiosi del pensiero scientifico - Gaspare Polizzi - filologi classici come Maurizio Bettini, il quale si interessa specificamente dell'antropologia applicata al mondo antico.
Il convegno sembra comunque offrire, pur nella sua peculiare prospettiva, la ricostruzione problematica di un mondo di poesia-pensiero che torna pur sempre sulle contraddizioni, sulle intermittenze dell'essere umano e della natura. Che ci può dire di diverso, dal sin qui ermeneuticamente accertato, su Leopardi e sui temi-problemi a lui rivelatisi insolubili?
È la prima volta che il tema antropologico in Leopardi viene affrontato in modo sistematico, chiamando a parlarne esponenti di varie discipline. Mi auguro che il confronto schiuda nuove vie di interpretazione, in modo che, quando si parla di antropologia per Leopardi, non lo si faccia più in termini generici o approssimativi. Uno strumento in più per arrivare al cuore della sua poesia.
Si giungerà, a suo modo di vedere, nel quadro di questo convegno, a confermare quelle in parecchi casi, ormai, motivatamente respinte immagini correnti di un poeta materialista, ateo, antiplatonico, pessimista o nichilista, e delineare quanto meno un Leopardi, pensatore sì di un nulla religioso, ma mai chiuso alla nostalgia del "Dio nascosto" di agostiniana e pascaliana memoria, e che si riconosce fino all'ultimo nella dolorosa "antropologia" biblica di Giobbe e Salomone?
Le risposte a queste domande sono destinate a rimanere plurime, contrastanti e mutevoli. Per conto mio, credo, come Sergio Givone, che il pensiero di Leopardi sia essenzialmente interrogativo ed enigmatico (e perciò "abissale"). In ciò sta la sua perenne attualità, la sua sintonia con le moderne filosofie antidogmatiche e asistematiche. Leopardi parte dall'empirismo e dal sensismo materialistico, ma li scavalca con l'assillo del dubbio e della domanda. Agostino e Pascal gli sono vicini, così come è presentissima, in tutta la sua opera, la Bibbia: Giobbe più di Salomone.
(©L'Osservatore Romano - 24 settembre 2008)
A cento anni dalla nascita dello scrittore piemontese
Sulle tracce di Pavese per scoprire la propria umanità - È da pochi giorni in libreria La traccia di Cesare Pavese di Gianfranco Lauretano (Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, collana "I libri dello spirito cristiano", 2008, pagine 251, euro 10). Ne pubblichiamo la prefazione - di Davide Rondoni – L’Osservatore Romano, 24 settembre 2008
Il poeta turco con cui ho appena pranzato in un hotel di Caracas al nome di Pavese si anima e dice: sì, lo conosco! Dell'Italia sa poco, di tutta la nostra letteratura conosce solo i grandi nomi. E Pavese è tra questi. Il lettore percorra dunque a diritto e a rovescio questo libro. Lo segni, ne strappi pagine per conservarne brani e documenti. Lo tratti per come dev'essere trattato: come uno strumento personalissimo per scoprire un tesoro. Un diario di bordo da seguire, e da annotare. Non è un libro "su" Pavese. Nemmeno una colta riflessione sui problemi aperti come ferite dal poeta e scrittore piemontese. O meglio, è tutto questo, sì. Però è soprattutto un "libro con" Pavese. Non solo perché, come suggerisce il titolo, conduce a seguire con il dito della nostra attenzione il suo profilo in penombra seguendo la mappa dei suoi luoghi. E che Lauretano e i suoi amici, tra i quali Marco Antonellini, estensore delle presenti schede critiche, su auto che non sono propriamente delle fuoriserie e sacrificando giorni di ferie e quiete familiare, hanno fatto e ci propongono un viaggio.
Questo è un esempio di come si può leggere un autore, non bloccandolo sotto la lastra mortuaria di analisi che ci lasciano come prima. Qui si mettono i propri passi, i propri problemi nei suoi, vedendo, come diceva la vecchia simpatica canzone, "l'effetto che fa". Il lettore che tiene ora tra le mani queste righe, seguendo il lettore-autore Lauretano sulla traccia di Pavese, potrà fare maggior esperienza della propria umanità, se accetterà di lasciarla provocare. Potrà dare vita, in tale piccolo colloquio a tre, all'esercizio più importante della vita umana: la cultura. Ovvero l'esercizio del senso critico, del giudizio sulla propria esperienza.
Non è un libro rivolto solo ad amanti della letteratura. Anche perché la categoria stessa di amanti della letteratura è una astrazione, non esiste. O se esiste, è un incubo. Esistono amanti della vita, che perciò sono amanti della letteratura. Gli altri, quelli che divorano libri perché hanno fame di pagine, o hanno noia dell'esistenza, o perché ne fanno solamente un mestiere, non sono lettori interessanti per un libro così. Come non erano lettori interessanti per Pavese.
Di recente un famoso critico letterario, padrino delle correnti formaliste e strutturaliste di lettura, ha lanciato il suo allarme. La "letteratura è in pericolo", ha scritto e argomentato Tristzan Todorov. A furia di insegnarla e trattarla come se fosse una dottrina strana, che riflette su se stessa e si esibisce come una vecchia signora che cerca di attrarre e intrattenere uomini e ragazzi distratti da proposte più allettanti, la letteratura si sta trasformando in un immenso museo. Un patrimonio di opere capaci di destare nelle persone attitudini riflessive, proporre problemi, drammi e avventura si sta ammutolendo. Hanno tediato noi e i nostri ragazzi per anni con programmi scolastici e universitari in cui si è proposta la letteratura come studio delle teorie, delle sue presunte tecniche così come le pensavano linguisti e filologi. E la lettura invece di essere un viaggio che scopre - nel senso di mettere allo scoperto - la propria umanità sembrava ridursi a un esercizio di abilità enigmistica. Salvo poi scoprire, grazie a esempi clamorosi, che invece la poesia e i romanzi sanno parlare a tutti e destano commozioni e riflessioni profonde appena si lascino parlare le opere e le si proponga con passione vera per l'esistenza.
Non a caso Cesare Pavese, dopo aver conosciuto una fortuna amplissima e documentata in tutto il mondo, ha trovato in questi anni una specie di sordina. Non che le sue opere non circolino, o non vengano lette anche a scuola. Ma pareva che alla forza dei suoi scritti fosse stata messa una camicia. Come se la cultura dominante in Italia avesse deciso di riverirlo, sì, ma come si riverisce un vecchio cugino un poco suonato, uno un po' fuori moda. Il campo principale della cultura e della letteratura era occupato dal palleggio elegante, dal tennis di coloro che non amavano Pavese, i nipotini delle neoavanguardie, i giornalisti prestati alla letteratura, gli ideologi travestiti da giullari o da moralisti.
Qualche fuoco di artificio di dibattiti si è acceso intorno a certi aspetti "politici" delle sue opere, ma in modo superficiale e tutto sommato senza aggiungere granché. Però la forza delle sue opere ha continuato a parlare a tanti lettori, spesso giovani. E l'occasione del centenario in corso ha dato qualche ora di visibilità e possibilità di rilettura.
Gianfranco Lauretano, anch'egli poeta e lettore e traduttore acuto di classici, nonché instancabile coltivatore di nuovi giovanili talenti, muove dalla sua Cesena sulle tracce di Pavese con l'entusiasmo accorto di chi ha voglia di andare più a fondo di una cosa che ama. Conosce già bene Pavese, ma non viaggia alla ricerca di conferme. Il libro ha il profumo di tante scoperte, ha sfumature tra l'eccitato e il febbrile. E vi sono anche aperture, come golfi dello sguardo o della riflessione. Appaiono mentre si va in giro con Pavese anche i nomi di altri poeti, e i nomi cari, quelli degli amici, e d'altri luoghi.
Cesena è la città di un lettore importante come fu Renato Serra. Quel "lettore di provincia", morto presto in guerra, costituisce per Lauretano un modello di passione e rigore. Fedele alle "ragioni profonde del testo", come direbbe Ezio Raimondi, studioso di Serra, Lauretano sa fermarsi senza pedanterie a farci notare luoghi delle parole. E ne svela rimandi e suggerimenti. Allo stesso modo, si sofferma su luoghi e particolari visitati. E se il termine landscape (paesaggio interiore) viene usato spesso per scrittori e pittori a riguardo della corrispondenza inevitabile tra luoghi e personalità o stile di un artista, credo che per Pavese non sia sufficiente. È già stata ampiamente documentata la relazione tra l'opera e i luoghi nello scrittore, e anche nell'uomo. Ma fermarsi a tale pur suggestiva e ricca serie di rimandi significherebbe evitare di andare nella stessa direzione di Pavese. Sarebbe come accontentarsi di vederlo passare, e magari scattargli una foto. Sarebbe evitare di viaggiargli accanto. Per non sentire l'asprezza della sincerità del suo sguardo, e i lampi di solitudine e di chiarezze esistenziali. Fermarsi a stabilire relazioni, ricorrenze, metafore tra luoghi e parole sarebbe un puro esercizio.
Occorre rischiare, seguire Pavese, fare il viaggio con lui anche nella trasformazione del paesaggio e della sua vita. Poiché il luogo in Pavese diviene da naturale riferimento a spazio di un dramma supremo. Dalle prime poesie - era poeta, innanzitutto - alla sua opera "preferita" a cui tese per anni, i Dialoghi con Leucò, arriva a vedere luoghi e figure umane legati in una totalità di vicenda drammatica.
Su questo rimandiamo alle pagine di Lauretano. In quei Dialoghi, che sono delle leopardiane e però novecentesche "Operette morali", si dispiega la forza del suo pensiero, l'inquietudine esistenziale e religiosa. E al tempo stesso il "blocco" che fece di Pavese una specie di monade, di organismo vivissimo e isolato. Quasi mai nella sua opera vediamo aprirsi una domanda, una richiesta di aiuto. Come se non fosse possibile avere un interlocutore o interlocutrice adeguati. Eccetto che per la parentesi significativa raccontata in queste pagine da Padre Baravalle, i momenti di fiducia nella alterità, in un altro grande come il suo cuore, sono rari. Se ne sta, quella domanda, muta come un grande cetaceo immobile nell'oceano mosso delle sue acque, nei volgimenti delle onde dei suoi interessi e delle sue passioni. Forse all'estremo si ruppe la voce in una invocazione, il cetaceo salì.
Tutta l'intelligenza di cui era dotato, la fama e il riconoscimento, non gli impedirono di sentirsi solo. Qui nasce la profondissima inquietudine, che lo fece essere realista e intelligentissimo sulle dinamiche e sulle esperienze fondamentali dell'esistenza. Nulla basta a non sentirsi soli. Lo dice chiaramente in molti luoghi della sua opera: tutto ciò in cui ha creduto - dalle filosofie materialiste alla vastissima intelligenza poetico-letteraria - non era ciò per cui viveva. Questa solitudine non trova nel suicidio finale un esito scontato su cui, come chiese, è vano e idiota fare "pettegolezzi". Quella morte in una stanza - rivista in queste pagine con efficacia da Laura Vallieri - è piuttosto la figura continua, la metafora - o meglio l'allegoria, poiché ha il peso e il dolore di un fatto - di tutta l'esistenza vissuta in quella solitudine. Quel che si consumò nella stanza dell'Hotel Roma era già accaduto mille e mille volte prima.
Lauretano compie un viaggio libero e rigoroso, acutissimo nelle percezioni e nello stabilire accostamenti. Nel far emergere, con rispetto mai untuoso, la figura piena di desiderio, di ombre e d'accesa riflessione di Pavese. È un viaggio per luoghi e per nuclei. Agli scorci del panorama e alle ricostruzioni di fatti e incontri (con il centrale, bruciante racconto di Baravalle) si alternano riflessioni fulminee, intuizioni che sono il modo proprio di conoscere viaggiando. Senza compiere arbitrii, né per distrazione né per premura ideologica, Lauretano e i suoi amici ci guidano con il passo sollecito di chi sa che c'è un'avventura da correre, e qualcosa di buono da trovare.
(©L'Osservatore Romano - 24 settembre 2008)
24 settembre 2008 - Dopo l'editoriale del Foglio la replica di Avvenire - Bagnasco e la proposta sulla legge di fine vita - Possenti e Ippolito chiosano il presidente della Cei, Dal Foglio.it
Avvenire risponde oggi con un editoriale firmato da Francesco Ognibene all'editoriale del Foglio di ieri, martedì 23 settembre, "Eminenza, qui la cosa non funziona". "I vescovi non mollano alcuna posizione – si legge sul quotidiano cattolico – Per tutti è una situazione nuova, tenerne conto è solo saggezza". Anche il Corriere della Sera riprende l'editoriale del Foglio, e nell'articolo di Maria Antonietta Calabrò parla di "nessuna particolare reazione" nei corridoi della Cei e raccontando il "dibattito" con Avvenire termina dicendo che l'editoriale "pretende di far lezione a un porporato sul nocciolo della questione umana".
Come leggere l’auspicio di una legge sul fine vita espresso dal cardinal Bagnasco al consiglio permanente della Cei? Questo giornale ha parlato di “risposta intimidita e confusa” alla cultura relativista postmoderna, ma il filosofo della politica Vittorio Possenti, docente a Venezia, dice di non vedere, “nelle parole di Bagnasco, alcuna apertura all’idea di una piena disponibilità nei confronti della vita, anche della propria. Il cardinale, infatti, non parla di testamento biologico, idea che riduce la vita a bene patrimoniale di cui disporre”.
Secondo Possenti, tolto di mezzo quell’equivoco, “la vera domanda da farsi riguarda il dovere e non il diritto: esiste un dovere assoluto di essere curato e di curarsi a qualsiasi costo? Io rispondo di no, e qui affrontiamo il problema dell’accanimento terapeutico, al quale tutti dicono di opporsi, salvo dividersi puntualmente su che cosa sia in concreto. Una legge sul fine vita è quindi opportuna a certe condizioni. Non va confusa con una legge sul testamento biologico o sull’eutanasia, attiva o passiva. Non deve entrare nei dettagli di una casistica infinita, ma lasciare margini di discrezionalità al dialogo tra paziente e medico, che non sarà un esecutore passivo e deciderà in scienza e coscienza, come ha ribadito il cardinal Bagnasco”. Così, conclude Possenti, “non si rinuncia a nessun principio fondamentale. Credo che ci sia più di un elemento per non bocciare a priori l’idea di una legge sulle questioni di fine vita, in rapporto alla rinuncia consapevole al trattamento medico, già riconosciuta nell’ordinamento. Anche di questo discuteremo nella riunione di venerdì al Comitato nazionale di bioetica”.
Benedetto Ippolito, docente di Filosofia medievale alla Pontificia Università della Santa Croce a Roma, si dice “del tutto in sintonia con l’editoriale del Foglio, quando parla dei diritti innati della persona come asse del diritto naturale e della concezione stessa dell’umanità, e ne ricava che non si possa stabilire per legge la facoltà di lasciarsi morire. D’accordo anche sul fatto che ciò andrebbe condiviso dai non credenti, perché attiene alla razionalità della natura. La tutela della vita non è contraria alla libertà, ma è qualcosa che la rende possibile. La capacità di scegliere non può quindi riguardare la vita naturale della persona, la sua trascendenza e inviolabilità. Devo dire, tuttavia, che nell’intervento di Bagnasco non vedo cedimenti. Il cardinale ribadisce che la vita umana rimane sempre inviolabile e indisponibile”. Secondo Ippolito, “la presunta apertura sul testamento biologico riguarda piuttosto il carattere problematico che ha assunto la questione del termine della vita, anche per come la tecnologia interviene sulle sue modalità. In Bagnasco non vedo la volontà di aprire un discorso legale sulla vita, quanto piuttosto il riconoscere che è importante anche la volontà della singola persona nello stabilire il modo in cui l’assistenza e la tutela della vita si attuano. E si ribadisce che nutrizione e idratazione debbano essere riconosciute come sostegni legali alla vita”.
Ippolito dice di non essere “contrario alla legislazione sulla vita. Sono semmai contrario a una legislazione che contempli la libertà sulla vita. Vorrei che a livello costituzionale fosse addirittura riconosciuta la trascendenza della persona umana e la vita nella sua inviolabilità. Quello che mi lascia perplesso è il voler introdurre un elemento di discrezionalità soggettiva sul destino ultimo della vita personale, perché temo che certe sottili disquisizioni finiscano per essere poco comprensibili nella vita reale”. Le parole del presidente della Cei non aprono spiragli di ambiguità “anche se il compito istuzionale della chiesa non è pronunciarsi su questioni come questa, ma annunciare la buona novella e difendere la verità di fede. Detto questo, sono assolutamente contrario sia al testamento biologico sia a forme larvate di indicazioni o istruzioni sfalsate nel tempo, che fatalmente finirebbero per indicare ‘troppo’. Ma trovo interessante che sia stata messa a tema una discussione di livello politico su tali questioni”.
BIOETICA & RICERCA - Con le «nuove» staminali sarà una vera rivoluzione - DA MADISON (WISCONSIN) - ELENA MOLINARI, Avvenire 24 settembre 2008
C i sono malattie, come l’Alzheimer, sulle quali gli scienziati si rompono la testa da anni. «Il fatto è che non capiamo ancora che cosa smette di funzionare nelle cellule nervose dei malati», spiega Lawrence Goldstein, un ricercatore dell’Università della California a San Diego. Qualcosa sta però per cambiare secondo Goldstein e gli altri scienziati che ricercano le cause dell’Alzheimer. Anziché sperimentare nuove terapie su ratti e moscerini, a breve potranno verificarne l’efficacia sugli stessi tessuti affetti dal morbo. Senza mettere a rischio la vita dei pazienti.
La novità si chiama «cellule staminali pluripotenti indotte», in gergo tecnico le «Ips», ed è stata al centro del congresso mondiale sulle staminali concluso ieri in a Madison, nel Wisconsin. «Nel mio laboratorio abbiamo raccolto cellule della pelle di pazienti che manifestano una forma genetica del morbo di Alzheimer e le abbiamo trasformate in provetta in cellule nervose – ha spiegato Goldstein ai 900 scienziati riuniti al summit –: ora vogliamo usarle per sperimentare nuovi farmaci». Quanti embrioni sono stati sacrificati per questa ricerca? Nemmeno uno.
Durante le due giornate del convegno, relatore dopo relatore, tutti si sono confrontati con il semplice fatto espresso in apertura da Goldstein: che in quelle cellule «è presente l’essenza della malattia ». Giunto alla sua quarta edizione, il summit del Wisconsin per la prima volta è stato in larga parte dominato dalla eccezionale scoperta (avvenuta alla fine dello scorso anno nel laboratorio di James Thomson, proprio qui a Madison, e di Shinya Yamanaka, a Kyoto): le cellule adulte della pelle possono essere ricondotte allo stadio embrionale ('riprogrammate') e quindi trasformate nei tessuti nei quali vengono impiantate.
Ed essendo il «World Stem Cell Summit» non un congresso per soli addetti ai lavori ma un evento aperto a scienziati, pazienti, investitori e filantropi, l’incredibile potenziale della scoperta è stato discusso per la prima volta in una sola sede dal punto di vista medico, etico, politico ed economico.
Molti ricercatori e investitori si sono chiesti se le staminali pluripotenti permetteranno di superare del tutto la necessità di fare ricerca usando embrioni umani e renderanno superflua l’attuale restrizione sull’uso di fondi federali per la ricerca su cellule embrionali voluta da George W. Bush. Altri, come Tim Kamp, condirettore del centro per le cellule staminali e la medicina rigenerativa dell’Università del Wisconsin, continuano invece a considerare le staminali embrionali lo standard con cui la ricerca deve confrontarsi: «Siamo ancora nella fase di comprendere quanto una cellula pluripotente indotta sia simile a una cellula embrionale nella sua capacità di crescere per periodi di tempo prolungati e nella sua abilità di trasformarsi nei diversi tipi di cellule cui siamo interessati », ha detto.
Tutti sono però d’accordo che il nuovo protocollo deve avere a disposizione un canale di finanziamento accelerato. «Come dimostra la scoperta dell’équipe di Thomson, gli Stati Uniti hanno un gruppo di ricercatori incredibile – ha detto ancora Kamp –, ma l’Istituto nazionale per la salute deve aumentare i fondi a loro disposizione. Sarebbe anche utile creare un Centro nazionale per la ricerca sulle staminali e la medicina rigenerativa, paragonabile al Centro per la ricerca sul cancro, che gode di fondi pubblici privilegiati ». Bernard Siegel, fondatore del Centro per la politica della genetica della Florida e uno degli organizzatori del summit, spera anche che la Food and Drug Administration – l’agenzia Usa responsabile della sicurezza dei farmaci – regolamenti quanto prima e in modo responsabile il settore. «È fondamentale per evitare una paralisi – dice Siegel –, la mancanza di finanziamenti federali, infatti, ha provocato un forte coinvolgimento dei singoli Stati nel sovvenzionare la ricerca. Ma ogni Stato ha le sue regole. È importante invece che ciascun laboratorio riceva le stesse linee guida da Washington».
Al summit erano presenti anche rappresentanti delle società farmaceutiche, come la Baxter e la Pfizer, che hanno messo in evidenza l’interesse dei privati per la sperimentazione di nuovi medicinali su tessuti sviluppati in provetta anziché sui pazienti – un metodo che renderebbe l’approvazione di nuovi farmaci da parte della Food and Drug Administration meno costosa e più veloce. «Penso che la quantità di denaro privato in arrivo nel settore delle staminali, grazie alle scoperte degli ultimi mesi, sia uno dei dati più sorprendenti di questo convegno – ha commentato Siegel –, siamo agli inizi di un’industria che potrebbe raggiungere i 500 miliardi di dollari nei prossimi 10 o 20 anni, e gli investimenti sono già partiti a pieno ritmo».
Dal congresso mondiale negli Stati Uniti sulla medicina rigenerativa arriva la conferma: le cellule adulte «riprogrammate» scoperte solo un anno fa sono la frontiera più promettente per la scienza biomedica Con importanti applicazioni cliniche, e senza usare embrioni