Nella rassegna stampa di oggi:
1) Omelia di Benedetto XVI nella Messa con i malati a Lourdes
2) Da Parigi e da Lourdes, la lezione del papa "liturgo" - Nel suo viaggio in Francia, Benedetto XVI non ha soltanto difeso il rito antico della messa. Ha spiegato e mostrato più volte quello che ritiene il senso autentico della liturgia cattolica di oggi e di sempre. E sulla musica sacra ha detto... di Sandro Magister 3) Stimmate, bilocazioni, ipertermie… i documenti inediti su Padre Pio - Esce il libro di don Francesco Castelli “Padre Pio sotto inchiesta. L’ ‘autobiografia’ segreta” (Ares) – due articoli su San Padre Pio: 1) Le stimmate, il Sant’Uffizio. Nuove verità su Padre Pio di Antonio Socci - 2) Il Sant'Uffizio disse: sono vere stimmate di Riccardo Caniato
4) Il sapere secondo Benedetto XVI - Giampaolo Cottini, IlSussidiario.it, martedì 16 settembre 2008
5) Milano: quando la violenza è il sintomo di una solitudine - Luca Doninelli, martedì 16 settembre 2008
6) 16 settembre 2008 - La Ratio del professor Ratzinger - Il filosofo Pierre Manent spiega l’ironia e i “deliziosi effetti” del cantico francese di Benedetto XVI e ci dice che “l’unica scuola di pensiero che ormai rivendica la ragione come regola per guidare la vita è proprio la chiesa cattolica”, dal Foglio.it
7) Siamo tutti seienni Il fiore dello stupore - DAVIDE RONDONI, Avvenire, 16 settembre 2008
8) «Stati vegetativi, un documento per fare chiarezza» - Roccella: al via il censimento di tutti i malati Distinguere tra coma permanente e persistente, Avvenire, 16 settembre 2008
Omelia di Benedetto XVI nella Messa con i malati a Lourdes
Maria con il suo sorriso mostra la dignità che mai li abbandona
LOURDES, lunedì, 15 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l'omelia pronunciata questo lunedì da Benedetto XVI nel presiedere la Santa Mesa con i malati nel piazzale del Rosario di Lourdes.
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Cari Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari malati, cari accompagnatori e infermieri,
cari fratelli e sorelle!
Abbiamo celebrato ieri la Croce di Cristo, strumento della nostra salvezza, che ci rivela in pienezza la misericordia del nostro Dio. La Croce è, in effetti, il luogo in cui si manifesta in modo perfetto la compassione di Dio per il nostro mondo. Oggi, celebrando la memoria della Beata Vergine Addolorata, contempliamo Maria che condivide la compassione del Figlio per i peccatori. Come affermava san Bernardo, la Madre di Cristo è entrata nella Passione del Figlio mediante la sua compassione (cfr Omelia per la Domenica nell’Ottava dell’Assunzione). Ai piedi della Croce si realizza la profezia di Simeone: il suo cuore di Madre è trafitto (cfr Lc 2,35) dal supplizio inflitto all’Innocente, nato dalla sua carne. Come Gesù ha pianto (cfr Gv 11,35), così anche Maria ha certamente pianto davanti al corpo torturato del Figlio. La sua riservatezza, tuttavia, ci impedisce di misurare l’abisso del suo dolore; la profondità di questa afflizione è soltanto suggerita dal simbolo tradizionale delle sette spade. Come per il suo Figlio Gesù, è possibile affermare che questa sofferenza ha portato anche lei alla perfezione (cfr Eb 2, 10), così da renderla capace di accogliere la nuova missione spirituale che il Figlio le affida immediatamente prima di “emettere lo spirito” (cfr Gv 19,30): divenire la Madre di Cristo nelle sue membra. In quest’ora, attraverso la figura del discepolo amato, Gesù presenta ciascuno dei suoi discepoli alla Madre dicendole: “Ecco tuo figlio” (cfr Gv 19, 26-27).
Maria è oggi nella gioia e nella gloria della Risurrezione. Le lacrime versate ai piedi della Croce si sono trasformate in un sorriso che nulla ormai spegnerà, pur rimanendo intatta la sua compassione materna verso di noi. L’intervento soccorrevole della Vergine Maria nel corso della storia lo attesta e non cessa di suscitare verso di lei, nel Popolo di Dio, una confidenza incrollabile: la preghiera del Memorare (“Ricordati”) esprime molto bene questo sentimento. Maria ama ciascuno dei suoi figli, concentrando in particolare la sua attenzione su coloro che, come il Figlio suo nell’ora della Passione, sono in preda alla sofferenza; li ama semplicemente perché sono suoi figli, secondo la volontà di Cristo sulla Croce. Il Salmista, intravedendo da lontano questo legame materno che unisce la Madre di Cristo e il popolo credente, profetizza a riguardo della Vergine Maria: “i più ricchi del popolo cercheranno il tuo sorriso” (Sal 44,13). Così, sollecitati dalla Parola ispirata della Scrittura, i cristiani da sempre hanno cercato il sorriso di Nostra Signora, quel sorriso che gli artisti, nel Medioevo, hanno saputo così prodigiosamente rappresentare e valorizzare. Questo sorriso di Maria è per tutti: esso tuttavia si indirizza in modo speciale verso coloro che soffrono, affinché in esso possano trovare conforto e sollievo.
Cercare il sorriso di Maria non è questione di sentimentalismo devoto o antiquato; è piuttosto la giusta espressione della relazione viva e profondamente umana che ci lega a Colei che Cristo ci ha donato come Madre. Desiderare di contemplare questo sorriso della Vergine non è affatto un lasciarsi dominare da una immaginazione incontrollata. La Scrittura stessa ci svela tale sorriso sulle labbra di Maria quando ella canta il Magnificat: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore” (Lc 1,46-47). Quando la Vergine Maria rende grazie al Signore, ci prende a suoi testimoni. Maria condivide, come per anticipazione, con i futuri figli che siamo noi la gioia che abita nel suo cuore, affinché tale gioia diventi anche nostra. Ogni proclamazione del Magnificat fa di noi dei testimoni del suo sorriso. Qui a Lourdes, nel corso dell’apparizione del 3 marzo 1858, Bernadette contemplò in maniera del tutto speciale questo sorriso di Maria. Fu questa la prima risposta che la Bella Signora diede alla giovane veggente che voleva conoscere la sua identità. Prima di presentarsi a lei, qualche giorno dopo, come “l’Immacolata Concezione”, Maria le fece conoscere innanzitutto il suo sorriso, quasi fosse questa la porta d’accesso più appropriata alla rivelazione del suo mistero. Nel sorriso della più eminente fra tutte le creature, a noi rivolta, si riflette la nostra dignità di figli di Dio, una dignità che non abbandona mai chi è malato. Quel sorriso, vero riflesso della tenerezza di Dio, è la sorgente di una speranza invincibile. Lo sappiamo purtroppo: la sofferenza prolungata rompe gli equilibri meglio consolidati di una vita, scuote le più ferme certezze della fiducia e giunge a volte a far addirittura disperare del senso e del valore della vita. Vi sono combattimenti che l’uomo non può sostenere da solo, senza l’aiuto della grazia divina. Quando la parola non sa più trovare espressioni adeguate, s’afferma il bisogno di una presenza amorevole: cerchiamo allora la vicinanza non soltanto di coloro che condividono il nostro stesso sangue o che ci sono legati con i vincoli dell’amicizia, ma la vicinanza anche di coloro che ci sono intimi per il legame della fede. Chi potrebbe esserci più intimo di Cristo e della sua santa Madre, l’Immacolata? Più di chiunque altro, essi sono capaci di comprenderci e di cogliere la durezza del combattimento ingaggiato contro il male e la sofferenza. La Lettera agli Ebrei afferma, a proposito di Cristo, che egli non è incapace di “compatire le nostre debolezze, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa”(Eb 4,15).Vorrei dire, umilmente, a coloro che soffrono e a coloro che lottano e sono tentati di voltare le spalle alla vita: volgetevi a Maria! Nel sorriso della Vergine si trova misteriosamente nascosta la forza per proseguire il combattimento contro la malattia e in favore della vita. Presso di lei si trova ugualmente la grazia di accettare senza paura né amarezza il congedo da questo mondo, nell’ora voluta da Dio.
Quanto era giusta l’intuizione di quella bella figura spirituale francese che fu Dom Jean-Baptiste Chautard, il quale ne L’anima di ogni apostolato proponeva al cristiano fervoroso frequenti “incontri di sguardo con la Vergine Maria” ! Sì, cercare il sorriso della Vergine Maria non è un pio infantilismo; è l’ispirazione, dice il Salmo 44, di coloro che sono “i più ricchi del popolo”(v. 13). “I più ricchi”, s’intende, nell’ordine della fede, coloro che hanno la maturità spirituale più elevata e sanno per questo riconoscere la loro debolezza e la loro povertà davanti a Dio. In quella manifestazione molto semplice di tenerezza che è il sorriso, percepiamo che la nostra unica ricchezza è l’amore che Dio ha per noi e che passa attraverso il cuore di colei che è diventata nostra Madre. Cercare questo sorriso significa innanzitutto cogliere la gratuità dell’amore; significa pure saper suscitare questo sorriso col nostro impegno di vivere secondo la parola del suo Figlio diletto, così come il bambino cerca di suscitare il sorriso della madre facendo ciò che a lei piace. E noi sappiamo ciò che piace a Maria grazie alle parole che lei stessa rivolse ai servi di Cana: “Fate quello che vi dirà” (cfr Gv 2,5).
Il sorriso di Maria è una sorgente di acqua viva. “Chi crede in me, ha detto Gesù, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Gv 7,38). Maria è colei che ha creduto e, dal suo seno, sono sgorgati fiumi d’acqua viva che vengono ad irrigare la storia degli uomini. La sorgente indicata, qui a Lourdes, da Maria a Bernadette è l’umile segno di questa realtà spirituale. Dal suo cuore di credente e di madre sgorga un’acqua viva che purifica e guarisce. Immergendosi nelle piscine di Lourdes, quanti sono coloro che hanno scoperto e sperimentato la dolce maternità della Vergine Maria, attaccandosi a lei per meglio attaccarsi al Signore! Nella sequenza liturgica di questa festa della Beata Vergine Addolorata, Maria è onorata sotto il titolo di “Fons amoris”, “Sorgente d’amore”. Dal cuore di Maria scaturisce, in effetti, un amore gratuito che suscita una risposta filiale, chiamata ad affinarsi senza posa. Come ogni madre, e meglio di ogni madre, Maria è l’educatrice dell’amore. E’ per questo che tanti malati vengono qui, a Lourdes, per dissetarsi a questa “Sorgente d’amore” e per lasciarsi condurre all’unica sorgente della salvezza, il Figlio suo, Gesù Salvatore. Cristo dispensa la sua salvezza attraverso i Sacramenti e, in modo speciale, alle persone che soffrono di malattie o che sono portatrici di un handicap, attraverso la grazia dell’Unzione degli infermi. Per ciascuno la sofferenza è sempre una straniera. La sua presenza non è mai addomesticabile. Per questo è difficile sopportarla, e più difficile ancora – come hanno fatto certi grandi testimoni della santità di Cristo – accoglierla come parte integrante della propria vocazione, o accettare, secondo l’espressione di Bernadette, di “tutto soffrire in silenzio per piacere a Gesù” Per poter dire ciò è necessario aver già percorso un lungo cammino in unione con Gesù. In compenso, è possibile già subito rimettersi alla misericordia di Dio così come essa si manifesta mediante la grazia del Sacramento dei malati. Bernadette stessa, nel corso di un’esistenza spesso segnata dalla malattia, ricevette questo Sacramento quattro volte. La grazia propria del Sacramento consiste nell’accogliere in sé Cristo medico. Cristo tuttavia non è medico alla maniera del mondo. Per guarirci, egli non resta fuori della sofferenza che si sperimenta; la allevia venendo ad abitare in colui che è colpito dalla malattia, per sopportarla e viverla con lui. La presenza di Cristo viene a rompere l’isolamento che il dolore provoca. L’uomo non porta più da solo la sua prova ma, in quanto membro sofferente di Cristo, viene conformato a Lui che si offre al Padre, e in Lui partecipa al parto della nuova creazione.
Senza l’aiuto del Signore, il giogo della malattia e della sofferenza è crudelmente pesante. Nel ricevere il Sacramento dei malati, noi non desideriamo portare altro giogo che quello di Cristo, forti della promessa che Egli ci ha fatto, che cioè il suo giogo sarà facile da portare e il suo peso leggero (cfr Mt 11,30). Invito le persone che riceveranno l’Unzione dei malati nel corso di questa Messa a entrare in una simile speranza. Il Concilio Vaticano II ha presentato Maria come la figura nella quale è riassunto tutto il mistero della Chiesa (cfr LG, 63-65). La sua vicenda personale ripropone il profilo della Chiesa, che è invitata ad essere attenta quanto lei alle persone che soffrono. Rivolgo un saluto affettuoso ai componenti del Servizio sanitario e infermieristico, come pure a tutte le persone che, a titoli diversi, negli ospedali e in altre istituzioni, contribuiscono alla cura dei malati con competenza e generosità. Ugualmente al personale di accoglienza, ai barellieri e agli accompagnatori che, provenendo da tutte le diocesi di Francia ed anche da più lontano, si prodigano lungo tutto l’anno intorno ai malati che vengono in pellegrinaggio a Lourdes, vorrei dire quanto il loro servizio è prezioso. Essi sono le braccia della Chiesa, umile serva. Desidero infine incoraggiare coloro che, in nome della loro fede, accolgono e visitano i malati, in particolare nelle cappellanie degli ospedali, nelle parrocchie o, come qui, nei santuari. Possiate sentire sempre in questa importante e delicata missione il sostegno efficace e fraterno delle vostre comunità! E, in questo senso, saluto e ringrazio in modo particolare anche i miei Fratelli nell'Episcopato, i Vescovi francesi, i Vescovi stranieri e i sacerdoti, poiché tutti loro sono accompagnatori dei malati e degli uomini nella sofferenza di questo mondo. Grazie per il vostro servizio al Signore che soffre! Il servizio di carità che voi rendete è un servizio mariano. Maria vi affida il suo sorriso, affinché diventiate voi stessi, nella fedeltà al Figlio suo, sorgenti di acqua viva. Quello che voi fate, lo fate a nome della Chiesa, di cui Maria è l’immagine più pura. Possiate voi portare il suo sorriso a tutti!
Concludendo, desidero unirmi alla preghiera dei pellegrini e dei malati e riprendere insieme con voi uno stralcio della preghiera a Maria per la celebrazione di questo Giubileo: “Poiché tu sei il sorriso di Dio, il riflesso della luce di Cristo, la dimora dello Spirito Santo, poiché tu hai scelto Bernadette nella sua miseria, tu che sei la stella del mattino, la porta del cielo e la prima creatura risorta, Nostra Signora di Lourdes”, con i nostri fratelli e le nostre sorelle i cui cuori e i cui corpi sono dolenti, noi ti preghiamo!
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Da Parigi e da Lourdes, la lezione del papa "liturgo" - Nel suo viaggio in Francia, Benedetto XVI non ha soltanto difeso il rito antico della messa. Ha spiegato e mostrato più volte quello che ritiene il senso autentico della liturgia cattolica di oggi e di sempre. E sulla musica sacra ha detto... di Sandro Magister
OMA, 16 settembre 2008 – Nelle tre messe celebrate durante il suo viaggio a Parigi e a Lourdes, Benedetto XVI ha seguito il rito postconciliare. Ma l'ha volutamente arricchito con elementi caratteristici del vecchio rito: la croce al centro dell'altare, la comunione data in bocca ai fedeli inginocchiati, la sacralità dell'insieme.
Quello del reciproco "arricchimento" tra i due riti è l'obiettivo principale che ha spinto Benedetto XVI a promulgare nel 2007 il motu proprio "Summorum Pontificum" che ha liberalizzato l'uso del rito antico della messa, quello del messale romano del 1962.
Gli oppositori del motu proprio ritengono invece che l'uso del rito antico non arricchisca ma svuoti le conquiste del Concilio Vaticano II nel suo insieme. I vescovi francesi sono stati tra i più critici dell'iniziativa del papa, prima e dopo la promulgazione del motu proprio.
Domenica 14 settembre, incontrando a Lourdes i vescovi di Francia, papa Joseph Ratzinger non ha mancato di sollecitarli ad essere pastori accoglienti di tutti, anche dei fedeli che si sentono più "a casa" con l'antico rito.
Il papa aveva anticipato le sue idee sui due riti della messa rispondendo ai giornalisti sull'aereo che lo portava in Francia, venerdì 12 settembre.
Ma nei quattro giorni della sua visita a Parigi e a Lourdes, Benedetto XVI ha detto, in proposito, molto di più.
Nella lezione tenuta il 12 settembre al Collége des Bernardins ha spiegato il nascere della grande musica occidentale, nei monasteri del Medioevo, in termini che obbligano a riflettere sulla qualità scadente della musica liturgica d'oggi e sulla necessità di ridarle vita conformemente al suo senso originario.
Nell'omelia dei vespri nella cattedrale di Notre-Dame ha invocato per le liturgie terrene una "bellezza" che le avvicini alle liturgie del cielo. E ha esortato i preti ad essere fedeli alla preghiera quotidiana della liturgia delle ore.
Nell'omelia della messa all'Esplanade des Invalides, il 13 settembre, ha tratteggiato la dottrina dell'eucaristia e della "presenza reale" del corpo e del sangue di Cristo con parole molto esigenti, che obbligano a celebrare la messa con una sacralità che negli ultimi decenni è stata largamente trascurata.
E su questa "presenza reale" è tornato nella meditazione conclusiva della processione eucaristica, a Lourdes, la sera del 14 settembre. Con un passaggio dedicato a coloro che "non possono ricevere Gesù nel sacramento ma possono contemplarlo con fede e amore, ed esprimere il desiderio di potersi finalmente unire a Lui". Tra questi si possono annoverare i cattolici divorziati e risposati, ai quali la Chiesa non dà la comunione. Ma il loro "desiderio", ha detto il papa. "ha grande valore davanti a Dio".
A questi richiami allo spirito autentico della liturgia, Benedetto XVI ha inoltre aggiunto, il 14 settembre a Lourdes, un'illustrazione del senso profondo dell'Angelus Domini, la preghiera mariana che egli recita in pubblico ogni domenica dell'anno a mezzogiorno.
Ecco qui di seguito quanto detto da Benedetto XVI giorno dopo giorno, su ciascuno di questi punti:
Sulla messa in rito antico
Dalla conferenza stampa sull'aereo papale, 12 settembre 2008
D. – Santità, che cosa dice a coloro che in Francia temono che il motu proprio "Summorum Pontificum" segni un ritorno indietro rispetto alle grandi intuizioni del Concilio Vaticano II?
R. – È una paura infondata, perché questo motu proprio è semplicemente un atto di tolleranza, ai fini pastorali, per persone che sono state formate in quella liturgia, la amano, la conoscono, e vogliono vivere con quella liturgia. È un gruppo ridotto, poiché presuppone una formazione nella lingua latina, una formazione in una certa cultura. Ma avere per queste persone l'amore e la tolleranza di permettere loro di vivere con questa liturgia, sembra un'esigenza normale della fede e della pastorale di un Vescovo della nostra Chiesa.
Non c'è alcuna opposizione tra la liturgia rinnovata del Concilio Vaticano II e questa liturgia. Ogni giorno i Padri conciliari celebravano la messa secondo l'antico rito e, al contempo, concepivano uno sviluppo naturale per la liturgia in tutto questo secolo, poiché la liturgia è una realtà viva che si sviluppa e conserva, nel suo sviluppo, la sua identità. Ci sono dunque sicuramente accenti diversi, ma comunque un'identità fondamentale che esclude una contraddizione, un'opposizione tra la liturgia rinnovata e la liturgia precedente.
Credo in ogni caso che vi sia una possibilità di arricchimento da ambedue le parti. Da un lato gli amici dell'antica liturgia possono e devono conoscere i nuovi santi, i nuovi prefazi della liturgia, ecc. Dall'altra, la liturgia nuova sottolinea maggiormente la partecipazione comune, ma non è semplicemente un'assemblea di una certa comunità, ma sempre un atto della Chiesa universale, in comunione con tutti i credenti di tutti i tempi, e un atto di adorazione. In tal senso mi sembra che vi sia un mutuo arricchimento, ed è chiaro che la liturgia rinnovata è la liturgia ordinaria del nostro tempo.
Sulla nascita della grande musica occidentale
Dalla lezione al Collège des Bernardins, Parigi, 12 settembre 2008
I Salmi contengono ripetutamente delle istruzioni su come devono essere cantati ed accompagnati con strumenti musicali. Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica. Due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il "Gloria", che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il "Sanctus", che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’ immediata vicinanza di Dio. Alla luce di ciò la liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e a portare così la parola alla sua destinazione più alta. Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclercq: “I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo redento ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni” (cfr ibid. p.229).
In Benedetto, per la preghiera e per il canto dei monaci vale come regola determinante la parola del Salmo: "Coram angelis psallam Tibi, Domine" – davanti agli angeli voglio cantare a Te, Signore (cfr 138,1). Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera comunitaria in presenza di tutta la corte celeste e di essere quindi esposti al criterio supremo: di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere.
Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle, che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino per giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era affatto un piccolo incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la confusione di un canto mal eseguito come un precipitare nella “zona della dissimilitudine” – nella "regio dissimilitudinis". Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il suo stato interiore prima della conversione (cfr Confessioni VII, 10.16): l’uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio nella “zona della dissimilitudine” – in una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo. È certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti mal eseguiti dei monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso. Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del canto è anche cultura dell’essere e che i monaci con il loro pregare e cantare devono corrispondere alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza.
Da questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e del cantarLo con le parole donate da Lui stesso è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una “creatività” privata, in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io. Si trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore nel suo mondo e nell’uomo, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo e fa risuonare in modo puro la sua dignità.
Sulla liturgia delle ore
Dall'omelia dei vespri nella cattedrale di Notre-Dame, Parigi, 12 settembre 2008
Il Figlio di Dio ha preso carne nel seno di una donna, di una vergine. La vostra cattedrale è un inno vivente di pietra e di luce a lode di questo atto unico della storia dell’umanità: la Parola eterna di Dio che entra nella storia degli uomini nella pienezza dei tempi per riscattarli mediante l’offerta di se stesso nel sacrificio della Croce. Le nostre liturgie della terra, interamente volte a celebrare questo atto unico della storia, non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l’infinita densità. La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare!
Sin d’ora, la Parola di Dio ci è donata per essere l’anima del nostro apostolato, l’anima della nostra vita di sacerdoti. Ogni mattina la Parola ci risveglia. Ogni mattina il Signore stesso ci "apre l’orecchio" (Isaia 50, 5) con i salmi dell’Ufficio delle letture e delle Lodi. Lungo l’intero arco della giornata, la Parola di Dio diviene materia della preghiera di tutta la Chiesa, la quale vuol così testimoniare la propria fedeltà a Cristo. Secondo la celebre formula di san Girolamo, che sarà ripresa nel corso della XII Assemblea del Sinodo dei Vescovi nel prossimo mese di ottobre: "Ignorare le Scritture è ignorare Cristo" (Prologo del Commento a Isaia). Cari fratelli sacerdoti, non abbiate paura di consacrare una parte considerevole del vostro tempo alla lettura, alla meditazione della Scrittura e alla preghiera dell’Ufficio Divino! Quasi a vostra insaputa la Parola letta e meditata nella Chiesa agisce in voi e vi trasforma. Come manifestazione della Sapienza di Dio, se essa diviene la "compagna" della vostra vita, essa sarà vostra "consigliera di buone azioni", vostro "conforto nelle preoccupazioni e nel dolore" (Sapienza 8, 9).
Sulla presenza reale di Gesù nell'eucaristia
Dall'omelia della messa all'Esplanade des Invalides, Parigi, 13 settembre 2008
Come giungere a Dio? Come giungere a trovare o ritrovare Colui che l’uomo cerca nel più profondo di se stesso, pur dimenticandolo così sovente? San Paolo ci domanda di fare uso non solamente della nostra ragione, ma soprattutto della nostra fede per scoprirlo. Ora, che cosa ci dice la fede? Il pane che noi spezziamo è comunione al Corpo di Cristo; il calice di ringraziamento che noi benediciamo è comunione al Sangue di Cristo. Rivelazione straordinaria, che ci viene da Cristo e ci è trasmessa dagli Apostoli e da tutta la Chiesa da quasi duemila anni: Cristo ha istituito il sacramento dell’Eucaristia la sera del Giovedì Santo. Egli ha voluto che il suo sacrificio fosse nuovamente presentato, in modo incruento, ogni volta che un sacerdote ridice le parole della consacrazione sul pane e sul vino. Milioni di volte da venti secoli, nella più umile delle cappelle come nella più grandiosa delle basiliche o delle cattedrali, il Signore risorto si è donato al suo popolo, divenendo così, secondo la formula di sant’Agostino, "più intimo a noi che noi medesimi" (cfr Confessioni III, 6.11).
Fratelli e sorelle, circondiamo della più grande venerazione il sacramento del Corpo e del Sangue del Signore, il Santissimo Sacramento della presenza reale del Signore alla sua Chiesa e all’intera umanità. Non trascuriamo nulla per manifestargli il nostro rispetto ed il nostro amore! Diamogli i più grandi segni d’onore! Mediante le nostre parole, i nostri silenzi e i nostri gesti, non accettiamo mai che in noi ed intorno a noi si appanni la fede nel Cristo risorto, presente nell’Eucaristia. Come dice magnificamente lo stesso san Giovanni Crisostomo: "Passiamo in rassegna gli ineffabili benefici di Dio e tutti i beni di cui Egli ci fa gioire, quando noi gli offriamo questo calice, quando noi ci comunichiamo, ringraziandolo di aver liberato il genere umano dall’errore, di aver avvicinato a sé coloro che se ne erano allontanati, di aver fatto di disperati e di atei di questo mondo un popolo di fratelli, di coeredi del Figlio di Dio" (Omelia 24 sulla Prima Lettera ai Corinzi, 1). In effetti, egli prosegue, "ciò che è nel calice è precisamente ciò che è colato dal suo costato ed è a questo che noi partecipiamo" (ibid.). Non c’è soltanto partecipazione e condivisione, c’è anche "unione", egli ci dice.
La Messa è il sacrificio d’azione di grazie per eccellenza, quello che ci permette d’unire la nostra azione di grazie a quella del Salvatore, il Figlio eterno del Padre. In se stessa la Messa ci invita anche a fuggire gli idoli, perché, è san Paolo ad insistervi, "non potete bere il calice del Signore ed il calice dei demoni" (1 Corinzi 10, 21). La Messa ci invita a discernere ciò che, in noi, obbedisce allo Spirito di Dio e ciò che, in noi, resta in ascolto dello spirito del male. Nella Messa noi non vogliamo appartenere che al Cristo e riprendiamo con gratitudine – con "azione di grazie" – il grido del Salmista: "Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato" (Salmo 116, 12). Sì, come rendere grazie al Signore per la vita che Egli mi ha donato? La risposta alla domanda del Salmista si trova nel Salmo stesso, perché la Parola di Dio risponde misericordiosamente essa stessa alle domande che pone. Come rendere grazie al Signore per tutto il bene che Egli ci fa, se non attenendoci alle stesse sue parole: "Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore" (Salmo 116, 13)?
Alzare il calice della salvezza ed invocare il nome del Signore non è forse precisamente il mezzo migliore di "fuggire gli idoli", come ci chiede san Paolo? Ogni volta che una Messa è celebrata, ogni volta che il Cristo si rende sacramentalmente presente nella sua Chiesa, è l’opera della nostra salvezza che si compie. Celebrare l’Eucaristia significa perciò riconoscere che Dio solo è in grado di donarci la felicità in pienezza, di insegnarci i veri valori, i valori eterni che non conosceranno mai tramonto. Dio è presente sull’altare, ma Egli è pure presente sull’altare del nostro cuore quando, comunicandoci, noi lo riceviamo nel sacramento eucaristico. Lui solo ci insegna a fuggire gli idoli, miraggi del pensiero.
Ora, cari fratelli e sorelle, chi può elevare il calice della salvezza ed invocare il nome del Signore per conto dell’intero popolo di Dio, se non il sacerdote ordinato per questo scopo dal vescovo? Qui, cari abitanti di Parigi e della regione parigina, ma anche voi tutti che siete venuti dall’intera Francia e da altri paesi confinanti, permettetemi di lanciare un appello pieno di fiducia nella fede e nella generosità dei giovani, che si pongono la domanda sulla vocazione religiosa o sacerdotale: Non abbiate paura! Non abbiate paura di donare la vostra vita a Cristo! Niente rimpiazzerà mai il ministero dei sacerdoti nella vita della Chiesa. Niente rimpiazzerà mai una Messa per la salvezza del mondo!
Sulla preghiera dell'Angelus Domini
Dal messaggio all'Angelus di mezzogiorno, Lourdes, 14 settembre 2008
Ogni giorno, la preghiera dell’Angelus ci offre la possibilità di riflettere qualche istante, in mezzo alle nostre attività, sul mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio. A mezzogiorno, quando le prime ore del giorno cominciano a far gravare su di noi il loro peso di fatica, la nostra disponibilità e la nostra generosità sono rinnovate dalla contemplazione del "sì" di Maria. Questo "sì" limpido e senza riserve si radica nel mistero della libertà di Maria, libertà piena ed integra davanti a Dio, svincolata da ogni complicità col peccato, grazie al privilegio della sua Immacolata Concezione.
Questo privilegio concesso a Maria, che la distingue dalla nostra comune condizione, non l’allontana, ma al contrario la avvicina a noi. Mentre il peccato divide, ci allontana gli uni dagli altri, la purezza di Maria la rende infinitamente prossima ai nostri cuori, attenta a ciascuno di noi e desiderosa del nostro vero bene. Potete vederlo qui a Lourdes, come in tutti i Santuari mariani, folle immense accorrono ai piedi di Maria per confidarle ciò che ciascuno ha di più intimo, ciò che a ciascuno sta particolarmente a cuore. Ciò che molti, per imbarazzo o per pudore, non osano a volte confidare neppure ai loro intimi, lo confidano a Colei che è la Tutta pura, al suo Cuore immacolato: con semplicità, senza orpelli, nella verità. Davanti a Maria, in virtù proprio della sua purezza, l’uomo non esita a mostrarsi nella sua debolezza, a consegnare le sue domande e i suoi dubbi, a formulare le sue speranze e i suoi desideri più segreti. L’amore materno della Vergine Maria disarma ogni forma d’orgoglio; rende l’uomo capace di guardarsi quale egli è e gli ispira il desiderio di convertirsi per dare gloria a Dio.
Maria ci mostra così la giusta maniera di avanzare verso il Signore. Ci insegna ad avvicinarci a Lui nella verità e nella semplicità. Grazie a lei, scopriamo che la fede cristiana non è un peso, ma è come un’ala che ci permette di volare più in alto per rifugiarci tra le braccia del Signore.
La vita e la fede del popolo credente rivelano che il privilegio dell’Immacolata Concezione fatto a Maria non è una grazia solo personale, ma per tutti, una grazia fatta all’intero Popolo di Dio. In Maria la Chiesa può già contemplare ciò che essa è chiamata a divenire. In lei ogni credente può fin d’ora contemplare il compimento perfetto della sua personale vocazione. Possa ciascuno di noi rimanere sempre in azione di grazie per ciò che il Signore ha voluto rivelare del suo piano di salvezza attraverso il mistero di Maria. Mistero nel quale siamo implicati nel modo più toccante, poiché dall’alto della Croce, che noi ricordiamo ed esaltiamo proprio oggi, ci è rivelato dalla bocca stessa di Gesù che sua Madre è nostra Madre. In quanto figli e figlie di Maria, possiamo trarre profitto di tutte le grazie che sono state fatte a lei, e la dignità incomparabile che le procura il privilegio dell’Immacolata Concezione ricade su di noi, suoi figli.
Ancora sulla messa in rito antico
Dal discorso ai vescovi di Francia, Lourdes, 14 settembre 2008
Il culto liturgico è l’espressione più alta della vita sacerdotale ed episcopale, come anche dell’insegnamento catechetico. Il vostro compito di santificazione del popolo dei fedeli, cari fratelli, è indispensabile alla crescita della Chiesa. Nel motu proprio "Summorum Pontificum" sono stato portato a precisare le condizioni di esercizio di tale compito, in ciò che concerne la possibilità di usare tanto il Messale del beato Giovanni XXIII (1962) quanto quello del papa Paolo VI (1970). Alcuni frutti di queste nuove disposizioni si sono già manifestati, e io spero che l’indispensabile pacificazione degli spiriti sia, per grazia di Dio, in via di realizzarsi. Misuro le difficoltà che voi incontrate, ma non dubito che potrete giungere, in tempi ragionevoli, a soluzioni soddisfacenti per tutti, così che la tunica senza cuciture del Cristo non si strappi ulteriormente. Nessuno è di troppo nella Chiesa. Ciascuno, senza eccezioni, in essa deve potersi sentire “a casa sua”, e mai rifiutato. Dio, che ama tutti gli uomini e non vuole che alcuno perisca, ci affida questa missione facendo di noi i pastori delle sue pecore. Non possiamo che rendergli grazie per l’onore e la fiducia che Egli ci riserva. Sforziamoci pertanto di essere sempre servitori dell’unità.
Ancora sulla presenza reale di Gesù nell'eucaristia
Dalla meditazione conclusiva della precessione eucaristica, Lourdes, 14 settembre 2008
L’Ostia Santa è il Sacramento vivo ed efficace della presenza eterna del Salvatore degli uomini alla sua Chiesa. [...] Una folla immensa di testimoni è invisibilmente presente accanto a noi, vicino a questa grotta benedetta e davanti a questa chiesa voluta dalla Vergine Maria; la folla di tutti gli uomini e di tutte le donne che hanno contemplato, venerato, adorato la presenza reale di Colui che si è donato a noi fino all’ultima goccia di sangue; la folla degli uomini e delle donne che hanno passato ore ad adorarlo nel Santissimo Sacramento dell’altare. [...] San Pier-Giuliano Eymard ci dice tutto, quando esclama: "La Santa Eucaristia è Gesù Cristo passato, presente e futuro.
Gesù Cristo passato, nella verità storica della sera nel cenacolo, ove ci conduce ogni celebrazione della santa Messa.
Gesù Cristo presente, perché Egli ci dice: "Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo, questo è il mio sangue". "Questo è", al presente, qui e ora, come in tutti i "qui e ora" della storia umana. Presenza reale, presenza che supera le nostre povere labbra, i nostri poveri cuori, i nostri poveri pensieri. Presenza offerta ai nostri sguardi come qui, stasera, presso questa grotta ove Maria s’è rivelata come Immacolata Concezione.
L’Eucaristia è anche Gesù Cristo futuro, il Gesù Cristo che verrà. Quando contempliamo l’Ostia Santa, il suo Corpo di gloria trasfigurato e risorto, contempliamo ciò che contempleremo nell’eternità, scoprendovi il mondo intero sostenuto dal suo Creatore in ogni istante della sua storia. Ogni volta che ce ne cibiamo, ma anche ogni volta che lo contempliamo, noi l’annunciamo fino a che Egli ritorni: "donec veniat". Proprio per questo noi lo riceviamo con infinito rispetto.
Alcuni tra noi non possono o non possono ancora riceverlo nel Sacramento, ma possono contemplarlo con fede e amore, ed esprimere il desiderio di potersi finalmente unire a Lui. È un desiderio che ha grande valore davanti a Dio: essi attendono con maggior ardore il suo ritorno; attendono Gesù Cristo che deve venire.
Stimmate, bilocazioni, ipertermie… i documenti inediti su Padre Pio - Esce il libro di don Francesco Castelli “Padre Pio sotto inchiesta. L’ ‘autobiografia’ segreta” (Ares) – due articoli su San Padre Pio: 1) Le stimmate, il Sant’Uffizio. Nuove verità su Padre Pio di Antonio Socci - 2) Il Sant'Uffizio disse: sono vere stimmate di Riccardo Caniato
«Udii questa voce: ‘Ti associo alla mia Passione’»
Esce il libro di don Francesco Castelli “Padre Pio sotto inchiesta. L’ ‘autobiografia’ segreta” (Ares) che contiene documenti inediti, eccezionali: la relazione scritta nel gennaio 1922 da monsignor Raffaello Carlo Rossi, vescovo di Volterra, inquisitore per conto del S. Uffizio a San Giovanni Rotondo nel maggio 1921. La divulgazione è stata resa possibile con l’apertura al pubblico degli archivi vaticani relativi al pontificato di Pio XI. Vittorio Messori, nella Prefazione, sottolinea «l’eccezionalità del documento sia per la peculiarità dei contenuti, sia per la bellezza del linguaggio». Ma il libro è impreziosito ulteriormente da un secondo contributo originale: la cosiddetta Cronistoria di Padre Pio; alcune cartelle sulla vita e il carisma del santo stilate da Padre Benedetto da San Marco in Lamis, che ne fu direttore spirituale e superiore negli anni giovanili: un testo ritenuto da tutti i biografi riferimento essenziale, ma mai pubblicato prima d’ora in volume.
1) Le stimmate, il Sant’Uffizio. Nuove verità su Padre Pio di Antonio Socci
2) Il Sant'Uffizio disse: sono vere stimmate di Riccardo Caniato
1)
Le stimmate, il Sant’Uffizio. Nuove verità su Padre Pio
Il 20 settembre è il 90° anniversario della stimmatizzazione di padre Pio e il 23 settembre è il 40° della morte. Proprio alla vigilia di entrambi sta per uscire un libro di don Francesco Castelli che contiene documenti inediti, eccezionali, sull’episodio delle stimmate e sulla loro origine. In uno di essi “il cappuccino svela – non lo farà mai più durante la sua vita – il toccante dialogo fra lui e il misterioso personaggio, autore delle stimmate” e le parole che spiegano il motivo di quelle stimmate.
Il grande evento avvenne il 20 settembre 1918 e forse la data non è casuale: era stato il giorno della presa di Roma da parte dei piemontesi, fine del potere temporale e inizio della persecuzione al papa, ma anche di una purificazione della Chiesa.
Il fenomeno delle stimmate impose all’attenzione del mondo quello sconosciuto e umile francescano e ne fece una luce che attrasse e ancora attrae milioni e milioni di persone.
Padre Pio divenne così una straordinaria risposta del Cielo all’apostasia del secolo XX. Un giorno di aprile dell’anno 30 d.C., all’apostolo Tommaso, che non credeva che i suoi compagni avessero davvero visto e parlato con Gesù, dopo la sua morte, risorto nella carne e vivo, Gesù andò incontro e disse “Tommaso metti qua il dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente!”.
Così, all’incredulità del secolo delle ideologie, pochi mesi dopo la Rivoluzione d’ottobre, Gesù ha risposto mostrando quelle stesse piaghe, del crocifisso risorto, sul corpo di uno dei suoi più grandi amici, padre Pio: crocifisso per 50 anni davanti al mondo e alla stessa scienza la quale più volte ha studiato e analizzato le sue stimmate ritenendone inspiegabili sia la formazione, sia il perdurare contro ogni legge naturale, sia la sparizione alla vigilia della morte senza lasciar traccia alcuna, di nuovo contro le leggi della biologia.
Francesco d’Assisi fu il primo stimmatizzato e padre Pio è stato il primo e unico sacerdote stimmatizzato della storia della Chiesa. Un fatto che assume un significato particolarmente importante alla luce delle rivelazioni di don Castelli. Storico e docente di Storia della Chiesa, don Francesco Castelli lavora anche nella Postulazione per la causa di beatificazione di Karol Wojtyla. E’ autore di alcuni lavori su padre Pio di cui abbiamo dato notizia anche da queste colonne.
Dunque in questo libro “Padre Pio sotto inchiesta. L’ ‘autobiografia’ segreta” (Ares), di cui parlerà anche il settimanale “Oggi”, pubblica un documento eccezionale: la relazione scritta nel gennaio 1922 da monsignor Raffaello Carlo Rossi, vescovo di Volterra, inquisitore per conto del S. Uffizio a San Giovanni Rotondo nel maggio 1921. Che contiene, fra l’altro, il verbale dei sei “interrogatori” di padre Pio, resi sotto giuramento, dove è contenuta la “bomba”.
Questo dossier era stato secretato e quindi nessuno ha potuto consultarlo. Solo dal giugno 2006 Benedetto XVI ha consentito l’apertura degli archivi del S.Uffizio per i documenti del pontificato di Pio XI (quindi dal 1921 al 1939). Il primo a poterli vedere è stato lo storico Sergio Luzzatto che ha pubblicato di recente un libro dove manifesta molto interesse alla politica e alle ideologie (e anche ai pettegolezzi di paese su padre Pio), ma non altrettanto ai documenti e alla sostanza, né alla materia religiosa (su cui non pare preparato). Forse per una conoscenza sommaria della vicenda di padre Pio, Luzzatto sembra non si sia accorto (nel suo libro non ne dà notizia) dell’esplosiva rivelazione fatta dal giovane frate in quel maggio 1921 al vescovo Rossi.
Finora, sull’episodio cruciale della stimmatizzazione, si sapeva solo quel poco che padre Pio aveva rivelato per lettera, il 22 ottobre 1918, al suo direttore spirituale. Era la mattina del 20 settembre. Padre Pio aveva appena celebrato la messa, era rimasto solo in chiesa e come di consueto stava nel coro per fare il ringraziamento. “E mentre tutto questo si andava operando”, scrive in quella lettera, “mi vidi dinanzi un misterioso personaggio, simile a quello visto la sera del 5 agosto, che differenziava in questo solamente che aveva le mani ed i piedi ed il costato che grondava sangue. La
sua vista mi atterrisce; ciò che sentivo in quell’istante in me non saprei dirvelo. Mi sentivo morire e sarei morto se il Signore non fosse intervenuto a sostenere il cuore, il quale me lo sentivo sbalzare dal petto. La vista del personaggio si ritira ed io mi avvidi che mani, piedi e costato erano traforati e grondavano sangue”.
Questa finora era l’unica versione del fatto decisivo della vita di padre Pio e c’erano tanti punti interrogativi: chi era il misterioso personaggio? Costui disse qualcosa? Fra i due si svolse un dialogo? Per quale scopo le stimmate sul corpo di padre Pio? Sono domande di enorme importanza.
Adesso, dal libro in uscita, apprendiamo che nel 1921 padre Pio, rispondendo alla richiesta di monsignor Rossi, aveva rivelato i particolari decisivi dell’avvenimento, chiarendo, di fatto, tutti quei punti interrogativi. Ecco le sue precise (e inedite) parole: “Il 20 settembre 1918 dopo la celebrazione della Messa, trattenendomi a fare il dovuto ringraziamento nel Coro tutt’a un tratto fui preso da un forte tremore, poi subentrò la calma e vidi Nostro Signore in atteggiamento di chi sta in croce, ma non mi ha colpito se avesse la Croce, lamentandosi della mala corrispondenza degli uomini, specie di coloro consacrati a Lui e più da lui favoriti. Di qui si manifestava che Lui soffriva e che desiderava di associare delle anime alla sua Passione. M’invitava a compenetrarmi dei suoi dolori e a meditarli: nello stesso tempo occuparmi per la salute dei fratelli. In seguito a questo mi sentii pieno di compassione per i dolori del Signore e chiedevo a lui che cosa potevo fare. Udii questa voce: ‘Ti associo alla mia Passione’. E in seguito a questo, scomparsa la visione, sono entrato in me, mi son dato ragione e ho visto questi segni qui, dai quali gocciolava il sangue. Prima nulla avevo”.
Da questo documento straordinario - sottolinea don Castelli – si apprende anzitutto che padre Pio conosceva bene l’identità di chi gli è apparso e soprattutto che “la stimmatizzazione non fu il risultato di una sua richiesta personale”. Altro che autosuggestione e psicosi. Il Padre chiese solo cosa poteva fare per confortare Gesù. Fu Gesù che lo invitò ad aiutarlo a portare il peso dei peccati del mondo, dell’ingratitudine e della mancanza di amore (specialmente dei consacrati).
Il libro contiene anche un altro documento eccezionale e inedito: l’esame accurato delle stimmate fatto dal vescovo. E’ strano che Luzzatto non lo abbia citato. E’ vero che esso confuta totalmente le sue tesi, ma ha un valore storico enorme. Questa è infatti l’unica vera inchiesta del S. Uffizio sulle stimmate. E l’ “inquisitore”, che confessa di essere arrivato “con una personale prevenzione in contrario”, dopo un’ispezione a tutto campo, accuratissima, senza sconti, pure con eccessi di rigore, riconosce infine: “non son potuto rimanere nella personale prevenzione contraria”. Ma anzi, dà voto favorevole. E – ben valutate tutte le altre ipotesi - deve riconoscere che quelle stimmate si spiegano solo con un’origine divina.
Il prelato testimonia pure di aver constatato personalmente il “profumo” (specialmente) del sangue di padre Pio e documenta fenomeni come la temperatura corporea a 48° (quando il padre pensa a Gesù) e la bilocazione. Ora, dopo queste ultime rivelazioni del libro di Castelli, è più chiaro il senso di quelle stimmate. Kierkegaard dice che Gesù ci fa letteralmente scudo col suo corpo santo. Ebbene, padre Pio è lì con lui a fare scudo a ciascuno di noi, (come fece padre Kolbe per quel padre di famiglia). E a milioni si riparano dietro di lui.
Libero 10/09/2008
2)
L’«autobiografia» segreta di Padre Pio
Il Sant'Uffizio disse: sono vere stimmate.
A 40 anni dalla morte di Padre Pio, un verbale inedito conferma la sua santita'.
«Davanti a me Visitatore Apostolico, nel Convento dei Minori Cappuccini, si è presentato, chiamato, il Reverendo Padre Pio da Pietrelcina, il quale, al tocco dei Santi Evangeli prestato il giuramento di dire la verità, depose e rispose come segue: “Mi chiamo Padre Pio da Pietrelcina, al secolo Francesco Forgione, di Orazio, di anni 34 compiti. Mi trovo in questo Convento dal Settembre 1916…”». È il 15 giugno 1921, sono le ore 17, il santo del Gargano è messo sotto torchio. Davanti a lui siede un sacerdote di 44 anni, austero nel portamento, asciutto nel parlare, rigoroso nel porre le domande: è Mons. Raffaello Carlo Rossi, vescovo di Volterra, inviato dal Sant’Uffizio per inquisire il frate delle stimmate.
«Un film lungo una settimana».
L’ecclesiastico si presenta al portone di Santa Maria delle Grazie il 14 giugno; con ogni probabilità senza croce pettorale e zucchetto, a salvaguardia della segretezza della missione. Vi si intrattiene per otto giorni, mettendo a verbale le dichiarazioni non solo di Padre Pio, ma anche dei suoi confratelli, compresi il Padre Provinciale, Pietro da Ischitella, e il superiore del convento, Padre Lorenzo da San Marco in Lamis. Quindi, nella parrocchia di San Giovanni Rotondo, fa deporre più volte il parroco e il viceparroco. Al tempo stesso compie un’accurata indagine sulle stimmate. A tutti impone, mediante giuramento, di dire la verità e di mantenere anche in futuro il più completo riserbo. E il segreto è durato fino a oggi, allorché l’indagine riemerge dagli archivi segreti vaticani, pubblicata per intero nel volume Padre Pio sotto inchiesta, Edizioni Ares, a cura di Francesco Castelli, con prefazione di Vittorio Messori (pp. 328, euro 14).
Si dipana qui, come in un film, una settimana della vita del frate, in ogni suo aspetto anche domestico, come la passione per la birra prodotta da un amico, l’unica che riusciva a digerire. Ne traiamo un Padre Pio simpatico, di forte temperamento, allegro. Non certo un mistico appartato, piuttosto un religioso particolarmente attento ai doveri comunitari, come i servizi, ma anche lo stare in compagnia.
Per la sua discrezione il Convento di San Giovanni Rotondo finisce per vivere con naturalezza le cose fuori dal comune che riguardano Padre Pio e che pure prendono corpo nelle testimonianze del Provinciale, del Superiore, di Padre Ignazio…, come le febbri a 48°, il profumo, le bilocazioni, i rumori notturni causati dal demonio, le fuoriuscite di sangue dalle stimmate, le grazie. È su questi aspetti, naturalmente, che si concentra l’attenzione dell’inquisitore che incalza prima i confratelli, poi, in sei successive deposizioni lo stesso Padre Pio.
Il santo che, per umiltà, eviterebbe volentieri di parlare di sé, dinanzi all’autorità del Papa, che Rossi incarna, non può sottrarsi: il documento contiene 142 risposte dettagliate, una nuova, imprescindibile fonte autobiografica. Non mancano rivelazioni sorprendenti.
«Ti associo alla mia Passione».
Fino a oggi risultava che Padre Pio, pudicamente, ritenendosi indegno dei suoi straordinari carismi e soprattutto delle stimmate, aveva dichiarato a voce e per iscritto che le piaghe gli furono inferte da «un personaggio misterioso». Ma chiamato a rispondere sul Vangelo, egli rivela per la prima volta l’identità di colui che lo ha stimmatizzato. È il 15 giugno 1921, poco dopo le 17, ecco il racconto raccolto dal Visitatore: «Il 20 Settembre 1918 dopo la celebrazione della Messa trattenendomi a fare il dovuto ringraziamento nel Coro tutt’ad un tratto fui preso da un forte tremore, poi subentrò la calma e vidi Nostro Signore in atteggiamento di chi sta in croce, ma non mi ha colpito se avesse la Croce, lamentandosi della mala corrispondenza degli uomini, specie di coloro consacrati a Lui e più da lui favoriti. Di qui si manifestava che lui soffriva e che desiderava di associare delle anime alla sua Passione. M’invitava a compenetrarmi dei suoi dolori e a meditarli: nello stesso tempo occuparmi per la salute dei fratelli. In seguito a questo mi sentii pieno di compassione per i dolori del Signore e chiedevo a lui che cosa potevo fare. Udii questa voce: “Ti associo alla mia Passione”. E in seguito a questo, scomparsa la visione, sono entrato in me, mi son dato ragione e ho visto questi segni qui, dai quali gocciolava il sangue. Prima nulla avevo».
Dopo queste dichiarazioni Mons. Rossi effettuerà personalmente una ricognizione sulle stimmate di Padre Pio, di cui non si aveva notizia e che risulta apportatrice di grandi novità, specialmente per quanto concerne la forma della ferita sul costato e la presunta sesta piaga della spalla. Il cappuccino nega di portare questo segno che sarebbe causato dal peso della croce; a precisa domanda, se abbia «per la persona, nel petto, nel dorso, altri segni simili [alle stimmate]» risponde: «No, mai avuti».
Il profumo, le stimmate, la febbre a 48°.
Ben sapendo che i detrattori di Padre Pio ipotizzano che generi artificialmente le ferite e il profumo che emana dal suo corpo, Mons. Rossi, la sera del 15 giugno perquisisce a sorpresa la sua cella per cercare medicine, strumenti e lozioni che possano spiegare umanamente questi fatti. Invano. Non pago, interroga a bruciapelo il santo sul profumo. «Non so che rispondere», risponde ingenuamente: «L’ho sentito anch’io da persone che son venute a baciarmi la mano. Per parte mia non so: in cella non ho che il sapone». Il vescovo sa che ha detto la verità.
Molto toccante un passo in cui Padre Pio dà conto sul dolore fisico causato dalle stimmate e dalle ipertermie a cui è soggetto. Il frate dichiara che le piaghe «arrossate», che «gocciolavano un poco di sangue» si manifestarono nel «1911-1912, i primi anni del sacerdozio» e che già da prima «sentivo dei dolori in quelle medesime parti». Questi allora vuol vederci più chiaro sulla sofferenza cui è sottoposto: «Quale effetto risente da queste stimmate?», gli chiede. «Dolore, sempre, specialmente in alcuni giorni quando emettono sangue. Il dolore è più o meno acuto: in alcuni momenti non posso reggere». «E che cosa dice della temperatura arrivata talora a 48º?», lo incalza Mons. Rossi. «È vero, e questo avviene quando mi sento male… Credo sia più male morale che fisico». «Quali effetti sperimenta, che cosa sente?». Padre Pio riflette qualche istante, poi spiega: «Affetti interni, la considerazione, qualche rappresentazione del Signore. Come in una fornace, mantenendo sempre la conoscenza». A volte, esausto per la febbre, il santo implorava: «Le fiamme mi divorano, datemi dell’acqua gelata». Fra emozioni estatiche e ostilità demoniache il suo fisico viveva dimensioni fuori dal normale.
In due luoghi contemporaneamente.
Per non dire di quando era chiamato a «sdoppiarsi» nelle bilocazioni. Interrogato su questo fenomeno Padre Pio risponde: «Io non so come sia, né di che natura la cosa, né molto meno ci do peso, ma mi è occorso di aver presente questa o quell’altra persona, questo luogo o quell’altro luogo; non so se la mente si sia trasportata lì, o qualche rappresentazione del luogo o della persona si sia presentata a me, non so se col corpo o senza il corpo io sia stato presente». Il vescovo vuol sapere se sia consapevole dell’inizio di questo stato e del rientrare nello stato normale. Il santo sottolinea che «ordinariamente» questi fenomeni avvengono durante la preghiera: «La mia attenzione era rivolta all’orazione prima e poi a questa rappresentanza: poi mi ritrovavo senz’altro come prima».
Incuriosito, Mons. Rossi domanda di fatti particolari: Padre Pio, dichiarando che è la prima volta a parlarne apertamente, racconta: «Una volta mi son trovato vicino al letto di un’ammalata: Signora Maria di San Giovanni Rotondo, di notte; ero in Convento; credo che stavo pregando. Sarà più di un anno. Le rivolsi parole di conforto: Lei pregava che avessi pregato per la sua guarigione. Questo la sostanza. Di particolare non conoscevo questa persona; mi era stata raccomandata». La donna guarì. Un altro caso: «Un uomo mi si è presentato o io mi son presentato a lui, a Torre Maggiore – io ero in Convento – e l’ho ripreso e rimproverato i suoi vizi, esortandolo a convertirsi, e poi in seguito quest’uomo è venuto anche qui».
Il giudizio.
Il Visitatore Apostolico rileva a questo punto la discrezione del cappuccino riguardo alle persone coinvolte e annota: «Padre Pio non dice il nome per riguardo». Partito per sua stessa ammissione prevenuto, incontro dopo incontro rimase colpito dal giovane frate del Gargano e, riferendo alla Santa Sede, chiuderà la relazione indicando questo profilo: «Padre Pio è un buon religioso, esemplare, esercitato nella pratica delle virtù, dato alla pietà ed elevato forse nei gradi di orazione più di quello che non sembri all’esterno; risplendente in particolar modo per una sentita umiltà e per una singolare semplicità che non son venute meno neppure nei momenti più gravi, nei quali queste virtù furono messe per lui a prova veramente grave e pericolosa». Nel 1921, il Sant’Uffizio Padre Pio lo aveva già fatto santo.
Oggi del 10-9-2008, pp. 32-34
Il sapere secondo Benedetto XVI - Giampaolo Cottini, IlSussidiario.it, martedì 16 settembre 2008
Il discorso del Papa al Collège des Bernardins di Parigi del 12 settembre è un altro importante tassello del pontificato di Benedetto XVI sul rapporto fede-ragione: dopo il celebre discorso di Ratisbona di due anni fa sul tema del Logos come fattore portante della coscienza religiosa, e la lezione non tenuta alla Sapienza di Roma dell’anno scorso dedicata al rapporto con la Scienza e alla vocazione dell’Università, l’incontro con gli intellettuali in un luogo edificato “dai figli di San Bernardo di Clairvaux” costituisce un’importante esame dei fondamenti della cultura.
È singolare e quasi provocatorio che il Papa abbia scelto proprio la laicissima Francia, terra del razionalismo cartesiano, dell’anticlericalismo illuministico, dello scientismo positivista di Comte, per lanciare il suo messaggio sul significato religioso e sui fondamenti cristiani della cultura europea, scegliendo non una tribuna istituzionale (come aveva fatto Giovanni Paolo II nel suo celebre discorso all’UNESCO del 1980), ma un luogo nato per ospitare la formazione dei monaci ed ora utilizzato per favorire l’incontro tra intellettuali cattolici e laici.
Colpisce anzitutto il metodo di affronto del discorso: non una partenza dal dibattito culturale contemporaneo o una discussione sulle opinioni presenti nell’attuale supermercato delle idee, neppure una disanima critica delle ideologie dominanti o un’analisi critica del relativismo filosofico, ma una dottissima ed acuta lezione di taglio accademico, che apparentemente sembra dedicata solo alla ricognizione dell’esperienza monastica, e che in realtà esemplifica qual è il cuore dell’esperienza culturale e quale ne è il metodo. Paradossalmente l’intenzione dei monaci non era di creare una cultura, ma di cercare Dio (“quaerere Deum”), per cui “nella confusione dei tempi in cui nulla sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre”. Con questo è tracciato il loro cammino culturale, che non consiste in un discorso sulla realtà o su un’interpretazione filosofica, ma si propone come ricerca di ciò che è definitivo dietro le cose provvisorie, perché i monaci “dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali”. Con ciò viene stabilito il cuore della cultura monastica, che risiede nella ricerca di Dio che giustifica lo studio della Scrittura, e crea una cultura della parola per esplorarne la Verità non in maniera arbitraria ma interpretandola in profondità. Poiché Dio parla all’uomo in maniera comprensibile, il monaco riscopre che la Parola è compresa nella comunità in cui essa si è formata e in cui è vissuta, ma essa non può mai essere ridotta a pura “lettera” poiché chiede di essere compresa attraverso lo Spirito e ciò implica il trascendimento dell’immediato.
Proprio per questo lo studio della Scrittura insegna che c’è un limite all’arbitrio soggettivo e all’interpretazione del singolo, e che cultura significa accogliere un legame che supera l’interpretazione letterale dei testi, il legame dell’intelletto e dell’amore. Così la civiltà occidentale impara che la vera libertà non è assenza totale di legami ed imposizione del proprio punto di vista (che in campo religioso conduce al fanatismo e al fondamentalismo), ma è capacità di ascoltare il Logos presente nella Scrittura come Verità universale. È questa verità che dà senso anche alla cultura del lavoro, cioè alla trasformazione della realtà per collaborare all’opera della Creazione, nell’ottica per cui occorre “guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime, vere”. Dire questo apre una prospettiva di “allargamento della ragione”, anche pratica, che consente di vedere il positivo presente in tutto, mettendo il monaco nella certezza che la fede riguarda tutti perché dice la Verità dell’uomo e non l’opinione di un gruppo da diffondere per proselitismo. Benedetto XVI è talmente convinto di ciò da porre con energia una disanima critica degli idoli contemporanei che distolgono l’uomo dalla Verità, dicendo nella grande Messa, celebrata sull’Esplanade des Invalides, (a poca distanza dalla tomba di Napoleone) che “mai Dio domanda all’uomo di fare sacrificio della sua ragione. Mai la ragione entra in contraddizione reale con la fede”, nel solco dell’esaltazione dell’unità fede-ragione che gli sta tanto a cuore e che lo rende libero di parlare a tutti con simpatia umana, ma senza equivoci.
La cultura non può prescindere dalla domanda su Dio, l’Ignoto-conosciuto di cui parlava San Paolo nel discorso all’Areopago di Atene e di cui l’intelletto umano presagisce l’esistenza, altrimenti si scade nella riduzione della realtà all’irrazionale. E il Papa sa che l’odierna apparente assenza di Dio è “tacitamente assillata dalla domanda che lo riguarda”, per cui mai la cultura può prescindere dalla grande domanda su Dio, meglio dalla grande attesa che Dio si mostri. Neppure la pretesa positivista di definire tale interrogativo come inutile perché non scientifico può essere giustificata, perché condurrebbe alla “capitolazione” della ragione e ad un “tracollo” dell’umanesimo. Significherebbe rinunciare alle possibilità più alte della ragione che da sempre ha creato cultura come ricerca dell’Assoluto e come disponibilità ad ascoltarne la Parola per illuminare la condizione umana.
Che tutto ciò sia detto, contro ogni riduzione particolaristica e settoriale del sapere, in una Francia che è “primogenita della Chiesa” per Storia, ma anche attuale culla della cultura del razionalismo relativista, non è cosa da poco: fa parte dell’intelligenza di Papa Ratzinger che, prima di essere accademica, è veramente pastorale, cioè amorosamente chinata sull’uomo per dargli motivi di speranza, tanto più nella terra di Francia che Sarkozy vorrebbe trasformare in un “laboratorio di laicità positiva”.
Milano: quando la violenza è il sintomo di una solitudine - Luca Doninelli, martedì 16 settembre 2008
Prima di emettere giudizi morali o sentenze apocalittiche sulla violenza che dilaga nelle nostre città, e sulla sempre crescente futilità delle cosiddette cause scatenanti, guardiamo agli eventi che hanno portato alla morte di Abdul, a Milano, con un po’ di pietà: pietà per tutti, per il povero ragazzo ucciso e per i suoi poveri assassini.
Vorrei elencare qui, senza nessuna pretesa di fare discorsi esaustivi, le osservazioni che questo terribile fatto mi suggerisce.
La prima è che Abdul aveva, anzi ha diciannove anni, l’età di mio figlio. Magari qualche volta hanno giocato a basket insieme, in uno dei tanti campetti della nostra periferia. E’ difficile per me leggere “diciannove anni” e non pensare a mio figlio. E mio figlio chi è? E’ uno come Abdul, un ragazzo forse solo un po’ più fortunato.
La seconda è che c’è in giro una grande solitudine, che porta qualcuno a pensare di doversi fare giustizia da solo. La colpa è anche di tanti politici e del loro atteggiamento ambiguo: a parole si mettono dalla parte del cittadino e criticano l’andazzo generale (magistratura, ordine pubblico, burocrazia), così il cittadino continua a non essere tutelato, continua a essere solo, però si sente giustificato nelle sue azioni demenziali.
Perché l’uomo non si senta solo occorre che sappia di non essere solo. E per saperlo bisogna che ci sia qualcuno, molto credibile, che glielo dica. È il tema dell’educazione e dell’attuale emergenza educativa (di cui stanno cominciando a parlare in troppi, confondendo le idee come al solito), che questo tragico avvenimento ci invita a leggere da un punto di vista diverso.
Mi spiego. La nostra città, Milano, ha una grande storia, e questa storia parla di grandi valori, di cui Milano è stata paladina: il valore della libertà, il valore dell’accoglienza, il valore della solidarietà, il valore del lavoro, eccetera.
Ma il valore non è una cosa astratta. Prendiamo il lavoro: girare una vite, tagliare un prato, spiegare Hegel non sono valori in sé. Lo sono se ci aprono a tutto il resto della vita, se ci fanno sentire responsabili non solo di quel pezzettino di vita, ma di tutto il mondo.
C’è chi passa la vita a girare viti e diventa un uomo grande. E c’è chi fa la stessa cosa ed è un imbecille. Perché scatti il valore c’è bisogno di qualcosa che sta prima. O c’è questo o resteremo sempre chiusi nel particolare: potremo essere grandi lavoratori, ma resteremo persone immorali.
Milano s’inceppa su questo punto: ti insegna a lavorare (almeno questo, grazie a Dio, c’è ancora) ma ha sempre più difficoltà a comunicare il valore, il senso del lavoro. Su questo - che è un nodo educativo, e quindi antropologico e culturale - bisogna lavorare sodo, altrimenti l’Expo rischia di diventare solo l’amplificatore di un fallimento umano. Bisogna impegnarsi per la scuola e per l’università, e per tutti i luoghi dove l’uomo si forma.
La responsabilità è di tutti, ma quando dico “di tutti” intendo anche chi guida e governa la città. Ricordo che a Milano dopo mezzanotte è come se ogni responsabilità s’interrompesse. Non ci sono più ristoranti, pizzerie, bar, ma solo pub e discoteche. Esci da teatro e devi correre a casa.
Oppure ti puoi unire a tutta questa gente che va per la città e che non è cattiva gente, ma che a Milano a quest’ora può trovare (e quindi cercare) solo alcol e droga. Perché questo è quanto trovi a Milano da mezzanotte in poi. Con rare eccezioni.
Violenza, dicono. Droga, dicono. Ma io dico prima di tutto solitudine e infelicità. Perché anche andare a zonzo per Milano in cerca di droga somiglia alla morte di Abdul. E’ tutto un correre sul filo senza nessuno che ti dica vieni giù, camminiamo insieme.
16 settembre 2008 - La Ratio del professor Ratzinger - Il filosofo Pierre Manent spiega l’ironia e i “deliziosi effetti” del cantico francese di Benedetto XVI e ci dice che “l’unica scuola di pensiero che ormai rivendica la ragione come regola per guidare la vita è proprio la chiesa cattolica”
Ad ascoltare la lectio magistralis di Joseph Ratzinger al Collège des Bernardins, c’era anche Pierre Manent, il discepolo di Raymond Aron che oggi è uno dei filosofi della politica più sensibile alla critica della modernità che esista in Francia. Da autore di saggi chiave sul liberalismo, da studioso versatile in grado di commentare il De Officiis di Cicerone o la Teoria dei Sentimenti morali di Adam Smith, passando per la Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino, Manent ha trovato “d’una ironia deliziosa” che fosse proprio il Papa, “cioè colui che agli occhi del moderno razionalismo rappresenta la superstizione, la rinuncia alla ragione, il sacrificio dell’intelletto, a riportare in primo piano la questione della ragione”. Cattolico liberale, e però neotomista e filo straussiano, Manent è convinto che le principali correnti filosofiche contemporanee non abbiano fiducia nella ragione: “Sono anti razionaliste o irrazionaliste. Oggi, invece, l’unica scuola di pensiero che rivendichi la ragione come regola per guidare la vita umana è la chiesa cattolica. E il merito di far rientrare questa idea classica nella riflessione contemporanea spetta proprio a Benedetto XVI”.
E’ questo l’effetto paradossale della lezione del Papa a Parigi, la capitale del razionalismo positivistico. Una lezione di teologia dove le origini del monachesimo occidentali rivelano le radici della cultura europea e il nostro debito di civiltà nei confronti del cristianesimo, ma servono soprattutto a mettere in guardia la coscienza contemporanea dalla minaccia d’una libertà soggettiva priva di trascendenza e votata all’atomismo e di un fanatismo religioso prigioniero dell’intolleranza integralista. “L’essenziale della lezione del professor Ratzinger” dice Manent “consiste in una deduzione complessiva del dispiegarsi della cultura europea, perlomeno nelle sue dimensioni fondamentali, a partire dal Quaerere Deum, dalla ricerca di Dio. E’ questo l’aspetto più singolare del discorso del Papa al Collegio dei Bernardini. Benedetto XVI è partito dal monachesimo occidentale e ha mostrato come la ricerca di Dio, per il modo in cui Dio era annunciato nella Bibbia e nel Vangelo, implicava un nuovo rapporto fondatore nei confronti del linguaggio, della scrittura, della comunità”. Insomma a partire da due sole parole, “quaerere deum”, il Papa è riuscito a suscitare l’intero modo di procedere dell’uomo europeo. “E’ impressionante”, commenta Manent. “Nel momento stesso in cui entrava nel cuore della sua dimostrazione, vale a dire in quel rapporto che il cristianesimo instaura tra scrittura e comunità, il Papa ha dimostrato che non può esserci un fondamentalismo cattolico, per il semplice fatto che le scritture sono un sistema di testi strettamente legato a un insegnamento religioso. Un sistema che trova senso solo nella relazione che suscita in seno alla comunità di credenti. Certo, volendo possiamo anche evidenziare con quale delicatezza Benedetto XVI abbia implicitamente distinto la Bibbia dal Corano, sottolineando subito e con molta nettezza la ragione per la quale il cristianesimo, a differenza dell’islam, non può essere considerato una religione del Libro”.
Senza ripetere lo scandalo destato dal discorso di Ratisbona, basta una lettura attenta per capire come Ratzinger abbia insistito sulla peculiarità del cristianesimo per rintracciarne la matrice teologica della cultura europea. “Interpretazione e dialogo sono gli elementi chiave sottolineati dal Papa. La scrittura, ha inoltre spiegato Benedetto XVI, non è separabile dalla comunità che essa stessa suscita e forma. Il Papa ha poi sottolineato che quando nel nuovo testamento si parla di scritture si intende un insieme di testi dal carattere molto diversi, la cui unità si concretizza soltanto in una comunità capace di interpretarli. In questo senso, credo che il Papa abbia mirabilmente indicato una precisa relazione tra la comunità e il logos. Una relazione che appartiene al cattolicesimo, e che mutatis mutandis, continua a sostenere lo sviluppo europeo, anche quando si allontana dai dogmi cattolici dell’obbedienza e della fede”.
E’ questo a rendere il discorso di Benedetto XVI estremamente interessante agli occhi di Manent. “Apre una prospettiva che rinnova la nostra visione d’insieme dello sviluppo occidentale, dando un contributo alla riflessione non solo dei cattolici, ma di quanti sono interessanti a capire cosa vuole dire l’Europa; perché offre una sintesi non eclettica tra l’Europa che ha ricevuto la filosofia e l’Europa che ha ricevuto il cristianesimo”. Così anche nella laica Francia, patria del volterrianesimo, la religione forse è tornata al cuore della riflessione filosofica e politica. Il che se da un lato non basta a contraddire l’idea di un paese largamente decristianizzato, dall’altro, secondo Pierre Manent, contribuisce a dare alla chiesa una nuova forza relativa: “Quando tutte le famiglie spirituali sono in via di estinzione, il Partito comunista non esiste più, il movimento del Maggio ’68 si è ridotto a una riunione di ex combattenti abbastanza patetici, la debolezza della chiesa diventa una forza relativa, perché rispetto allo stato medio della nazione, mostra una presenza e un’attività e talvolta persino un’intelligenza che lasciano ben sperare”.
Manent loda la posizione di Sarkozy. “E’ stato molto bravo: ha appena sfiorato la questione del rapporto tra fede e ragione, ma ha insistito sul carattere centrale che la ragione riveste per la democrazia. Oggi la legittimità democratica non si fonda più su una base razionale, ma su una affettiva, come dimostra il sentimento aggressivo dell’eguaglianza, il fatto che ciascuno vive come vuole, perché lo vuole, e perché lo vale, dunque legare la difesa della ragione fatta da Benedetto XVI al bisogno di democrazia, è una scelta giudiziosa. Sarkozy ha fatto capire quanto sarebbe assurdo privarsi del contributo che le religioni possono fornire al dibattito pubblico. E’ un’affermazione audace ma giudiziosa, con cui ha iniziato a dare un contenuto all’idea di laicità positiva”. Alla domanda se sia un punto di non ritorno, Manent non si sbilancia: “Non saprei dire se sia una svolta storica, credo però che molti avvertono che l’irrigidimento laicista non è più ragionevole, che è arrivato il momento di afferrare con intelligenza l’apertura al contributo pubblico delle religioni. Quando la nazione, e non solo la Francia ma anche le altre nazioni d’Europa, sembra molto impoverita, e prevale la sensazione di atonia, depressione e sterilità, si avverte quantomeno il bisogno di utilizzare tutte le nostre risorse per ridarle vitalità. E anche se il cristianesimo è indebolito, il cattolicesimo, la religione e la fede restano una risorsa anche per i non cattolici. Non c’è più ragione, infatti, di continuare a guardare con sospetto e intolleranza la chiesa cattolica che non ha più né il desiderio né i mezzi di essere essa stessa intollerante”.
Siamo tutti seienni Il fiore dello stupore - DAVIDE RONDONI, Avvenire, 16 settembre 2008
In certi giorni si è detto: «Siamo tutti berlinesi!», oppure «Siamo tutti tibetani!». O altri slogan del genere, per indicare vicinanza a popoli colpiti o risorgenti. In questi giorni proporrei: «Siamo tutti seienni!».
Cioè abbiamo tutti sei anni o giù di lì. Come i nostri figli che cominciano per la prima volta la scuola. E che vediamo andar via da casa, tesi e stupefatti, verso qualcosa di cui han sentito parlare infinite volte, ma che non conoscono. E noi ci immedesimiamo un poco. E tremiamo di una strana commozione che solo gli stupidi posson giudicare stupida.
Certo, le mamme a volte un poco esagerano coi patemi. Ma si sa, sono mamme. Il fatto è, però, che dovremmo essere tutti un po’ seienni. Cioè all’inizio di una grande scoperta. Dovremmo forse essere di più seienni, aver di più il gusto e il brivido di uscire di casa per andare ad imparare. Per andare ad aprire gli occhi di fronte al reale. Insomma, sarebbe meglio che oltre ad avere i nostri cinque milioni di anni di evoluzione umana alle spalle, e i millenni di civiltà e di lotte, i secoli di scoperte e di orrori, avessimo in questi giorni anche sei anni. Cioè l’età in cui si inizia a lasciarsi il nido alle spalle e si entra nel grande drammatico spettacolo del reale. Con il viso aperto, con la voglia intatta, e la libertà che si sta formando come un muscolo tenero e centrale in cuore.
Noi grandi, che guardiamo l’inizio della scuola troppo spesso solo con le lenti della sociologia, o dell’economia, o della politica, dovremmo invece farci un po’ bambini in questi giorni. Essere tutti seienni. Avere milioni e migliaia di anni. Ma averne anche sei. Avere questo fiore di desiderio negli occhi. Il fiore dello stupore.
Di chi non sa niente, o quasi. E quelle briciole di sapere le investe per scoprire di più il segreto e la vastità del mondo. Avere gli occhi dei nostri figli, e non solo perché è naturale che ci somiglino. Ma anche perché è necessario, è salutare, insomma, è vitale che anche noi somigliamo a loro. Alla loro infanzia aperta. Al loro cuore che scopre. Mentre i nostri cuori spesso non vogliono più scoprire niente, e vediamo molti invecchiare col cuore indurito di chi pensa di sapere tutto. Magari perché ha quarant’anni, o sessanta, pensa di sapere tutto.
Come se quaranta o sessanta o anche cento anni fossero molti in confronto ai miliardi di anni del cosmo. Come se la coscienza di un uomo si potesse misurare come il tronco di un albero dai cerchi degli anni.
Quantitativamente.
Che pena gli adulti che pensano di sapere tutto, di sapere come va la vita... E non hanno più quaderni su cui stare piegati a imparare a parlare veramente, o libri sui cui imparare a sentire veramente. O foglie da guardare, o ali di farfalla, o nomi di laghi e mappamondi davanti a cui stupirsi. Pensano di sapere tutto e invece sanno solo il sapore amaro del loro invecchiamento interiore. Ma in questi giorni è possibile: «Siamo tutti seienni!». C’è, per così dire, da approfittarne, guardando i bambinetti uscire, sgorgando come colombi dalle porte dei bus o delle aule, per risentire un cuore che ha voglia di imparare. C’è da approfittarne. Per avere migliaia di anni di esperienza da insegnare e sei anni per imparare. Sono giorni in cui qualcosa in noi può tornare al principio. Non è una faccenda sentimentale. È una faccenda di vita e di morte.
Se non si torna come bambini, è stato detto, la vita è destinata a essere inferno. L’inizio delle scuole non è una faccenda solo per i piccoli e per le loro famiglie.
È un segno per tutti, se si vuole leggere la vita per conoscerla e gustarla di più.
«Stati vegetativi, un documento per fare chiarezza» - Roccella: al via il censimento di tutti i malati Distinguere tra coma permanente e persistente, Avvenire, 16 settembre 2008
DA ROMA LUCA LIVERANI
U n nuovo documento tecnico- scientifico per fare il punto sugli stati vegetativi e di minima coscienza. Sarà questo l’obiettivo della commissione di esperti che verrà istituita e convocata entro settembre dal sottosegretario al Welfare con delega ai temi etici Eugenia Roccella. Una riedizione dell’organismo presieduto nel 2005 dall’allora sottosegretario alla Salute Domenico Di Virgilio – quando era ministro Francesco Storace – composta da neurologi ed esperti di rianimazione, che servirà a fare chiarezza su questioni delicatissime che riguardano anche Eluana Englaro. A dare l’annuncio è la stessa Eugenia Roccella, alla presentazione della decima «Giornata nazionale dei risvegli per la ricerca sul coma» del 7 ottobre, slogan di quest’anno «Vale la pena», promossa dall’associazione di volontariato di Bologna 'Gli amici di Luca'. L’altro passo importante per fare chiarezza sarà il lavoro della Conferenza Stato-Regioni, spiega il sottosegretario, che nella prossima riunione affronterà il nodo delle linee guida per l’appropriatezza delle cure dei malati in stato vegetativo. «Si partirà dal censimento dei malati – spiega il sottosegretario – al momento ci sono solo stime di quanti sono questi malati. Si parla di 1.500 ma anche di 3 mila pazienti. È necessario sapere con precisione chi sono, dove e come stanno: nessuna programmazione sanitaria si può realizzare senza questi dati». Il fine di questa indagine con le Regioni sarà la stesura di un vero Registro nazionale degli stati vegetativi.
Fissare alcuni punti fermi dal punto di vista scientifico è fondamentale: «La Cassazione – ricorda Roccella – ha accolto la richiesta del padre di Eluana Englaro parlando dell’irreversibilità dello stato vegetativo». Un concetto inesatto e ormai superato, spiega il sottosegretario, visto che oggi la scienza «non parla più di coma permanente, ma persistente». Dare attuazione a quel decreto «cioé sospendere l’alimentazione, sarebbe molto grave: per la prima volta un cittadino italiano non potrebbe esaurire i gradi di giudizio. Se il verdetto venisse eseguito e la Cassazione desse poi torto, non si potrebbe tornare indietro. Un’anomalia assoluta perché non si potrebbe rimediare all’errore giudiziario della Corte d’appello». Testimonial da anni dell’associazione, nata dall’impegno di Maria Vaccari e Fulvio De Nigris accanto al figlio in coma dopo un tragico incidente, è l’attore e scrittore bolognese Alessandro Bergonzoni. A proposito del dibattito sul testamento biologico, Bergonzoni sostiene che «bisognerebbe spostare l’attenzione dalle norme all’enorme». Uno dei consueti giochi di parole dell’affabulatore bolognese per stigmatizzare «l’enorme, inteso come 'l’inconcepibile' per le persone sane, ossia la difficoltà estrema per le persone sane a pensare a una differenza di vita che ci fa paura. La nostra società oggi è ossessionata dalla vita – dice l’istrionico interprete – ma solo quando coincide con la vitalità. Ma esistono anche altre vite che hanno differenti caratteristiche». Bergonzoni darà quest’anno il suo contributo con uno spettacolo-concerto con gli Avion Travel, due convegni e uno spot per tivù e cinema.
«Con la Giornata dei risvegli – dicono Maria Vaccari e Fulvio De Nigris – vogliamo dare voce alle famiglie che vivono la drammatica esperienza di un parente in stato vegetativo. Il risveglio è una condizione ampia, che riguarda il paziente e chi gli sta intorno, così come il coma è una sintomatologia familiare e come tale va affrontata». Dall’incontro tra l’associazione Gli amici di Luca e l’Azienda Usl di Bologna nasce il progetto Casa dei Risvegli Luca De Nigris, inaugurata nel 2004 nell’area dell’ospedale Bellaria. Un centro pubblico di riabilitazione per persone in stato vegetativo, centro pilota in Italia per un’assistenza che valorizza il ruolo della famiglia permettendo relazioni e convivenza continuativa, con un lavoro collettivo tra sanitari, familiari, volontari, musicoterapeuti e attori di teatro.
La vicenda di Eluana ha riaperto il confronto Il sottosegretario: attuare il decreto che sospende l’alimentazione sarebbe molto grave
1) Omelia di Benedetto XVI nella Messa con i malati a Lourdes
2) Da Parigi e da Lourdes, la lezione del papa "liturgo" - Nel suo viaggio in Francia, Benedetto XVI non ha soltanto difeso il rito antico della messa. Ha spiegato e mostrato più volte quello che ritiene il senso autentico della liturgia cattolica di oggi e di sempre. E sulla musica sacra ha detto... di Sandro Magister 3) Stimmate, bilocazioni, ipertermie… i documenti inediti su Padre Pio - Esce il libro di don Francesco Castelli “Padre Pio sotto inchiesta. L’ ‘autobiografia’ segreta” (Ares) – due articoli su San Padre Pio: 1) Le stimmate, il Sant’Uffizio. Nuove verità su Padre Pio di Antonio Socci - 2) Il Sant'Uffizio disse: sono vere stimmate di Riccardo Caniato
4) Il sapere secondo Benedetto XVI - Giampaolo Cottini, IlSussidiario.it, martedì 16 settembre 2008
5) Milano: quando la violenza è il sintomo di una solitudine - Luca Doninelli, martedì 16 settembre 2008
6) 16 settembre 2008 - La Ratio del professor Ratzinger - Il filosofo Pierre Manent spiega l’ironia e i “deliziosi effetti” del cantico francese di Benedetto XVI e ci dice che “l’unica scuola di pensiero che ormai rivendica la ragione come regola per guidare la vita è proprio la chiesa cattolica”, dal Foglio.it
7) Siamo tutti seienni Il fiore dello stupore - DAVIDE RONDONI, Avvenire, 16 settembre 2008
8) «Stati vegetativi, un documento per fare chiarezza» - Roccella: al via il censimento di tutti i malati Distinguere tra coma permanente e persistente, Avvenire, 16 settembre 2008
Omelia di Benedetto XVI nella Messa con i malati a Lourdes
Maria con il suo sorriso mostra la dignità che mai li abbandona
LOURDES, lunedì, 15 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l'omelia pronunciata questo lunedì da Benedetto XVI nel presiedere la Santa Mesa con i malati nel piazzale del Rosario di Lourdes.
* * *
Cari Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari malati, cari accompagnatori e infermieri,
cari fratelli e sorelle!
Abbiamo celebrato ieri la Croce di Cristo, strumento della nostra salvezza, che ci rivela in pienezza la misericordia del nostro Dio. La Croce è, in effetti, il luogo in cui si manifesta in modo perfetto la compassione di Dio per il nostro mondo. Oggi, celebrando la memoria della Beata Vergine Addolorata, contempliamo Maria che condivide la compassione del Figlio per i peccatori. Come affermava san Bernardo, la Madre di Cristo è entrata nella Passione del Figlio mediante la sua compassione (cfr Omelia per la Domenica nell’Ottava dell’Assunzione). Ai piedi della Croce si realizza la profezia di Simeone: il suo cuore di Madre è trafitto (cfr Lc 2,35) dal supplizio inflitto all’Innocente, nato dalla sua carne. Come Gesù ha pianto (cfr Gv 11,35), così anche Maria ha certamente pianto davanti al corpo torturato del Figlio. La sua riservatezza, tuttavia, ci impedisce di misurare l’abisso del suo dolore; la profondità di questa afflizione è soltanto suggerita dal simbolo tradizionale delle sette spade. Come per il suo Figlio Gesù, è possibile affermare che questa sofferenza ha portato anche lei alla perfezione (cfr Eb 2, 10), così da renderla capace di accogliere la nuova missione spirituale che il Figlio le affida immediatamente prima di “emettere lo spirito” (cfr Gv 19,30): divenire la Madre di Cristo nelle sue membra. In quest’ora, attraverso la figura del discepolo amato, Gesù presenta ciascuno dei suoi discepoli alla Madre dicendole: “Ecco tuo figlio” (cfr Gv 19, 26-27).
Maria è oggi nella gioia e nella gloria della Risurrezione. Le lacrime versate ai piedi della Croce si sono trasformate in un sorriso che nulla ormai spegnerà, pur rimanendo intatta la sua compassione materna verso di noi. L’intervento soccorrevole della Vergine Maria nel corso della storia lo attesta e non cessa di suscitare verso di lei, nel Popolo di Dio, una confidenza incrollabile: la preghiera del Memorare (“Ricordati”) esprime molto bene questo sentimento. Maria ama ciascuno dei suoi figli, concentrando in particolare la sua attenzione su coloro che, come il Figlio suo nell’ora della Passione, sono in preda alla sofferenza; li ama semplicemente perché sono suoi figli, secondo la volontà di Cristo sulla Croce. Il Salmista, intravedendo da lontano questo legame materno che unisce la Madre di Cristo e il popolo credente, profetizza a riguardo della Vergine Maria: “i più ricchi del popolo cercheranno il tuo sorriso” (Sal 44,13). Così, sollecitati dalla Parola ispirata della Scrittura, i cristiani da sempre hanno cercato il sorriso di Nostra Signora, quel sorriso che gli artisti, nel Medioevo, hanno saputo così prodigiosamente rappresentare e valorizzare. Questo sorriso di Maria è per tutti: esso tuttavia si indirizza in modo speciale verso coloro che soffrono, affinché in esso possano trovare conforto e sollievo.
Cercare il sorriso di Maria non è questione di sentimentalismo devoto o antiquato; è piuttosto la giusta espressione della relazione viva e profondamente umana che ci lega a Colei che Cristo ci ha donato come Madre. Desiderare di contemplare questo sorriso della Vergine non è affatto un lasciarsi dominare da una immaginazione incontrollata. La Scrittura stessa ci svela tale sorriso sulle labbra di Maria quando ella canta il Magnificat: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore” (Lc 1,46-47). Quando la Vergine Maria rende grazie al Signore, ci prende a suoi testimoni. Maria condivide, come per anticipazione, con i futuri figli che siamo noi la gioia che abita nel suo cuore, affinché tale gioia diventi anche nostra. Ogni proclamazione del Magnificat fa di noi dei testimoni del suo sorriso. Qui a Lourdes, nel corso dell’apparizione del 3 marzo 1858, Bernadette contemplò in maniera del tutto speciale questo sorriso di Maria. Fu questa la prima risposta che la Bella Signora diede alla giovane veggente che voleva conoscere la sua identità. Prima di presentarsi a lei, qualche giorno dopo, come “l’Immacolata Concezione”, Maria le fece conoscere innanzitutto il suo sorriso, quasi fosse questa la porta d’accesso più appropriata alla rivelazione del suo mistero. Nel sorriso della più eminente fra tutte le creature, a noi rivolta, si riflette la nostra dignità di figli di Dio, una dignità che non abbandona mai chi è malato. Quel sorriso, vero riflesso della tenerezza di Dio, è la sorgente di una speranza invincibile. Lo sappiamo purtroppo: la sofferenza prolungata rompe gli equilibri meglio consolidati di una vita, scuote le più ferme certezze della fiducia e giunge a volte a far addirittura disperare del senso e del valore della vita. Vi sono combattimenti che l’uomo non può sostenere da solo, senza l’aiuto della grazia divina. Quando la parola non sa più trovare espressioni adeguate, s’afferma il bisogno di una presenza amorevole: cerchiamo allora la vicinanza non soltanto di coloro che condividono il nostro stesso sangue o che ci sono legati con i vincoli dell’amicizia, ma la vicinanza anche di coloro che ci sono intimi per il legame della fede. Chi potrebbe esserci più intimo di Cristo e della sua santa Madre, l’Immacolata? Più di chiunque altro, essi sono capaci di comprenderci e di cogliere la durezza del combattimento ingaggiato contro il male e la sofferenza. La Lettera agli Ebrei afferma, a proposito di Cristo, che egli non è incapace di “compatire le nostre debolezze, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa”(Eb 4,15).Vorrei dire, umilmente, a coloro che soffrono e a coloro che lottano e sono tentati di voltare le spalle alla vita: volgetevi a Maria! Nel sorriso della Vergine si trova misteriosamente nascosta la forza per proseguire il combattimento contro la malattia e in favore della vita. Presso di lei si trova ugualmente la grazia di accettare senza paura né amarezza il congedo da questo mondo, nell’ora voluta da Dio.
Quanto era giusta l’intuizione di quella bella figura spirituale francese che fu Dom Jean-Baptiste Chautard, il quale ne L’anima di ogni apostolato proponeva al cristiano fervoroso frequenti “incontri di sguardo con la Vergine Maria” ! Sì, cercare il sorriso della Vergine Maria non è un pio infantilismo; è l’ispirazione, dice il Salmo 44, di coloro che sono “i più ricchi del popolo”(v. 13). “I più ricchi”, s’intende, nell’ordine della fede, coloro che hanno la maturità spirituale più elevata e sanno per questo riconoscere la loro debolezza e la loro povertà davanti a Dio. In quella manifestazione molto semplice di tenerezza che è il sorriso, percepiamo che la nostra unica ricchezza è l’amore che Dio ha per noi e che passa attraverso il cuore di colei che è diventata nostra Madre. Cercare questo sorriso significa innanzitutto cogliere la gratuità dell’amore; significa pure saper suscitare questo sorriso col nostro impegno di vivere secondo la parola del suo Figlio diletto, così come il bambino cerca di suscitare il sorriso della madre facendo ciò che a lei piace. E noi sappiamo ciò che piace a Maria grazie alle parole che lei stessa rivolse ai servi di Cana: “Fate quello che vi dirà” (cfr Gv 2,5).
Il sorriso di Maria è una sorgente di acqua viva. “Chi crede in me, ha detto Gesù, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Gv 7,38). Maria è colei che ha creduto e, dal suo seno, sono sgorgati fiumi d’acqua viva che vengono ad irrigare la storia degli uomini. La sorgente indicata, qui a Lourdes, da Maria a Bernadette è l’umile segno di questa realtà spirituale. Dal suo cuore di credente e di madre sgorga un’acqua viva che purifica e guarisce. Immergendosi nelle piscine di Lourdes, quanti sono coloro che hanno scoperto e sperimentato la dolce maternità della Vergine Maria, attaccandosi a lei per meglio attaccarsi al Signore! Nella sequenza liturgica di questa festa della Beata Vergine Addolorata, Maria è onorata sotto il titolo di “Fons amoris”, “Sorgente d’amore”. Dal cuore di Maria scaturisce, in effetti, un amore gratuito che suscita una risposta filiale, chiamata ad affinarsi senza posa. Come ogni madre, e meglio di ogni madre, Maria è l’educatrice dell’amore. E’ per questo che tanti malati vengono qui, a Lourdes, per dissetarsi a questa “Sorgente d’amore” e per lasciarsi condurre all’unica sorgente della salvezza, il Figlio suo, Gesù Salvatore. Cristo dispensa la sua salvezza attraverso i Sacramenti e, in modo speciale, alle persone che soffrono di malattie o che sono portatrici di un handicap, attraverso la grazia dell’Unzione degli infermi. Per ciascuno la sofferenza è sempre una straniera. La sua presenza non è mai addomesticabile. Per questo è difficile sopportarla, e più difficile ancora – come hanno fatto certi grandi testimoni della santità di Cristo – accoglierla come parte integrante della propria vocazione, o accettare, secondo l’espressione di Bernadette, di “tutto soffrire in silenzio per piacere a Gesù” Per poter dire ciò è necessario aver già percorso un lungo cammino in unione con Gesù. In compenso, è possibile già subito rimettersi alla misericordia di Dio così come essa si manifesta mediante la grazia del Sacramento dei malati. Bernadette stessa, nel corso di un’esistenza spesso segnata dalla malattia, ricevette questo Sacramento quattro volte. La grazia propria del Sacramento consiste nell’accogliere in sé Cristo medico. Cristo tuttavia non è medico alla maniera del mondo. Per guarirci, egli non resta fuori della sofferenza che si sperimenta; la allevia venendo ad abitare in colui che è colpito dalla malattia, per sopportarla e viverla con lui. La presenza di Cristo viene a rompere l’isolamento che il dolore provoca. L’uomo non porta più da solo la sua prova ma, in quanto membro sofferente di Cristo, viene conformato a Lui che si offre al Padre, e in Lui partecipa al parto della nuova creazione.
Senza l’aiuto del Signore, il giogo della malattia e della sofferenza è crudelmente pesante. Nel ricevere il Sacramento dei malati, noi non desideriamo portare altro giogo che quello di Cristo, forti della promessa che Egli ci ha fatto, che cioè il suo giogo sarà facile da portare e il suo peso leggero (cfr Mt 11,30). Invito le persone che riceveranno l’Unzione dei malati nel corso di questa Messa a entrare in una simile speranza. Il Concilio Vaticano II ha presentato Maria come la figura nella quale è riassunto tutto il mistero della Chiesa (cfr LG, 63-65). La sua vicenda personale ripropone il profilo della Chiesa, che è invitata ad essere attenta quanto lei alle persone che soffrono. Rivolgo un saluto affettuoso ai componenti del Servizio sanitario e infermieristico, come pure a tutte le persone che, a titoli diversi, negli ospedali e in altre istituzioni, contribuiscono alla cura dei malati con competenza e generosità. Ugualmente al personale di accoglienza, ai barellieri e agli accompagnatori che, provenendo da tutte le diocesi di Francia ed anche da più lontano, si prodigano lungo tutto l’anno intorno ai malati che vengono in pellegrinaggio a Lourdes, vorrei dire quanto il loro servizio è prezioso. Essi sono le braccia della Chiesa, umile serva. Desidero infine incoraggiare coloro che, in nome della loro fede, accolgono e visitano i malati, in particolare nelle cappellanie degli ospedali, nelle parrocchie o, come qui, nei santuari. Possiate sentire sempre in questa importante e delicata missione il sostegno efficace e fraterno delle vostre comunità! E, in questo senso, saluto e ringrazio in modo particolare anche i miei Fratelli nell'Episcopato, i Vescovi francesi, i Vescovi stranieri e i sacerdoti, poiché tutti loro sono accompagnatori dei malati e degli uomini nella sofferenza di questo mondo. Grazie per il vostro servizio al Signore che soffre! Il servizio di carità che voi rendete è un servizio mariano. Maria vi affida il suo sorriso, affinché diventiate voi stessi, nella fedeltà al Figlio suo, sorgenti di acqua viva. Quello che voi fate, lo fate a nome della Chiesa, di cui Maria è l’immagine più pura. Possiate voi portare il suo sorriso a tutti!
Concludendo, desidero unirmi alla preghiera dei pellegrini e dei malati e riprendere insieme con voi uno stralcio della preghiera a Maria per la celebrazione di questo Giubileo: “Poiché tu sei il sorriso di Dio, il riflesso della luce di Cristo, la dimora dello Spirito Santo, poiché tu hai scelto Bernadette nella sua miseria, tu che sei la stella del mattino, la porta del cielo e la prima creatura risorta, Nostra Signora di Lourdes”, con i nostri fratelli e le nostre sorelle i cui cuori e i cui corpi sono dolenti, noi ti preghiamo!
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Da Parigi e da Lourdes, la lezione del papa "liturgo" - Nel suo viaggio in Francia, Benedetto XVI non ha soltanto difeso il rito antico della messa. Ha spiegato e mostrato più volte quello che ritiene il senso autentico della liturgia cattolica di oggi e di sempre. E sulla musica sacra ha detto... di Sandro Magister
OMA, 16 settembre 2008 – Nelle tre messe celebrate durante il suo viaggio a Parigi e a Lourdes, Benedetto XVI ha seguito il rito postconciliare. Ma l'ha volutamente arricchito con elementi caratteristici del vecchio rito: la croce al centro dell'altare, la comunione data in bocca ai fedeli inginocchiati, la sacralità dell'insieme.
Quello del reciproco "arricchimento" tra i due riti è l'obiettivo principale che ha spinto Benedetto XVI a promulgare nel 2007 il motu proprio "Summorum Pontificum" che ha liberalizzato l'uso del rito antico della messa, quello del messale romano del 1962.
Gli oppositori del motu proprio ritengono invece che l'uso del rito antico non arricchisca ma svuoti le conquiste del Concilio Vaticano II nel suo insieme. I vescovi francesi sono stati tra i più critici dell'iniziativa del papa, prima e dopo la promulgazione del motu proprio.
Domenica 14 settembre, incontrando a Lourdes i vescovi di Francia, papa Joseph Ratzinger non ha mancato di sollecitarli ad essere pastori accoglienti di tutti, anche dei fedeli che si sentono più "a casa" con l'antico rito.
Il papa aveva anticipato le sue idee sui due riti della messa rispondendo ai giornalisti sull'aereo che lo portava in Francia, venerdì 12 settembre.
Ma nei quattro giorni della sua visita a Parigi e a Lourdes, Benedetto XVI ha detto, in proposito, molto di più.
Nella lezione tenuta il 12 settembre al Collége des Bernardins ha spiegato il nascere della grande musica occidentale, nei monasteri del Medioevo, in termini che obbligano a riflettere sulla qualità scadente della musica liturgica d'oggi e sulla necessità di ridarle vita conformemente al suo senso originario.
Nell'omelia dei vespri nella cattedrale di Notre-Dame ha invocato per le liturgie terrene una "bellezza" che le avvicini alle liturgie del cielo. E ha esortato i preti ad essere fedeli alla preghiera quotidiana della liturgia delle ore.
Nell'omelia della messa all'Esplanade des Invalides, il 13 settembre, ha tratteggiato la dottrina dell'eucaristia e della "presenza reale" del corpo e del sangue di Cristo con parole molto esigenti, che obbligano a celebrare la messa con una sacralità che negli ultimi decenni è stata largamente trascurata.
E su questa "presenza reale" è tornato nella meditazione conclusiva della processione eucaristica, a Lourdes, la sera del 14 settembre. Con un passaggio dedicato a coloro che "non possono ricevere Gesù nel sacramento ma possono contemplarlo con fede e amore, ed esprimere il desiderio di potersi finalmente unire a Lui". Tra questi si possono annoverare i cattolici divorziati e risposati, ai quali la Chiesa non dà la comunione. Ma il loro "desiderio", ha detto il papa. "ha grande valore davanti a Dio".
A questi richiami allo spirito autentico della liturgia, Benedetto XVI ha inoltre aggiunto, il 14 settembre a Lourdes, un'illustrazione del senso profondo dell'Angelus Domini, la preghiera mariana che egli recita in pubblico ogni domenica dell'anno a mezzogiorno.
Ecco qui di seguito quanto detto da Benedetto XVI giorno dopo giorno, su ciascuno di questi punti:
Sulla messa in rito antico
Dalla conferenza stampa sull'aereo papale, 12 settembre 2008
D. – Santità, che cosa dice a coloro che in Francia temono che il motu proprio "Summorum Pontificum" segni un ritorno indietro rispetto alle grandi intuizioni del Concilio Vaticano II?
R. – È una paura infondata, perché questo motu proprio è semplicemente un atto di tolleranza, ai fini pastorali, per persone che sono state formate in quella liturgia, la amano, la conoscono, e vogliono vivere con quella liturgia. È un gruppo ridotto, poiché presuppone una formazione nella lingua latina, una formazione in una certa cultura. Ma avere per queste persone l'amore e la tolleranza di permettere loro di vivere con questa liturgia, sembra un'esigenza normale della fede e della pastorale di un Vescovo della nostra Chiesa.
Non c'è alcuna opposizione tra la liturgia rinnovata del Concilio Vaticano II e questa liturgia. Ogni giorno i Padri conciliari celebravano la messa secondo l'antico rito e, al contempo, concepivano uno sviluppo naturale per la liturgia in tutto questo secolo, poiché la liturgia è una realtà viva che si sviluppa e conserva, nel suo sviluppo, la sua identità. Ci sono dunque sicuramente accenti diversi, ma comunque un'identità fondamentale che esclude una contraddizione, un'opposizione tra la liturgia rinnovata e la liturgia precedente.
Credo in ogni caso che vi sia una possibilità di arricchimento da ambedue le parti. Da un lato gli amici dell'antica liturgia possono e devono conoscere i nuovi santi, i nuovi prefazi della liturgia, ecc. Dall'altra, la liturgia nuova sottolinea maggiormente la partecipazione comune, ma non è semplicemente un'assemblea di una certa comunità, ma sempre un atto della Chiesa universale, in comunione con tutti i credenti di tutti i tempi, e un atto di adorazione. In tal senso mi sembra che vi sia un mutuo arricchimento, ed è chiaro che la liturgia rinnovata è la liturgia ordinaria del nostro tempo.
Sulla nascita della grande musica occidentale
Dalla lezione al Collège des Bernardins, Parigi, 12 settembre 2008
I Salmi contengono ripetutamente delle istruzioni su come devono essere cantati ed accompagnati con strumenti musicali. Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica. Due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il "Gloria", che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il "Sanctus", che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’ immediata vicinanza di Dio. Alla luce di ciò la liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e a portare così la parola alla sua destinazione più alta. Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclercq: “I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo redento ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni” (cfr ibid. p.229).
In Benedetto, per la preghiera e per il canto dei monaci vale come regola determinante la parola del Salmo: "Coram angelis psallam Tibi, Domine" – davanti agli angeli voglio cantare a Te, Signore (cfr 138,1). Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera comunitaria in presenza di tutta la corte celeste e di essere quindi esposti al criterio supremo: di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere.
Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle, che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino per giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era affatto un piccolo incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la confusione di un canto mal eseguito come un precipitare nella “zona della dissimilitudine” – nella "regio dissimilitudinis". Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il suo stato interiore prima della conversione (cfr Confessioni VII, 10.16): l’uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio nella “zona della dissimilitudine” – in una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo. È certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti mal eseguiti dei monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso. Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del canto è anche cultura dell’essere e che i monaci con il loro pregare e cantare devono corrispondere alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza.
Da questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e del cantarLo con le parole donate da Lui stesso è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una “creatività” privata, in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io. Si trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore nel suo mondo e nell’uomo, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo e fa risuonare in modo puro la sua dignità.
Sulla liturgia delle ore
Dall'omelia dei vespri nella cattedrale di Notre-Dame, Parigi, 12 settembre 2008
Il Figlio di Dio ha preso carne nel seno di una donna, di una vergine. La vostra cattedrale è un inno vivente di pietra e di luce a lode di questo atto unico della storia dell’umanità: la Parola eterna di Dio che entra nella storia degli uomini nella pienezza dei tempi per riscattarli mediante l’offerta di se stesso nel sacrificio della Croce. Le nostre liturgie della terra, interamente volte a celebrare questo atto unico della storia, non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l’infinita densità. La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare!
Sin d’ora, la Parola di Dio ci è donata per essere l’anima del nostro apostolato, l’anima della nostra vita di sacerdoti. Ogni mattina la Parola ci risveglia. Ogni mattina il Signore stesso ci "apre l’orecchio" (Isaia 50, 5) con i salmi dell’Ufficio delle letture e delle Lodi. Lungo l’intero arco della giornata, la Parola di Dio diviene materia della preghiera di tutta la Chiesa, la quale vuol così testimoniare la propria fedeltà a Cristo. Secondo la celebre formula di san Girolamo, che sarà ripresa nel corso della XII Assemblea del Sinodo dei Vescovi nel prossimo mese di ottobre: "Ignorare le Scritture è ignorare Cristo" (Prologo del Commento a Isaia). Cari fratelli sacerdoti, non abbiate paura di consacrare una parte considerevole del vostro tempo alla lettura, alla meditazione della Scrittura e alla preghiera dell’Ufficio Divino! Quasi a vostra insaputa la Parola letta e meditata nella Chiesa agisce in voi e vi trasforma. Come manifestazione della Sapienza di Dio, se essa diviene la "compagna" della vostra vita, essa sarà vostra "consigliera di buone azioni", vostro "conforto nelle preoccupazioni e nel dolore" (Sapienza 8, 9).
Sulla presenza reale di Gesù nell'eucaristia
Dall'omelia della messa all'Esplanade des Invalides, Parigi, 13 settembre 2008
Come giungere a Dio? Come giungere a trovare o ritrovare Colui che l’uomo cerca nel più profondo di se stesso, pur dimenticandolo così sovente? San Paolo ci domanda di fare uso non solamente della nostra ragione, ma soprattutto della nostra fede per scoprirlo. Ora, che cosa ci dice la fede? Il pane che noi spezziamo è comunione al Corpo di Cristo; il calice di ringraziamento che noi benediciamo è comunione al Sangue di Cristo. Rivelazione straordinaria, che ci viene da Cristo e ci è trasmessa dagli Apostoli e da tutta la Chiesa da quasi duemila anni: Cristo ha istituito il sacramento dell’Eucaristia la sera del Giovedì Santo. Egli ha voluto che il suo sacrificio fosse nuovamente presentato, in modo incruento, ogni volta che un sacerdote ridice le parole della consacrazione sul pane e sul vino. Milioni di volte da venti secoli, nella più umile delle cappelle come nella più grandiosa delle basiliche o delle cattedrali, il Signore risorto si è donato al suo popolo, divenendo così, secondo la formula di sant’Agostino, "più intimo a noi che noi medesimi" (cfr Confessioni III, 6.11).
Fratelli e sorelle, circondiamo della più grande venerazione il sacramento del Corpo e del Sangue del Signore, il Santissimo Sacramento della presenza reale del Signore alla sua Chiesa e all’intera umanità. Non trascuriamo nulla per manifestargli il nostro rispetto ed il nostro amore! Diamogli i più grandi segni d’onore! Mediante le nostre parole, i nostri silenzi e i nostri gesti, non accettiamo mai che in noi ed intorno a noi si appanni la fede nel Cristo risorto, presente nell’Eucaristia. Come dice magnificamente lo stesso san Giovanni Crisostomo: "Passiamo in rassegna gli ineffabili benefici di Dio e tutti i beni di cui Egli ci fa gioire, quando noi gli offriamo questo calice, quando noi ci comunichiamo, ringraziandolo di aver liberato il genere umano dall’errore, di aver avvicinato a sé coloro che se ne erano allontanati, di aver fatto di disperati e di atei di questo mondo un popolo di fratelli, di coeredi del Figlio di Dio" (Omelia 24 sulla Prima Lettera ai Corinzi, 1). In effetti, egli prosegue, "ciò che è nel calice è precisamente ciò che è colato dal suo costato ed è a questo che noi partecipiamo" (ibid.). Non c’è soltanto partecipazione e condivisione, c’è anche "unione", egli ci dice.
La Messa è il sacrificio d’azione di grazie per eccellenza, quello che ci permette d’unire la nostra azione di grazie a quella del Salvatore, il Figlio eterno del Padre. In se stessa la Messa ci invita anche a fuggire gli idoli, perché, è san Paolo ad insistervi, "non potete bere il calice del Signore ed il calice dei demoni" (1 Corinzi 10, 21). La Messa ci invita a discernere ciò che, in noi, obbedisce allo Spirito di Dio e ciò che, in noi, resta in ascolto dello spirito del male. Nella Messa noi non vogliamo appartenere che al Cristo e riprendiamo con gratitudine – con "azione di grazie" – il grido del Salmista: "Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato" (Salmo 116, 12). Sì, come rendere grazie al Signore per la vita che Egli mi ha donato? La risposta alla domanda del Salmista si trova nel Salmo stesso, perché la Parola di Dio risponde misericordiosamente essa stessa alle domande che pone. Come rendere grazie al Signore per tutto il bene che Egli ci fa, se non attenendoci alle stesse sue parole: "Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore" (Salmo 116, 13)?
Alzare il calice della salvezza ed invocare il nome del Signore non è forse precisamente il mezzo migliore di "fuggire gli idoli", come ci chiede san Paolo? Ogni volta che una Messa è celebrata, ogni volta che il Cristo si rende sacramentalmente presente nella sua Chiesa, è l’opera della nostra salvezza che si compie. Celebrare l’Eucaristia significa perciò riconoscere che Dio solo è in grado di donarci la felicità in pienezza, di insegnarci i veri valori, i valori eterni che non conosceranno mai tramonto. Dio è presente sull’altare, ma Egli è pure presente sull’altare del nostro cuore quando, comunicandoci, noi lo riceviamo nel sacramento eucaristico. Lui solo ci insegna a fuggire gli idoli, miraggi del pensiero.
Ora, cari fratelli e sorelle, chi può elevare il calice della salvezza ed invocare il nome del Signore per conto dell’intero popolo di Dio, se non il sacerdote ordinato per questo scopo dal vescovo? Qui, cari abitanti di Parigi e della regione parigina, ma anche voi tutti che siete venuti dall’intera Francia e da altri paesi confinanti, permettetemi di lanciare un appello pieno di fiducia nella fede e nella generosità dei giovani, che si pongono la domanda sulla vocazione religiosa o sacerdotale: Non abbiate paura! Non abbiate paura di donare la vostra vita a Cristo! Niente rimpiazzerà mai il ministero dei sacerdoti nella vita della Chiesa. Niente rimpiazzerà mai una Messa per la salvezza del mondo!
Sulla preghiera dell'Angelus Domini
Dal messaggio all'Angelus di mezzogiorno, Lourdes, 14 settembre 2008
Ogni giorno, la preghiera dell’Angelus ci offre la possibilità di riflettere qualche istante, in mezzo alle nostre attività, sul mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio. A mezzogiorno, quando le prime ore del giorno cominciano a far gravare su di noi il loro peso di fatica, la nostra disponibilità e la nostra generosità sono rinnovate dalla contemplazione del "sì" di Maria. Questo "sì" limpido e senza riserve si radica nel mistero della libertà di Maria, libertà piena ed integra davanti a Dio, svincolata da ogni complicità col peccato, grazie al privilegio della sua Immacolata Concezione.
Questo privilegio concesso a Maria, che la distingue dalla nostra comune condizione, non l’allontana, ma al contrario la avvicina a noi. Mentre il peccato divide, ci allontana gli uni dagli altri, la purezza di Maria la rende infinitamente prossima ai nostri cuori, attenta a ciascuno di noi e desiderosa del nostro vero bene. Potete vederlo qui a Lourdes, come in tutti i Santuari mariani, folle immense accorrono ai piedi di Maria per confidarle ciò che ciascuno ha di più intimo, ciò che a ciascuno sta particolarmente a cuore. Ciò che molti, per imbarazzo o per pudore, non osano a volte confidare neppure ai loro intimi, lo confidano a Colei che è la Tutta pura, al suo Cuore immacolato: con semplicità, senza orpelli, nella verità. Davanti a Maria, in virtù proprio della sua purezza, l’uomo non esita a mostrarsi nella sua debolezza, a consegnare le sue domande e i suoi dubbi, a formulare le sue speranze e i suoi desideri più segreti. L’amore materno della Vergine Maria disarma ogni forma d’orgoglio; rende l’uomo capace di guardarsi quale egli è e gli ispira il desiderio di convertirsi per dare gloria a Dio.
Maria ci mostra così la giusta maniera di avanzare verso il Signore. Ci insegna ad avvicinarci a Lui nella verità e nella semplicità. Grazie a lei, scopriamo che la fede cristiana non è un peso, ma è come un’ala che ci permette di volare più in alto per rifugiarci tra le braccia del Signore.
La vita e la fede del popolo credente rivelano che il privilegio dell’Immacolata Concezione fatto a Maria non è una grazia solo personale, ma per tutti, una grazia fatta all’intero Popolo di Dio. In Maria la Chiesa può già contemplare ciò che essa è chiamata a divenire. In lei ogni credente può fin d’ora contemplare il compimento perfetto della sua personale vocazione. Possa ciascuno di noi rimanere sempre in azione di grazie per ciò che il Signore ha voluto rivelare del suo piano di salvezza attraverso il mistero di Maria. Mistero nel quale siamo implicati nel modo più toccante, poiché dall’alto della Croce, che noi ricordiamo ed esaltiamo proprio oggi, ci è rivelato dalla bocca stessa di Gesù che sua Madre è nostra Madre. In quanto figli e figlie di Maria, possiamo trarre profitto di tutte le grazie che sono state fatte a lei, e la dignità incomparabile che le procura il privilegio dell’Immacolata Concezione ricade su di noi, suoi figli.
Ancora sulla messa in rito antico
Dal discorso ai vescovi di Francia, Lourdes, 14 settembre 2008
Il culto liturgico è l’espressione più alta della vita sacerdotale ed episcopale, come anche dell’insegnamento catechetico. Il vostro compito di santificazione del popolo dei fedeli, cari fratelli, è indispensabile alla crescita della Chiesa. Nel motu proprio "Summorum Pontificum" sono stato portato a precisare le condizioni di esercizio di tale compito, in ciò che concerne la possibilità di usare tanto il Messale del beato Giovanni XXIII (1962) quanto quello del papa Paolo VI (1970). Alcuni frutti di queste nuove disposizioni si sono già manifestati, e io spero che l’indispensabile pacificazione degli spiriti sia, per grazia di Dio, in via di realizzarsi. Misuro le difficoltà che voi incontrate, ma non dubito che potrete giungere, in tempi ragionevoli, a soluzioni soddisfacenti per tutti, così che la tunica senza cuciture del Cristo non si strappi ulteriormente. Nessuno è di troppo nella Chiesa. Ciascuno, senza eccezioni, in essa deve potersi sentire “a casa sua”, e mai rifiutato. Dio, che ama tutti gli uomini e non vuole che alcuno perisca, ci affida questa missione facendo di noi i pastori delle sue pecore. Non possiamo che rendergli grazie per l’onore e la fiducia che Egli ci riserva. Sforziamoci pertanto di essere sempre servitori dell’unità.
Ancora sulla presenza reale di Gesù nell'eucaristia
Dalla meditazione conclusiva della precessione eucaristica, Lourdes, 14 settembre 2008
L’Ostia Santa è il Sacramento vivo ed efficace della presenza eterna del Salvatore degli uomini alla sua Chiesa. [...] Una folla immensa di testimoni è invisibilmente presente accanto a noi, vicino a questa grotta benedetta e davanti a questa chiesa voluta dalla Vergine Maria; la folla di tutti gli uomini e di tutte le donne che hanno contemplato, venerato, adorato la presenza reale di Colui che si è donato a noi fino all’ultima goccia di sangue; la folla degli uomini e delle donne che hanno passato ore ad adorarlo nel Santissimo Sacramento dell’altare. [...] San Pier-Giuliano Eymard ci dice tutto, quando esclama: "La Santa Eucaristia è Gesù Cristo passato, presente e futuro.
Gesù Cristo passato, nella verità storica della sera nel cenacolo, ove ci conduce ogni celebrazione della santa Messa.
Gesù Cristo presente, perché Egli ci dice: "Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo, questo è il mio sangue". "Questo è", al presente, qui e ora, come in tutti i "qui e ora" della storia umana. Presenza reale, presenza che supera le nostre povere labbra, i nostri poveri cuori, i nostri poveri pensieri. Presenza offerta ai nostri sguardi come qui, stasera, presso questa grotta ove Maria s’è rivelata come Immacolata Concezione.
L’Eucaristia è anche Gesù Cristo futuro, il Gesù Cristo che verrà. Quando contempliamo l’Ostia Santa, il suo Corpo di gloria trasfigurato e risorto, contempliamo ciò che contempleremo nell’eternità, scoprendovi il mondo intero sostenuto dal suo Creatore in ogni istante della sua storia. Ogni volta che ce ne cibiamo, ma anche ogni volta che lo contempliamo, noi l’annunciamo fino a che Egli ritorni: "donec veniat". Proprio per questo noi lo riceviamo con infinito rispetto.
Alcuni tra noi non possono o non possono ancora riceverlo nel Sacramento, ma possono contemplarlo con fede e amore, ed esprimere il desiderio di potersi finalmente unire a Lui. È un desiderio che ha grande valore davanti a Dio: essi attendono con maggior ardore il suo ritorno; attendono Gesù Cristo che deve venire.
Stimmate, bilocazioni, ipertermie… i documenti inediti su Padre Pio - Esce il libro di don Francesco Castelli “Padre Pio sotto inchiesta. L’ ‘autobiografia’ segreta” (Ares) – due articoli su San Padre Pio: 1) Le stimmate, il Sant’Uffizio. Nuove verità su Padre Pio di Antonio Socci - 2) Il Sant'Uffizio disse: sono vere stimmate di Riccardo Caniato
«Udii questa voce: ‘Ti associo alla mia Passione’»
Esce il libro di don Francesco Castelli “Padre Pio sotto inchiesta. L’ ‘autobiografia’ segreta” (Ares) che contiene documenti inediti, eccezionali: la relazione scritta nel gennaio 1922 da monsignor Raffaello Carlo Rossi, vescovo di Volterra, inquisitore per conto del S. Uffizio a San Giovanni Rotondo nel maggio 1921. La divulgazione è stata resa possibile con l’apertura al pubblico degli archivi vaticani relativi al pontificato di Pio XI. Vittorio Messori, nella Prefazione, sottolinea «l’eccezionalità del documento sia per la peculiarità dei contenuti, sia per la bellezza del linguaggio». Ma il libro è impreziosito ulteriormente da un secondo contributo originale: la cosiddetta Cronistoria di Padre Pio; alcune cartelle sulla vita e il carisma del santo stilate da Padre Benedetto da San Marco in Lamis, che ne fu direttore spirituale e superiore negli anni giovanili: un testo ritenuto da tutti i biografi riferimento essenziale, ma mai pubblicato prima d’ora in volume.
1) Le stimmate, il Sant’Uffizio. Nuove verità su Padre Pio di Antonio Socci
2) Il Sant'Uffizio disse: sono vere stimmate di Riccardo Caniato
1)
Le stimmate, il Sant’Uffizio. Nuove verità su Padre Pio
Il 20 settembre è il 90° anniversario della stimmatizzazione di padre Pio e il 23 settembre è il 40° della morte. Proprio alla vigilia di entrambi sta per uscire un libro di don Francesco Castelli che contiene documenti inediti, eccezionali, sull’episodio delle stimmate e sulla loro origine. In uno di essi “il cappuccino svela – non lo farà mai più durante la sua vita – il toccante dialogo fra lui e il misterioso personaggio, autore delle stimmate” e le parole che spiegano il motivo di quelle stimmate.
Il grande evento avvenne il 20 settembre 1918 e forse la data non è casuale: era stato il giorno della presa di Roma da parte dei piemontesi, fine del potere temporale e inizio della persecuzione al papa, ma anche di una purificazione della Chiesa.
Il fenomeno delle stimmate impose all’attenzione del mondo quello sconosciuto e umile francescano e ne fece una luce che attrasse e ancora attrae milioni e milioni di persone.
Padre Pio divenne così una straordinaria risposta del Cielo all’apostasia del secolo XX. Un giorno di aprile dell’anno 30 d.C., all’apostolo Tommaso, che non credeva che i suoi compagni avessero davvero visto e parlato con Gesù, dopo la sua morte, risorto nella carne e vivo, Gesù andò incontro e disse “Tommaso metti qua il dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente!”.
Così, all’incredulità del secolo delle ideologie, pochi mesi dopo la Rivoluzione d’ottobre, Gesù ha risposto mostrando quelle stesse piaghe, del crocifisso risorto, sul corpo di uno dei suoi più grandi amici, padre Pio: crocifisso per 50 anni davanti al mondo e alla stessa scienza la quale più volte ha studiato e analizzato le sue stimmate ritenendone inspiegabili sia la formazione, sia il perdurare contro ogni legge naturale, sia la sparizione alla vigilia della morte senza lasciar traccia alcuna, di nuovo contro le leggi della biologia.
Francesco d’Assisi fu il primo stimmatizzato e padre Pio è stato il primo e unico sacerdote stimmatizzato della storia della Chiesa. Un fatto che assume un significato particolarmente importante alla luce delle rivelazioni di don Castelli. Storico e docente di Storia della Chiesa, don Francesco Castelli lavora anche nella Postulazione per la causa di beatificazione di Karol Wojtyla. E’ autore di alcuni lavori su padre Pio di cui abbiamo dato notizia anche da queste colonne.
Dunque in questo libro “Padre Pio sotto inchiesta. L’ ‘autobiografia’ segreta” (Ares), di cui parlerà anche il settimanale “Oggi”, pubblica un documento eccezionale: la relazione scritta nel gennaio 1922 da monsignor Raffaello Carlo Rossi, vescovo di Volterra, inquisitore per conto del S. Uffizio a San Giovanni Rotondo nel maggio 1921. Che contiene, fra l’altro, il verbale dei sei “interrogatori” di padre Pio, resi sotto giuramento, dove è contenuta la “bomba”.
Questo dossier era stato secretato e quindi nessuno ha potuto consultarlo. Solo dal giugno 2006 Benedetto XVI ha consentito l’apertura degli archivi del S.Uffizio per i documenti del pontificato di Pio XI (quindi dal 1921 al 1939). Il primo a poterli vedere è stato lo storico Sergio Luzzatto che ha pubblicato di recente un libro dove manifesta molto interesse alla politica e alle ideologie (e anche ai pettegolezzi di paese su padre Pio), ma non altrettanto ai documenti e alla sostanza, né alla materia religiosa (su cui non pare preparato). Forse per una conoscenza sommaria della vicenda di padre Pio, Luzzatto sembra non si sia accorto (nel suo libro non ne dà notizia) dell’esplosiva rivelazione fatta dal giovane frate in quel maggio 1921 al vescovo Rossi.
Finora, sull’episodio cruciale della stimmatizzazione, si sapeva solo quel poco che padre Pio aveva rivelato per lettera, il 22 ottobre 1918, al suo direttore spirituale. Era la mattina del 20 settembre. Padre Pio aveva appena celebrato la messa, era rimasto solo in chiesa e come di consueto stava nel coro per fare il ringraziamento. “E mentre tutto questo si andava operando”, scrive in quella lettera, “mi vidi dinanzi un misterioso personaggio, simile a quello visto la sera del 5 agosto, che differenziava in questo solamente che aveva le mani ed i piedi ed il costato che grondava sangue. La
sua vista mi atterrisce; ciò che sentivo in quell’istante in me non saprei dirvelo. Mi sentivo morire e sarei morto se il Signore non fosse intervenuto a sostenere il cuore, il quale me lo sentivo sbalzare dal petto. La vista del personaggio si ritira ed io mi avvidi che mani, piedi e costato erano traforati e grondavano sangue”.
Questa finora era l’unica versione del fatto decisivo della vita di padre Pio e c’erano tanti punti interrogativi: chi era il misterioso personaggio? Costui disse qualcosa? Fra i due si svolse un dialogo? Per quale scopo le stimmate sul corpo di padre Pio? Sono domande di enorme importanza.
Adesso, dal libro in uscita, apprendiamo che nel 1921 padre Pio, rispondendo alla richiesta di monsignor Rossi, aveva rivelato i particolari decisivi dell’avvenimento, chiarendo, di fatto, tutti quei punti interrogativi. Ecco le sue precise (e inedite) parole: “Il 20 settembre 1918 dopo la celebrazione della Messa, trattenendomi a fare il dovuto ringraziamento nel Coro tutt’a un tratto fui preso da un forte tremore, poi subentrò la calma e vidi Nostro Signore in atteggiamento di chi sta in croce, ma non mi ha colpito se avesse la Croce, lamentandosi della mala corrispondenza degli uomini, specie di coloro consacrati a Lui e più da lui favoriti. Di qui si manifestava che Lui soffriva e che desiderava di associare delle anime alla sua Passione. M’invitava a compenetrarmi dei suoi dolori e a meditarli: nello stesso tempo occuparmi per la salute dei fratelli. In seguito a questo mi sentii pieno di compassione per i dolori del Signore e chiedevo a lui che cosa potevo fare. Udii questa voce: ‘Ti associo alla mia Passione’. E in seguito a questo, scomparsa la visione, sono entrato in me, mi son dato ragione e ho visto questi segni qui, dai quali gocciolava il sangue. Prima nulla avevo”.
Da questo documento straordinario - sottolinea don Castelli – si apprende anzitutto che padre Pio conosceva bene l’identità di chi gli è apparso e soprattutto che “la stimmatizzazione non fu il risultato di una sua richiesta personale”. Altro che autosuggestione e psicosi. Il Padre chiese solo cosa poteva fare per confortare Gesù. Fu Gesù che lo invitò ad aiutarlo a portare il peso dei peccati del mondo, dell’ingratitudine e della mancanza di amore (specialmente dei consacrati).
Il libro contiene anche un altro documento eccezionale e inedito: l’esame accurato delle stimmate fatto dal vescovo. E’ strano che Luzzatto non lo abbia citato. E’ vero che esso confuta totalmente le sue tesi, ma ha un valore storico enorme. Questa è infatti l’unica vera inchiesta del S. Uffizio sulle stimmate. E l’ “inquisitore”, che confessa di essere arrivato “con una personale prevenzione in contrario”, dopo un’ispezione a tutto campo, accuratissima, senza sconti, pure con eccessi di rigore, riconosce infine: “non son potuto rimanere nella personale prevenzione contraria”. Ma anzi, dà voto favorevole. E – ben valutate tutte le altre ipotesi - deve riconoscere che quelle stimmate si spiegano solo con un’origine divina.
Il prelato testimonia pure di aver constatato personalmente il “profumo” (specialmente) del sangue di padre Pio e documenta fenomeni come la temperatura corporea a 48° (quando il padre pensa a Gesù) e la bilocazione. Ora, dopo queste ultime rivelazioni del libro di Castelli, è più chiaro il senso di quelle stimmate. Kierkegaard dice che Gesù ci fa letteralmente scudo col suo corpo santo. Ebbene, padre Pio è lì con lui a fare scudo a ciascuno di noi, (come fece padre Kolbe per quel padre di famiglia). E a milioni si riparano dietro di lui.
Libero 10/09/2008
2)
L’«autobiografia» segreta di Padre Pio
Il Sant'Uffizio disse: sono vere stimmate.
A 40 anni dalla morte di Padre Pio, un verbale inedito conferma la sua santita'.
«Davanti a me Visitatore Apostolico, nel Convento dei Minori Cappuccini, si è presentato, chiamato, il Reverendo Padre Pio da Pietrelcina, il quale, al tocco dei Santi Evangeli prestato il giuramento di dire la verità, depose e rispose come segue: “Mi chiamo Padre Pio da Pietrelcina, al secolo Francesco Forgione, di Orazio, di anni 34 compiti. Mi trovo in questo Convento dal Settembre 1916…”». È il 15 giugno 1921, sono le ore 17, il santo del Gargano è messo sotto torchio. Davanti a lui siede un sacerdote di 44 anni, austero nel portamento, asciutto nel parlare, rigoroso nel porre le domande: è Mons. Raffaello Carlo Rossi, vescovo di Volterra, inviato dal Sant’Uffizio per inquisire il frate delle stimmate.
«Un film lungo una settimana».
L’ecclesiastico si presenta al portone di Santa Maria delle Grazie il 14 giugno; con ogni probabilità senza croce pettorale e zucchetto, a salvaguardia della segretezza della missione. Vi si intrattiene per otto giorni, mettendo a verbale le dichiarazioni non solo di Padre Pio, ma anche dei suoi confratelli, compresi il Padre Provinciale, Pietro da Ischitella, e il superiore del convento, Padre Lorenzo da San Marco in Lamis. Quindi, nella parrocchia di San Giovanni Rotondo, fa deporre più volte il parroco e il viceparroco. Al tempo stesso compie un’accurata indagine sulle stimmate. A tutti impone, mediante giuramento, di dire la verità e di mantenere anche in futuro il più completo riserbo. E il segreto è durato fino a oggi, allorché l’indagine riemerge dagli archivi segreti vaticani, pubblicata per intero nel volume Padre Pio sotto inchiesta, Edizioni Ares, a cura di Francesco Castelli, con prefazione di Vittorio Messori (pp. 328, euro 14).
Si dipana qui, come in un film, una settimana della vita del frate, in ogni suo aspetto anche domestico, come la passione per la birra prodotta da un amico, l’unica che riusciva a digerire. Ne traiamo un Padre Pio simpatico, di forte temperamento, allegro. Non certo un mistico appartato, piuttosto un religioso particolarmente attento ai doveri comunitari, come i servizi, ma anche lo stare in compagnia.
Per la sua discrezione il Convento di San Giovanni Rotondo finisce per vivere con naturalezza le cose fuori dal comune che riguardano Padre Pio e che pure prendono corpo nelle testimonianze del Provinciale, del Superiore, di Padre Ignazio…, come le febbri a 48°, il profumo, le bilocazioni, i rumori notturni causati dal demonio, le fuoriuscite di sangue dalle stimmate, le grazie. È su questi aspetti, naturalmente, che si concentra l’attenzione dell’inquisitore che incalza prima i confratelli, poi, in sei successive deposizioni lo stesso Padre Pio.
Il santo che, per umiltà, eviterebbe volentieri di parlare di sé, dinanzi all’autorità del Papa, che Rossi incarna, non può sottrarsi: il documento contiene 142 risposte dettagliate, una nuova, imprescindibile fonte autobiografica. Non mancano rivelazioni sorprendenti.
«Ti associo alla mia Passione».
Fino a oggi risultava che Padre Pio, pudicamente, ritenendosi indegno dei suoi straordinari carismi e soprattutto delle stimmate, aveva dichiarato a voce e per iscritto che le piaghe gli furono inferte da «un personaggio misterioso». Ma chiamato a rispondere sul Vangelo, egli rivela per la prima volta l’identità di colui che lo ha stimmatizzato. È il 15 giugno 1921, poco dopo le 17, ecco il racconto raccolto dal Visitatore: «Il 20 Settembre 1918 dopo la celebrazione della Messa trattenendomi a fare il dovuto ringraziamento nel Coro tutt’ad un tratto fui preso da un forte tremore, poi subentrò la calma e vidi Nostro Signore in atteggiamento di chi sta in croce, ma non mi ha colpito se avesse la Croce, lamentandosi della mala corrispondenza degli uomini, specie di coloro consacrati a Lui e più da lui favoriti. Di qui si manifestava che lui soffriva e che desiderava di associare delle anime alla sua Passione. M’invitava a compenetrarmi dei suoi dolori e a meditarli: nello stesso tempo occuparmi per la salute dei fratelli. In seguito a questo mi sentii pieno di compassione per i dolori del Signore e chiedevo a lui che cosa potevo fare. Udii questa voce: “Ti associo alla mia Passione”. E in seguito a questo, scomparsa la visione, sono entrato in me, mi son dato ragione e ho visto questi segni qui, dai quali gocciolava il sangue. Prima nulla avevo».
Dopo queste dichiarazioni Mons. Rossi effettuerà personalmente una ricognizione sulle stimmate di Padre Pio, di cui non si aveva notizia e che risulta apportatrice di grandi novità, specialmente per quanto concerne la forma della ferita sul costato e la presunta sesta piaga della spalla. Il cappuccino nega di portare questo segno che sarebbe causato dal peso della croce; a precisa domanda, se abbia «per la persona, nel petto, nel dorso, altri segni simili [alle stimmate]» risponde: «No, mai avuti».
Il profumo, le stimmate, la febbre a 48°.
Ben sapendo che i detrattori di Padre Pio ipotizzano che generi artificialmente le ferite e il profumo che emana dal suo corpo, Mons. Rossi, la sera del 15 giugno perquisisce a sorpresa la sua cella per cercare medicine, strumenti e lozioni che possano spiegare umanamente questi fatti. Invano. Non pago, interroga a bruciapelo il santo sul profumo. «Non so che rispondere», risponde ingenuamente: «L’ho sentito anch’io da persone che son venute a baciarmi la mano. Per parte mia non so: in cella non ho che il sapone». Il vescovo sa che ha detto la verità.
Molto toccante un passo in cui Padre Pio dà conto sul dolore fisico causato dalle stimmate e dalle ipertermie a cui è soggetto. Il frate dichiara che le piaghe «arrossate», che «gocciolavano un poco di sangue» si manifestarono nel «1911-1912, i primi anni del sacerdozio» e che già da prima «sentivo dei dolori in quelle medesime parti». Questi allora vuol vederci più chiaro sulla sofferenza cui è sottoposto: «Quale effetto risente da queste stimmate?», gli chiede. «Dolore, sempre, specialmente in alcuni giorni quando emettono sangue. Il dolore è più o meno acuto: in alcuni momenti non posso reggere». «E che cosa dice della temperatura arrivata talora a 48º?», lo incalza Mons. Rossi. «È vero, e questo avviene quando mi sento male… Credo sia più male morale che fisico». «Quali effetti sperimenta, che cosa sente?». Padre Pio riflette qualche istante, poi spiega: «Affetti interni, la considerazione, qualche rappresentazione del Signore. Come in una fornace, mantenendo sempre la conoscenza». A volte, esausto per la febbre, il santo implorava: «Le fiamme mi divorano, datemi dell’acqua gelata». Fra emozioni estatiche e ostilità demoniache il suo fisico viveva dimensioni fuori dal normale.
In due luoghi contemporaneamente.
Per non dire di quando era chiamato a «sdoppiarsi» nelle bilocazioni. Interrogato su questo fenomeno Padre Pio risponde: «Io non so come sia, né di che natura la cosa, né molto meno ci do peso, ma mi è occorso di aver presente questa o quell’altra persona, questo luogo o quell’altro luogo; non so se la mente si sia trasportata lì, o qualche rappresentazione del luogo o della persona si sia presentata a me, non so se col corpo o senza il corpo io sia stato presente». Il vescovo vuol sapere se sia consapevole dell’inizio di questo stato e del rientrare nello stato normale. Il santo sottolinea che «ordinariamente» questi fenomeni avvengono durante la preghiera: «La mia attenzione era rivolta all’orazione prima e poi a questa rappresentanza: poi mi ritrovavo senz’altro come prima».
Incuriosito, Mons. Rossi domanda di fatti particolari: Padre Pio, dichiarando che è la prima volta a parlarne apertamente, racconta: «Una volta mi son trovato vicino al letto di un’ammalata: Signora Maria di San Giovanni Rotondo, di notte; ero in Convento; credo che stavo pregando. Sarà più di un anno. Le rivolsi parole di conforto: Lei pregava che avessi pregato per la sua guarigione. Questo la sostanza. Di particolare non conoscevo questa persona; mi era stata raccomandata». La donna guarì. Un altro caso: «Un uomo mi si è presentato o io mi son presentato a lui, a Torre Maggiore – io ero in Convento – e l’ho ripreso e rimproverato i suoi vizi, esortandolo a convertirsi, e poi in seguito quest’uomo è venuto anche qui».
Il giudizio.
Il Visitatore Apostolico rileva a questo punto la discrezione del cappuccino riguardo alle persone coinvolte e annota: «Padre Pio non dice il nome per riguardo». Partito per sua stessa ammissione prevenuto, incontro dopo incontro rimase colpito dal giovane frate del Gargano e, riferendo alla Santa Sede, chiuderà la relazione indicando questo profilo: «Padre Pio è un buon religioso, esemplare, esercitato nella pratica delle virtù, dato alla pietà ed elevato forse nei gradi di orazione più di quello che non sembri all’esterno; risplendente in particolar modo per una sentita umiltà e per una singolare semplicità che non son venute meno neppure nei momenti più gravi, nei quali queste virtù furono messe per lui a prova veramente grave e pericolosa». Nel 1921, il Sant’Uffizio Padre Pio lo aveva già fatto santo.
Oggi del 10-9-2008, pp. 32-34
Il sapere secondo Benedetto XVI - Giampaolo Cottini, IlSussidiario.it, martedì 16 settembre 2008
Il discorso del Papa al Collège des Bernardins di Parigi del 12 settembre è un altro importante tassello del pontificato di Benedetto XVI sul rapporto fede-ragione: dopo il celebre discorso di Ratisbona di due anni fa sul tema del Logos come fattore portante della coscienza religiosa, e la lezione non tenuta alla Sapienza di Roma dell’anno scorso dedicata al rapporto con la Scienza e alla vocazione dell’Università, l’incontro con gli intellettuali in un luogo edificato “dai figli di San Bernardo di Clairvaux” costituisce un’importante esame dei fondamenti della cultura.
È singolare e quasi provocatorio che il Papa abbia scelto proprio la laicissima Francia, terra del razionalismo cartesiano, dell’anticlericalismo illuministico, dello scientismo positivista di Comte, per lanciare il suo messaggio sul significato religioso e sui fondamenti cristiani della cultura europea, scegliendo non una tribuna istituzionale (come aveva fatto Giovanni Paolo II nel suo celebre discorso all’UNESCO del 1980), ma un luogo nato per ospitare la formazione dei monaci ed ora utilizzato per favorire l’incontro tra intellettuali cattolici e laici.
Colpisce anzitutto il metodo di affronto del discorso: non una partenza dal dibattito culturale contemporaneo o una discussione sulle opinioni presenti nell’attuale supermercato delle idee, neppure una disanima critica delle ideologie dominanti o un’analisi critica del relativismo filosofico, ma una dottissima ed acuta lezione di taglio accademico, che apparentemente sembra dedicata solo alla ricognizione dell’esperienza monastica, e che in realtà esemplifica qual è il cuore dell’esperienza culturale e quale ne è il metodo. Paradossalmente l’intenzione dei monaci non era di creare una cultura, ma di cercare Dio (“quaerere Deum”), per cui “nella confusione dei tempi in cui nulla sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre”. Con questo è tracciato il loro cammino culturale, che non consiste in un discorso sulla realtà o su un’interpretazione filosofica, ma si propone come ricerca di ciò che è definitivo dietro le cose provvisorie, perché i monaci “dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali”. Con ciò viene stabilito il cuore della cultura monastica, che risiede nella ricerca di Dio che giustifica lo studio della Scrittura, e crea una cultura della parola per esplorarne la Verità non in maniera arbitraria ma interpretandola in profondità. Poiché Dio parla all’uomo in maniera comprensibile, il monaco riscopre che la Parola è compresa nella comunità in cui essa si è formata e in cui è vissuta, ma essa non può mai essere ridotta a pura “lettera” poiché chiede di essere compresa attraverso lo Spirito e ciò implica il trascendimento dell’immediato.
Proprio per questo lo studio della Scrittura insegna che c’è un limite all’arbitrio soggettivo e all’interpretazione del singolo, e che cultura significa accogliere un legame che supera l’interpretazione letterale dei testi, il legame dell’intelletto e dell’amore. Così la civiltà occidentale impara che la vera libertà non è assenza totale di legami ed imposizione del proprio punto di vista (che in campo religioso conduce al fanatismo e al fondamentalismo), ma è capacità di ascoltare il Logos presente nella Scrittura come Verità universale. È questa verità che dà senso anche alla cultura del lavoro, cioè alla trasformazione della realtà per collaborare all’opera della Creazione, nell’ottica per cui occorre “guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime, vere”. Dire questo apre una prospettiva di “allargamento della ragione”, anche pratica, che consente di vedere il positivo presente in tutto, mettendo il monaco nella certezza che la fede riguarda tutti perché dice la Verità dell’uomo e non l’opinione di un gruppo da diffondere per proselitismo. Benedetto XVI è talmente convinto di ciò da porre con energia una disanima critica degli idoli contemporanei che distolgono l’uomo dalla Verità, dicendo nella grande Messa, celebrata sull’Esplanade des Invalides, (a poca distanza dalla tomba di Napoleone) che “mai Dio domanda all’uomo di fare sacrificio della sua ragione. Mai la ragione entra in contraddizione reale con la fede”, nel solco dell’esaltazione dell’unità fede-ragione che gli sta tanto a cuore e che lo rende libero di parlare a tutti con simpatia umana, ma senza equivoci.
La cultura non può prescindere dalla domanda su Dio, l’Ignoto-conosciuto di cui parlava San Paolo nel discorso all’Areopago di Atene e di cui l’intelletto umano presagisce l’esistenza, altrimenti si scade nella riduzione della realtà all’irrazionale. E il Papa sa che l’odierna apparente assenza di Dio è “tacitamente assillata dalla domanda che lo riguarda”, per cui mai la cultura può prescindere dalla grande domanda su Dio, meglio dalla grande attesa che Dio si mostri. Neppure la pretesa positivista di definire tale interrogativo come inutile perché non scientifico può essere giustificata, perché condurrebbe alla “capitolazione” della ragione e ad un “tracollo” dell’umanesimo. Significherebbe rinunciare alle possibilità più alte della ragione che da sempre ha creato cultura come ricerca dell’Assoluto e come disponibilità ad ascoltarne la Parola per illuminare la condizione umana.
Che tutto ciò sia detto, contro ogni riduzione particolaristica e settoriale del sapere, in una Francia che è “primogenita della Chiesa” per Storia, ma anche attuale culla della cultura del razionalismo relativista, non è cosa da poco: fa parte dell’intelligenza di Papa Ratzinger che, prima di essere accademica, è veramente pastorale, cioè amorosamente chinata sull’uomo per dargli motivi di speranza, tanto più nella terra di Francia che Sarkozy vorrebbe trasformare in un “laboratorio di laicità positiva”.
Milano: quando la violenza è il sintomo di una solitudine - Luca Doninelli, martedì 16 settembre 2008
Prima di emettere giudizi morali o sentenze apocalittiche sulla violenza che dilaga nelle nostre città, e sulla sempre crescente futilità delle cosiddette cause scatenanti, guardiamo agli eventi che hanno portato alla morte di Abdul, a Milano, con un po’ di pietà: pietà per tutti, per il povero ragazzo ucciso e per i suoi poveri assassini.
Vorrei elencare qui, senza nessuna pretesa di fare discorsi esaustivi, le osservazioni che questo terribile fatto mi suggerisce.
La prima è che Abdul aveva, anzi ha diciannove anni, l’età di mio figlio. Magari qualche volta hanno giocato a basket insieme, in uno dei tanti campetti della nostra periferia. E’ difficile per me leggere “diciannove anni” e non pensare a mio figlio. E mio figlio chi è? E’ uno come Abdul, un ragazzo forse solo un po’ più fortunato.
La seconda è che c’è in giro una grande solitudine, che porta qualcuno a pensare di doversi fare giustizia da solo. La colpa è anche di tanti politici e del loro atteggiamento ambiguo: a parole si mettono dalla parte del cittadino e criticano l’andazzo generale (magistratura, ordine pubblico, burocrazia), così il cittadino continua a non essere tutelato, continua a essere solo, però si sente giustificato nelle sue azioni demenziali.
Perché l’uomo non si senta solo occorre che sappia di non essere solo. E per saperlo bisogna che ci sia qualcuno, molto credibile, che glielo dica. È il tema dell’educazione e dell’attuale emergenza educativa (di cui stanno cominciando a parlare in troppi, confondendo le idee come al solito), che questo tragico avvenimento ci invita a leggere da un punto di vista diverso.
Mi spiego. La nostra città, Milano, ha una grande storia, e questa storia parla di grandi valori, di cui Milano è stata paladina: il valore della libertà, il valore dell’accoglienza, il valore della solidarietà, il valore del lavoro, eccetera.
Ma il valore non è una cosa astratta. Prendiamo il lavoro: girare una vite, tagliare un prato, spiegare Hegel non sono valori in sé. Lo sono se ci aprono a tutto il resto della vita, se ci fanno sentire responsabili non solo di quel pezzettino di vita, ma di tutto il mondo.
C’è chi passa la vita a girare viti e diventa un uomo grande. E c’è chi fa la stessa cosa ed è un imbecille. Perché scatti il valore c’è bisogno di qualcosa che sta prima. O c’è questo o resteremo sempre chiusi nel particolare: potremo essere grandi lavoratori, ma resteremo persone immorali.
Milano s’inceppa su questo punto: ti insegna a lavorare (almeno questo, grazie a Dio, c’è ancora) ma ha sempre più difficoltà a comunicare il valore, il senso del lavoro. Su questo - che è un nodo educativo, e quindi antropologico e culturale - bisogna lavorare sodo, altrimenti l’Expo rischia di diventare solo l’amplificatore di un fallimento umano. Bisogna impegnarsi per la scuola e per l’università, e per tutti i luoghi dove l’uomo si forma.
La responsabilità è di tutti, ma quando dico “di tutti” intendo anche chi guida e governa la città. Ricordo che a Milano dopo mezzanotte è come se ogni responsabilità s’interrompesse. Non ci sono più ristoranti, pizzerie, bar, ma solo pub e discoteche. Esci da teatro e devi correre a casa.
Oppure ti puoi unire a tutta questa gente che va per la città e che non è cattiva gente, ma che a Milano a quest’ora può trovare (e quindi cercare) solo alcol e droga. Perché questo è quanto trovi a Milano da mezzanotte in poi. Con rare eccezioni.
Violenza, dicono. Droga, dicono. Ma io dico prima di tutto solitudine e infelicità. Perché anche andare a zonzo per Milano in cerca di droga somiglia alla morte di Abdul. E’ tutto un correre sul filo senza nessuno che ti dica vieni giù, camminiamo insieme.
16 settembre 2008 - La Ratio del professor Ratzinger - Il filosofo Pierre Manent spiega l’ironia e i “deliziosi effetti” del cantico francese di Benedetto XVI e ci dice che “l’unica scuola di pensiero che ormai rivendica la ragione come regola per guidare la vita è proprio la chiesa cattolica”
Ad ascoltare la lectio magistralis di Joseph Ratzinger al Collège des Bernardins, c’era anche Pierre Manent, il discepolo di Raymond Aron che oggi è uno dei filosofi della politica più sensibile alla critica della modernità che esista in Francia. Da autore di saggi chiave sul liberalismo, da studioso versatile in grado di commentare il De Officiis di Cicerone o la Teoria dei Sentimenti morali di Adam Smith, passando per la Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino, Manent ha trovato “d’una ironia deliziosa” che fosse proprio il Papa, “cioè colui che agli occhi del moderno razionalismo rappresenta la superstizione, la rinuncia alla ragione, il sacrificio dell’intelletto, a riportare in primo piano la questione della ragione”. Cattolico liberale, e però neotomista e filo straussiano, Manent è convinto che le principali correnti filosofiche contemporanee non abbiano fiducia nella ragione: “Sono anti razionaliste o irrazionaliste. Oggi, invece, l’unica scuola di pensiero che rivendichi la ragione come regola per guidare la vita umana è la chiesa cattolica. E il merito di far rientrare questa idea classica nella riflessione contemporanea spetta proprio a Benedetto XVI”.
E’ questo l’effetto paradossale della lezione del Papa a Parigi, la capitale del razionalismo positivistico. Una lezione di teologia dove le origini del monachesimo occidentali rivelano le radici della cultura europea e il nostro debito di civiltà nei confronti del cristianesimo, ma servono soprattutto a mettere in guardia la coscienza contemporanea dalla minaccia d’una libertà soggettiva priva di trascendenza e votata all’atomismo e di un fanatismo religioso prigioniero dell’intolleranza integralista. “L’essenziale della lezione del professor Ratzinger” dice Manent “consiste in una deduzione complessiva del dispiegarsi della cultura europea, perlomeno nelle sue dimensioni fondamentali, a partire dal Quaerere Deum, dalla ricerca di Dio. E’ questo l’aspetto più singolare del discorso del Papa al Collegio dei Bernardini. Benedetto XVI è partito dal monachesimo occidentale e ha mostrato come la ricerca di Dio, per il modo in cui Dio era annunciato nella Bibbia e nel Vangelo, implicava un nuovo rapporto fondatore nei confronti del linguaggio, della scrittura, della comunità”. Insomma a partire da due sole parole, “quaerere deum”, il Papa è riuscito a suscitare l’intero modo di procedere dell’uomo europeo. “E’ impressionante”, commenta Manent. “Nel momento stesso in cui entrava nel cuore della sua dimostrazione, vale a dire in quel rapporto che il cristianesimo instaura tra scrittura e comunità, il Papa ha dimostrato che non può esserci un fondamentalismo cattolico, per il semplice fatto che le scritture sono un sistema di testi strettamente legato a un insegnamento religioso. Un sistema che trova senso solo nella relazione che suscita in seno alla comunità di credenti. Certo, volendo possiamo anche evidenziare con quale delicatezza Benedetto XVI abbia implicitamente distinto la Bibbia dal Corano, sottolineando subito e con molta nettezza la ragione per la quale il cristianesimo, a differenza dell’islam, non può essere considerato una religione del Libro”.
Senza ripetere lo scandalo destato dal discorso di Ratisbona, basta una lettura attenta per capire come Ratzinger abbia insistito sulla peculiarità del cristianesimo per rintracciarne la matrice teologica della cultura europea. “Interpretazione e dialogo sono gli elementi chiave sottolineati dal Papa. La scrittura, ha inoltre spiegato Benedetto XVI, non è separabile dalla comunità che essa stessa suscita e forma. Il Papa ha poi sottolineato che quando nel nuovo testamento si parla di scritture si intende un insieme di testi dal carattere molto diversi, la cui unità si concretizza soltanto in una comunità capace di interpretarli. In questo senso, credo che il Papa abbia mirabilmente indicato una precisa relazione tra la comunità e il logos. Una relazione che appartiene al cattolicesimo, e che mutatis mutandis, continua a sostenere lo sviluppo europeo, anche quando si allontana dai dogmi cattolici dell’obbedienza e della fede”.
E’ questo a rendere il discorso di Benedetto XVI estremamente interessante agli occhi di Manent. “Apre una prospettiva che rinnova la nostra visione d’insieme dello sviluppo occidentale, dando un contributo alla riflessione non solo dei cattolici, ma di quanti sono interessanti a capire cosa vuole dire l’Europa; perché offre una sintesi non eclettica tra l’Europa che ha ricevuto la filosofia e l’Europa che ha ricevuto il cristianesimo”. Così anche nella laica Francia, patria del volterrianesimo, la religione forse è tornata al cuore della riflessione filosofica e politica. Il che se da un lato non basta a contraddire l’idea di un paese largamente decristianizzato, dall’altro, secondo Pierre Manent, contribuisce a dare alla chiesa una nuova forza relativa: “Quando tutte le famiglie spirituali sono in via di estinzione, il Partito comunista non esiste più, il movimento del Maggio ’68 si è ridotto a una riunione di ex combattenti abbastanza patetici, la debolezza della chiesa diventa una forza relativa, perché rispetto allo stato medio della nazione, mostra una presenza e un’attività e talvolta persino un’intelligenza che lasciano ben sperare”.
Manent loda la posizione di Sarkozy. “E’ stato molto bravo: ha appena sfiorato la questione del rapporto tra fede e ragione, ma ha insistito sul carattere centrale che la ragione riveste per la democrazia. Oggi la legittimità democratica non si fonda più su una base razionale, ma su una affettiva, come dimostra il sentimento aggressivo dell’eguaglianza, il fatto che ciascuno vive come vuole, perché lo vuole, e perché lo vale, dunque legare la difesa della ragione fatta da Benedetto XVI al bisogno di democrazia, è una scelta giudiziosa. Sarkozy ha fatto capire quanto sarebbe assurdo privarsi del contributo che le religioni possono fornire al dibattito pubblico. E’ un’affermazione audace ma giudiziosa, con cui ha iniziato a dare un contenuto all’idea di laicità positiva”. Alla domanda se sia un punto di non ritorno, Manent non si sbilancia: “Non saprei dire se sia una svolta storica, credo però che molti avvertono che l’irrigidimento laicista non è più ragionevole, che è arrivato il momento di afferrare con intelligenza l’apertura al contributo pubblico delle religioni. Quando la nazione, e non solo la Francia ma anche le altre nazioni d’Europa, sembra molto impoverita, e prevale la sensazione di atonia, depressione e sterilità, si avverte quantomeno il bisogno di utilizzare tutte le nostre risorse per ridarle vitalità. E anche se il cristianesimo è indebolito, il cattolicesimo, la religione e la fede restano una risorsa anche per i non cattolici. Non c’è più ragione, infatti, di continuare a guardare con sospetto e intolleranza la chiesa cattolica che non ha più né il desiderio né i mezzi di essere essa stessa intollerante”.
Siamo tutti seienni Il fiore dello stupore - DAVIDE RONDONI, Avvenire, 16 settembre 2008
In certi giorni si è detto: «Siamo tutti berlinesi!», oppure «Siamo tutti tibetani!». O altri slogan del genere, per indicare vicinanza a popoli colpiti o risorgenti. In questi giorni proporrei: «Siamo tutti seienni!».
Cioè abbiamo tutti sei anni o giù di lì. Come i nostri figli che cominciano per la prima volta la scuola. E che vediamo andar via da casa, tesi e stupefatti, verso qualcosa di cui han sentito parlare infinite volte, ma che non conoscono. E noi ci immedesimiamo un poco. E tremiamo di una strana commozione che solo gli stupidi posson giudicare stupida.
Certo, le mamme a volte un poco esagerano coi patemi. Ma si sa, sono mamme. Il fatto è, però, che dovremmo essere tutti un po’ seienni. Cioè all’inizio di una grande scoperta. Dovremmo forse essere di più seienni, aver di più il gusto e il brivido di uscire di casa per andare ad imparare. Per andare ad aprire gli occhi di fronte al reale. Insomma, sarebbe meglio che oltre ad avere i nostri cinque milioni di anni di evoluzione umana alle spalle, e i millenni di civiltà e di lotte, i secoli di scoperte e di orrori, avessimo in questi giorni anche sei anni. Cioè l’età in cui si inizia a lasciarsi il nido alle spalle e si entra nel grande drammatico spettacolo del reale. Con il viso aperto, con la voglia intatta, e la libertà che si sta formando come un muscolo tenero e centrale in cuore.
Noi grandi, che guardiamo l’inizio della scuola troppo spesso solo con le lenti della sociologia, o dell’economia, o della politica, dovremmo invece farci un po’ bambini in questi giorni. Essere tutti seienni. Avere milioni e migliaia di anni. Ma averne anche sei. Avere questo fiore di desiderio negli occhi. Il fiore dello stupore.
Di chi non sa niente, o quasi. E quelle briciole di sapere le investe per scoprire di più il segreto e la vastità del mondo. Avere gli occhi dei nostri figli, e non solo perché è naturale che ci somiglino. Ma anche perché è necessario, è salutare, insomma, è vitale che anche noi somigliamo a loro. Alla loro infanzia aperta. Al loro cuore che scopre. Mentre i nostri cuori spesso non vogliono più scoprire niente, e vediamo molti invecchiare col cuore indurito di chi pensa di sapere tutto. Magari perché ha quarant’anni, o sessanta, pensa di sapere tutto.
Come se quaranta o sessanta o anche cento anni fossero molti in confronto ai miliardi di anni del cosmo. Come se la coscienza di un uomo si potesse misurare come il tronco di un albero dai cerchi degli anni.
Quantitativamente.
Che pena gli adulti che pensano di sapere tutto, di sapere come va la vita... E non hanno più quaderni su cui stare piegati a imparare a parlare veramente, o libri sui cui imparare a sentire veramente. O foglie da guardare, o ali di farfalla, o nomi di laghi e mappamondi davanti a cui stupirsi. Pensano di sapere tutto e invece sanno solo il sapore amaro del loro invecchiamento interiore. Ma in questi giorni è possibile: «Siamo tutti seienni!». C’è, per così dire, da approfittarne, guardando i bambinetti uscire, sgorgando come colombi dalle porte dei bus o delle aule, per risentire un cuore che ha voglia di imparare. C’è da approfittarne. Per avere migliaia di anni di esperienza da insegnare e sei anni per imparare. Sono giorni in cui qualcosa in noi può tornare al principio. Non è una faccenda sentimentale. È una faccenda di vita e di morte.
Se non si torna come bambini, è stato detto, la vita è destinata a essere inferno. L’inizio delle scuole non è una faccenda solo per i piccoli e per le loro famiglie.
È un segno per tutti, se si vuole leggere la vita per conoscerla e gustarla di più.
«Stati vegetativi, un documento per fare chiarezza» - Roccella: al via il censimento di tutti i malati Distinguere tra coma permanente e persistente, Avvenire, 16 settembre 2008
DA ROMA LUCA LIVERANI
U n nuovo documento tecnico- scientifico per fare il punto sugli stati vegetativi e di minima coscienza. Sarà questo l’obiettivo della commissione di esperti che verrà istituita e convocata entro settembre dal sottosegretario al Welfare con delega ai temi etici Eugenia Roccella. Una riedizione dell’organismo presieduto nel 2005 dall’allora sottosegretario alla Salute Domenico Di Virgilio – quando era ministro Francesco Storace – composta da neurologi ed esperti di rianimazione, che servirà a fare chiarezza su questioni delicatissime che riguardano anche Eluana Englaro. A dare l’annuncio è la stessa Eugenia Roccella, alla presentazione della decima «Giornata nazionale dei risvegli per la ricerca sul coma» del 7 ottobre, slogan di quest’anno «Vale la pena», promossa dall’associazione di volontariato di Bologna 'Gli amici di Luca'. L’altro passo importante per fare chiarezza sarà il lavoro della Conferenza Stato-Regioni, spiega il sottosegretario, che nella prossima riunione affronterà il nodo delle linee guida per l’appropriatezza delle cure dei malati in stato vegetativo. «Si partirà dal censimento dei malati – spiega il sottosegretario – al momento ci sono solo stime di quanti sono questi malati. Si parla di 1.500 ma anche di 3 mila pazienti. È necessario sapere con precisione chi sono, dove e come stanno: nessuna programmazione sanitaria si può realizzare senza questi dati». Il fine di questa indagine con le Regioni sarà la stesura di un vero Registro nazionale degli stati vegetativi.
Fissare alcuni punti fermi dal punto di vista scientifico è fondamentale: «La Cassazione – ricorda Roccella – ha accolto la richiesta del padre di Eluana Englaro parlando dell’irreversibilità dello stato vegetativo». Un concetto inesatto e ormai superato, spiega il sottosegretario, visto che oggi la scienza «non parla più di coma permanente, ma persistente». Dare attuazione a quel decreto «cioé sospendere l’alimentazione, sarebbe molto grave: per la prima volta un cittadino italiano non potrebbe esaurire i gradi di giudizio. Se il verdetto venisse eseguito e la Cassazione desse poi torto, non si potrebbe tornare indietro. Un’anomalia assoluta perché non si potrebbe rimediare all’errore giudiziario della Corte d’appello». Testimonial da anni dell’associazione, nata dall’impegno di Maria Vaccari e Fulvio De Nigris accanto al figlio in coma dopo un tragico incidente, è l’attore e scrittore bolognese Alessandro Bergonzoni. A proposito del dibattito sul testamento biologico, Bergonzoni sostiene che «bisognerebbe spostare l’attenzione dalle norme all’enorme». Uno dei consueti giochi di parole dell’affabulatore bolognese per stigmatizzare «l’enorme, inteso come 'l’inconcepibile' per le persone sane, ossia la difficoltà estrema per le persone sane a pensare a una differenza di vita che ci fa paura. La nostra società oggi è ossessionata dalla vita – dice l’istrionico interprete – ma solo quando coincide con la vitalità. Ma esistono anche altre vite che hanno differenti caratteristiche». Bergonzoni darà quest’anno il suo contributo con uno spettacolo-concerto con gli Avion Travel, due convegni e uno spot per tivù e cinema.
«Con la Giornata dei risvegli – dicono Maria Vaccari e Fulvio De Nigris – vogliamo dare voce alle famiglie che vivono la drammatica esperienza di un parente in stato vegetativo. Il risveglio è una condizione ampia, che riguarda il paziente e chi gli sta intorno, così come il coma è una sintomatologia familiare e come tale va affrontata». Dall’incontro tra l’associazione Gli amici di Luca e l’Azienda Usl di Bologna nasce il progetto Casa dei Risvegli Luca De Nigris, inaugurata nel 2004 nell’area dell’ospedale Bellaria. Un centro pubblico di riabilitazione per persone in stato vegetativo, centro pilota in Italia per un’assistenza che valorizza il ruolo della famiglia permettendo relazioni e convivenza continuativa, con un lavoro collettivo tra sanitari, familiari, volontari, musicoterapeuti e attori di teatro.
La vicenda di Eluana ha riaperto il confronto Il sottosegretario: attuare il decreto che sospende l’alimentazione sarebbe molto grave