mercoledì 16 marzo 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Fermate la legge sulle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento, tutelate la vita! - Di Rassegna Stampa - 15/03/2011 - Eutanasia di Pietro Ceci
2)    Sceglie la vita la donna che si sente accolta di Raffaella Frullone, 15-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
3)    15/03/2011 - FRANCIA-ISLAM - Se i musulmani chiedono le chiese “vuote” dell'Europa… di Samir Khalil Samir - In Francia un’organizzazione islamica ha proposto alla Chiesa francese la possibilità di pregare nelle chiese non utilizzate. E se i cristiani in Egitto e Algeria chiedessero l’uso delle moschee la domenica? Se vuole evitare conflitti crescenti in Europa, l’islam deve diventare culturalmente e mentalmente occidentale.
4)    Un calcio all'Europac di Mario Mauro, mercoledì 16 marzo 2011, il sussidiario.net
5)    15/03/2011 – PAKISTAN - Cristiani pakistani si convertono all’islam dietro minacce e intimidazioni di Aoun Sahi*
6)    Avvenire.it, 16 marzo 2011 - Dire sì alla legge sulle Dat - Certi di poche grandi cose di Roberto Colombo
7)    Avvenire.it, 16 marzo 2011, BIOETICA E POLITICA, «Fine vita, quella legge subito altrimenti l'eutanasia» di Pino Ciociola

Fermate la legge sulle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento, tutelate la vita! - Di Rassegna Stampa - 15/03/2011 - Eutanasia di Pietro Ceci

(si ringrazia per la documentazione Giovanni Ceroni)

Lunedì 7 marzo è iniziato alla Camera il dibattito sul Ddl Calabrò, riguardante le “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato, e di dichiarazioni anticipate di trattamento”- Molta confusione è stata fatta nel descrivere le implicazioni di questa legge, tanto che si sono formate tre diverse correnti di pensiero. La prima, quella dei laicisti che non vogliono questa legge, considerandola non abbastanza liberale. La seconda corrente, rappresentata da moltissimi politici cattolici e da gran parte del centro e del centrodestra, che sta portando avanti la campagna per l’approvazione di questa legge. C’è poi una terza corrente di pensiero, costituita da coloro che sono contrari a questa legge, laici e cattolici, perché temono che essa possa aprire una breccia per l’eutanasia passiva nelle normative del nostro Stato, per i motivi che andremo fra poco a trattare. A quest’ultima corrente di pensiero aderiscono Giuliano Ferrara, gli intellettuali che gravitano attorno al quotidiano “Il Foglio” e gli attivisti pro-life che fanno parte del “Comitato Verità e Vita”. Come vedremo, la tesi più ragionevole è quella di questo terzo gruppo di pensatori.

Quelle strane analogie con la legge 194...

Analizzando approfonditamente il testo della legge, si può osservare come essa presenti un inganno analogo a quello della legge 194/78 sull’aborto: Nell’ art.1 si sostiene infatti che essa “riconosce e tutela la vita umana, quale diritto inviolabile ed indisponibile” come la legge che legalizzò l’aborto sosteneva nel suo primo articolo“Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio.”. Entrambe quindi partono da una premessa apparentemente rispettosa della vita. Invece, come nei punti successivi al primo la 194 introduceva l’aborto legale, la legge ora in discussione apre al testamento biologico.

C'era bisogno di questa legge sul finevita?

Non erano necessarie le DAT (Dichiarazioni Anticipate di Trattamento). Prima di tutto il nostro ordinamento ha un presidio molto forte in difesa della persona umana contro il pericolo di abbandono terapeutico e di eutanasia, in quanto sono puniti l’omicidio del consenziente e l’istigazione al suicidio. Inoltre in Italia il Codice di Deontologia Medica prevede che il personale sanitario debba evitare sia l’accanimento sia l’abbandono terapeutico. I difensori di questa legge sostengono che essa debba essere approvata per evitare altri casi Eluana Englaro(la ragazza in stato vegetativo lasciata morire di fame e di sete nel febbraio 2009 per la sospensione di idratazione e alimentazione). Come già detto però, essendo già tutelata la vita in questi casi, ed essendo in particolare vietata la sospensione di idratazione e nutrizione per i disabili (anche grazie alla Convenzione di Oviedo del 1997), la legge da ricercarsi doveva essere finalizzata al contrasto delle “sentenze creative” dei giudici, perché il problema è insorto proprio sul terreno giudiziario e là va risolto. Infatti la legge molto probabilmente non eviterà le sentenze creative, in quanto il testo della stessa contiene molte ambiguità ed è per questo soggetta a diversa interpretazione. Se invece si voleva a tutti i costi una legge sulla tutela del fine-vita, sarebbe bastato un unico articolo: “E' vietato sospendere la nutrizione e l'idratazione ai soggetti incapaci”. Invece nel testo arrivato alla Camera, il divieto di sospensione dell'idratazione e dell'alimentazione è solo uno specchio per le allodole, studiato ad arte per convincere i cattolici a credere che questa sia una legge buona e giusta. Purtroppo non è così: mettendo un paletto ne vengono scardinati molti altri.

Gli inganni delle DAT

 La legge, contenendo in sé la legittimazione del testamento biologico, mette in discussione l'indisponibilità della vita umana, principio cardine del diritto naturale, da sempre difeso dalla morale cattolica. Nell' art.3 infatti si stabilisce che con le DAT “il dichiarante esprime il proprio orientamento in merito ai trattamenti sanitari in previsione di un'eventuale futura perdita della propria capacità di intendere e di volere”(con cui si amplia la validità delle DAT non solo agli stati vegetativi, ma anche a malattie come la Sindrome di Alzheimer) e “dichiara il proprio orientamento circa l'attivazione o non attivazione di trattamenti sanitari”. Questo articolo, presentato come garanzia dell'autonomia decisionale, in realtà è esattamente il contrario. Legittimando le DAT si permette che ognuno possa decidere nel presente le terapie che intende rifiutare in un eventuale stato futuro di incapacità di intendere e di volere. Nel momento in cui le DAT verranno attuate, non si rispetterà l'autonomia decisionale attuale del paziente, ma ci si metterà a servizio di un'altra volontà, che era appartenuta a quella persona in un altro momento e in un altro contesto. Lo Stato Italiano, giustamente, ha sempre garantito il consenso informato per le terapie. Tuttavia quest'ultimo è un consenso attuale, attraverso cui il paziente acconsente nel presente all'attivazione contemporanea di un trattamento sanitario. Con le DAT invece si pretende di fare affidamento a ciò che uno ha scritto mesi, magari anni prima, in una situazione psicofisica forse completamente diversa. Ciò costituisce un'assurdità, in quanto la scienza conferma che la volontà è soggetta a frequenti cambiamenti. Spesso capita che nel tempo i pazienti cambino idea rispetto alle cure a cui vorrebbero o non vorrebbero essere sottoposti, ma negli stati di incoscienza essi sono impossibilitati a comunicarci l'eventuale mutamento di volontà.

Un grande interrogativo morale che sorge spontaneo è relativo allo stato in cui si redigono le dichiarazioni anticipate di trattamento.. Infatti coloro che le scrivono da sani, non essendo in punto di morte, non si rendono conto di ciò che stanno decidendo. Come confermano ricerche scientifiche, quando si sta per morire ci si sente più attaccati alla vita. L'eutanasia è la tentazione dei sani. E' emblematica la storia di Sylvie Ménard, allieva di Umberto Veronesi, in passato responsabile di un reparto dell'Istituto di tumori di Milano ed in prima linea nella battaglia per la legalizzazione dell'eutanasia. In seguito all'insorgere di un cancro, però cambiò del tutto la sua volontà :”Adesso che per me la morte non è più un concetto virtuale non ho nessuna voglia di andarmene(...). Anche se concluderò la mia vita in un letto con le ossa che rischiano di sbriciolarsi, io ora voglio vivere fino in fondo la mia esistenza”. Disse inoltre “Da sana l'avrei sottoscritto (Il testamento biologico, ndr), ora l'avrei voluto stracciare”. Immaginiamo che situazione terribile quella di chi non fosse più in grado di comunicare il cambiamento di volontà. Se al contrario le DAT vengono scritte quando il soggetto estensore è già affetto dalla patologia, si va parimenti incontro ad un'altra difficoltà, in quanto da malati si è fortemente condizionati dalla sofferenza e dalla paura e non si può scegliere lucidamente il proprio bene. Ezekiel Emanuel, bioeticista di Harvard, pubblicò sulla rivista Jama del 2000 le sue ricerche su 988 malati terminali. Di questi solo il 10% era inizialmente favorevole all'eutanasia per se stesso. Dopo qualche mese la metà di tale 10% aveva già cambiato idea e alla fine dell'indagine, solo uno dei 988 malati terminali era morto per suicidio assistito. E questo non era tra quelli che inizialmente desideravano l'eutanasia: ecco un altro che, seppure in negativo, aveva cambiato volontà . Per i sostenitori della legge ora in esame alla Camera, essa non sarebbe malvagia e le DAT non sarebbero equiparabili al testamento biologico, perché non sono vincolanti per il singolo medico .(art.7). Tuttavia la non vincolatività non è una garanzia dell'inviolabilità della vita: se il paziente si troverà di fronte un medico pro-choice, o peggio ancora un radicale, si può essere certi che questi non ci penserà due volte a mettere in atto le volontà di rifiuto delle terapie vitali espresse nelle DAT. L'implicazione sconvolgente di questa legge è che il medico che eseguirà le volontà di rifiuto delle terapie in base a un testamento biologico, agirà legittimamente per l'ordinamento generale! Per questo non potrà essere perseguibile penalmente, e sarà aperta la strada all'eutanasia passiva.

Vita e morte di inabili e minorenni dipenderanno da altri

Una ulteriore problematicità che presenta il Ddl Calabrò, che è un altro attacco all'autonomia del paziente, deriva dal fatto che il curatore può decidere per il disabile, i genitori per i figli minori, come riscontrabile dall'articolo 2. Si assegna a terze persone una decisione sulla vita e sulla morte del paziente che non può decidere da sé. Essi potranno rifiutare per l'assistito qualsiasi terapia, perchè secondo i commi 1,6,7 dell'art.2 (art.2, comma 7 “ Il consenso informato al trattamento sanitario del minore è espresso o rifiutato dagli esercenti la potestà parentale o la tutela”) ogni trattamento sanitario, anche le terapie salvavita, per essere attivate avranno bisogno dell'approvazione dei tutori di questi soggetti. Così viene annullata completamente la dignità del paziente inabile o minorenne, perché anche in assenza di un testamento biologico sarà del tutto in balìa delle volontà dei suoi tutori. *** Concludo con l'auspicio che il disegno di legge all'esame della Camera venga bocciato. Sarebbe lodevole una legge che tutelasse davvero la vita nel momento della sua fine, promuovendo le cure palliative e il sostegno alle famiglie dei malati, ma purtroppo non è questo il caso del Ddl Calabrò. E' necessario recuperare il rispetto della dignità della persona, che rimane tale anche in situazioni di così grande precarietà, quando non è più in grado né di intendere né di volere. Coloro che hanno a cuore la tutela della vita, e i cattolici in particolare, non cadano nell'inganno del finto pietismo e non facciano il gioco di una società che fa di tutto per abbandonare a se stessi e alla morte i malati, perché non vuole farsi carico dei più deboli. Torniamo a conferire dignità e valore al malato: nessuno se si sente amato e voluto chiede di morire.


Sceglie la vita la donna che si sente accolta di Raffaella Frullone, 15-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

«La donna che ha deciso di abortire cambia idea quando si sente accolta, quando conosce esattamente quello che sta per accadere e non si sente sola nell’affrontarlo». Così Paola Bonzi, responsabile del Centro di aiuto alla vita della clinica Mangiagalli di Milano commenta la legge approvata dal governo  Texano che stabilisce che le donne che scelgono di abortire debbano obbligatoriamente effettuare un’ecografia del bambino prima dell’interruzione di gravidanza.

La legge è stata promossa dal Governatore Repubblicano Rick Perry con il sostegno della maggioranza, in gran parte composta da pro life. «L’obiettivo – spiega Sid Miller, deputato dell’assemblea legislativa del Texas che ha contribuito alla stesura del testo -  è quello di assicurarsi che la donna prima dell’aborto abbia a disposizione tutte le informazioni disponibili, che comprenda le conseguenze mediche e psicologiche di quello che sta avvenendo e conosca tutti gli aspetti della procedura». L’ecografia dovrà essere effettuata tra le 24 e le 72 ore precedenti all’operazione, la donna potrà rifiutarsi di guardare le immagini o di ascoltare il battito del cuore ma le sarà comunque richiesto di ascoltare il medico spiegare quanto si evince dalla radiografia.

Dottoressa  Paola Bonzi, un’ecografia può contribuire a far cambiare idea rispetto ad una scelta come quella di abortire?
Certamente può contribuire, anche se deve comunque essere accompagnata da un colloquio. L’esperienza mi ha insegnato che per la madre è essenziale il contatto umano, il supporto morale, per accogliere deve sentirsi accolta, non deve sentirsi sola. La donna sa benissimo che quello che porta dentro è un bambino, lo sente e lo vive giorno per giorno, non occorre l’immagine dell’ecografia per avere una percezione della vita. Ecco perché io dico sì all’ecografia se è un passo nel cammino di consapevolezza della donna.

Il provvedimento ha riacceso il dibattito sulla libertà d’aborto nello stato del Texas. L’opposizione insieme ai pro choice denuncia non solo l’inutilità della legge, ma anche le terribili conseguenze psicologiche di quella che definisce una “violenta coercizione”…
Le conseguenze psicologiche più pesanti sono quelle dell’aborto, da quando lo si comincia a pensare, a quando lo si vive, al dopo, è un vero e proprio calvario. Eppure nemmeno l’averlo vissuto mette al riparo dal compierlo di nuovo. Ieri per esempio ho incontrato una donna che mi ha raccontato di quanto fosse stata per lei terribile un’esperienza d’aborto avvenuta sei anni fa. Piangeva, non riusciva a parlare, singhiozzava nel descrivere ogni singola fase dell’interruzione di gravidanza, dettaglio dopo dettaglio, fra le lacrime ha raccontato di quando ha sentito un tubo che aspirava il suo bambino “Avevo la pancia piena e improvvisamente mi sono sentita svuotata”, ha detto. Poi ha raccontato di quello che ha vissuto dopo, i traumi, le difficoltà, eppure è venuta qui perché stava pensando di abortire nuovamente. La ragione? Aveva paura di non riuscire a mantenere il bambino. Lei lavora in nero a 900 euro al mese, il marito ne guadagna la metà lavorando saltuariamente come lavapiatti, c’è l’affitto di 700 euro da pagare e una bimba di due anni da crescere. Ecco, questa donna si sentiva sola, non è bastato l’aver già vissuto la terribile esperienza dell’aborto per convincerla a non farlo di nuovo, non l’avrebbe convinta nemmeno una fredda ecografia. Certo se, come immagino accada anche in Texas, l’ecografia si accompagna ad un colloquio, allora sì che le cose possono davvero cambiare…

Come può un colloquio far cambiare idea su una cosa così importante, immagino che una donna abbia già occasione di parlare con le persone a lei vicine prima di arrivare al consultorio, cosa dite in più rispetto ad altri?
Il colloquio è un momento delicatissimo, non è una chiacchierata tra amici, ma nemmeno un freddo interrogatorio, ci vuole molto equilibrio e professionalità, bisogna lasciare spazio ai sentimenti della donna qualunque forma prendano, sia essa il silenzio, la rabbia o le lacrime. La donna ha bisogno di sentirsi amata e non giudicata, e questo è il primo passo, a questo si aggiunge l’offerta concreta di aiuto e supporto, il che implica anche un sostegno economico che noi ove possibile cerchiamo di garantire. E straordinariamente giorno per giorno ci rendiamo conto che funziona, che l’accoglienza è il primo ingrediente per generare accoglienza.


15/03/2011 - FRANCIA-ISLAM - Se i musulmani chiedono le chiese “vuote” dell'Europa… di Samir Khalil Samir - In Francia un’organizzazione islamica ha proposto alla Chiesa francese la possibilità di pregare nelle chiese non utilizzate. E se i cristiani in Egitto e Algeria chiedessero l’uso delle moschee la domenica? Se vuole evitare conflitti crescenti in Europa, l’islam deve diventare culturalmente e mentalmente occidentale.

Roma (AsiaNews) – Un gruppo musulmano ha chiesto di poter utilizzare le chiese vuote in Francia per farvi pregare i musulmani, risolvendo (a spese dei cristiani) i problemi del traffico causati dai fedeli islamici che pregano nelle strade. Sull'imbarazzante proposta ecco la riflessione di p. Samir Khalial Samir, esperto islamologo, che chiede all'islam in Europa di diventare più "europeo" e meno "arabo".

 Venerdì 11 marzo 2011, con una comunicato, il Collettivo « Banlieuses Respect » ha chiesto alle strutture responsabili dell’organizzazione della Chiesa di Francia “la messa a disposizione delle chiese vuote per le preghiere del venerdì” dei musulmani. Hassan Ben M.Barek, portavoce del Collettivo, ha dichiarato che questa misura permetterebbe “di evitare che i musulmani preghino per strada” e non siano “ostaggi dei politici”.

In effetti, da vari anni, ogni venerdì, a fianco delle dozzine di moschee francesi, i musulmani bloccano le strade circostanti per una o due ore, stendono tappeti e stuoie per terra, per pregare. In molti casi, le autorità locali chiudono gli occhi su questa infrazione, e in alcuni casi la polizia è là per garantire la sicurezza proprio di quelli che bloccano le strade. Questa situazione si allarga sempre di più in Francia (per  esempio a Lione, Marsiglia, Montpellier. Montreuil, Nizza, Parigi, Puteaux, Strasburgo, Torcy…). Una situazione che si ritrova in tutto il mondo (Atene,Bruxelles, Birmingham, Cordova, Mosca New York…) e anche in Italia (Albenga, Canicattì, Como, Gallarate, Milano, Modena, Moncalieri, Napoli, Roma…). Nel mondo musulmano questo fenomeno è ben presente, specialmente in Egitto. Il 10 dicembre,  a Lione, Marine Le Pen (Fronte Nazionale) aveva denunciato le “preghiere di strada” dei musulmani, il che ha comportato reazioni negative verso la comunità musulmana di Francia.

Farei tre osservazioni:

la prima sulla causa di questa richiesta, cioè la mancanza di spazio nelle moschee;
la seconda su una delle conseguenze di questa mancanza di posto, cioè il fatto di bloccare le strade  vicine alle moschee;
la terza sulla soluzione proposta per risolvere questo problema, cioè “la messa a disposizione delle chiese vuote per le preghiere del venerdì”.
Mancanza di spazio nelle moschee

Ci sono a Parigi circa 75 luoghi di culto musulmani, di cui si può trovare il dettaglio in ciascuno dei 20 arrondissements (http://mosquee.free.fr/Adresses/Ile_de_France/75_Paris/75_Paris.html). Moahmmed Moussaoui, presidente del Conseil francais du culte musulman (Cfcm) professore di matematica all’università di Avignone dal giugno 2008, in un intervento molto moderato e riflessivo fatto il 15 dicembre 2009 su Europe 1 (http://www.youtube.com/watch?v=qyyPIfuvo-o&feature=player_embedded) afferma che se si calcola il numero dei musulmani in Francia a cinque milioni (altri dicono quattro milioni) e supponendo che il 17% di essi vadano alla moschea il venerdì, ci sarebbero circa 850mila persone. Calcolando che per ogni persona ci vorrebbe un metro per due, sarebbe necessaria una capacità dei luoghi di culto musulmani di 850mila metri quadrati. Attualmente sono circa 250mila. Ci vorrebbe dunque tre volte in più di spazio nelle moschee. Le cifre sono evidentemente fluttuanti. E’ praticamente impossibile stimare il numero dei musulmani in Francia, dal momento che nessun documento francese indica la religione. Quanto alla proporzione dei praticanti, è ancora più difficile da valutare. D’altra parte, è inusuale che le donne musulmane vadano alla moschea per pregare; quelle che vogliono pregare lo fanno più volentieri a casa, il che riduce la superficie necessaria per i luoghi di culto.

Un anno più tardi in un’altra intervista dello stesso Mossaoui, datata 22 dicembre 2010, si può leggere: “uno studi sulla superficie cultuale musulmana afferma che 300mila metri quadrati sono attualmente disponibili in Francia. Ce ne vorrebbe il doppio, secondo il Cfcm. Oggi, 150 progetti sarebbero in corso di costruzione su tutto il territorio”. Il che costituisce “un innegabile recupero” per Massaoui.  (http://www.liberation.fr/societe/01012309460-prieres-de-rue-les-fideles-dans-l-impasse).

Anche supponendo che ci voglia il doppio dello spazio, sta alla comunità musulmana risolvere il problema. Lo Stato o la Chiesa non c’entrano. Lo stesso Mossaoui ha affermato, nell’intervista televisiva del dicembre 2009, che non è lo Stato francese che deve finanziare le moschee, ma i fedeli musulmani con l’aiuto di finanziamenti che vengono dall’estero. D’altronde, se non si vogliono alimentare le reazioni negative verso la comunità musulmana, bisognerebbe riconsiderare la pratica piuttosto generalizzata dei sindaci di concedere dei terreni in enfiteusi (il più sovente per un euro all’anno) per la costruzione delle moschee. L’ordinanza del 21 aprile 2006 ha permesso tali concessioni “in vista dell’attribuzione a un’associazione di culto di un edificio di culto aperto al pubblico”. In molti casi il tribunale amministrativo ha stimato che queste pratiche “sono assimilabili a una sovvenzione mascherata”, il che è contrario alla legge del 1905.

Bloccare le strade vicine alle moschee per pregare

Come abbiamo detto, questo uso è frequente nei Paesi musulmani. In effetti la crescita demografica, come anche un rinnovato fervore religioso, hanno fatto sì che le moschee e i luoghi di preghiera esistenti non siano più sufficienti a contenere tutti i fedeli il venerdì a mezzogiorno. Dato che ci si trova in Paesi musulmani e che la separazione fra religione e politica è praticamente inesistente, i fedeli hanno preso l’abitudine di occupare i marciapiedi e le strade vicine alle mosche,  di deviare il traffico.

Da una buona decina di anni questo fenomeno si sviluppa anche in Europa, anche se è perfettamente illegale, dal momento che la strada appartiene a tutti i passanti come agli automobilisti. Questa situazione è riconosciuta come totalmente inaccettabile da tutte le persone ragionevoli, indipendentemente dal principio di laicità. Lo diventa ancora di più se si tiene conto del fatto questa eccezioni non ha più nulla di eccezionale, dal momento che si ripete ogni venerdì.  E dal momento che non si applica che a una religione precisa, l’islam, l’impressione di molti è che si tratti di una “invasione” di territorio, di una specie di “conquista” del territorio nazionale da parte dei “musulmani”. Non ci sono motivi per giustificare queste occupazioni.

Al contrario, se un gruppo di cittadini (musulmani, cristiani o di altra religione) chiedesse in forma eccezionale l’occupazione di una strada per un tempo limitato, per una festa o una cerimonia, questo non poserebbe problemi. Mi sembra che la situazione attuale non faccia che rinforzare la reazione di islamofobia, e la giustifichi. E questo mi sembra un punto fondamentale. E’ diventato banale parlare, a torto e a ragione, di “islamofobia”. Ci possono essere certo delle motivazioni più o meno razziste, il che è totalmente inammissibile, anche se accade ovunque. Ma se delle persone, in nome del loro gruppo di appartenenza si comportano in maniera contraria alle leggi e alle norme, o semplicemente agli usi e ai costumi, queste persone sono responsabili della reazioni di rigetto che hanno provocato. Nella fattispecie, i musulmani sono in parte responsabili dell’islamofobia che tende ad allargarsi in tutta l’Europa. E sta ai musulmani stessi protestare contro coloro che prestano il fianco queste reazioni e educare i loro correligionari.

D’altronde, il fatto che il fenomeno della preghiera per strada sia nato e si mantenga soprattutto nei Paesi musulmani, significa che il problema non è proprio dell’occidente, ma dell’islam. Mi spiego: molti giustificano questo comportamento aberrante (l’occupazione di un luogo pubblico da parte di un certo gruppo) col fatto che non c’è posto per questo gruppo. Questo lascia capire che questo gruppo(in questo caso i musulmani) è maltrattato o discriminato. Non è così, perché nei musulmani la situazione è identica, e anche più diffusa. La spiegazione è che il “sistema della preghiera musulmana” non è stato ripensato per la città moderna. Se si applicasse questo sistema ai cristiani, per esempio, le strade sarebbero completamente bloccate. Se tutti i cristiani dovessero obbligatoriamente riunirsi domenica a mezzogiorno, è sicuro che nessuna chiesa potrebbe contenerli. Era questo anticamente un problema,  e lo è ancora per la Chiesa copta. Non c’è che una sola celebrazione della messa per chiesa, la domenica, che raccoglie tutta la comunità.

Da qui la necessità di costruire due luoghi di culto sovrapposti (nella Chiesa copta) o di accettare di avere un gran numero di messe per chiesa. Inoltre, durante il Concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica ha autorizzato di anticipare la messa domenicale al sabato sera, contrariamente a tutta la Tradizione, per permettere al più grande numero di fedeli di partecipare all’eucaristia. E’ un problema interno alla comunità, che, se è viva, deve trovare delle soluzioni  per adattarsi al mondo, e non chiedere al mondo di adattarsi a lei!

Infine, nelle decine di video che mostrano musulmani in preghiera per strada, che si possono vedere su Youtube, per esempio, non ho mai visto donne in preghiera. Delle due l’una: o è perché non è conveniente, e allora è altrettanto sconveniente per un uomo; o perché non è un obbligo, pregare venerdì nella moschea, e allora questo vale per tutti. A meno che non sia perché la preghiera pubblica è “una questione per uomini”, probabilmente perché ha, in questo caso, un aspetto “politico”.

Messa a disposizione delle chiese vuote per la preghiera del venerdì

La proposta del Collettivo dell’11 marzo scorso, che chiede alla Chiesa di Francia la “messa a disposizione delle chiese vuote per la preghiera del venerdì” dei musulmani, è sorprendente. Queste “chiese vuote” sono luoghi consacrati e non verrebbe in mente a un cristiano di utilizzarli per qualche cosa che non siano le funzioni sacre, o per la musica sacra – un’eccezione sempre possibile. Sarebbe impensabile di utilizzarle per celebrare un culto non cristiano.

D’altronde, una chiesa che servisse da moschea dovrebbe necessariamente essere ri-arredata per le necessità della preghiera musulmana. Bisognerebbe sopprimere molti elemento tipicamente cristiani e aggiungerne altri tipicamente musulmani. E soprattutto queste “chiese vuote” non sono destinate a restare vuote, ma al contrario a essere occupate non appena possibile da una comunità cristiana o da una comunità monastica, come accade sempre di più ovunque in Europa. Ora sembra difficile che un tale locale, una volta trasformato più o meno in moschea, possa essere “ripreso” e trasformato di nuovo in chiesa. Sarebbe allora un gran danno per la comunità musulmana e rischierebbe di creare molta amarezza e conflitti interreligiosi. I cristiani sarebbero allora accusati di essere islamofobi, revanscisti, irrispettosi della sensibilità musulmana, poco fraterni verso di loro, ecc.

Infine, per un istante immaginiamo il contrario. Se in un Paese musulmano (l’Egitto o l’Algeria, per esempio) i cristiani autoctoni (in Egitto) o emigrati (in Algeria) chiedessero ai musulmani di cedere loro una moschea, dal momento che ne hanno tante, o di prestarla per la domenica, o solamente per le grandi feste: Natale, l’Epifania, l’inizio di Quaresima, Pasqua, la Pentecoste e l’Assunzione, quale sarebbe la reazione dei musulmani?

Conclusione

In conclusione, mi sembra importante che si stabilisca in Francia e in Europa un nuovo rapporto fra la comunità musulmana e la popolazione europea, un rapporto basato sulla cooperazione, l’amicizia e la stima reciproca. Esistono dalle due parti delle frange estremiste, che bisogna aiutare a de-fanatizzarsi. I musulmani francesi rappresentano meno del 10% della popolazione; altrove in Europa la proporzione è minore. L’islam pone un problema all’Europa, dal momento che non è vissuto semplicemente come una religione, ma anche come una cultura che penetra in tutti i settori della vita quotidiana. Di conseguenza, ci può essere un conflitto di culture. L’Europa ha lavorato, per secoli, a separare religione e società, e tutto è segnato da una cultura cristiana secolarizzata.

Penso che la comunità musulmana debba fare uno sforzo serio per accettare che il fenomeno religioso resti, per quanto è possibile, un affare privato. Più l’islam andrà in questa direzione, meno opposizioni troverà. Il che non significa affatto essere meno musulmani, ma, ben al contrario, essere in maniera diversa, più interiore.

Chiedere alla Chiesa di mettere a disposizione dei musulmani le chiese attualmente non utilizzate è mettere la Chiesa cattolica in un grande imbarazzo, nel momento stesso in cui lo sforzo dei credenti è quello di ri-evangelizzare quelli che si sono allontanati dalla pratica cristiana. Chiedere allo Stato e alla popolazione delle sovvenzioni sotto la forma dell’enfiteusi, è mettere in imbarazzo lo Stato e la popolazione che vi vedrà necessariamente un sotterfugio. E’ meglio contare sulle proprie forze, e sulla solidarietà dei credenti musulmani (senza però che questo aiuto venuto dall’estero non sia sottoposto ad alcune condizioni).

Secondo il presidente del Cfcm ci sarebbero attualmente circa 150 luoghi di culto in costruzione. Bisogna insistere affinché le municipalità non pongano ostacoli ideologici alla costruzione delle moschee, se si adattano alle norme urbanistiche.  A mio parere, affinché i musulmani e l’islam non siano vissuti come un corpo estraneo, il grosso sforzo da fare è nella formazione di imam francesi, che siano perfettamente integrati nella cultura e nella mentalità francese, (o più largamente europea).

Fino a che l’islam sarà culturalmente “arabo”, finché i musulmani avranno il sentimento che per essere un vero musulmano bisogna riavvicinarsi alla cultura araba originaria, ci sarà malessere. Questa è, secondo me, la vocazione dei musulmani europei: creare un’interpretazione occidentale (francese, europea…) dell’islam, che armonizzi la fede e la spiritualità musulmane con la modernità occidentale, e cioè con la laicità e i diritti dell’uomo. Sono convinto che questo sia possibile, - ed è già in cammino – ma questo presuppone uno sforzo da parte di tutti per giungere a destinazione, e soprattutto il desiderio di volere un islam così concepito.

Infine, come suggerivo al punto 3, bisogna forse chiedersi come mantenere il principio della “preghiera di comunità” (salât al-jumu’ah) ripensandone però le modalità per tenere conto delle realtà pratiche e culturali. In altri termini, se c’è conflitto di interessi, bisogna prima di tutto cercare l’obiettivo voluto nella Legge (maqâsid al-shari’ah) piuttosto che nella lettera della shari’ah.


Un calcio all'Europac di Mario Mauro, mercoledì 16 marzo 2011, il sussidiario.net

Rischia di avere un effetto deflagrante sull’intero sistema di gestione dei diritti televisivi a livello comunitario la causa che vede la Premier League inglese opposta al gestore di un pub inglese, Karen Murphy.

La colpa di cui si è macchiata la donna è quella di aver trasmesso una partita del campionato di calcio inglese utilizzando un decoder e una tessera comprati in Grecia. La Media Protection Services Ltd. ha promosso un procedimento nei suoi confronti ottenendo, in due gradi di giudizio, l’irrogazione di una sanzione pecuniaria: tale scheda costituisce un dispositivo illecito ai sensi delle norme di trasposizione della direttiva 98/84/CE.

La Signora Murphy ha quindi presentato ricorso alla Corte di Giustizia europea. In attesa della sentenza, fa discutere non poco l’opinione dell’avvocato Generale della Corte, Juliane Kokott. Quello che ha fatto sobbalzare tutti gli addetti ai lavori del calcio europeo è stata la considerazione per cui il sistema della compartimentazione territoriale dei diritti televisivi violerebbe le principali norme di mercato interno Ue.
L’utilizzo di strumentazione greca sarebbe in fondo positiva per la libera concorrenza all’interno dell’Unione. Sebbene questa considerazione non sia del tutto priva di fondamento, non possiamo non ammettere come il sistema attuale consenta agli operatori di minori dimensioni e operanti in paesi più piccoli di non essere sovrastati dagli operatori con un più forte posizionamento competitivo.

In altre parole, oggi in ciascun Paese i cittadini usufruiscono di un’offerta televisiva molto ampia, comprendente anche i campionati stranieri, proprio perché i diritti su questi ultimi costano molto meno. L’eventuale stravolgimento di questa prassi, con un’applicazione ferrea dell’articolo 81 CE, equiparerebbe i costi delle partite in tutti i paesi. Questo difficilmente porterebbe dei benefici in termini di ricavi per le televisioni e le federazioni e di conseguenza ridurrebbe drasticamente l’offerta televisiva in tutto il territorio europeo.
Favorire la territorialità non è quindi solo un modo per far guadagnare di più agli operatori, ma permette soprattutto di offrire contenuti in modo più efficiente in funzione della domanda. Sembra potersi osservare, dunque, come la possibilità di concentrare gli sforzi commerciali in linea con il radicamento territoriale abbia consentito di porre le basi per un mercato audiovisivo europeo vario e pluralista.

Chi pronuncerà la sentenza non potrà fare a meno di considerare tutti questi fattori, ma non potrà nemmeno fare finta che il settore dello sport in Europa sia privo di distorsioni e discriminazioni. Se si invocano la concorrenza e il mercato unico lo si faccia a 360 gradi, partendo dalla gestione dei vivai, che insieme a tutti i campionati dilettantistici sarebbero notevolmente penalizzati in quanto costituiscono la componente più fragile e meno tutelata. Si provveda poi a mettere in atto una comune tassazione degli stipendi dei calciatori e si crei finalmente una legge europea per la gestione degli stadi da parte delle società.


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15/03/2011 – PAKISTAN - Cristiani pakistani si convertono all’islam dietro minacce e intimidazioni di Aoun Sahi*

Quest’anno il ritmo è di circa 60 al mese. In una sola madrassa di Lahore, 678 cristiani nel 2009 hanno abbracciato l'islam. Nel 2010 il numero è cresciuto sino a sfiorare quota 700. Attivisti cristiani: “giorni pericolosi” per le minoranze, le leggi sulla blasfemia usate per costringere al cambio di fede.


Lahore (AsiaNews/TNS) – In un assolato pomeriggio della seconda settimana di febbraio 2011, la 45enne Azra Bibi, avvolta da uno scialle nero, ha varcato con il figlio di 10 anni la soglia della Jamia Naeemia, una madrassa (scuola coranica, ndr) di ispirazione sunnita-barelvi, situata in un’area affollata di Lahore. Accompagnata dal testimone musulmano, il 45enne Chaudhry Muhammad Islam, Azra – che di recente si è convertita all’islam – insieme ai suoi sei figli ha chiesto dell’imam della Jamia. È venuta nella scuola coranica per ricevere i documenti che comprovano, in via legale, che non è più una cittadina di fede cristiana.

Il giovane operatore della Jamia Naeemia parla con il suo capo al telefono, apre un cassetto del tavolo mezzo ammaccato ed estrae un libro spesso circa sei centimetri, avvolto in un manto blu. Il ragazzo scorge una pagina vuota e inizia a trascrivere le sue generalità.

Il libro è un registro utilizzato per segnare i dati relativi alle conversioni all’islam. Un libro basta per inscrivere 100 casi di conversioni. Un mobiletto in legno nuovo di zecca, gremito di libri come questo, è utilizzato per riporre i registri. I responsabili della madrassa affermano che il numero di persone che si convertono da altre religioni all’islam – in particolare dal cristianesimo – sono in continua crescita. Almeno 50 o 60 cristiani abbracciano l’islam ogni mese, firmando un foglio bianco e verde all’interno del registro in cui dichiarano: di accettare l’islam senza bramosie o dietro pressioni; promettono di “rimanere fedeli all’islam per il resto della vita”; di cercare di vivere il resto del loro tempo seguendo i principi imposti dall’islam.

Raghib Naeemi, direttore della Jamia Naeemia, sottolinea che il suo istituto non possiede un ufficio per la preghiera del venerdì. “Tutti quelli che si convertono all’islam – racconta – vengono alla Jamia di loro spontanea volontà, accompagnati da alcuni musulmani della loro zona che fungono da testimoni. Per quanti aspirano alla conversione, abbiamo stabilito come prerequisito il fatto di dichiarare che abbracciano l’islam senza bramosia o costrizione”. Egli aggiunge che tutti i cristiani che si sono convertiti all’islam non lo fanno perché apprezzano questa nuova religione. “Alcuni di loro – spiega – si convertono all’islam perché vogliono mettere fine al loro matrimonio, aspetto non facile nella religione cristiana, oppure vogliono sposare un cugino, un ragazzo o una ragazza musulmana. Oltre il 90% dei neofiti sono analfabeti”.

Il registro della Jamia Naeemia mostra che 678 cristiani si sono convertiti all’islam nel 2009; la cifra ha raggiunto i 693 nel 2010, mentre quest’anno sono stati 95, finora, i cristiani che hanno abbracciato l’islam. La moschea di Badshahi è un altro istituto che emette certificati per quanti si convertono all’islam. Muhammad Yousuf, assistente del responsabile dei protocolli della moschea, afferma che sono molto rari i giorni in cui non vengono registrati casi di cambio di fede. “Alle volte sono dozzine le persone che vengono da noi in un giorno, per convertirsi all’islam. In assoluto, la maggioranza di questi – precisa – proviene dalla minoranza cristiana”.  

Peter Jacob, direttore esecutivo della Commissione nazionale di Giustizia e Pace (Ncjp) della Chiesa cattolica pakistana, non si mostra affatto sorpreso nel sapere che una parte dei tre milioni di cristiani pakistani, di questi tempi, ha deciso di abbracciare l’islam. “Sono giorni pericolosi e problematici per le minoranze religiose del Paese”, afferma il leader cristiano. “La gente non ha fiducia nella polizia o nel sistema giudiziario e il tipo di paura che si prova oggi non ha precedenti in passato”.

Per legge, in materia di fede non esistono vincoli alle conversioni. “Ma in Pakistan – continua l’attivista cattolico – è concessa la conversione all’islam sola andata; questo elemento può risultare fatale per le diversità religiose della nazione. E non sono solo i cristiani a essere impauriti. Tutte le minoranze sono sotto pressione”. Jacob ritiene che la sicurezza sia diventata la causa principale per cui i cristiani, emarginati e discriminati, si convertono all’islam. “Le leggi sulla blasfemia – conclude – sono anche sfruttate per esercitare pressioni affinché i cristiani si convertano all’islam”.

Il mese scorso Shahbaz Bhatti, il solo ministro dell’esecutivo appartenente ad una minoranza religiosa (cattolica, ndr) è stato assassinato a Islamabad. I talebani hanno rivendicato l’omicidio, affermando di aver “punito” il ministro perché ritenuto un blasfemo.

Azra Bibi – il cui marito è tuttora cristiano e vive separato da moglie e figli – spiega di essersi convertita all’islam solo perché la considera la religione più bella. “Mi sono trasferita in un sobborgo musulmano e ora è tutto fantastico. Mi sento più al sicuro”. Ogni giorno dopo pranzo, una donna del vicinato va a trovarli per insegnare alla donna e ai figli l’islam e le pratiche della fede.

Quel giorno nella madrassa, mentre Azra Bibi sistemava il suo documento in cui dichiarava di essere musulmana e di prepararsi a partire, una giovane coppia ha fatto il suo ingresso. Parvaiz Masih, un 23enne guidatore di risciò e la 22enne cugina Nasreen sembravano avere una gran fretta di convertirsi all’islam. Ma i funzionari della Jamia esitavano, perché la coppia non aveva i due musulmani come testimoni ad accompagnarli. “Mi piace l’islam e voglio convertirmi. Voglio essere chiamato Muhammad Parvaiz. Così sarò al sicuro adesso. Prenderò decisioni riguardanti la mia vita solo dopo la conversione all’islam”.

Il riferimento di Masih era al matrimonio con sua cugina, Nasreen – fuggita da casa per venire alla Jamia con lui. La ragazza era riluttante nel fornire spiegazioni sul perché intendesse convertirsi all’islam. “Mi piace l’islam” è tutto quanto ha detto.

Joseph Francis, direttore nazionale di Centre for Legal Aid Assistance and Settlement (Claas), ritiene che tutti questi siano casi di conversioni forzate. “I funzionari di Jamia Naeemia o della moschea di Badshahi non approfondiscono le ragioni in base alle quali la gente si converte all’islam. Abbiamo anche scoperto che in molti casi giovani donne cristiane sono sequestrate e date in spose a uomini musulmani. Sono costrette a cambiare la religione e non vi sono mezzi per ottenere il cambio, perché una volta dichiarate musulmane non vi è possibilità di ritorno al cristianesimo”. L’attivista cristiano afferma che la sua organizzazione ha ricevuto almeno sette di questi casi nel 2008, quattro nel 2009 e sei nel 2010.

Il preambolo alla Costituzione del Pakistan garantisce adeguate misure a favore delle minoranze, perché possano professare e praticare liberamente la loro religione e sviluppare la loro cultura. L’Enforcement of Shariah Act 1991, promulgato il 18 giugno 1991, stabiliva che la legge islamica, la shariah, avesse il predominio su tutte le leggi terrene. Ma alla Clausola 4 della Sezione 1, viene stabilito che “Nulla di quanto è contenuto in questa Legge dovrà colpire le garanzie personali, la libertà religiosa, le tradizioni, i costumi e il modo di vivere dei non musulmani”.

Tuttavia, la situazione pratica è di gran lunga diversa. Per esempio Tahir Iqbal, musulmano convertito al cristianesimo, è stato accusato di blasfemia a Lahore nel 1990. L’allora giudice del tribunale cittadino ha respinto l’istanza di rilascio su cauzione, presentata il 7 luglio 1991 e ha emesso la seguente sentenza: “Il difensore incaricato dal richiedente ha ammesso alla mia presenza che il firmatario [della petizione] si è convertito al cristianesimo. Con questa ammissione del rappresentante legale del firmatario non vi è alcuna necessità di verificare ulteriormente le accuse. Dal momento che la conversione in sé rappresenta un reato dalle conseguenze molto gravi, non ritengo che il firmatario possa essere rilasciato su cauzione in questa fase”. È interessante sapere che non esistono leggi in Pakistan, che considerano reato la conversione dall’islam ad un’altra religione.

Gli attivisti per i diritti umani affermano che non esiste un modo per capire se i cristiani che si sono convertiti all’islam, lo hanno fatto per libera scelta o dietro pressioni. “Riceviamo molti casi all’anno, di ragazze cristiane rapite e costrette a sposare uomini musulmani” spiega a TNS I.A. Rehman, direttore della Commissione per i diritti umani in Pakistan. “Di questi tempi, i problemi legati alla sicurezza sono uno dei motivi che spingono le minoranze a convertirsi all’islam. Abbiamo registrato casi nei quali le persone perdevano il lavoro a causa della fede, era negata l’ammissione alle università o alle scuole inferiori, infine vi sono tabù a livello sociale che sfociano in discriminazione. Tutti questi fattori possono spingere a cambiare la fede”.

* Aoun Sahi è un giornalista musulmano pakistano di The News International.


Avvenire.it, 16 marzo 2011 - Dire sì alla legge sulle Dat - Certi di poche grandi cose di Roberto Colombo

Quando il dibattito pubblico tocca le questioni fondamentali della vita e della morte umana è inutile trincerarsi dietro schieramenti culturali, politici o religiosi per non essere coinvolti nella mischia e batterci per ciò che portiamo nella ragione e nel cuore. E neppure affidare ad allusioni o frasi fatte quel giudizio che ognuno coltiva dentro di sé e ci vogliono strappare dai denti sul treno o al lavoro, davanti a un caffè, o usciti dalla chiesa, la domenica mattina. La realtà della vita e della morte è sempre 'nostra', anche quella degli 'altri', sempre drammatica (è meglio così, altrimenti sarebbe una tragedia), e non la si può scansare a buon prezzo: sta lì, dentro di noi e dinanzi ai nostri occhi. Ci provoca, scuotendoci dal torpore della coscienza e dall’oscurità dell’intelligenza come null’altro. Sarebbe da vigliacchi – mi si passi il termine – fare come il sacerdote e il levita che sulla strada verso Gerico s’imbatterono nell’uomo ferito dai briganti e passarono oltre, voltando la faccia. Non furono i dottori della legge e i predicatori della città a salvarlo dalla morte, ma un quisque de populo, un uomo semplice della provincia, la Samarìa, dal cuore e dalla ragione spalancati sulla realtà della vita, propria e altrui.

Alcuni giorni fa Avvenire ha pubblicato l’appello al Parlamento di un gruppo di intellettuali che chiedono di non rinviare una decisione che riguarda tutti i cittadini: la regolamentazione delle dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario. Non è il manifesto di un circolo di specialisti. Gli 'addetti ai lavori' sono stati utili per chiarire i termini del problema e prospettare ipotesi di soluzione. Adesso è tempo che ciascun cittadino prenda posizione e si faccia sentire. Per questo serve essere certi di poche, grandi cose. Quelle che contano davvero nella vita e nella morte. Quelle che nessuna testata giornalistica o coalizione politica potrà mai cancellare dalla realtà e dalla ragione, perché la prima si ribellerebbe e la seconda si sentirebbe tradita.

Quando queste evidenze ed esigenze elementari sono oscurate da convenienze utilitaristiche, che negano i diritti fondamentali dei soggetti più deboli e fragili, o vengono calpestate da un esercizio arbitrario del potere giudiziario in ordine alla loro vita e alla loro morte, una legge non è solo utile, ma necessaria per il bene comune. Per quanto imperfetta possa essere, è necessaria perché ognuno (ancora sano o già malato, paziente o medico, parente o giudice), paragonandosi con quanto prescrive, non decida prima di aver preso in considerazione alcuni fattori della realtà che la legge richiama, trascurando i quali è impossibile decidere secondo retta ragione.

La prima cosa è che nessuno è padrone della vita dell’uomo. La vita è un bene indisponibile: non può essere oggetto di contrattazione tra il cittadino e chi è chiamato a prendersi cura di lui. Ogni terapia esige il consenso informato del paziente, ma il rapporto tra malato e medico non può prevedere che quest’ultimo ne provochi intenzionalmente la morte, sia pure su richiesta del paziente stesso.

La seconda cosa è che vi sono malattie inguaribili, ma non malattie incurabili. Anche quando ogni terapia risulta inefficace o arreca al paziente più malessere che benefici (ed è ragionevole sospenderla), resta ancora aperto il campo delle cure della persona, privandola delle quali la sua sofferenza crescerebbe, sino a condannarla a morte certa. Le forme più elementari del prendersi cura comprendono l’idratazione e l’alimentazione: sospenderle quando sono ancora efficaci nel nutrire il malato è un atto di abbandono della persona, contrario allo scopo della medicina e nemico del bene fondamentale e comune della vita. Infine – lo ha recentemente ricordato anche il cardinale Bagnasco – quella sulla sospensione dei trattamenti sanitari non è una battaglia teologica ma una questione 'laica', di buon senso e di ragionevolezza nel modo di concepire e praticare la cura di ciascuno di noi, quando è ammalato.

Tutto qui: poche, grandi cose di sempre. Se fossero ricordate e rispettate da tutti, una legge sarebbe inutile o perfino dannosa. Ma così non è, e non ce ne si può lavare le mani.


Avvenire.it, 16 marzo 2011, BIOETICA E POLITICA, «Fine vita, quella legge subito altrimenti l'eutanasia» di Pino Ciociola

E se neanche questa dovesse andare bene, «che facciano una bella leggina sull’eutanasia, così siamo a posto». Giuliano Dolce, neurologo all’Istituto Sant’Anna di Crotone, massimo esperto italiano (e fra i massimi al mondo) di stati vegetativi, ha i capelli bianchi ma non certo peli sulla lingua. Un certo andazzo italiano sul fine vita non gli piace, e ancora meno gli piacciono le illegalità: «Io, come medico, non posso compiere alcun atto che porti a morte il malato. Nemmeno se lo vuole lui stesso. Allora se ne vada a casa sua e si metta sotto un albero ad aspettare di morire». Chiaro e tondo, insomma.
Professor Dolce, lei che dice, questa legge è necessaria?
Ma sì. Sebbene già adesso se uno non vuole essere curato, non lo si cura.
Com’è per altro già accaduto.
Vede, se un mio malato mi dice «non voglio essere curato» e mi firma una carta, io non lo posso curare, né lo curo.
Fin qui ci siamo. Se però una persona finisce in stato vegetativo e aveva lasciato scritto di non volere alcuna cura, fra queste rientrano anche il nutrimento e l’idratazione oppure no?
Intanto sarebbe omicidio bello e buono, perché se a quella persona non dò l’acqua so che entro dieci o quindici giorni muore. E guardi, questo arrivo a dirle che mi potrebbe anche stare bene, peccato che non sia proprio possibile.
Perché?
Un testamento, proprio in quanto tale, deve essere possibile cambiarlo quando si vuole, anche un minuto prima di morire! E mi creda, chiunque può aver lasciato scritto tutto quel che vuole, ma nel momento in cui resta senza bere un giorno, alla prima bottiglia che trova si attacca e manda tutto giù d’un sorso! Però, in stato vegetativo, non può farlo. Né può cambiare il suo testamento.
Il ragionamento sembra non fare una piega...
Pensi, poi, che neanche questa è la questione primaria.
E quale sarebbe invece?
Scientificamente, oggi è dimostrato che chi è in stato vegetativo prova dolore. Glielo ripeto: scientificamente.
Questo è problema enorme per chi suggerisce la “dolce morte”, non crede?
Enorme, sì. La mancanza di acqua determina una sindrome di disidratazione gravissima, con dolori immensi, fa spaccare le mucose e fa morire dopo dieci o quindici giorni di dolori atroci.
Cioè una fine che non pare esattamente “dolce”...
Io, cittadino di un Paese civile, nel 2011, non posso lasciare morire un disabile di dolore. Sono, e devo essere, obbligato a dargli l’acqua: qualunque legge ci sia. A meno che non vogliamo essere accusati d’aver esercitato una tortura.
Però, professor Dolce, se qualcuno volesse prendersi il rischio di morire comunque in quel modo?
Mi dia retta: nessuno potrebbe volerlo se prima avesse provato cos’è morire di sete e fame. Nessuno lo lascerebbe scritto, a cominciare da chi lo aveva pure fatto.
Eppure c’è chi vuole avvenga addirittura con la “benedizione” del medico.
Beh, io medico, che fino a quel momento ho curato quella persona, se le sospendo l’acqua, compio con assoluta consapevolezza un atto che la porterà a morte. Quindi devo essere buttato fuori dall’ordine dei medici.
Tuttavia qualcuno lo ha già tranquillamente fatto e nessuno lo ha perseguito. Anzi.
Infatti è stata una porcheria e un reato. Che non autorizza uno Stato che si dice civile a fare altre porcherie.
Torniamo alla legge: le volontà eventualmente espresse dal paziente – si legge nel testo attualmente all’esame parlamentare – «sono prese in considerazione dal medico curante che, sentito il fiduciario, annota nella cartella clinica le motivazioni per le quali ritiene di seguirle o meno». Che ne pensa?
Devo darle sempre la stessa risposta: se compio un atto che causi la morte del paziente commetto un reato. Punto. Se questo non piace, allora si abbia il coraggio di cambiarlo. E magari si stabilisca pure che è possibile far morire di dolori terribili.
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