giovedì 3 marzo 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    CATECHESI DI BENEDETTO XVI SU SAN FRANCESCO DI SALES - In occasione dell'Udienza generale del mercoledì
2)    San Francesco di Sales e i veri cattolici adulti di Massimo Introvigne, 02-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3)    Nessuno tocchi la vita, vale più di un Van Gogh di Tommaso Scandroglio, 02-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
4)    «Bhatti è morto da martire Anche il governo è responsabile» di Riccardo Cascioli, 02-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
5)    “La Parola di Dio ci chiama e ci coinvolge”. Il Patriarca su “Verbum Domini” - Scritto il 02 marzo 2011.
6)    In anteprima alcuni brani del libro del Papa - Ecce homo  (©L'Osservatore Romano - 3 marzo 2011)
7)    Caso Yara, l'orco é il male che si annida nell'uomo e dentro di noi. Banale dare visioni diverse da quelle del parroco. Sconcertante mancanza di informazione di Bruno Volpe, da http://www.pontifex.roma.it
8)    Presentato al Senato il libro del medico e rianimatore Alberto Zangrillo, 2 marzo, 2011, www.uccronline.it
9)    La "fabbrica" dei figli e le sue conseguenze di Andrea Tornielli, 03-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
10)                      Roccella: «Dobbiamo fermare chi vuole l'eutanasia» di Danilo Quinto, 03-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
11)                      Carlo Casini: «Legge buona, impedisce l'eutanasia» di Marco Respinti, 03-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
12)                      Isimbaldi: «Serve una nuova cultura medica» di Raffaella Frullone, 03-03-2011, http://labussolaquotidiana.it
13)                      Bhatti, ucciso perché cristiano di Mario Mauro, giovedì 3 marzo 2011, il sussidiario.net
14)                      PAPA/ Con "Gesù di Nazareth" Benedetto XVI difende la fede del popolo di Dio di Massimo Camisasca, giovedì 3 marzo 2011, il sussidiario.net
15)                      Avvenire.it, 3 marzo 2011, Il libro del Papa/2 - Quell’impossibilità di credere al perdono - Nell’ora di Giuda
16)                      Avvenire.it, 3 marzo 2011 – CINEMA - Hopkins esorcista in un film quasi vero di Luca Pellegrini
17)                      «Ho visto la morte E ho cambiato idea» - La toccante testimonianza del deputato medico catanese: «Mi volevano staccare la spina» - Avvenire, 3 marzo 2011
18)                      Non restiamo in balìa delle sentenze - Il neurologo: «Occorre una legge capace di riaffermare che la vita non va delegata. Dall’esito della discussione dipende lo statuto della professione medica, che non può accettare l’abbandono terapeutico» - Avvenire, 3 marzo 2011
19)                      «Il sondino non è una terapia. Venite a vedere» - Rom Houben, il giovane belga risvegliato dallo stato vegetativo - «Idratazione e nutrizione non sono terapie Si dovrebbero vergognare quelli che sostengono il contrario». Per i parenti di persone in stato vegetativo occorre «garantire la dignità della vita» poiché «una delle peggiori torture è morire di sete» «Non usiamo chissà quali macchinari per alimentarli», spiega un genitore, «ma un mezzo che porta nel loro stomaco acqua e cibo» di Graziella Melina - parlano le famiglie – Avvenire, 3 marzo 2011
20)                      «Dat», perché queste regole: dieci dubbi e dieci risposte - In questi giorni si sono moltiplicate le prese di posizione di diver­so orientamento sul disegno di legge che introduce le Dichiara­zioni anticipate di tratta­mento. Idee e obiezioni che hanno fatto af­fiorare un gran numero di domande. Eccone dieci – con altrettante risposte – riassuntive di quelle più ricorrenti. - i nodi - Una legge è davvero necessaria? E perché le Dat non devono essere vincolanti? È giusto impedire a chi soffre di terminare la propria vita, se lo desidera? Il dibattito attorno alla norma sul fine vita ha aperto molti interrogativi Che meritano risposte chiare di Alberto Gambino
21)                      Il Catechismo? Difende il malato - Citato spesso in modo parziale, il testo che raccoglie il magistero della Chiesa rigetta ogni forma di accanimento terapeutico ma anche le procedure che «vogliono procurare la morte» - argomenti - di Michele Aramini, Avvenire, 3 marzo 2011
22)                      Caro ateo, non cedere ai nuovi idoli... - verso il Cortile/6 - Il filosofo convertito Fabrice Hadjadj: «I laicisti militanti come Onfray non sono affatto senza Dio: lo chiamano solo in un altro modo» - «Il dialogo con i non credenti è possibile sulla base di una comune apertura all’'avventura' del divino. - Il nostro compito è quello di non banalizzare la fede» - di Lorenzo Fazzini, Avvenire, 3 marzo 2011

CATECHESI DI BENEDETTO XVI SU SAN FRANCESCO DI SALES - In occasione dell'Udienza generale del mercoledì

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 2 marzo 2011 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito la meditazione sulla figura di san Francesco di Sales, Vescovo di Ginevra e Dottore della Chiesa (1567-1622), tenuta questo mercoledì da Papa Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale nell'Aula Paolo VI.

* * *
Cari fratelli e sorelle,
"Dieu est le Dieu du coeur humain" [Dio è il Dio del cuore umano] (Trattato dell’Amore di Dio, I, XV): in queste parole apparentemente semplici cogliamo l’impronta della spiritualità di un grande maestro, del quale vorrei parlarvi oggi, san Francesco di Sales, Vescovo e Dottore della Chiesa. Nato nel 1567 in una regione francese di frontiera, era figlio del Signore di Boisy, antica e nobile famiglia di Savoia. Vissuto a cavallo tra due secoli, il Cinquecento e il Seicento, raccolse in sé il meglio degli insegnamenti e delle conquiste culturali del secolo che finiva, riconciliando l’eredità dell’umanesimo con la spinta verso l’assoluto propria delle correnti mistiche. La sua formazione fu molto accurata; a Parigi fece gli studi superiori, dedicandosi anche alla teologia, e all’Università di Padova quelli di giurisprudenza, come desiderava il padre, conclusi in modo brillante, con la laurea in utroque iure, diritto canonico e diritto civile. Nella sua armoniosa giovinezza, riflettendo sul pensiero di sant’Agostino e di san Tommaso d’Aquino, ebbe una crisi profonda che lo indusse a interrogarsi sulla propria salvezza eterna e sulla predestinazione di Dio nei suoi riguardi, soffrendo come vero dramma spirituale le principali questioni teologiche del suo tempo. Pregava intensamente, ma il dubbio lo tormentò in modo così forte che per alcune settimane non riuscì quasi del tutto a mangiare e dormire. Al culmine della prova, si recò nella chiesa dei Domenicani a Parigi, aprì il suo cuore e pregò così: "Qualsiasi cosa accada, Signore, tu che tieni tutto nella tua mano, e le cui vie sono giustizia e verità; qualunque cosa tu abbia stabilito a mio riguardo …; tu che sei sempre giusto giudice e Padre misericordioso, io ti amerò, Signore […], ti amerò qui, o mio Dio, e spererò sempre nella tua misericordia, e sempre ripeterò la tua lode… O Signore Gesù, tu sarai sempre la mia speranza e la mia salvezza nella terra dei viventi" (I Proc. Canon., vol I, art 4). Il ventenne Francesco trovò la pace nella realtà radicale e liberante dell’amore di Dio: amarlo senza nulla chiedere in cambio e confidare nell’amore divino; non chiedere più che cosa farà Dio con me: io lo amo semplicemente, indipendentemente da quanto mi dà o non mi dà. Così trovò la pace, e la questione della predestinazione - sulla quale si discuteva in quel tempo – era risolta, perché egli non cercava più di quanto poteva avere da Dio; lo amava semplicemente, si abbandonava alla Sua bontà. E questo sarà il segreto della sua vita, che trasparirà nella sua opera principale: il Trattato dell’amore di Dio.
Vincendo le resistenze del padre, Francesco seguì la chiamata del Signore e, il 18 dicembre 1593, fu ordinato sacerdote. Nel 1602 divenne Vescovo di Ginevra, in un periodo in cui la città era roccaforte del Calvinismo, tanto che la sede vescovile si trovava "in esilio" ad Annecy. Pastore di una diocesi povera e tormentata, in un paesaggio di montagna di cui conosceva bene tanto la durezza quanto la bellezza, egli scrive: "[Dio] l’ho incontrato pieno di dolcezza e soavità fra le nostre più alte e aspre montagne, ove molte anime semplici lo amavano e adoravano in tutta verità e sincerità; e caprioli e camosci correvano qua e là tra i ghiacci spaventosi per annunciare le sue lodi" (Lettera alla Madre di Chantal, ottobre 1606, in Oeuvres, éd. Mackey, t. XIII, p. 223). E tuttavia l’influsso della sua vita e del suo insegnamento sull’Europa dell’epoca e dei secoli successivi appare immenso. E’ apostolo, predicatore, scrittore, uomo d’azione e di preghiera; impegnato a realizzare gli ideali del Concilio di Trento; coinvolto nella controversia e nel dialogo con i protestanti, sperimentando sempre più, al di là del necessario confronto teologico, l’efficacia della relazione personale e della carità; incaricato di missioni diplomatiche a livello europeo, e di compiti sociali di mediazione e di riconciliazione. Ma soprattutto san Francesco di Sales è guida di anime: dall’incontro con una giovane donna, la signora di Charmoisy, trarrà spunto per scrivere uno dei libri più letti nell’età moderna, l’Introduzione alla vita devota; dalla sua profonda comunione spirituale con una personalità d’eccezione, santa Giovanna Francesca di Chantal, nascerà una nuova famiglia religiosa, l’Ordine della Visitazione, caratterizzato – come volle il Santo – da una consacrazione totale a Dio vissuta nella semplicità e umiltà, nel fare straordinariamente bene le cose ordinarie: "… voglio che le mie Figlie – egli scrive – non abbiano altro ideale che quello di glorificare [Nostro Signore] con la loro umiltà" (Lettera a mons. de Marquemond, giugno 1615). Muore nel 1622, a cinquantacinque anni, dopo un’esistenza segnata dalla durezza dei tempi e dalla fatica apostolica.
Quella di san Francesco di Sales è stata una vita relativamente breve, ma vissuta con grande intensità. Dalla figura di questo Santo emana un’impressione di rara pienezza, dimostrata nella serenità della sua ricerca intellettuale, ma anche nella ricchezza dei suoi affetti, nella "dolcezza" dei suoi insegnamenti che hanno avuto un grande influsso sulla coscienza cristiana. Della parola "umanità" egli ha incarnato diverse accezioni che, oggi come ieri, questo termine può assumere: cultura e cortesia, libertà e tenerezza, nobiltà e solidarietà. Nell’aspetto aveva qualcosa della maestà del paesaggio in cui è vissuto, conservandone anche la semplicità e la naturalezza. Le antiche parole e le immagini in cui si esprimeva suonano inaspettatamente, anche all’orecchio dell’uomo d’oggi, come una lingua nativa e familiare.
A Filotea, l’ideale destinataria della sua Introduzione alla vita devota (1607), Francesco di Sales rivolge un invito che poté apparire, all’epoca, rivoluzionario. E’ l’invito a essere completamente di Dio, vivendo in pienezza la presenza nel mondo e i compiti del proprio stato. "La mia intenzione è di istruire quelli che vivono nelle città, nello stato coniugale, a corte […]" (Prefazione alla Introduzione alla vita devota). Il Documento con cui Papa Leone XIII, più di due secoli dopo, lo proclamerà Dottore della Chiesa insisterà su questo allargamento della chiamata alla perfezione, alla santità. Vi è scritto: "[la vera pietà] è penetrata fino al trono dei re, nella tenda dei capi degli eserciti, nel pretorio dei giudici, negli uffici, nelle botteghe e addirittura nelle capanne dei pastori […]" (Breve Dives in misericordia, 16 novembre 1877). Nasceva così quell’appello ai laici, quella cura per la consacrazione delle cose temporali e per la santificazione del quotidiano su cui insisteranno il Concilio Vaticano II e la spiritualità del nostro tempo. Si manifestava l’ideale di un’umanità riconciliata, nella sintonia fra azione nel mondo e preghiera, fra condizione secolare e ricerca di perfezione, con l’aiuto della Grazia di Dio che permea l’umano e, senza distruggerlo, lo purifica, innalzandolo alle altezze divine. A Teotimo, il cristiano adulto, spiritualmente maturo, al quale indirizza alcuni anni dopo il suo Trattato dell’amore di Dio (1616), san Francesco di Sales offre una lezione più complessa. Essa suppone, all’inizio, una precisa visione dell’essere umano, un’antropologia: la "ragione" dell’uomo, anzi l’"anima ragionevole", vi è vista come un’architettura armonica, un tempio, articolato in più spazi, intorno ad un centro, che egli chiama, insieme con i grandi mistici, "cima", "punta" dello spirito, o "fondo" dell’anima. E’ il punto in cui la ragione, percorsi tutti i suoi gradi, "chiude gli occhi" e la conoscenza diventa tutt’uno con l’amore (cfr libro I, cap. XII). Che l’amore, nella sua dimensione teologale, divina, sia la ragion d’essere di tutte le cose, in una scala ascendente che non sembra conoscere fratture e abissi, san Francesco di Sales lo ha riassunto in una celebre frase: "L’uomo è la perfezione dell’universo; lo spirito è la perfezione dell’uomo; l’amore è quella dello spirito, e la carità quella dell’amore" (ibid., libro X, cap. I).
In una stagione di intensa fioritura mistica, il Trattato dell’amore di Dio è una vera e propria summa, e insieme un’affascinante opera letteraria. La sua descrizione dell’itinerario verso Dio parte dal riconoscimento della "naturale inclinazione" (ibid., libro I, cap. XVI), iscritta nel cuore dell’uomo pur peccatore, ad amare Dio sopra ogni cosa. Secondo il modello della Sacra Scrittura, san Francesco di Sales parla dell’unione fra Dio e l’uomo sviluppando tutta una serie di immagini di relazione interpersonale. Il suo Dio è padre e signore, sposo e amico, ha caratteristiche materne e di nutrice, è il sole di cui persino la notte è misteriosa rivelazione. Un tale Dio trae a sé l’uomo con vincoli di amore, cioè di vera libertà: "poiché l’amore non ha forzati né schiavi, ma riduce ogni cosa sotto la propria obbedienza con una forza così deliziosa che, se nulla è forte come l’amore, nulla è amabile come la sua forza" (ibid., libro I, cap. VI). Troviamo nel trattato del nostro Santo una meditazione profonda sulla volontà umana e la descrizione del suo fluire, passare, morire, per vivere (cfr ibid., libro IX, cap. XIII) nel completo abbandono non solo alla volontà di Dio, ma a ciò che a Lui piace, al suo "bon plaisir", al suo beneplacito (cfr ibid., libro IX, cap. I). All’apice dell’unione con Dio, oltre i rapimenti dell’estasi contemplativa, si colloca quel rifluire di carità concreta, che si fa attenta a tutti i bisogni degli altri e che egli chiama "estasi della vita e delle opere" (ibid., libro VII, cap. VI).
Si avverte bene, leggendo il libro sull’amore di Dio e ancor più le tante lettere di direzione e di amicizia spirituale, quale conoscitore del cuore umano sia stato san Francesco di Sales. A santa Giovanna di Chantal, a cui scrive: "[…] Ecco la regola della nostra obbedienza che vi scrivo a caratteri grandi: FARE TUTTO PER AMORE, NIENTE PER FORZA - AMAR PIÙ L’OBBEDIENZA CHE TEMERE LA DISOBBEDIENZA. Vi lascio lo spirito di libertà, non già quello che esclude l’obbedienza, ché questa è la libertà del mondo; ma quello che esclude la violenza, l’ansia e lo scrupolo" (Lettera del 14 ottobre 1604). Non per niente, all’origine di molte vie della pedagogia e della spiritualità del nostro tempo ritroviamo proprio la traccia di questo maestro, senza il quale non vi sarebbero stati san Giovanni Bosco né l’eroica "piccola via" di santa Teresa di Lisieux.
Cari fratelli e sorelle, in una stagione come la nostra che cerca la libertà, anche con violenza e inquietudine, non deve sfuggire l’attualità di questo grande maestro di spiritualità e di pace, che consegna ai suoi discepoli lo "spirito di libertà", quella vera, al culmine di un insegnamento affascinante e completo sulla realtà dell’amore. San Francesco di Sales è un testimone esemplare dell’umanesimo cristiano; con il suo stile familiare, con parabole che hanno talora il colpo d’ala della poesia, ricorda che l’uomo porta iscritta nel profondo di sé la nostalgia di Dio e che solo in Lui trova la vera gioia e la sua realizzazione più piena.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le religiose Figlie di San Camillo, che in questo anno ricordano il centenario di morte della loro fondatrice, la Beata Giuseppina Vannini, e le esorto a servire con rinnovata generosità il Vangelo della vita, seguendo Cristo Buon Samaritano. Saluto i fedeli della parrocchia di Maria Ausiliatrice, in Massa Quercioli, e il gruppo delle Fraternità Francescane Secolari, di Scandiano e Pavullo nel Frignano. Saluto altresì gli allevatori sardi, accompagnati dall’Arcivescovo di Sassari, Mons. Paolo Atzei. A tutti assicuro la mia preghiera perché si rafforzi in ciascuno il desiderio di testimoniare Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo.
Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Cari giovani, preparatevi ad affrontare le importanti tappe della vita con impegno spirituale, edificando ogni vostro progetto sulle solide basi della fedeltà a Dio. Cari malati, siate sempre consapevoli che contribuite in modo misterioso alla costruzione del Regno di Dio, offrendo le vostre sofferenze al Padre celeste in unione a quelle di Cristo. E voi, cari sposi novelli, sappiate quotidianamente edificare la vostra famiglia nell'ascolto di Dio, nel fedele reciproco amore e nell'accoglienza dei più bisognosi.
[© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana]


San Francesco di Sales e i veri cattolici adulti di Massimo Introvigne, 02-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Nelle sue catechesi del mercoledì sui santi, Benedetto XVI è passato il 2 marzo dal Cinquecento al Seicento presentandoci una figura vissuta a cavallo fra i due secoli, san Francesco di Sales (1567-1622). Il Papa ha riassunto la  spiritualità del grande dottore della Chiesa in una sua celebre espressione: «“Dieu est le Dieu du coeur humain” [Dio è il Dio del cuore umano] (Trattato dell’Amore di Dio, I, XV)», parole - ha  detto - solo «apparentemente semplici».

Nato nel 1567 in una nobile famiglia del Ducato di Savoia, compì studi accademici brillanti a Padova e a Parigi. «Nella sua armoniosa giovinezza - ha ricordato il Papa, attirando l'attenzione su un episodio particolare -, riflettendo sul pensiero di sant’Agostino [354-430] e di san Tommaso d’Aquino [1225-1274] ebbe una crisi profonda che lo indusse a interrogarsi sulla propria salvezza eterna e sulla predestinazione di Dio nei suoi riguardi, soffrendo come vero dramma spirituale le principali questioni teologiche del suo tempo. Pregava intensamente, ma il dubbio lo tormentò in modo così forte che per alcune settimane non riuscì quasi del tutto a mangiare e dormire. Al culmine della prova, si recò nella chiesa dei Domenicani a Parigi, aprì il suo cuore e pregò così: “Qualsiasi cosa accada, Signore, tu che tieni tutto nella tua mano, e le cui vie sono giustizia e verità; qualunque cosa tu abbia stabilito a mio riguardo …; tu che sei sempre giusto giudice e Padre misericordioso, io ti amerò, Signore […], ti amerò qui, o mio Dio, e spererò sempre nella tua misericordia, e sempre ripeterò la tua lode… O Signore Gesù, tu sarai sempre la mia speranza e la mia salvezza nella terra dei viventi” (I Proc. Canon., vol I, art 4). Il ventenne Francesco trovò la pace nella realtà radicale e liberante dell’amore di Dio: amarlo senza nulla chiedere in cambio e confidare nell’amore divino; non chiedere più che cosa farà Dio con me: io lo amo semplicemente, indipendentemente da quanto mi dà o non mi dà. Così trovò la pace, e la questione della predestinazione - sulla quale si discuteva in quel tempo – era risolta, perché egli non cercava più di quanto poteva avere da Dio; lo amava semplicemente, si abbandonava alla Sua bontà».

Superati i dubbi sulla grande questione della predestinazione, che divideva nell'area di lingua francese cattolici e calvinisti e seminava discordie anche all'interno della Chiesa, Francesco abbracciò con convinzione il sacerdozio e nel 1602 diventò vescovo di Ginevra, «in un periodo in cui la città era roccaforte del Calvinismo, tanto che la sede vescovile si trovava “in esilio” ad Annecy». Il Pontefice sottolinea qui il carattere non «francese» - che pure è la lingua in cui si esprime - ma savoiardo del santo, essenziale per comprenderlo.  Della terra di Savoia «di cui conosceva bene tanto la durezza quanto la bellezza, egli scrive: “[Dio] l’ho incontrato pieno di dolcezza e soavità fra le nostre più alte e aspre montagne, ove molte anime semplici lo amavano e adoravano in tutta verità e sincerità; e caprioli e camosci correvano qua e là tra i ghiacci spaventosi per annunciare le sue lodi” (Lettera alla Madre [Giovanna Francesca] di Chantal [1572-1641], ottobre 1606, in Oeuvres, éd. Mackey, t. XIII, p. 223)».

Ma questo radicamento regionale non toglie che «l’influsso della sua vita e del suo insegnamento sull’Europa dell’epoca e dei secoli successivi appare immenso. È apostolo, predicatore, scrittore, uomo d’azione e di preghiera; impegnato a realizzare gli ideali del Concilio di Trento; coinvolto nella controversia e nel dialogo con i protestanti, sperimentando sempre più, al di là del necessario confronto teologico, l’efficacia della relazione personale e della carità; incaricato di missioni diplomatiche a livello europeo, e di compiti sociali di mediazione e di riconciliazione».

Questa infaticabile attività - il Papa, in fondo, lo ricorda ogni settimana, a proposito di tutti i santi - poteva soltanto trovare la sua anima nella vita spirituale. Forse solo gli specialisti ricordano le missioni diplomatiche di san Francesco, ma moltissimi fedeli lo conoscono come l'autore di «uno dei libri più letti nell’età moderna, l’“Introduzione alla vita devota”». Inoltre, «dalla sua profonda comunione spirituale con una personalità d’eccezione, santa Giovanna Francesca di Chantal, nascerà una nuova famiglia religiosa, l’Ordine della Visitazione, caratterizzato – come volle il Santo – da una consacrazione totale a Dio vissuta nella semplicità e umiltà, nel fare straordinariamente bene le cose ordinarie: “… voglio che le mie Figlie – egli scrive – non abbiano altro ideale che quello di glorificare [Nostro Signore] con la loro umiltà” (Lettera a mons. [Denis-Simon] de Marquemond [1572-1626], giugno 1615)».

Il Papa sottolinea il tratto e lo stile del santo, che - ancora una volta - trova le radici in un carattere regionale e influirà su tutta una tradizione savoiarda e sabauda. «Della parola “umanità” egli ha incarnato diverse accezioni che, oggi come ieri, questo termine può assumere: cultura e cortesia, libertà e tenerezza, nobiltà e solidarietà. Nell’aspetto aveva qualcosa della maestà del paesaggio in cui è vissuto, conservandone anche la semplicità e la naturalezza. Le antiche parole e le immagini in cui si esprimeva suonano inaspettatamente, anche all’orecchio dell’uomo d’oggi, come una lingua nativa e familiare».

Come maestro di vita spirituale, san Francesco di Sales insiste su un tema caro a Benedetto XVI, la chiamata universale alla santità di cui sono destinatari, secondo l' indole loro propria - che comprende l'animazione cristiana dell'ordine temporale - anche i laici. «A Filotea, l’ideale destinataria della sua "Introduzione alla vita devota" (1607), Francesco di Sales rivolge un invito che poté apparire, all’epoca, rivoluzionario. È l’invito a essere completamente di Dio, vivendo in pienezza la presenza nel mondo e i compiti del proprio stato. “La mia intenzione è di istruire quelli che vivono nelle città, nello stato coniugale, a corte […]” (Prefazione alla Introduzione alla vita devota). Il Documento con cui Papa Leone XIII [1810-1903], più di due secoli dopo, lo proclamerà Dottore della Chiesa insisterà su questo allargamento della chiamata alla perfezione, alla santità. Vi è scritto:“[la vera pietà] è penetrata fino al trono dei re, nella tenda dei capi degli eserciti, nel pretorio dei giudici, negli uffici, nelle botteghe e addirittura nelle capanne dei pastori […]” (Breve "Dives in misericordia", 16 novembre 1877). Nasceva così quell’appello ai laici, quella cura per la consacrazione delle cose temporali e per la santificazione del quotidiano su cui insisteranno il Concilio Vaticano II e la spiritualità del nostro tempo. Si manifestava l’ideale di un’umanità riconciliata, nella sintonia fra azione nel mondo e preghiera, fra condizione secolare e ricerca di perfezione, con l’aiuto della Grazia di Dio che permea l’umano e, senza distruggerlo, lo purifica, innalzandolo alle altezze divine».

Tornando - ne aveva già parlato in altri discorsi - sul vero significato di un'espressione che origina da san Paolo, ma che spesso è usata a torto per indicare una presunta emancipazione dal Magistero della Chiesa, il Papa afferma che il vero «cristiano adulto», cioè «spiritualmente maturo», per san Francesco di Sales è quello che è stato capace di fare sua «una precisa visione dell’essere umano, un’antropologia: la “ragione” dell’uomo, anzi l’“anima ragionevole”, vi è vista come un’architettura armonica, un tempio, articolato in più spazi, intorno ad un centro, che egli chiama, insieme con i grandi mistici, “cima”, “punta” dello spirito, o “fondo” dell’anima. E’ il punto in cui la ragione, percorsi tutti i suoi gradi, “chiude gli occhi” e la conoscenza diventa tutt’uno con l’amore ("Trattato dell'amore di Dio", libro I, cap. XII). Che l’amore, nella sua dimensione teologale, divina, sia la ragion d’essere di tutte le cose, in una scala ascendente che non sembra conoscere fratture e abissi, san Francesco di Sales lo ha riassunto in una celebre frase: “L’uomo è la perfezione dell’universo; lo spirito è la perfezione dell’uomo; l’amore è quella dello spirito, e la carità quella dell’amore” (ibid., libro X, cap. I)».

Il vero cattolico adulto è invitato da san Francesco di Sales ad «amare l'ubbidienza» alla Chiesa sulla base insieme della fede e della ragione, mentre nella sua omelia del 28 giugno 2009 a San Paolo fuori le Mura Benedetto XVI, stigmatizzando l'abuso contemporaneo dell'espressione che ne rovescia il vero significato, aveva notato che «la parola “fede adulta” negli ultimi decenni è diventata uno slogan diffuso. Lo s’intende spesso nel senso dell’atteggiamento di chi non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi Pastori, ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere e non credere – una fede “fai da te”, quindi. E lo si presenta come “coraggio” di esprimersi contro il Magistero della Chiesa. In realtà, tuttavia , non ci vuole per questo del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso. Coraggio ci vuole piuttosto per aderire alla fede della Chiesa, anche se questa contraddice lo “schema” del mondo contemporaneo. È questo non-conformismo della fede che Paolo chiama una “fede adulta”. Qualifica invece come infantile il correre dietro ai venti e alle correnti del tempo».

L'opera del santo di Sales da cui sono tratte le precedenti citazioni, il «Trattato dell’amore di Dio» è definita dal Papa «una vera e propria summa, e insieme un’affascinante opera letteraria. La sua descrizione dell’itinerario verso Dio parte dal riconoscimento della “naturale inclinazione” (ibid., libro I, cap. XVI), iscritta nel cuore dell’uomo pur peccatore, ad amare Dio sopra ogni cosa. Secondo il modello della Sacra Scrittura, san Francesco di Sales parla dell’unione fra Dio e l’uomo sviluppando tutta una serie di immagini di relazione interpersonale. Il suo Dio è padre e signore, sposo e amico, ha caratteristiche materne e di nutrice, è il sole di cui persino la notte è misteriosa rivelazione. Un tale Dio trae a sé l’uomo con vincoli di amore, cioè di vera libertà: “poiché l’amore non ha forzati né schiavi, ma riduce ogni cosa sotto la propria obbedienza con una forza così deliziosa che, se nulla è forte come l’amore, nulla è amabile come la sua forza” (ibid., libro I, cap. VI). Troviamo nel trattato del nostro Santo una meditazione profonda sulla volontà umana e la descrizione del suo fluire, passare, morire, per vivere (cfr ibid., libro IX, cap. XIII) nel completo abbandono non solo alla volontà di Dio, ma a ciò che a Lui piace, al suo “bon plaisir”, al suo beneplacito (cfr ibid., libro IX, cap. I). All’apice dell’unione con Dio, oltre i rapimenti dell’estasi contemplativa, si colloca quel rifluire di carità concreta, che si fa attenta a tutti i bisogni degli altri e che egli chiama “estasi della vita e delle opere” (ibid., libro VII, cap. VI)», con evidente riferimento alla polemica protestante contro le «opere», che non sarebbero necessarie a chi vive e si salva per sola fede.

Da san Francesco di Sales parte tutta una scuola che fa della cortesia e della buona educazione il tratto di partenza di un ethos, proposto in particolare ai laici, che si radica nell'obbedienza alla volontà di Dio e alla Chiesa, e la cerca anche nelle cure della vita temporale, sociale, politica. Il Papa ha citato esplicitamente san Giovanni Bosco (1815-1888), che da san Francesco di Sales trasse il nome della sua congregazione, i Salesiani, a riprova di come questo ethos savoiardo - a proposito del quale si potrebbe ricordare anche un altro grande figlio della Savoia, Joseph de Maistre (1753-1821), influenzato in modo decisivo dal nostro santo - è fiorito soprattutto in Italia, animando generazioni di veri «cristiani adulti», da non confondere con coloro che utilizzano abusivamente e polemicamente questa etichetta.


Nessuno tocchi la vita, vale più di un Van Gogh di Tommaso Scandroglio, 02-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Il dibattito sul fine vita - si sa - è un dibattito che ruota tutto attorno al concetto di libertà. A seconda di come viene interpretata questa parolina si è favorevoli o contrari all’eutanasia e al testamento biologico, e si interpreta la relazione medico-paziente come legame basato sulla fiducia o come rapporto di tipo contrattuale. Saviano qualche giorno or sono tramite un video fece sapere che la battaglia sul cosiddetto testamento biologico ''è una battaglia che riguarda la vita, la costruzione della democrazia, è un passo verso la libertà perchè è un passo verso la scelta''. Gli fece eco l’Associazione Luca Coscioni la quale chiese ''che sia rispettato il diritto costituzionale all'autodeterminazione terapeutica'', che ''ciascuno possa scegliere come vivere e morire un base alla propria personale e insindacabile idea di dignità'' e che ''sia garantita la libertà di scelta''.

Quid libertas? Ma cosa è esattamente questa “libertà di scelta”? Davvero siamo liberi di toglierci la vita? Innanzitutto occorre distinguere tra libero arbitrio e libertà. Il primo è la possibilità di scegliere tra il bene e il male. Se io scelgo di compiere il bene sarò libero, se scelgo il male sarà schiavo di esso. Quindi la libertà è frutto delle azioni buone. Solo il bene mi permette di essere pienamente libero, cioè pienamente me stesso e dunque felice. Perciò chi pensa che la vera libertà sia senza vincoli sbaglia: la libertà, per essere tale, deve ancorarsi al bene. Solo colui il quale usa del proprio libero arbitrio in vista del bene è libero e di conseguenza rispetta la propria dignità. Spieghiamoci meglio. Se io ad esempio rubo e uccido non mi comporto come un vero uomo, cioè in accordo a ciò che la mia natura umana esige. Pensiamo ad un carabiniere che delinque. La sua condotta illecita non è quella che la dignità del suo ruolo esigerebbe: tradirebbe la sua divisa. Quindi chi compie il male contraddice la propria dignità umana e la degrada, la ferisce nel profondo. Non è un caso che ad esempio Pasquale Barra fosse soprannominato “o' animale”: non più uomo, ma appunto bestia a motivo dei suoi crimini efferati. I sostenitori del “diritto” a morire quindi cadono in errore, perché nessuno ha il diritto, la libertà di svilire se stesso. Se usi male della tua libertà corrompi la tua identità di uomo.

Senza limiti la libertà è niente. In secondo luogo il potere di scelta ha dei limiti. Stuart Mill asseriva nel suo libercolo Sulla libertà che mai è permesso ledere gli interessi altrui. È il famoso aforisma il quale recita che “la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri”. Il rispetto di questo criterio dovrebbe quindi vietare ad esempio l’aborto, perché sopprimo qualcuno, e la fecondazione artificiale, perché espongo ad un elevato rischio di morte gli embrioni.

Nessuno tocchi se stesso. Ma vi è un’ulteriore limite alla nostra autonomia. Non è sufficiente che la mie decisioni non invadano la sfera della libertà altrui, ma occorre verificare che ciò che stringe in pugno la mia libertà non sia un bene indisponibile. Cosa vuol dire “bene indisponibile”? Significa che la vita è un bene di così alto valore, così prezioso che posso sì interpretarlo come voglio – posso decidere di sposarmi o non sposarmi, di studiare o non studiare, di vivere in Italia o all’estero etc. – ma rispettando un limite. Questo limite è il divieto della distruzione del bene stesso proprio a motivo del suo altissimo valore morale. Facciamo un esempio. Tizio è proprietario di un bellissimo quadro di Van Gogh. Egli è libero di nasconderlo in cassaforte, di esporlo in salotto, di farlo vedere a pagamento, di prestarlo ai musei e persino di donarlo. Ma non è libero di distruggerlo sebbene il quadro sia suo. Se avesse intenzione di farlo la sovraintendenza ai beni culturali fermerebbe la sua mano perché quel bene è vincolato, cioè è intangibile a causa del suo altissimo valore artistico. La vita sfugge quindi al mio dominio assoluto perché vale troppo. Perciò sulla mia esistenza non posso vantare un diritto di proprietà, ma semmai un dovere di tutela. Ed è proprio per questo motivo che il Codice Penale mette dietro le sbarre chi ci uccide seppur con il nostro consenso. Leggi eutanasia.

I condizionamenti. Ma poi siamo davvero certi che chi rifiuta cure salvavita, o mezzi di sostentamento vitali come acqua e cibo sia arrivato a questa decisione in piena libertà? Non è forse la paura di soffrire in futuro o uno stato di depressione che insorge alla notizia di essere affetto da una patologia incurabile a suggerire all’orecchio del paziente o dell’estensore delle Dat (Dichiarazione anticipata di trattamento) che è meglio staccare la spina? Se non ci accorgiamo dell’esistenza di questi forti condizionamenti psicologici si corre il rischio che il testamento biologico venga firmato non da noi, ma dall’angoscia che alberga in noi. Allora sarebbe meglio curare gli stati depressivi che strizzano l’occhio alla “dolce morte”, piuttosto che assecondarli abbandonando qualsiasi cura. La vera libertà fiorisce nella serenità d’animo, perché solo nella tranquillità psicologica possediamo la sufficiente lucidità intellettuale per decidere del nostro domani.


«Bhatti è morto da martire Anche il governo è responsabile» di Riccardo Cascioli, 02-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

“L’avevo sentito al telefono ieri sera, era molto preoccupato perché le minacce si stavano facendo sempre più pesanti. Aveva chiesto una scorta al governo, ma non gliel’hanno mai data”. Al telefono la voce di Mobeen Shahid è agitata. La morte del suo amico Shahbaz Bhatti, il ministro pachistano per le Minoranze religiose, ucciso stamattina nei pressi della sua abitazione a Islamabad, lo ha scosso profondamente.

Shahid è in Italia da molti anni - con un dottorato in filosofia è docente alla Pontificia Università Lateranense – ma continua a mantenere contatti stretti con il suo Paese ed è impegnato a far conoscere la realtà della persecuzione dei cristiani in Pakistan e le nefandezze originate dalla Legge contro la blasfemia. “Conoscevo Shahbaz da quando eravamo studenti, lui era già allora un attivista dei movimenti per i diritti delle minoranze. A novembre abbiamo passato insieme tutta una settimana, quando lui è venuto a Roma per incontrare il Papa. E’ un vero martire della Chiesa cattolica, è morto per la difesa dei cristiani perseguitati”, ci dice Shahid.

In effetti Bhatti ha sempre visto il suo impegno nella società come una vocazione: “Voglio solo un posto ai piedi di Gesù – aveva detto tempo fa in una intervista -. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo”.

“E’ stata un’esecuzione spietata – prosegue  Shahid -, era appena uscito di casa, era in auto con l’autista e sua nipote. All’inizio per bloccare la macchina hanno sparato verso l’autista, che è riuscito a schivare il colpo. Poi hanno fatto scendere Shahbaz e gli hanno sparato per ben due minuti. Sul suo corpo hanno contato almeno 25 colpi andati a segno. Autista e nipote sono stati invece lasciati andare”.

Professor Shahid, prima il governatore del Punjab, ora il ministro per le Minoranze religiose. Chi difende Asia Bibi e chiede l’abolizione della Legge sulla blasfemia, muore.
Shabaz Bhatti era ministro da tre anni, ma più recentemente è stato nominato presidente della Commissione per la revisione della legge sulla blasfemia. Si è impegnato per difendere i cristiani perseguitati ed è lì che le minacce si sono fatte pressanti, e il governo non ha fatto nulla per proteggerlo. Per questo dico che è morto da martire per la Chiesa.

La situazione in Pakistan per chi si oppone al fondamentalismo islamico sembra essere ancora peggiorata.
I partiti politici religiosi sono ormai penetrati in tutte le strutture sociali e condizionano la vita di tutti i cittadini. Chiunque non sia estremista viene considerato un nemico. E’ l’esito di un processo iniziato negli anni ’80 quando era presidente il generale Zia ul-Haq.

E’ anche il periodo in cui è stata introdotta la Legge sulla blasfemia…
Questa legge è stata introdotta nel 1986, anzi è stata imposta dal generale Zia ul-Haq all’interno di una crescente islamizzazione del Pakistan. E’ durante questa dittatura che è iniziato un processo di introduzione della sharia (la legge coranica).

Ma ultimamente sembra esserci una applicazione ancora più rigorosa della legge…
Non è una applicazione rigorosa ma un sistematico abuso della legge. In tutti i casi sollevati non c’è mai stata vera blasfemia, ma è stata usata la legge per regolare conti personali e per gelosie sociali.

L’ideale sarebbe abolire questa legge, ma ci sono anche tentativi di emendarla. In che modo è possibile?
Si devono fermare tutti questi abusi. Allora un modo è quello di prevedere per l’accusatore, in caso di falsità delle accuse, la stessa pena prevista per i blasfemi. Poi, deve essere prevista una verifica dell’attendibilità dell’accusa prima di arrivare in tribunale, Infine deve essere garantita la massima sicurezza per gli accusati.

Certo, che se il governo non riesce a garantire la sicurezza neanche ai suoi ministri…
E’ questo il punto. Il governo è incapace o non vuole contrastare i fondamentalisti. Allora chiediamo che la comunità internazionale intervenga contro il governo pachistano per obbligarlo a rispettare i diritti delle minoranze e a non perseguitare i cristiani. Siano usate anche sanzioni economiche, se necessario. Ma devono essere liberati tutti quanti sono in carcere per blasfemia, la comunità internazionale non può accettare o tacere davanti a questa palese violazione dei diritti umani.

Qualche settimana fa, a proposito del caso di Asia Bibi, il vescovo di Lahore aveva chiesto di non condannare il governo pachistano, forse il silenzio avrebbe favorito la soluzione positiva del caso…
La verità è che più siamo in silenzio, più subiamo persecuzioni, più la gente non sa cosa succede ai cristiani in Pakistan. No, la comunità internazionale deve obbligare il governo del Pakistan a rispettare la libertà religiosa e i diritti umani.


“La Parola di Dio ci chiama e ci coinvolge”. Il Patriarca su “Verbum Domini” - Scritto il 02 marzo 2011.

VENEZIA – Si è tenuto, nel tardo pomeriggio di martedì 1 marzo, presso la basilica di S. Marco a Venezia, l’ultimo incontro – tenuto in diocesi dal Patriarca card. Angelo Scola – per presentare il recente documento del Papa “Verbum Domini”, l’esortazione apostolica scritta da Benedetto XVI a seguito delle riflessioni e proposte emerse dal Sinodo dei Vescovi svoltosi in Vaticano nell’ottobre 2008 sul tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”.

Tale appuntamento ha preso parte al percorso di preparazione alla prossima visita del Papa ad Aquileia e Venezia (7 e 8 maggio 2011) ed, insieme ai due incontri precedenti - al Teatro Toniolo di Mestre in gennaio e nella città di Jesolo a febbraio – ha visto la partecipazione di circa 2.000 persone delle comunità parrocchiali, delle associazioni e dei movimenti ecclesiali.
Viene qui di seguito pubblicata l’introduzione alla lettura del testo “Verbum Domini” proposta dal Patriarca nei diversi incontri:

+ Angelo card. Scola
patriarca
Introduzione
Dopo due anni dalla celebrazione della XII Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, il Santo Padre Benedetto XVI offre a tutto il popolo di Dio l’Esortazione apostolica postsinodale che ne presenta i risultati. Lo scopo del documento è chiarito fin dall’inizio da Benedetto XVI:
“Con questa Esortazione apostolica postsinodale accolgo volentieri la richiesta dei Padri di far conoscere a tutto il Popolo di Dio la ricchezza emersa nell’assise vaticana e le indicazioni espresse dal lavoro comune quanto elaborato dal Sinodo, tenendo conto dei documenti presentati. In tal modo desidero indicare alcune linee fondamentali per una riscoperta, nella vita della Chiesa, della divina Parola, sorgente di costante rinnovamento, auspicando al contempo che essa diventi sempre più il cuore di ogni attività ecclesiale” (n. 1).
Questo documento si relaziona fortemente con l’XI Assemblea Sinodale, svoltasi nell’ottobre del 2005, che ha avuto per tema l’Eucaristia, fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa. Ciò è evidente non solo per il riferimento comune alla vita e alla missione della Chiesa e per il fatto che entrambe, Parola ed Eucaristia, costituiscono il cuore esistenza ecclesiale (cfr. n. 3), ma perché lo stesso testo più volte ritorna su questo legame, al punto da affermare, al n. 55, che:
“Parola ed Eucaristia si appartengono così intimamente da non poter essere comprese l’una senza l’altra: la Parola di Dio si fa carne sacramentale nell’evento eucaristico. L’Eucaristia ci apre all’intelligenza della sacra Scrittura, così come la sacra Scrittura a sua volta illumina e spiega il Mistero eucaristico”.
E’ significativo, inoltre, anche l’ordine delle due ultime assemblee sinodali: in un certo senso, l’approfondimento che la Chiesa ha dedicato negli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II fino al Sinodo del 2005 sull’Eucaristia ha reso possibile una equilibrata tematizzazione della Parola di Dio in tutta la sua ricchezza teologica ed esistenziale.
Come per l’Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum Caritatis, anche la Verbum Domini può essere compresa come un atto di ricezione del Concilio Vaticano II in particolare della Dei Verbum e dei successivi interventi del magistero intorno al tema della Parola di Dio e della Sacra Scrittura (cfr. Verbum Domini, n. 3). Esso si pone anche in attento ascolto dell’aumentato dibattito intorno al tema della Scrittura dopo il Vaticano II, entrando in merito ai punti proposti dal Concilio e non ancora recepiti adeguatamente.
Il testo che ci viene proposto è molto ampio; uno dei più abbondanti del magistero pontificio, in cui in effetti vengono riprese tutte le tematiche emerse nell’assemblea sinodale. Tutte le propositiones dei Padri sinodali sono state riprese dal documento, insieme agli altri testi che hanno ritmato i lavori sinodali.
Lo stile del documento è particolarmente felice perché di fatto si toccano le questioni nodali relative alla Parola di Dio e alla Sacra Scrittura con grande precisione e tuttavia il linguaggio utilizzato è chiaro e concreto, sia nelle riflessioni più specificamente teologiche, sia nei risvolti più propriamente pastorali. Il documento pertanto potrà essere letto e studiato non solo dagli addetti ai lavori ma anche da tutto il popolo di Dio.
Come si ricorderà, lo stesso Benedetto XVI lungo il suo pontificato è intervenuto più volte ed in maniera approfondita sul tema della Parola di Dio. Anche durante la stessa assemblea sinodale gli interventi del pontefice erano andati al cuore del dibattito circa il rapporto tra Parola di Dio e Sacra Scrittura e intorno al tema dell’ermeneutica teologica. L’Esortazione riprende ed approfondisce gli interventi del pontefice a tale proposito.

Elementi fondanti della Verbum Domini

Il Dio-che-parla e il Verbo
Cerchiamo di segnalare alcuni aspetti particolarmente significativi del testo. Il primo elemento originale nel testo è propriamente l’impianto generale. Esso ruota intorno al celeberrimo prologo di san Giovanni, come lo stesso Benedetto XVI spiega all’inizio del documento:
“Si tratta di un testo mirabile, che offre una sintesi di tutta la fede cristiana. Dall’esperienza personale di incontro e di sequela di Cristo, Giovanni, che la tradizione identifica nel «discepolo che Gesù amava» (Gv 13,23; 20,2; 21,7.20), «trasse un’intima certezza: Gesù è la Sapienza di Dio incarnata, è la sua Parola eterna fattasi uomo mortale». Colui che «vide e credette» (Gv 20,8) aiuti anche noi a poggiare il capo sul petto di Cristo (cfr Gv 13,25), dal quale sono scaturiti sangue ed acqua (cfr Gv 19,34), simboli dei Sacramenti della Chiesa”.
La scelta del prologo giovanneo ci fa comprendere una prima originalità del testo. L’accento è posto su Dio che parla e sull’uomo, chiamato ad accogliere la sua parola e ad entrare nell’Alleanza. Si può dire che il “Verbum” nel testo non è mai isolato in se stesso ma sempre in relazione al Dio-che-parla [nn. 6-21] e alla risposta dell’uomo al Dio-che-parla [22-28].
A partire da questo impianto che domina nella prima parte si comprende anche il senso delle successive due parti. Nella seconda parte, Verbum in Ecclesia, la Chiesa si manifesta come il soggetto che accoglie la Parola che Dio ha comunicato, come evento sempre attuale e non come mero fatto del passato. Dio parla nel presente (VD 52; 87). Da qui si comprende perché la Chiesa viene presentata come “luogo originario dell’ermeneutica della Bibbia” (nn. 29-30) e la liturgia come “Luogo privilegiato della Parola” (nn. 54-71]. Infatti nella liturgia la Parola di Dio, proclamata, si mostra nella sua contemporaneità ad ogni fedele.
Anche la terza parte dell’Esortazione apostolica segue ed esprime la stessa logica. Verbum mundo. Il mistero della Chiesa, quale autentico soggetto di ricezione della rivelazione di Dio viene totalmente coinvolto nella missione del Verbo che si diffonde nel mondo intero. Pertanto, la missione della Chiesa non viene compresa in termini estrinseci, ma viene implicata dallo stesso evento dell’incarnazione del Verbo di Dio, nel quale la stessa Chiesa ha il suo fondamento:
“I primi cristiani hanno considerato il loro annuncio missionario come una necessità derivante dalla natura stessa della fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia d’Israele e infi ne nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che tutti gli uomini, nel loro intimo, attendono” (DV 93).
“La missione della Chiesa non può essere considerata come realtà facoltativa o aggiuntiva della vita ecclesiale. Si tratta di lasciare che lo Spirito Santo ci assimili a Cristo stesso, partecipando così alla sua stessa missione” (DV 93)
Non vi è veramente accoglienza della Parola di Dio fino a quando non vi è da parte del credente l’assunzione della missione nei confronti del mondo intero. Non si accoglie la Parola di Dio se non si accetta di lasciarsi includere nella stessa missione di Cristo che si prolunga nella Chiesa. Ciò è espresso in numerosi passaggi del testo, in particolare vorrei fare osservare il riferimento ad un testo emblematico in questo senso che è 1Gv 1,1-4, in cui nell’annuncio e nella testimonianza agli altri si dilata la comunione e la gioia. Non a caso il riferimento a questo brano giovanneo lo troviamo all’inizio (n. 2) e alla conclusione del documento (n. 123).

Il paradigma mariano e l’orizzonte sacramentale della rivelazione
In questa prospettiva si comprende bene anche il costante riferimento alla Madre di Dio. Il Dio-che-parla trova in Maria il paradigma della relazione tra Verbo di Dio e umana libertà. Già in Sacramentum caritatis si era affermato: “In Maria Santissima vediamo perfettamente attuata anche la modalità sacramentale con cui Dio raggiunge e coinvolge nella sua iniziativa salvifica la creatura umana” (SC 33). In riferimento alla Parola di Dio, Benedetto XVI nella Verbum Domini afferma:
“In realtà, l’incarnazione del Verbo non può essere pensata a prescindere dalla libertà di questa giovane donna che con il suo assenso coopera in modo decisivo all’ingresso dell’Eterno nel tempo” (VD 27) (cfr. anche DV 28, Maria Mater Verbi Dei et Mater fidei).
In realtà con ciò Benedetto XVI ci fa comprendere il fondamento di quanto viene proposto nel testo relativamente al senso della Parola di Dio, alla sua attestazione nelle Scritture, alla sua ermeneutica, alla sua celebrazione nella liturgia viva nella Chiesa fino arrivare a tutte le implicazioni più dettagliate relativamente alla missione della Chiesa nel mondo, quale annunciatrice di Cristo, Verbo incarnato, morto e risorto per la salvezza di tutti gli uomini.
Infatti, ponendo Maria Santissima come paradigma della relazione tra il Verbo di Dio e la libertà umana siamo portati ad approfondire l’orizzonte sacramentale della rivelazione stessa di Dio – affermata genialmente da Giovanni Paolo II nella Fides et Ratio (n. 13), ripresa letteralmente sia nella Sacramentum Caritatis (n. 45) che nella Verbum Domini (n. 56). In quest’ultimo caso, Benedetto XVI riprende il testo di Giovanni Paolo II per spiegare il senso della sacramentalità della Parola di Dio, in profonda relazione ed analogia con il sacramento eucaristico:
“All’origine della sacramentalità della Parola di Dio sta propriamente il mistero dell’incarnazione: «il Verbo si fece carne» (Gv 1,14), la realtà del mistero rivelato si offre a noi nella «carne» del Figlio. La Parola di Dio si rende percepibile alla fede attraverso il «segno» di parole e di gesti umani. La fede, dunque, riconosce il Verbo di Dio accogliendo i gesti e le parole con i quali Egli stesso si presenta a noi. L’orizzonte sacramentale della Rivelazione indica, pertanto, la modalità storico-salvifica con la quale il Verbo di Dio entra nel tempo e nello spazio, diventando interlocutore dell’uomo, chiamato ad accogliere nella fede il suo dono” (n. 56).
In tal modo Benedetto XVI approfondisce la riflessione magisteriale sull’orizzonte sacramentale della rivelazione, mettendolo in riferimento alla Parola di Dio che si comunica a noi mediante la parola umana. Dio si rende incontrabile dall’uomo nella dinamica del segno per mezzo della quale la umana libertà è chiamata originariamente all’assenso a all’accoglienza.
Si potrebbe qui trovare un accostamento interessante con ciò che lo stesso Benedetto XVI afferma nella prima parte del documento riguardo alla dimensione cosmica della Parola di Dio (n. 8), in cui nello stesso orizzonte di significati si mostra come la Parola di Dio si comunichi anche attraverso la creazione. Citando Bonaventura il Papa afferma: “Ogni creatura è Parola di Dio, poiché proclama Dio”: n. 8)
Benedetto XVI a questo proposito richiama la figura fondamentale della libertà di fronte al Dio-che-parla: “La risposta propria dell’uomo al Dio che parola è la fede” (n. 25); ed in riferimento al mistero dell’incarnazione si afferma: “tutta la storia della salvezza che in modo progressivo ci mostra questo intimo legame tra la Parola di Dio e la fede che si compie nell’incontro con Cristo. Con Lui, infatti, la fede prende la forma dell’incontro con una Persona alla quale si affida la propria vita. Cristo Gesù rimane presente oggi nella storia, nel suo corpo che è la Chiesa” (n. 25).

Implicazioni principali della Verbum Domini
Da ciò è possibile considerare altri passaggi del testo dell’Esortazione che approfondiscono elementi decisivi già toccati dalla Dei Verbum.

Il Verbo incarnato e l’Analogia della Parola
L’orizzonte sacramentale e dialogico della rivelazione cristiana ha permesso a Benedetto XVI di contribuire sensibilmente ad una corretta comprensione dei diversi significati dell’espressione Parola di Dio e Verbo di Dio, ossia il riferimento all’“uso analogico del linguaggio umano in riferimento alla Parola di Dio” (n. 7). Proprio a partire dalla meditazione del prologo giovanneo diviene chiaro che al centro di tutto sta l’espressione «Parola di Dio» che “viene qui ad indicare la persona di Gesù Cristo, eterno Figlio del Padre, fatto uomo” (n. 7).
Intorno a questo centro stanno gli altri riferimenti che vanno a costituire una vera sinfonia della Parola di Dio: il riferimento va alla creazione, ossia al Liber Naturae, alla Parola di Dio che si comunica attraverso i profeti fino a coincidere con Gesù Cristo. Da qui viene considerata come Parola di Dio la Tradizione, a partire dalla predicazione apostolica, e la Sacra Scrittura quale attestazione normativa. Evidentemente, tutta questa sinfonia non potrebbe essere colta se non nella sua originaria relazione con il Logos fatto carne, ossia Gesù Cristo, Figlio di Dio e figlio di Maria. L’invito di Benedetto XVI è che sia nella riflessione teologica che nell’azione pastorale si comprenda meglio questo uso analogico della “Parola di Dio” cosicché “risplenda meglio l’unità del piano divino e la centralità in esso della persona di Cristo” (n. 7).

L’ermeneutica della Scrittura
Particolarmente a cuore a Benedetto XVI sta il tema dell’ermeneutica della Scrittura. Quanto abbiamo precedentemente richiamato ci permette di comprendere perché il Papa ritenga che l’atto della ricezione della Dei Verbum a questo proposito non sia stata ancora del tutto compiuta. Infatti, se la Parola di Dio è il Verbo fatto carne che permane nel tempo e nello spazio e che si attesta nelle Scritture, allora il luogo originario dell’ermeneutica non potrà che essere la vita della Chiesa (DV 29) e in essa una autentica esperienza cristiana.
Tale posizione di per sé non mortifica il grande sforzo proveniente dall’esegesi con i suoi metodi adeguati per la comprensione del testo biblico. Semplicemente si mostra come tale livello non sia esaustivo dell’atto ermeneutico. In realtà ci troviamo ancora una volta a confrontarci anche qui con l’orizzonte sacramentale della rivelazione in relazione alla sacramentalità della Parola, ossia al fatto che il Dio-che-parla raggiunga la libertà credente mediante il segno della parola umana. La sacra Scrittura pertanto non avrà un approccio ermeneutico compiuto fino a quando non si riconosce che nella fatticità del segno è la stessa Parola di Dio che mi viene comunicata.
In tal senso l’ermeneutica della fede è essenziale ad un approccio integrale alla Scrittura. A tal proposito si afferma: “Approcci al testo sacro che prescindano dalla fede possono suggerire elementi interessanti, soffermandosi sulla struttura del testo e le sue forme; tuttavia, un tale tentativo sarebbe inevitabilmente solo preliminare e strutturalmente incompiuto” (VD 30). Infatti per l’intelligenza della fede nella “lettera” della scrittura è il Verbo stesso di Dio che non cessa di parlare qui e ora.
L’esigenza di correlare meglio i due livelli dell’ermeneutica biblica comporta in sé notevoli conseguenze sia dal punto di vista degli studi biblici, sia nell’azione pastorale della Chiesa. Infatti, “dove l’esegesi non è teologia, la Scrittura non può essere l’anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento” (VD 35,c).
In tal senso si comprende perché gli interventi del magistero ecclesiale hanno sottolineato sempre l’importanza dello studio esegetico della lettera scritturistica, rifiutando una ermeneutica secolarizzata che esclude aprioristicamente l’intervento del divino nella storia; ma anche con lo stesso vigore rifiutato una interpretazione spirituale che prescindesse dalla letteralità della Scrittura. E’ lo stesso mistero dell’incarnazione ad esigere una ermeneutica integrale che consideri seriamente la “carne” del Verbo e che in essa accolga la presenza del mistero di Dio che parla a noi oggi.
Ma anche dal punto di vista pastorale, fa osservare il Papa, una inadeguata ermeneutica dei testi, porta delle conseguenze notevoli ad esempio nella preparazione delle omelie o nella divisione tra esegesi e lectio divina, o in genere nella “lettura pia” della Scrittura (cfr. DV 25; VD 86). In tal senso si comprende l’insistenza di Benedetto XVI sulla relazione tra Parola di Dio e celebrazione liturgica, in particolare l’Eucaristia, dove appunto la Parola di Dio innanzitutto è proclamata e celebrata come evento presente e non come testo meramente del passato.
Significativamente il Papa propone una interessante analogia tra adorazione eucaristica e meditazione pia della Scrittura:
“Nella lettura orante della sacra Scrittura il luogo privilegiato è la liturgia, in particolare l’Eucaristia, nella quale, celebrando il Corpo e il Sangue di Cristo nel Sacramento, si attualizza tra noi la Parola stessa. In un certo senso la lettura orante, personale e comunitaria, deve essere sempre vissuta in relazione alla celebrazione eucaristica. Come l’adorazione eucaristica prepara, accompagna e prosegue la liturgia eucaristica, così la lettura orante personale e comunitaria prepara, accompagna ed approfondisce quanto la Chiesa celebra con la proclamazione della Parola nell’ambito liturgico” (VD 86).
In quest’ottica è articolatamente proposta le Lectio divina (VD 87).
Nella stessa logica Benedetto XVI raccomanda una ripresa della dimensione biblica della formazione cristiana e della catechesi in particolare. Quale ruolo gioca effettivamente la Sacra Scrittura nella pastorale? A questo proposito è interessante che si affermi: “Non si tratta, quindi, di aggiungere qualche incontro in parrocchia o nella diocesi, ma di verificare che nelle abituali attività delle comunità cristiane, nelle parrocchie, nelle associazioni e nei movimenti, si abbia realmente a cuore l’incontro personale con Cristo che si comunica a noi nella sua Parola.” (VD 73).
Dunque la animazione biblica della pastorale deve essere compresa, non come l’aggiunta di nuovi incontri a carattere biblico, separati da quelli già presenti nelle attività parrocchiali e diocesane; ma piuttosto come rinnovata attenzione alla Sacra Scrittura in tutta l’attuale struttura pastorale, affinché le attività che già si svolgono possano permettere ai fedeli di accostare le Scritture secondo la fede ecclesiale. Infatti, “Là dove non si formano i fedeli ad una conoscenza della Bibbia secondo la fede della Chiesa nell’alveo della sua Tradizione viva, di fatto si lascia un vuoto pastorale in cui realtà come le sette possono trovare terreno per mettere radici” (VD 73).

Implicazioni antropologiche
Alcune considerazioni si possono fare relativamente alla dimensione antropologica e alla ricaduta esistenziale della considerazione circa la Parola di Dio contenuto del documento di Benedetto XVI. Già abbiamo messo in evidenza come lo stesso orizzonte sacramentale della rivelazione in cui si colloca la nostra relazione con la Parola di Dio implichi la valorizzazione della libertà dell’uomo chiamata nella fede ad entrare nell’Alleanza Nuova compiuta definitivamente in Cristo. Benedetto XVI nella Esortazione apostolica approfondisce questo tema in molte direzioni interessanti. Una delle quali è certamente la considerazione di Dio che nella sua parola ascolta e risponde alle domande e al grido dell’uomo: “In questo dialogo con Dio comprendiamo noi stessi e troviamo risposta alle domande più profonde che albergano nel nostro cuore” (VD 23).
Qui troviamo anche un riferimento peculiare di Benedetto XVI alla condizione postmoderna dell’uomo nei confronti di Dio:
“Solo Dio risponde alla sete che sta nel cuore di ogni uomo! Nella nostra epoca purtroppo si è diffusa, soprattutto in Occidente, l’idea che Dio sia estraneo alla vita ed ai problemi dell’uomo e che, anzi, la sua presenza possa essere una minaccia alla sua autonomia. In realtà, tutta l’economia della salvezza ci mostra che Dio parla ed interviene nella storia a favore dell’uomo e della sua salvezza integrale” (VD 23).
In tal senso la prospettiva che viene proposta è quella di scoprire sempre di più la capacità della fede di intervenire in ogni circostanza della vita con uno sguardo nuovo sulle cose, carico della luce che viene dal vangelo. Qui si apre un ambito molto ampio della missione della Chiesa che scaturisce dal Cristo stesso, Verbo di Dio nella carne, che riguarda la capacità di dialogo con tutte le genti e la possibilità di esprimersi in contesti culturali differenti.
Ma soprattutto, consapevoli della privatizzazione che la fede ha subito nell’epoca moderna il Papa invita a cogliere il rapporto tra la Parola di Dio e tutte le circostanze della vita quotidiana nella condizione comune degli uomini:
“Avvertiamo tutti quanto sia necessario che la luce di Cristo illumini ogni ambito dell’umanità: la famiglia, la scuola, la cultura, il lavoro, il tempo libero e gli altri settori della vita sociale. Non si tratta di annunciare una parola consolatoria, ma dirompente, che chiama a conversione, che rende accessibile l’incontro con Lui, attraverso il quale fiorisce un’umanità nuova” (VD 93).

Parola di Dio e metodo della testimonianza
Da ultimo l’Esortazione di Benedetto XVI approfondisce il metodo fondamentale della missione della Chiesa, ed in essa di ogni cristiano, che scaturisce dalle sorgenti della vita trinitaria stessa da cui proviene la Parola stessa di Dio. Tale capacità di annuncio in cui la Parola di Dio investe ogni realtà umana passa attraverso il metodo della testimonianza.
Il tema della testimonianza attraversa tangenzialmente tutto il documento, ma si specifica particolarmente nell’ultima parte, dove si dice: “è importante che ogni modalità di annuncio tenga presente, innanzitutto, la relazione intrinseca tra comunicazione della Parola di Dio e testimonianza cristiana”.
Riprendendo una delle propositiones approvate dai Padri, prosegue: “Questa reciprocità tra Parola e testimonianza richiama il modo in cui Dio stesso si è comunicato mediante l’incarnazione del suo Verbo. La Parola di Dio raggiunge gli uomini « attraverso l’incontro con testimoni che la rendono presente e viva »” (VD 97)
E’ suggestiva anche la correlazione che Benedetto XVI pone tra la “testimonianza” delle scritture e la “testimonianza” che i cristiani sono chiamati a dare nella società in parole ed in azioni: “C’è uno stretto rapporto tra la testimonianza della Scrittura, come attestazione che la Parola di Dio dà di sé, e la testimonianza di vita dei credenti. L’una implica e conduce all’altra. La testimonianza cristiana comunica la Parola attestata nelle Scritture. Le Scritture, a loro volta, spiegano la testimonianza che i cristiani sono chiamati a dare con la propria vita” (VD 97).
Del resto lo stesso pontefice aveva ricordato già il metodo della testimonianza nella Sacramentum catitatis, quando aveva affermato che “Diveniamo testimoni quando, attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica. Si può dire che la testimonianza è il mezzo con cui la verità dell’amore di Dio raggiunge l’uomo nella storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale. Nella testimonianza Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell’uomo” (SCa 85). Così possiamo dire che nella attestazione scritturistica e nella testimonianza cristiana la Parola di Dio continua a bussare alle porte della umana libertà.

Conclusione
Questa logica profonda che coinvolge l’uomo integralmente ha la sua radice nel mistero dell’incarnazione del Verbo; il quale ci coinvolge sempre il termini personali, come è avvenuto per Maria, la Madre di Dio. La Parola di Dio, come ha affermato Benedetto XVI non è mai generica nel rivolgersi a noi, essa ci chiama e ci coinvolge, facendoci scoprire così che l’intera nostra vita è vocazione (VD 77) ed è chiamata a rispondere all’annuncio che ci viene rivolto.
Non è a caso che il Papa esorti il popolo cristiano a recitare e a diffondere la preghiera dell’Angelus Domini (n. 88). In realtà in questa preghiera c’è tutta la sintesi della Parola di Dio che si fa carne attraverso la libertà di una ragazza di Nazareth. La Chiesa invita a recitare questa preghiera perché è consapevole che questo mistero non è solo del passato ma riaccade oggi nel cuore di ogni fedele che accoglie l’annuncio della Parola di Dio. Qui sta il segreto della vera gioia (cfr. VD 123).


In anteprima alcuni brani del libro del Papa - Ecce homo  (©L'Osservatore Romano - 3 marzo 2011)

 Che cos'è la verità? Non soltanto Pilato ha accantonato questa domanda come irrisolvibile e, per il suo compito, impraticabile. Anche oggi, nella disputa politica come nella discussione circa la formazione del diritto, per lo più si prova fastidio per essa. Ma senza la verità l'uomo non coglie il senso della sua vita, lascia, in fin dei conti, il campo ai più forti. "Redenzione" nel senso pieno della parola può consistere solo nel fatto che la verità diventi riconoscibile. Ed essa diventa riconoscibile in Gesù Cristo. In lui Dio è entrato nel mondo, e ha con ciò innalzato il criterio della verità in mezzo alla storia.

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Il compimento della Pasqua

Il libro del Papa Gesù di Nazaret. Dall'ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, verrà presentato il prossimo 10 marzo. La Libreria Editrice Vaticana, d'intesa con Herder che ha curato l'edizione principe dell'opera, ne anticipa alcuni brani. L'opera uscirà in contemporanea inizialmente in sette lingue: tedesco, italiano, inglese, spagnolo, francese, portoghese e polacco. Pubblichiamo stralci dal primo punto del quarto capitolo intitolato "L'Ultima Cena".

Giovanni bada con premura a non presentare l'ultima cena come cena pasquale. Al contrario: le autorità giudaiche che portano Gesù davanti al tribunale di Pilato evitano di entrare nel pretorio "per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua" (18, 28). La Pasqua comincia quindi solo alla sera; durante il processo si ha la cena pasquale ancora davanti; processo e crocifissione avvengono nel giorno prima della Pasqua, nella "Parascève", non nella festa stessa. La Pasqua in quell'anno si estende dunque dalla sera del venerdì fino alla sera del sabato e non dalla sera del giovedì fino alla sera del venerdì.
Per il resto, lo svolgimento degli eventi rimane lo stesso. Giovedì sera l'ultima cena di Gesù con i discepoli, che però non è una cena pasquale; venerdì (vigilia della festa e non la festa stessa): il processo e l'esecuzione capitale; sabato: il riposo del sepolcro; domenica: la risurrezione. Con questa cronologia, Gesù muore nel momento, in cui nel tempio vengono immolati gli agnelli pasquali. Egli muore come l'Agnello vero che negli agnelli era solo preannunciato.
Questa coincidenza teologicamente importante, che Gesù muoia contemporaneamente con l'immolazione degli agnelli pasquali, ha indotto molti studiosi a liquidare la versione giovannea come cronologia teologica. Giovanni avrebbe cambiato la cronologia per creare questa connessione teologica che, tuttavia, nel Vangelo non viene manifestata esplicitamente. Oggi, però, si vede sempre più chiaramente che la cronologia giovannea è storicamente più probabile di quella sinottica. Poiché - come s'è detto - processo ed esecuzione capitale nel giorno di festa sembrano poco immaginabili.
D'altra parte, l'ultima cena di Gesù appare così strettamente legata alla tradizione della Pasqua che la negazione del suo carattere pasquale risulta problematica.
Per questo già da sempre sono stati fatti dei tentativi di conciliare le due cronologie tra loro. Il tentativo più importante - e in molti particolari affascinante - di giungere ad una compatibilità tra le due tradizioni proviene dalla studiosa francese Annie Jaubert, che fin dal 1953 ha sviluppato la sua tesi in una serie di pubblicazioni. Non dobbiamo qui entrare nei dettagli di tale proposta; limitiamoci all'essenziale. In questo modo la tradizione sinottica e quella giovannea appaiono ugualmente giuste sulla base della differenza tra due calendari diversi.
La studiosa francese fa notare che le cronologie tramandate (nei sinottici e in Giovanni) devono mettere insieme una serie di avvenimenti nello spazio stretto di poche ore: l'interrogatorio davanti al sinedrio, il trasferimento davanti a Pilato, il sogno della moglie di Pilato, l'invio ad Erode, il ritorno da Pilato, la flagellazione, la condanna a morte, la via crucis e la crocifissione.
Collocare tutto questo nell'ambito di poche ore sembra - secondo Jaubert - quasi impossibile. Rispetto a ciò la sua soluzione offre uno spazio temporale che va dalla notte tra martedì e mercoledì fino al mattino del venerdì. In quel contesto la studiosa mostra che in Marco per i giorni "Domenica delle palme", lunedì e martedì c'è una precisa sequenza degli avvenimenti, ma che poi egli salta direttamente alla cena pasquale. Secondo la datazione tramandata resterebbero quindi due giorni su cui non viene riferito nulla. Infine Jaubert ricorda che in questo modo il progetto delle autorità giudaiche, di uccidere Gesù puntualmente ancora prima della festa, avrebbe potuto funzionare. Pilato, tuttavia, con la sua titubanza avrebbe poi rimandato la crocifissione fino al venerdì.
Contro il cambio della data dell'ultima cena dal giovedì al martedì parla, però, l'antica tradizione del giovedì, che comunque incontriamo chiaramente già nel II secolo. Ma a ciò la signora Jaubert obietta citando il secondo testo su cui si basa la sua tesi: si tratta della cosiddetta Didascalia degli Apostoli, uno scritto dell'inizio del III secolo, che fissa la data della cena di Gesù al martedì.
La studiosa cerca di dimostrare che quel libro avrebbe accolto una vecchia tradizione, le cui tracce sarebbero ritrovabili anche in altri testi. A questo bisogna, però, rispondere che le tracce della tradizione, manifestate in questo modo, sono troppo deboli per poter convincere. L'altra difficoltà consiste nel fatto che l'uso da parte di Gesù di un calendario diffuso principalmente in Qumran è poco verosimile.
Per le grandi feste, Gesù si recava al tempio. Anche se ne ha predetto la fine e l'ha confermata con un drammatico atto simbolico, Egli ha seguito il calendario giudaico delle festività, come dimostra soprattutto il Vangelo di Giovanni. Certo, si potrà consentire con la studiosa francese sul fatto che il Calendario dei Giubilei non era strettamente limitato a Qumran e agli Esseni.
Ma ciò non basta per poterlo far valere per la Pasqua di Gesù. Così si spiega perché la tesi di Annie Jaubert, a prima vista affascinante, dalla maggioranza degli esegeti venga rifiutata.
Io l'ho illustrata in modo così particolareggiato, perché essa lascia immaginare qualcosa della molteplicità e complessità del mondo giudaico al tempo di Gesù - un mondo che noi, nonostante tutto l'ampliamento delle nostre conoscenze delle fonti, possiamo ricostruire solo in modo insufficiente.
Non disconoscerei, quindi, a questa tesi ogni probabilità, benché in considerazione dei suoi problemi non sia possibile semplicemente accoglierla.
Che cosa dobbiamo dunque dire? La valutazione più accurata di tutte le soluzioni finora escogitate l'ho trovata nel libro su Gesù di John P. Meier, che alla fine del suo primo volume ha esposto un ampio studio sulla cronologia della vita di Gesù.
Egli giunge al risultato che bisogna scegliere tra la cronologia sinottica e quella giovannea e dimostra, in base all'insieme delle fonti, che la decisione deve essere in favore di Giovanni.
Giovanni ha ragione: al momento del processo di Gesù davanti a Pilato, le autorità giudaiche non avevano ancora mangiato la Pasqua e per questo dovevano mantenersi ancora cultualmente pure. Egli ha ragione: la crocifissione non è avvenuta nel giorno della festa, ma nella sua vigilia. Ciò significa che Gesù è morto nell'ora in cui nel tempio venivano immolati gli agnelli pasquali. Che i cristiani in ciò vedessero in seguito più di un puro caso, che riconoscessero Gesù come il vero Agnello, che proprio così trovassero il rito degli agnelli portato al suo vero significato - tutto ciò è poi solo normale.
Rimane la domanda: Ma perché allora i sinottici hanno parlato di una cena pasquale? Su che cosa si basa questa linea della tradizione? Una risposta veramente convincente a questa domanda non la può dare neppure Meier. Ne fa tuttavia il tentativo - come molti altri esegeti - per mezzo della critica redazionale e letteraria. Cerca di dimostrare che i brani di Marco, 14, 1a e 14, 12-16 (gli unici passi in cui presso Marco si parla della Pasqua) sarebbero stati inseriti successivamente.
Nel racconto vero e proprio dell'ultima cena non si menzionerebbe la Pasqua.
Questa operazione - per quanto molti nomi importanti la sostengano - è artificiale. Rimane però giusta l'indicazione di Meier che cioè, nella narrazione della cena stessa presso i sinottici, il rituale pasquale appare tanto poco quanto presso Giovanni.
Così, pur con qualche riserva, si potrà aderire all'affermazione: "L'intera tradizione giovannea (...) concorda pienamente con quella originaria dei sinottici per quanto riguarda il carattere della cena come non appartenente alla Pasqua" (A Marginal Jew, I, p. 398).
Ma allora, che cosa è stata veramente l'ultima cena di Gesù? E come si è giunti alla concezione sicuramente molto antica del suo carattere pasquale?
La risposta di Meier è sorprendentemente semplice e sotto molti aspetti convincente. Gesù era consapevole della sua morte imminente. Egli sapeva che non avrebbe più potuto mangiare la Pasqua. In questa chiara consapevolezza invitò i suoi ad un'ultima cena di carattere molto particolare, una cena che non apparteneva a nessun determinato rito giudaico, ma era il suo congedo, in cui Egli dava qualcosa di nuovo, donava se stesso come il vero Agnello, istituendo così la sua Pasqua.
In tutti i Vangeli sinottici fanno parte di questa cena la profezia di Gesù sulla sua morte e quella sulla sua risurrezione. In Luca essa ha una forma particolarmente solenne e misteriosa: "Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio" (22, 15 s).
La parola rimane equivoca: può significare che Gesù, per un'ultima volta, mangia l'abituale Pasqua con i suoi. Ma può anche significare che non la mangia più, ma s'incammina verso la Pasqua nuova.
Una cosa è evidente nell'intera tradizione: l'essenziale di questa cena di congedo non è stata l'antica Pasqua, ma la novità che Gesù ha realizzato in questo contesto. Anche se questo convivio di Gesù con i Dodici non è stata una cena pasquale secondo le prescrizioni rituali del giudaismo, in retrospettiva si è resa evidente la connessione interiore dell'insieme con la morte e risurrezione di Gesù: era la Pasqua di Gesù. E in questo senso Egli ha celebrato la Pasqua e non l'ha celebrata: i riti antichi non potevano essere praticati; quando venne il loro momento, Gesù era già morto. Ma Egli aveva donato se stesso e così aveva celebrato con essi veramente la Pasqua. In questo modo l'antico non era stato negato, ma solo così portato al suo senso pieno.
La prima testimonianza di questa visione unificante del nuovo e dell'antico, che realizza la nuova interpretazione della cena di Gesù in rapporto alla Pasqua nel contesto della sua morte e risurrezione, si trova in Paolo In 1 Corinzi, 5, 7: "Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!" (cfr. Meier A Marginal Jew, p. 429 ss). Come in Marco, 14, 1 si susseguono qui il primo giorno degli Azzimi e la Pasqua, ma il senso rituale di allora è trasformato in un significato cristologico ed esistenziale. Gli "azzimi" devono ora essere costituiti dai cristiani stessi, liberati dal lievito del peccato. L'Agnello immolato, però, è Cristo.
In ciò Paolo concorda perfettamente con la descrizione giovannea degli avvenimenti. Per lui, morte e risurrezione di Cristo sono diventate così la Pasqua che perdura. In base a ciò si può capire come l'ultima cena di Gesù, che non era solo un preannuncio, ma nei Doni eucaristici comprendeva anche un'anticipazione di croce e risurrezione, ben presto venisse considerata come Pasqua - come la sua Pasqua. E lo era veramente.
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E Giuda entrò nella notte

Dal quarto punto del terzo capitolo intitolato "La lavanda dei piedi".

La pericope della lavanda dei piedi ci mette di fronte a due differenti forme di reazione dell'uomo a questo dono: Giuda e Pietro. Subito dopo aver accennato all'esempio, Gesù comincia a parlare del caso di Giuda. Giovanni ci riferisce, al riguardo, che Gesù fu profondamente turbato e dichiarò: "In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà" (13, 21).
Tre volte Giovanni parla del "turbamento" ovvero della "commozione" di Gesù: presso il sepolcro di Lazzaro (cfr. 11, 33. 38); la "Domenica delle Palme" dopo la parola sul chicco di grano morto, in una scena che richiama da vicino l'ora del Monte degli ulivi (cfr. 12, 24-27); e infine qui. Sono momenti in cui Gesù incontra la maestà della morte ed è toccato dal potere delle tenebre - un potere che è suo compito combattere e vincere.
Ritorneremo a questa "commozione" dell'anima di Gesù, quando rifletteremo sulla notte del Monte degli ulivi. Torniamo al nostro testo. L'annuncio del tradimento suscita comprensibilmente agitazione e, al contempo, curiosità tra i discepoli. "Uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. Ed egli, chinandosi sul petto di Gesù, gli disse: "Signore, chi è?''. Rispose Gesù: "È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò''" (13, 23 ss). Per la comprensione di questo testo bisogna anzitutto tener conto del fatto che per la cena pasquale era prescritto lo stare adagiati a tavola.
Charles K. Barrett spiega il versetto appena citato così: "I partecipanti ad una cena stavano sdraiati sulla loro sinistra; il braccio sinistro serviva a sostenere il corpo; quello destro era libero per essere usato. Il discepolo alla destra di Gesù aveva quindi il suo capo immediatamente davanti a Gesù, e si poteva conseguentemente dire che era adagiato presso il suo petto. Ovviamente era in grado di parlare in confidenza con Gesù, ma il suo non era il posto d'onore più alto; questo era situato a sinistra dell'ospitante. Il posto occupato dal discepolo amato era nondimeno il posto di un intimo amico"; Barrett fa notare in questo contesto che esiste una descrizione parallela in Plinio (p. 437).
Così come è qui riportata, la risposta di Gesù è totalmente chiara. Ma l'evangelista ci fa sapere che, tuttavia, i discepoli non capirono a chi si riferiva.
Possiamo quindi supporre che Giovanni, ripensando all'evento, abbia dato alla risposta una evidenza che essa per i presenti, sul momento, non aveva. Il versetto 18 ci mette sulla giusta traccia. Qui Gesù dice: "Deve compiersi la Scrittura: Colui che mangia il mio pane, ha alzato contro di me il suo calcagno" (cfr. Salmi, 41, 10; 55, 14).
È questo lo stile caratteristico del parlare di Gesù: con parole della Scrittura Egli allude al suo destino, inserendolo allo stesso tempo nella logica di Dio, nella logica della storia della salvezza. Successivamente tali parole diventano totalmente trasparenti; si rende chiaro che la Scrittura descrive veramente il suo cammino - ma sul momento rimane l'enigma. Inizialmente se ne arguisce soltanto che colui che tradirà Gesù è uno dei commensali; diventa evidente che il Signore deve subire sino alla fine e fin nei particolari il destino di sofferenza del giusto, un destino che appare in molteplici modi soprattutto nei Salmi. Gesù deve sperimentare l'incomprensione, l'infedeltà fino all'interno del cerchio più intimo degli amici e così "compiere la Scrittura". Egli si rivela come il vero soggetto dei Salmi, come il "Davide", dal quale essi provengono e mediante il quale acquistano senso.
Giovanni, scegliendo al posto dell'espressione usata nella Bibbia greca per "mangiare" la parola tro-gein con cui Gesù nel suo grande discorso sul pane indica il "mangiare" il suo corpo e sangue, cioè il ricevere il Sacramento eucaristico (cfr. Giovanni, 6, 54-58), ha aggiunto una nuova dimensione alla parola del Salmo ripresa da Gesù come profezia sul proprio cammino.
Così la parola del Salmo getta anticipatamente la sua ombra sulla Chiesa che celebra l'Eucaristia, nel tempo dell'evangelista come in tutti i tempi: con il tradimento di Giuda la sofferenza per la slealtà non è finita. "Anche l'amico in cui confidavo, che con me divideva il pane, contro di me alza il suo piede" (Salmi, 41, 10). La rottura dell'amicizia giunge fin nella comunità sacramentale della Chiesa, dove sempre di nuovo ci sono persone che prendono "il suo pane" e lo tradiscono. La sofferenza di Gesù, la sua agonia, perdura sino alla fine del mondo, ha scritto Pascal in base a tali considerazioni (cfr. Pensées, VII, 553). Possiamo esprimerlo anche dal punto di vista opposto: Gesù in quell'ora si è caricato del tradimento di tutti i tempi, della sofferenza che viene in ogni tempo dall'essere traditi, sopportando così fino in fondo le miserie della storia.
Giovanni non ci dà alcuna interpretazione psicologica dell'agire di Giuda; l'unico punto di riferimento che ci offre è l'accenno al fatto che Giuda, come tesoriere del gruppo dei discepoli, avrebbe sottratto il loro denaro (cfr. 12, 6).
Quanto al contesto che ci interessa, l'evangelista dice soltanto laconicamente: "Allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui" (13, 27). Ciò che a Giuda è accaduto per Giovanni non è più psicologicamente spiegabile. È finito sotto il dominio di qualcun altro: chi rompe l'amicizia con Gesù, chi si scrolla di dosso il suo "dolce giogo", non giunge alla libertà, non diventa libero, ma diventa invece schiavo di altre potenze - o piuttosto: il fatto che egli tradisce questa amicizia deriva ormai dall'intervento di un altro potere, al quale si è aperto.
Tuttavia, la luce che, provenendo da Gesù, era caduta nell'anima di Giuda, non si era spenta del tutto. C'è un primo passo verso la conversione: "Ho peccato", dice ai suoi committenti. Cerca di salvare Gesù e ridà il denaro (cfr. Matteo, 27, 3 ss). Tutto ciò che di puro e di grande aveva ricevuto da Gesù, rimaneva iscritto nella sua anima - non poteva dimenticarlo.
La seconda sua tragedia - dopo il tradimento - è che non riesce più a credere a un perdono. Il suo pentimento diventa disperazione. Egli vede ormai solo se stesso e le sue tenebre, non vede più la luce di Gesù - quella luce che può illuminare e superare anche le tenebre. Ci fa così vedere il modo errato del pentimento: un pentimento che non riesce più a sperare, ma vede ormai solo il proprio buio, è distruttivo e non è un vero pentimento.
Fa parte del giusto pentimento la certezza della speranza - una certezza che nasce dalla fede nella potenza maggiore della Luce fattasi carne in Gesù. Giovanni conclude il brano su Giuda in modo drammatico con le parole: "Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte" (13, 30).
Giuda esce fuori - in un senso più profondo. Entra nella notte, va via dalla luce verso il buio; il "potere delle tenebre" lo ha afferrato (cfr. Giovanni, 3, 19; Luca, 22, 53).
 (©L'Osservatore Romano - 3 marzo 2011)


Caso Yara, l'orco é il male che si annida nell'uomo e dentro di noi. Banale dare visioni diverse da quelle del parroco. Sconcertante mancanza di informazione di Bruno Volpe, da http://www.pontifex.roma.it

La omelia del parroco di Brembate ha creato qualche equivoco. Il sacerdote ha detto che l' orco é tra di noi. Molti hanno preso questa frase in senso letterale e hanno pensato, incautamente, che il prete forse sapesse il nome del presunto omicida. Una baggianata. Ne parliamo con il noto psichiatra professor Alessandro Meluzzi. Professore, chi é questo orco?: " dunque, la mia idea é che il prete abbia inteso la parola in senso agostiniamo, voleva dire che il male é presente tra di noi, che nella nostra condizione umana il male circola e ci sta, ma non penso che volesse alludere a quelche persona specifica". Eppure é circolata questa intepretazione: " qualche superficiale esiste sempre, lo ribadisco, la versione corretta, teologicamente ed anche secondo logica, é che il prete intendesse riferirsi generalmente alla visione e al concetto del male e che non sappia nulla. Come al solito si fanno e sollevano polveroni ogni volta che parla un uomo di chiesa". Ma se per caso il prete sapesse per via della confessione il nome?: " ho avuto una polemica televisiva con la Mussolini che evidentemente come altri disconosce il diritto canonico. Anche nella denegata ipotesi che il killer, e mi sento di escluderlo, si fosse confessato col  prete, costui ha tutto il diritto e aggiungo il dovere, di mantenere fermo il segreto della confessione. Commetterebbe lui un grave abuso. Certo,  avrebbe anche il dovere di negare l' asosluzione e il perdono se prima l' omicida non scontasse il debito con la giustizia, questo é vero".

Che idea si é fatto di questo caso?: " non escluderei la ipotesi della setta satanica, del resto da quelle parti ci furono le bestie di Satana, come quella del regolamento di conti col padre o di un balordo, ma non mi sento di avallare la pista sessuale".

Ultimamente molti ragazzini al centro di efferati delitti, Sarha, Yara, le gemelline in Svizzera. Non sarà che tutti questi programmi dedicati ai delitti possono suscitare spirito di emulazione in menti deboli?: " no, anche perché genaralmente queste trasmissioni televisive sono trattate con garbo e da professionisti seri. Non vedo un rischio emulazione e del resto mettendo la sordina o il bavaglio non cambierebbe proprio nulla, se esistono menti malate".


Presentato al Senato il libro del medico e rianimatore Alberto Zangrillo, 2 marzo, 2011, www.uccronline.it

E’ stato presentato ieri al Senato della Repubblica il libro di Alberto Zangrillo, direttore dell’Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione Cardio-Toraco-Vascolare presso l’Istituto Scientifico Universitario San Raffaele di Milano. Si intitola “Ri-animazione. Tecnica e sentimento” (Editrice San Raffaele, 2010). Un punto di vista quindi altamente informato e professionale, assolutamente non politico (anche se ovviamente la sua esperienza viene usata per prendere decisioni politiche). Durante l’incontro ha attaccato il senatore Marino, paladino del testamento biologico: «E’ un’infamia affermare che nelle rianimazioni italiane i medici pratichino l’eutanasia in segreto. Sfido il senatore Marino a dimostrare il contrario di quello che affermo: controlli pure tutte le cartelle dei miei pazienti. Non ho mai staccato la spina e insinuare il dubbio che qualche medico compia un omicidio in segreto è un’infamia». Riferendosi poi ai pareri sul testamento biologico che si sono affacciati in questi giorni sui quotidiani afferma: «hanno trovato spazio sui giornali persone che si sono sempre occupate di altro, spesso nel tentativo di preparare il terreno all’eutanasia» (cfr. Libero). «Basta con gli “esperti” improvvisati. E’ sceso in campo anche Roberto Saviano, personaggio che ci invidia tutto il mondo. Però tutto quanto lui dica su questo argomento per me conta zero». Presente anche Mario Melazzini, medico malato di Sla, vive su una carrozzella, si nutre con la Peg, è il presidente dell`Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica, il quale è intervenuto dicendo: «Il senatore Calabrò ha avuto poco fa un gesto di cortesia nei miei confronti: mi ha versato dell’acqua nel bicchiere. Eppure secondo qualcuno, se viene fatto a una persona nelle mie condizioni, non è un gesto di gentilezza, ma una terapia» (cfr. Avvenire). Zangrillo aveva già avuto modo in passato di esprimere il suo deciso parere contrario, da medico professionista, all’eutanasia e al testamento biologico (cfr. Ultimissima 17/12/10).


La "fabbrica" dei figli e le sue conseguenze di Andrea Tornielli, 03-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

C’è una storia che arriva dalla Germania e che ci mostra, una volta di più, quanto sia delicato legiferare sulle questioni che riguardano la vita e soprattutto quanto appartenga al comune buon senso limitare la fecondazione artificiale al solo caso dell’omologa, cioè di quella che utilizza seme e ovulo della coppia di aspiranti genitori.

Un professore tedesco, Klaus Schröder, 52 anni, nel dicembre 2005 lesse un annuncio sul giornale e apprese che una coppia lesbica era alla ricerca di un donatore di sperma per poter avere un bambino. Il professore si fece avanti e offrì quell’apporto indispensabile senza il quale le due donne non avrebbero mai potuto procreare.

Dopo la nascita del bambino, Schröder, che non aveva figli, si fece vedere dalle due mamme andando a trovare il piccolo una volta al mese, decidendo anche di pagare le spese per il battesimo del piccolo David.

Qualche mese fa, la sorpresa: il professore generoso donatore, si è vista recapitare una nuova richiesta, questa volta non di sperma ma di denaro. L’avvocato della coppia omosessuale gli ha infatti inviato una lettera con cui chiede notizie sui suoi redditi per stabilire qual è la cifra esatta che Schröder dovrà pagare per il mantenimento del bambino.

È vero che le due donne avevano dichiarato a suo tempo di non volere aiuti economici, ma la legge tedesca stabilisce che il padre biologico ha sempre l'obbligo di provvedere economicamente al figlio finché questi è minorenne.

Ora il professore è deciso ad andare in tribunale, per chiedere una modifica della giurisprudenza, anche se la sua sarà probabilmente una battaglia persa. Va ricordato che la Costituzione della Germania garantisce a ogni bambino il diritto di conoscere l’identità del proprio padre e anche le banche dello sperma sono obbligate a rivelare sempre l’identità del donatore del seme quando a richiederlo è il figlio biologico.

Una storia esemplare. Con padri biologici, madri in affitto, uteri in prestito o in usocapione, banche del seme, sperma in leasing, fecondazioni in vitro e chi più ne ha più ne metta, non solo si manipola la vita, ma si finisce con il creare situazioni insostenibili. Il figlio, un tempo dono conseguente di un (piacevole) atto d’amore, è diventato prima un diritto, poi un capriccio da ottenere ad ogni costo, incrociando materiali biologici, perché anche le coppie composte da due uomini o due donne «devono» poter procreare. Ma per quanto riguarda le conseguenze di questa catena di montaggio della vita, per gravidanze a-la-carte, siamo soltanto all’inizio.


Roccella: «Dobbiamo fermare chi vuole l'eutanasia» di Danilo Quinto, 03-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

“Noi vogliamo evitare che nel nostro Paese vengano introdotte prassi eutanasiche per via giudiziaria”. E’ netta il Sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, nello spiegare i motivi del disegno di legge sul fine vita che andrà in discussione alla Camera dei Deputati il prossimo 7 marzo.

Lei afferma, quindi, che nel nostro Paese c’è una volontà di introdurre l’eutanasia?
Mi sembra non ci siano dubbi. C’è una formidabile campagna pro-eutanasia, dotata di un armamentario non indifferente, che si è rafforzata grazie all’introduzione di alcune prassi mediche per via giudiziaria. Il fenomeno non è nuovo. E’ accaduto anche in altri Paesi.
Ci fa qualche esempio?
Negli Stati Uniti, i casi sono stati numerosi. Cito  quelli di Nancy Cruzan e Antony Bland, ad esempio. Poi c’è da considerare il caso paradigmatico dell’Olanda, dove l’ eutanasia è stata introdotta dopo quindici anni di sentenze che autorizzavano prassi mediche eutanasiche. Anche in Italia, se il Parlamento non intervenisse in questa materia, vi sarebbero decine e decine di sentenze, che introdurrebbero di fatto l’eutanasia.
L’Italia cosa c'entra con questi casi?
Mi sembra evidente che nel “caso Englaro”, i giudici della Corte d’Appello di Milano abbiano voluto introdurre una prassi, desumendo ex post la volontà del soggetto, da una conversazione riportata dai familiari o da presunti “stili di vita”. Creando, quindi, un grave precedente, in base al quale non occorre il consenso informato, che deve essere invece a fondamento di una legge che voglia garantire la libertà individuale. Le leggi devono essere fatte dal Parlamento, non dalla magistratura.

Qual è l’aspetto più importante della legge che andrà in discussione?
Innanzitutto, non è una legge sul testamento biologico. Non ha questo nome e non intende averlo. Stabilisce, per la prima volta, la necessità, per qualunque trattamento, di un consenso informato, secondo il principio liberale del conoscere per deliberare. E’ una legge sul consenso informato e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Il consenso informato era una prassi, ma non è stato mai normato. La dichiarazione anticipata di trattamento non è altro che una modalità in cui si deve svolgere il consenso informato, in previsione di una condizione che forse una volta nella vita di una persona si può realizzare. La definirei una legge che sancisce il rapporto di alleanza terapeutica tra medico e paziente. Una legge di libertà.
In un recente articolo apparso sul “Corriere della Sera”, Ernesto Galli della Loggia, richiamando l’art. 31 della Costituzione – “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario” – pone dei dubbi sull’ispirazione liberale del disegno di legge, laddove si prevede che il soggetto incapace d’intendere e di volere, che ha reso in precedenza dichiarazioni anticipate di trattamento, sia in sostanza privato della sua volontà, sostituita da quella del medico, che ha il compito di decidere. Cosa risponde a quest’obiezione? Con questa legge viene rispettata la volontà del paziente, in ogni caso?
E’ un’obiezione che non condivido. Nel 2003, il Comitato Nazionale di Bioetica scriveva, in un suo parere:  “E’ come se, grazie alle dichiarazioni anticipate, il dialogo tra medico e paziente idealmente continuasse anche quando il paziente non possa più prendervi consapevolmente parte”. All’interno di questo contesto si deve leggere la previsione che, anche in presenza delle dichiarazioni anticipate di trattamento, il medico agisca in base a “scienza e coscienza”, svolgendo la sua valutazione, con libertà ed autonomia, anche non applicando una terapia che in base alla sua valutazione ritiene non adeguata.
Non viene lesa, così, la volontà del paziente?
Assolutamente, no. Se questo avvenisse, il paziente – nel caso di un soggetto in stato d’incoscienza può farlo un parente o il fiduciario – può rivolgersi ad un altro medico. Vorrei anche ricordare che il medico deve sempre motivare nella cartella clinica la mancata applicazione delle dichiarazioni anticipate di trattamento e questa motivazione, se non condivisa dal paziente (o da chi per lui), può essere oggetto di contenzioso giudiziario.
C’è anche un altro elemento da considerare, non trascurabile: le dichiarazioni anticipate di trattamento vengono rese in previsione di un evento che si potrebbe realizzare, ‘ora per allora’. Se fossero totalmente vincolanti per il medico, si potrebbe verificare la possibilità di privare il paziente di nuove terapie nel frattempo scoperte o di eventualità di assistenza e cura non previste nelle dichiarazioni anticipate di trattamento. Mi sembra, quindi, che la procedura prevista salvaguardi entrambe le libertà, quella del paziente e quella del medico, tenendo ben presenti due principi: quello dell’autodeterminazione e quello dell’alleanza terapeutica.


Carlo Casini: «Legge buona, impedisce l'eutanasia» di Marco Respinti, 03-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

«Va fatta, la legge va fatta». Carlo Casini, presidente del Movimento per la Vita ed europarlamentare dell’Udc, non ha dubbi in merito alla proposta di legge sul fine-vita il cui iter inizierà lunedì alla Camera.

Però non manca chi, anche da parte cattolica, sostiene che la cosa potrebbe trasformarsi in un boomerang…
Già, e così avremmo subito mille Eluana Englaro.

Ma non ha forse ragione chi preferisce il vuoto legislativo all’intervento positivo in una materia tanto delicata?
No, perché oggi la questione è già compromessa. Vede, i pochi anche cattolici che mettono in dubbio l’opportunità d’intervenire in parlamento sulle “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica” (Dat) in realtà non conoscono lo stato dell’arte. E pure il diritto. Credono cioè che la legislazione ora vigente impedisca l’eutanasia. Ma non è così. Molto è passato da quando è stato approvato il disegno di legge Calabrò nel marzo 2009. La Corte di Cassazione è intervenuta. Tutti i casi finiti in tribunale di medici che sono intervenuti propiziando la morte dei pazienti si sono sempre invariabilmente conclusi con l’assoluzione fino all’ultimo grado di giudizio. No, la situazione attuale non difende la vita: occorre allora intervenire per porre un freno.  Ne sono assolutamente convinto. Lasciare così le cose non configura un “virtuoso” buco legislativo, ma favorisce la cultura dell’eutanasia.

La proposta di legge che da lunedì andrà in discussione alla Camera è dunque cosa buona?
Sono possibili obliquità e stravolgimenti, ma eventualmente dopo. Per ora il testo è chiaro. Impedisce l’eutanasia. Chi non lo difende rischia di favorire proprio le posizioni che vorrebbe contrastare.

Gli assenti insomma hanno sempre torto…
Esatto. Se vi dovessero in futuro essere mutamenti nel testo, battaglieremo; ma per ora la proposta è solida. In realtà, chi si accanisce davvero contro quel testo è oggi proprio chi è favorevole all’eutanasia. Per costoro la proposta di legge presto in discussione è un bastione insuperabile. Il che mi conferma un volta di più la bontà di ciò che stiamo andando a fare.

Lei è però fra quanti sostiene che non basta una legge a risolvere la questione.
Certo, anzitutto vi sono i medici, quelli che operano quotidianamente nel settore, a cui è affidata la vita dei pazienti. Sono i medici e i pazienti i soggetti primi di tutto, e nessun provvedimento legislativo può sostituirsi all’imprescindibile rapporto umano che deve intercorrere fra loro.
L’approvazione della legge sulle cure palliative porta per esempio l’attenzione su una questione decisiva. È una bella e significativa novità. Del resto occorre sempre che il malato non venga lasciato solo, che abbia accanto i parenti ma pure le strutture sanitarie. I pazienti debbono essere aiutati a vivere o anche eventualmente a morire in modo naturale, mai da soli. E su questo non c’è legge che tenga: occorre un enorme impegno culturale ed educativo preventivo…


Isimbaldi: «Serve una nuova cultura medica» di Raffaella Frullone, 03-03-2011, http://labussolaquotidiana.it

«Prendersi cura include la libertà di affezionarsi al paziente e scegliere la migliore terapia farmacologica, insieme all’insostituibile terapia relazionale. Se una persona si sente amata, non desidera la morte. C’è bisogno una nuova generazione di medici, più che di una legge». Così l’associazione Medicina e Persona si esprime in merito al provvedimento legislativo relativo al testamento biologico che tra poco sarà nuovamente discusso. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Clementina Isimbaldi, presidente dell’associazione.

Perché dite no alla legge che il 7 marzo sarà discussa in aula alla Camera?
L’esperienza ci porta a farlo. Io personalmente sono un medico pediatra e posso assicurare che mai, anche in presenza di patologie molto gravi, ci viene chiesto di sopprimere la vita di un figlio pur sofferente che sia. E la dinamica si ripete con gli adulti, è difficile che una persona che si sente amata chieda di morire, per questo diciamo no ad una legge che regolamenti il fine vita. Possiamo già contare su strumenti pofessionali e legislativi che ci mettono in grado di valutare il meglio per ogni paziente .

Nell’editoriale che avete scritto qualche giorno fa sottolineate l’importanza della formazione dei medici, per quale ragione?
Non c’è altro modo di salvare tante Eluana se non attraverso maestri che riprendano a formare medici amanti della propria professione perché capaci di amare il proprio destino e il destino di chi è loro affidato. Soltanto con la formazione potremo lottare contro la diffusa mentalità che la vita fragile e indifesa sia indegna di essere vissuta.

Secondo voi questa legge rischia dunque di mettere a protocollo l’atteggiamento del medico di fronte al malato?
Certo, ed è l’inizio di un contezioso quotidiano tra chi assiste e cura e il fiduciario. Non solo, sono aberranti le conseguenze pratiche di un provvedimento del genere. Provo ad immaginare di trovarmi di fronte ad un paziente nella fase finale di una malattia degenerativa, o gravemente disabile, o con le funzionalità gravemente compromesse dopo un incidente… ecco che arriva e io sarei tenuta a chiedere “Ha compilato le dichiarazioni anticipate di trattamento? Ce le ha qui o le ha affidate a qualcuno? Questa persona è rintracciabile? Si ricorda cosa c’è scritto?” E non è tutto, a quel punto un medico potrebbe sentirsi in qualche modo sollevato dall’incarico di valutare il quadro clinico e prendere le decisioni opportune. Il documento avrebbe più valore di una diagnosi,  ce lo dimostra la letteratura medica dei paesi in cui questo tipo di leggi sono già in vigore, e noi non possiamo permettere che accada anche in Italia, non possiamo permettere che siano i cattolici ad appoggiare questo provvedimento perché è chiaro che in qualche modo sarebbe soltanto l’anticamera dell’eutanasia.

Qualcuno potrebbe tuttavia obiettare che in questo modo si limita la libertà, che chi vuole rinunciare alle cure ha il diritto di poterlo fare…
Chi vuole determinare la propria morte o quella di un parente purtroppo lo può fare comunque, attraverso i giudici che modificano l’assetto legislativo, ma la nostra esperienza ci racconta che è sempre il desiderio di vita a prevalere. Desidera morire chi sente una profonda solitudine, chi si sente un peso, chi si sente abbandonato. Il desiderio di morte in realtà è solo un grido rivolto a chi si vorrebbe vicino nell’affrontare il calvario della malattia. In questo noi medici giochiamo un ruolo fondamentale un conto è dire a un paziente “lei soffrirà moltissimo, sarà straziante, oppure suo figlio, sua moglie, suo marito soffriranno tantissimo e probabilmente non sarà cosciente”, un altro è dire “sarà una battaglia difficile ma la affronteremo insieme, ci sono dei modi per alleviare il dolore”, mai di fronte a queste parole ho ascoltato richieste di morte.

Fare il medico significa ancora prendersi cura del paziente, eppure secondo voi si rischia di dimenticarlo...
Prendersi cura include la libertà di affezionarsi e scegliere la migliore terapia farmacologica, insieme all’insostituibile terapia relazionale. Il che non significa proporre o mettere in atto delle terapie ragionevolmente inefficaci a tutti i costi ad un paziente nella fase finale della sua vita, ribadisco che noi non siamo per l’accanimento terapeutico, e sottolineo inoltre che un buon medico sa sempre quando fermarsi. Non solo, rimarco che tra l’accanimento terapeutico e l’eutanasia ci stanno di mezzo due persone, il medico e il paziente, e una relazione autentica tra i due non può condurre in nessun caso verso il desiderio di morte.


Bhatti, ucciso perché cristiano di Mario Mauro, giovedì 3 marzo 2011, il sussidiario.net

Dopo l’uccisione del governatore dello stato del Punjab, avvenuta pochi mesi fa, Shahbaz Bhatti sapeva bene che gli occhi dei fondamentalisti islamici erano tutti su di lui. Sopravvissuto miracolosamente all’attentato che ha portato alla morte di Benhazir Bhutto, aveva bene presente che prima o poi sarebbe giunto il suo momento. Anche per questo non ha mai perso un secondo del tempo che gli restava da vivere, da quando, nel 2008, era5 stato nominato Ministro federale per le minoranze religiose.

Lascia un’eredità inestimabile non solo per la minoranza cristiana, ma per tutto il popolo pakistano. In poco più di due anni Shahbaz Bhatti ha permesso la realizzazione di riforme, o progetti di riforma, che fino a pochi anni fa potevano essere considerate proposte a dir poco visionarie. Grazie a lui il Pakistan stava incominciando a considerare seriamente la possibilità di eliminare quel complesso di norme noto come “leggi sulla blasfemia”, introdotte nel 1982 e nel 1986.

Dal 1986 il codice penale del Pakistan (sezione 295, comma B e C) punisce con l’ergastolo o la pena di morte chiunque profani il Corano o insulti Maometto. Bhatti era stato uno dei pochi a battersi, ad esempio, per la liberazione di Asia Bibi, condannata a morte proprio in nome di queste disposizioni. Ma sono molte altre le opere che si devono al suo impegno per la libertà religiosa. Dall’introduzione, nel 2008, di una quota del 5% per le minoranze di posti di lavoro a livello federale, al riconoscimento delle festività non musulmane. Dalla predisposizione di seggi per i gruppi di minoranza in Senato, anche per le donne, all’impegno per la creazione di una rete di comitati locali per l’armonia interreligiosa.
Shahbaz Bhatti era addirittura riuscito a far assumere al Primo ministro pakistano l’impegno di concedere i diritti di proprietà agli abitanti delle baraccopoli di Islamabad che appartengono a gruppi di minoranza. Il gruppo del Partito popolare europeo lo aveva accolto a Strasburgo nel maggio scorso. Lascia tuttavia sgomenti vedere come all’interno delle istituzioni europee esista ancora chi, senza l’uso delle armi, ma con lo stesso approccio ideologico, elimina scientemente la parola “cristiano” da qualsiasi documento ufficiale.

Lo avevo personalmente ringraziato per la sua testimonianza, sottolineando l’importanza per il Ppe della sua presenza nel quadro della strategia del Gruppo, per la difesa delle minoranze cristiane nel mondo. Il Parlamento europeo qualche giorno dopo ha approvato una risoluzione sul Pakistan, incoraggiando il lavoro del Ministro. Fu l’ultima volta che incontrai Shahbaz Bhatti e proprio in quell’occasione lo invitai al Meeting di Rimini. La risposta positiva è arrivata pochi giorni fa.

Il vuoto lasciato da Shahbaz Bhatti è difficile da colmare. E sarà ancora più difficile se il mondo “libero” non si renderà conto che la dignità dell’uomo e la libertà che tutti cercano, non possono prescindere dal riconoscimento di una verità che è per tutti e che si intravede passando attraverso la legittimazione totale e senza condizioni della diversità dell’altro.


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PAPA/ Con "Gesù di Nazareth" Benedetto XVI difende la fede del popolo di Dio di Massimo Camisasca, giovedì 3 marzo 2011, il sussidiario.net

Il Papa, ogni Papa, è vicario di Cristo. La sua elezione, il suo ministero, la sua stessa persona non sono comprensibili se non in rapporto alla persona di Gesù di Nazareth, il Verbo di Dio fatto uomo. È nel dialogo con il suo Signore che egli ha accettato la sua nomina a successore di Pietro, è nella continuità di tale rapporto che ogni giorno cerca il significato e la forza di ciò che compie e dice.

Se c’è un dovere del Papa, questo è di interrogarsi su chi sia Cristo per lui, per gli uomini e per il mondo. È ciò che Benedetto XVI ha voluto fare lavorando in questi primi sei anni di pontificato all’opera che certamente rimarrà come una delle più importanti della sua vita. Iniziata quando era ancora cardinale, ha costituito il contenuto di tante sue riflessioni, studi, ricerche, preghiere di questi anni. Per essa ha sacrificato ore e giorni di riposo.

Dopo una prima parte dedicata ai tre anni della predicazione di Cristo, ecco ora una seconda dedicata ai giorni della Passione e, in particolare, al Triduo che comprende anche la morte e la resurrezione. Sappiamo che è già stata abbozzata una terza parte, forse interamente scritta, dedicata al commento dei vangeli dell’infanzia di Matteo e di Luca. Questi ultimi costituiscono dei testi con un loro particolare andamento, che possono essere letti, studiati e meditati con un’attenzione specifica, previa o successiva alla meditazione delle altre pagine del vangelo.

La vita di Gesù, come è riportata dai vangeli, può essere vista come un processo di progressiva concentrazione: dopo i lunghi anni di preparazione, il tempo breve della predicazione e poi i giorni brevissimi della passione, morte e resurrezione. Eppure è proprio da queste ultime ore che è partita la riflessione commossa dei primi cristiani e la raccolta delle testimonianze su Gesù di Nazareth, che si è allargata successivamente agli altri tempi della vita del Messia.
San Paolo poteva dire: Non conosco altro che Cristo e questi crocefisso (Cfr. 1Cor 2,2). È comprensibile dunque perché Benedetto XVI abbia voluto dedicare un intero volume a queste ore decisive. L’intento è sicuramente analogo a quello che abbiamo trovato già espresso nella prima parte dell’opera pubblicata nel 2007: mostrare che il Gesù della fede e quello della storia non sono due persone diverse, come invece si è voluto fare da parte di molti esegeti, soprattutto durante il secolo passato. Il Gesù che la fede, cioè la tradizione della Chiesa, ci ha trasmesso, non è un personaggio inventato, il frutto di un sentimento irrazionale che non sa rivolgersi ai fatti. Egli è veramente esistito e di lui abbiamo tante testimonianze quasi contemporanee alla sua stessa esistenza, scritte per trasmettere gli eventi della sua vita, ma anche il contenuto salvifico che essi portavano agli uomini. In questo modo fede e storia non si escludono, ma si integrano e si spiegano a vicenda.

L’opera di Benedetto XVI su Gesù di Nazareth si pone quindi come frutto di un lungo lavoro esegetico, che non dimentica né le antiche, ma pur sempre vive, letture dei Padri, né il travaglio del metodo storico-critico o delle più recenti teorie sulle strutture letterarie. Seguendo l’esegesi del Papa che, tra l’altro, con quest’opera non intende porre un atto magisteriale, ritroviamo le varie tappe che la lettura critica e meditativa della Scrittura ha percorso in duemila anni di storia ecclesiale. Siamo ora a un punto di svolta, ad un momento nuovo ed estremamente semplice. Un momento che intende unire la sapienza degli antichi padri all’acutezza critica dell’esegesi moderna. Un’opera che ha a cuore soprattutto la fede del popolo di Dio, che vuole alimentare e difendere e da cui trae le certezze fondamentali, i punti di guida per la propria ricerca.


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Avvenire.it, 3 marzo 2011 - Il libro del Papa/1 - La testimonianza della verità - L’ombra e la luce, Elio Guerriero

Il secondo dei tre libri su Gesù di Benedetto XVI ha per sottotitolo "La settimana santa dall’ingresso a Gerusalemme alla resurrezione". In esso il pontefice persegue con ammirabile tenacia il suo tentativo di delineare una cristologia spirituale nella quale la figura di Gesù viene presentata nella luce della Scrittura e della tradizione consegnataci da Gesù. Al centro del primo volume vi era il monte della nuova legge, l’altura dalla quale Gesù, nuovo Mosè, proclamò le beatitudini rinnovando ed estendendo l’unica alleanza di Dio con Israele a tutti i popoli. Al culmine del nuovo volume vi è il Golgota cui il Papa invita a guardare seguendo il racconto dei Vangeli.

Le anticipazioni di oggi dischiudono tre prospettive diverse dalle quali si può focalizzare il luogo incandescente della rivelazione dell’amore. Anzitutto il Papa non evita la domanda imbarazzante sul traditore che consegna Gesù ai persecutori. Del resto è Gesù stesso a rispondere con una parola della Scrittura: «Colui che mangia il mio pane ha alzato contro di me il suo calcagno». L’affermazione getta fin dall’inizio un’ombra di inquietudine sulla storia della comunità cristiana. Il tradimento, la rottura dell’amicizia sono presenti nella vita della Chiesa.

Le sofferenze che ne derivano si addensano sulle spalle di Gesù provocando un’agonia già segnata dal sangue che verrà versato sulla croce. Vi è poi la prospettiva guadagnata dalla domanda sulla data della celebrazione dell’ultima cena. All’interrogativo il Papa concede notevole spazio perché è rilevante per meglio determinare il significato stesso dell’evento. Secondo i Vangeli la cena ebbe luogo il giovedì sera, solo che per i Sinottici quel giovedì era già la vigilia della Pasqua dei giudei celebrata il venerdì, mentre per Giovanni la pasqua veniva celebrata quell’anno di sabato.

Secondo questa cronologia, cui il Papa accorda la sua preferenza e che è stata confermata dalle ricerche dell’esegeta americano John Meier, la crocifissione di Gesù non avvenne nel giorno di Pasqua dei giudei bensì nella vigilia. Gesù, il vero agnello, morì dunque nell’ora in cui nel tempio venivano immolati gli agnelli. Ma allora che cosa fu l’ultimo pasto? Consapevole della sua morte imminente, Gesù invitò i suoi «a una cena che non apparteneva a nessun rito giudaico, ma era il suo congedo, in cui Egli dava qualcosa di nuovo, donava se stesso come il vero Agnello, istituendo così la sua pasqua» prima della morte del venerdì e del riposo sepolcrale del sabato.

Un’ultima prospettiva risulta dall’interrogatorio di Gesù davanti a Pilato. Anzitutto il pontefice respinge con forza le interpretazioni che hanno voluto addossare agli ebrei la colpa della condanna del Maestro di Nazaret aprendo la strada a un antisemitismo dagli esiti nefasti. Dalla solenne affermazione di Gesù davanti a Pilato: «Sono venuto nel mondo per dare testimonianza alla verità», papa Benedetto deriva poi una delle sue convinzioni fondamentali. La domanda scettica del procuratore romano, «che cos’è la verità?», è in linea con il relativismo dei nostri giorni che vorrebbe ignorare la questione, soprattutto renderla superflua per la vita pubblica. La risposta del Papa, invece, è che Dio stesso è la prima e somma verità. Il mondo è vero nella misura in cui rispecchia la luce di Dio. I credenti sanno che sul monte Gesù ha reso testimonianza alla verità e per il bene stesso del mondo non possono rinunciare alla luce che ne deriva.


Avvenire.it, 3 marzo 2011, Il libro del Papa/2 - Quell’impossibilità di credere al perdono - Nell’ora di Giuda

Il tradimento di Giuda, su cui Benedetto XVI si sofferma nel suo nuovo libro, nel Vangelo di Giovanni è una cronaca di poche parole, scarne ma gravi come il piombo. Gesù che annuncia: «Uno di voi mi tradirà». Il discepolo più amato che gli si china accanto, turbato: «Signore, chi è?» Gesù: «È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò». E: «allora satana entrò in lui». E sembra ancora, a chi duemila anni dopo legge, calato il buio su quella tavola imbandita; come una notte repentina e rapace che cancella ogni cosa. Si avverano le profezie dei Salmi: tutto era stato annunciato, e ora s’incarna. Nello sguardo di Cristo su Giuda, e di Giuda su Cristo (come lo avrà guardato? Con odio, o già con spavento, mentre l’ abisso gli si spalancava davanti?).

Il Papa nel suo libro si ferma sull’ora di Giuda, ci riaccompagna alla tavola dell’ultima cena. Ci riporta in quella sala affollata e all’apparenza festosa dove si perpetra il peggiore tradimento, quello dell’amico. Noi che stiamo a guardare ci chiediamo come è stato possibile. Magari non ce lo domandiamo per Giuda, ma torna, questo sbalordito "perché?", ogni volta che ci troviamo di fronte al mistero del male. (Perché Sarah, 15 anni, uccisa da chi l’aveva tenuta in braccio, bambina? Perché Yara, tredicenne, tradita da qualcuno di cui si fidava?) Su questo eterno attonito "perché" il Papa dice che non è cosa «psicologicamente spiegabile»: Giuda è ormai «sotto il dominio di un altro». Si è aperto a un altro potere, di cui adesso è schiavo. Il dramma del giovedì santo si ripete ancora in quel male grande, inspiegabile di cui gli uomini sono capaci.

È una scelta: è l’aprire la porta a qualcuno che subito occupa, da padrone, la casa. È il riemergere del male originario, come una mano adunca – come, nel "Bacio di Giuda" di Caravaggio, quel braccio di soldato romano, lucente nell’armatura nera , chele di insetto predatore che al segno del bacio traditore afferra Cristo.

E tuttavia non finisce qui la storia di Giuda. Sappiamo, ricorda il Papa, che c’è «un primo passo verso la conversione». Ho peccato, dice Giuda, e cerca di salvare Gesù, e di restituire i denari. E noi, ex scolari distratti di lezioni di catechismo in verità piuttosto noiose, confessiamo di aver provato pena per quell’uomo, il più solo di tutti nella folla di Gerusalemme. Quello che, come tornato in sé, vedendo ciò che ha fatto, insegue chi lo ha comprato, supplica che si riprendano le monete dannate. Però poi Giuda si impicca, e il suo nome per sempre suonerà come una maledizione. Perché nessuna pietà per lui? ci siamo chiesti da bambini.

Ma la seconda tragedia di Giuda è silenziosa. La seconda tragedia di Giuda, dice Benedetto XVI, «è che non riesce più a credere a un perdono. Il suo pentimento diventa disperazione. Egli vede solo sé stesso e le sue tenebre». Non solo il tradimento lo condanna dunque, ma il disperare che Cristo sia di quel tradimento più forte. È un’autocondanna, nello sguardo fisso e ristretto solo ossessivamente su sé. E quanto attuale è duemila anni dopo ripercorrere la «seconda tragedia» di Giuda – nei nostri tempi in cui il suicidio è, in molti Paesi d’Europa, fra le prime cause di morte. Quante disperazioni alzate come mura, a non ammettere, a non lasciar passare alcuna luce. All’incoscienza ebete di chi crede di non avere bisogno di perdono oggi si affianca il nulla di chi non crede alcun perdono possibile. Il più luciferino degli orgogli: farsi giudice di sé, e condannarsi da soli. Rifiutando un abbraccio, in cui ci si dovrebbe riconoscere figli di un padre: creature.

La seconda tragedia di Giuda, la più segreta, certo ben chiara ai teologi e ai dotti ma poco spiegata a noi ex alunni di catechismo, è così drammaticamente moderna. E siamo grati al Papa di averci ricondotto in quella sala, a quella tavola imbandita. Di accompagnarci di nuovo in quei giorni, dietro a quell’uomo; spiegandoci che tutto è vero – oggi, proprio come allora.


Avvenire.it, 3 marzo 2011 – CINEMA - Hopkins esorcista in un film quasi vero di Luca Pellegrini

Il diavolo torna al cinema e sprigiona lo stesso torbido e malefico vapore che nell’inimitabile (era il 1974) avvolgeva Padre Karras e oggi, invece, il diacono Michael Kovac, l’esordiente attore irlandese Colin O’Donoghue. Dopo un’infanzia poco allegra vissuta tra cadaveri e bare, testimone di una tragica morte a cui reagisce con umano turbamento e cristiana pietà, è inviato a Roma per partecipare a un corso per apprendisti esorcisti. Verrà affiancato a Padre Lucas, personaggio arcignamente interpretato da Anthony Hopkins, che lo avvierà malvolentieri alla gavetta: con modi bruschi, gli aprirà la visione del male.

Una sottile linea di confine, spesso oltrepassata, divide la verità dei fatti – e la serietà del tema – dalla finzione, che può trasformare un film in horror vacuo e ripugnante. Sceneggiature e prodotti traballanti ne sono arrivati parecchi sul mercato, anche ultimamente: The Exorcism of Emily Rose, pur con qualche spunto di psicologica profondità e, soprattutto, L’ultimo esorcismo.

Il Rito evita di cedere all’effettistica gratuita, se non in alcuni momenti topici dello scontro risolutivo. Forse perché è ancorato a una storia vera, condensata nel volume Il Rito. Storia vera di un esorcista di oggi (Ed. Sperling & Kupfer), scritto con occhio investigativo nel corso dell’inverno del 2007 dal giornalista americano Matt Baglio, scettico all’inizio, che ha personalmente seguito e fedelmente riportato le esperienze di Padre Gary Thomas, oggi esorcista al servizio di una diocesi californiana. Mikael Håfström, da parte sua, dirige con piglio tragico e controllato creando una dose equilibrata di disagio, giocando sulle ombre e sull’oscurità, sulle sensazioni di freddo e solitudine, sul deterioramento progressivo degli ambienti, manipolando con furbizia le paure e le musiche e contenendo assai opportunamente, fin dove gli è possibile, la recitazione di Hopkins, che sembra sempre più posseduto dal demone di Hannibal Lecter, il folle antropofago del Silenzio degli Innocenti.

Soprattutto, è una storia in positivo: non solo il male, almeno temporaneamente, è sconfitto, ma la fede del giovane americano, prima dubbiosa, viene premiata e la sua vocazione salvata. Padre Lucas, che la sa lunga, irascibile e schietto, sul bordo della crisi e del pericolo, mette in guardia il novizio, che da parte sua fa di tutto per dubitare: «Scegliere di non credere al diavolo – gli dice all’inizio – non ti proteggerà da lui». Sebbene gli incontri si facciano via via più ravvicinati e il nemico si celi là dove mai si potrebbe sospettare, Michael – nomen omen – diventerà alla fine sacerdote per rimettere quei peccati che sono l’alimento dei malvagi e del Malvagio.

Se poi gli esorcismi sprigionano paura e inquietudine, questa è la verità non soltanto del cinema: Il Rito, pur rimanendo problematico nei temi, cerca di non sconfinare in un immaginario finto, eccessivo (pregio sottolineato da molti siti cattolici americani), ma nemmeno nascondere che il male, il diavolo, è un avversario sempre pronto a "divorare", come leone ruggente, chi gli si para dinanzi (1 Pt. 5, 8), facendolo spesso nei modi più terribili e dolorosi. Nel corpo, oltre che nella mente. La guerra è tuttora in corso e il cinema, nel bene e nel male, fatalmente se ne appropria e la racconta.


«Ho visto la morte E ho cambiato idea» - La toccante testimonianza del deputato medico catanese: «Mi volevano staccare la spina» - Avvenire, 3 marzo 2011

Parafrasando Gilbert Keith Chesterton si potrebbe dire che chi difende la vita sta ai fatti e chi propugna il diritto alla morte a una teoria, e delle più disincarnate. La riprova è venuta ieri nel corso della riunione del gruppo del Pdl della Camera. Improvvisamente il vissuto personale ha avuto il sopravvento su argomentazioni e controargomentazioni politiche e giuridiche. «Mi avevano già dato per morto e se i medici non mi avessero rianimato, se avessero staccato la spina, io non sarei qui con voi. Io l’ho visto, il tunnel della luce...», ha raccontato Umberto Scapagnini. Una storia toccante quella dell’ex sindaco di Catania: otto metastasi guarite attraverso una cura sperimentale, nel maggio del 2009 gli avevano già dato l’estrema unzione. «Ero un laico e prima della mia malattia – ha raccontato davanti ai colleghi deputati – avrei chiesto subito che venisse staccata la spina ma ora, dopo quello che mi è capitato, vi dico che è possibile guarire: ho un po’ di difficoltà a muovere le mani, ma ci sono, il mio corpo reagisce, sono tornato a una vita normale. Qualcuno a Catania aveva fatto già affiggere i manifesti di lutto: sarei morto non per il cancro ma perché qualcuno avrebbe potuto staccare la spina. Non bisogna permetterlo».

«Questa gente bisogna tenerla in vita», ha aggiunto Scapagnini, che è medico di Silvio Berlusconi. Per una singolare coincidenza il parlamentare pidiellino poco prima della durissima esperienza si è trovato impegnato proprio sul fronte della malattia a li­vello legislativo. Prima infatti di esserne impe­dito dalla sua ospedalizzazione è stato relatore della legge sulle cure palliative e le terapie del dolore. La vicenda di Scapagnini dunque è un argomento quantomai eloquente contro chi non è convinto che la vita sia un bene indispo­nibile. Ma casi del genere si ripetono con più frequenza di quanto documentino le pagine dei giornali. Famosa la vicenda dell’oncologa franco-milanese Sylvie Menard, dapprima favo­revole all’eutanasia, che ha scoperto come di­nanzi a un tumore «ciò che pensavi prima non è più vero». (P.L.F.)


Non restiamo in balìa delle sentenze - Il neurologo: «Occorre una legge capace di riaffermare che la vita non va delegata. Dall’esito della discussione dipende lo statuto della professione medica, che non può accettare l’abbandono terapeutico» - Avvenire, 3 marzo 2011

La Costituzione «ri­conosce e garanti­sce i diritti invio­labili dell’uomo», tra cui il diritto al­la vita (art. 2). Il valore della vita, come bene del singolo e della collettività, trova confer­ma nelle disposizioni del Codice penale che vietano l’omicidio, anche se di persona con­senziente, e l’istigazione o l’aiuto al suicidio. Tali dispositivi di legge, pur senza nominarla, escludono l’eutanasia sotto ogni forma, esclu­sa esplicitamente dal Codice di deontologia medica (Cdm). Anche la primaria responsabi­lità del paziente nei processi di cura è ricono­sciuta dalla Costituzione con l’art. 13 e nel se­condo comma dell’art. 32, secondo il quale «nessuno può essere obbligato a un determi­nato trattamento sanitario se non per disposi­zione di legge. La legge non può in nessun ca­so violare i limiti imposti dal rispetto della per­sona umana». Giova tuttavia ricordare che ta­le indicazione trovò posto nella Costituzione sull’onda della scoperta dei delitti del nazismo. Tuttavia per prevenire eccessi interpretativi i co­stituenti introdussero nell’articolo 32 un primo comma, contenente il riconoscimento del va­lore della salute (e della vita) «come fonda­mentale diritto dell’individuo e interesse della collettività».
Le nuove concezioni del rapporto medico-pa­ziente hanno potuto affermarsi con lo stru­mento del consenso informato. Senza il con­senso del paziente il medico, tranne che in caso di urgenza, non deve intraprendere alcuna atti­vità diagnostica e/o terapeutica. Tale visione si ri­specchia anche nella Convenzione di Oviedo. Sussistono tuttavia problemi di attualità del con­senso nelle persone incapaci, cioè nel caso di pa­zienti che abbiano espresso dichiarazioni anticipa­te di trattamento (Dat) e che abbiano poi perso la capacità di interagire con il mondo esterno. Attual­mente il medico è tenuto a considerare le volontà precedentemente espresse dal paziente, ma non è obbligato a soddisfarle. Esse infatti potrebbero non essere più attuali. Il rapporto medico-paziente, inoltre, non è riduci­bile a una relazione contrattuale. Il Cdm ribadisce il diritto del medico a rifiutare le richieste del pa­ziente, quando contrastino con la sua coscienza. Non stupisce, dunque, che il Codice deontologico chieda al medico soltanto di tener conto delle Dat, purché espresse in modo documentato, e che an­che per la Convenzione di Oviedo le Dat non ab­biano valore vincolante.
Anch’io ero tra quelli che ritenevano non neces­saria in Italia una legge sulle Dat. Ho dovuto purtroppo ricredermi per la vicenda Englaro che ha dimostrato possibile lasciare deliberatamente morire per sospensione di cure ordinarie una per­sona gravemente disabile, mentalmente incapace, malgrado quanto previsto da Costituzione, Codice penale, Cdm e Convenzione di Oviedo. Anzi, che ciò poteva essere autorizzato attraverso un percor­so di tipo civilistico, come se le disposizioni sulla vita (frutto di una ricostruzione di volontà presun­ta) equivalessero a quelle per un appartamento. Al­tri casi si stanno preparando all’orizzonte, forti di questo precedente giurisprudenziale, che poté svol­gersi nel silenzio degli Ordini professionali e con la successiva esclusione da parte dell’Ordine di Udi­ne di ogni responsabilità personale. È per questo che ora è necessaria una legge sulla Dat, capace di riaffermare che la vita umana non può es­sere delegata a terzi e che le istituzioni sanitarie non possono affrettarne la fine, mascherando l’eutana­sia omissiva con la desistenza terapeutica. La nu­trizione e l’idratazione, infatti, non sono terapie. A seconda del modo in cui si concluderà l’iter del di­segno di legge sulle Dat, lo statuto della professio­ne medica in Italia potrebbe subire importanti mo­dificazioni capaci di far sì che altri pazienti disabi­li possano andare incontro a morte per abbando­no terapeutico legalizzato.


«Il sondino non è una terapia. Venite a vedere» - Rom Houben, il giovane belga risvegliato dallo stato vegetativo - «Idratazione e nutrizione non sono terapie Si dovrebbero vergognare quelli che sostengono il contrario». Per i parenti di persone in stato vegetativo occorre «garantire la dignità della vita» poiché «una delle peggiori torture è morire di sete» «Non usiamo chissà quali macchinari per alimentarli», spiega un genitore, «ma un mezzo che porta nel loro stomaco acqua e cibo» di Graziella Melina - parlano le famiglie – Avvenire, 3 marzo 2011


«Se non provi a vivere la nostra situazione ti esprimi solo per sentito dire». È secco e amareggiato il commento che i familiari delle persone in stato vegetativo ripetono con determinazione ogniqualvolta qualcuno parla a sproposito di questa condizione di grave disabilità, di cui ancora poco si conosce anche scientificamente. Eppure stavolta l’amarezza è mista a incredulità. Il disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), che il 7 marzo sarà discusso alla Camera, continua infatti a scatenare polemiche soprattutto per quanto riguarda l’articolo 3: l’idratazione e la nutrizione assistita, si legge, «non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento». L’opposizione invece ribatte: l’alimentazione assistita è assimilabile a una terapia, quindi si deve poter interrompere se si dichiara di volerlo fare.

«Idratazione e nutrizione sono essenziali per il corpo umano, sono basilari. Le terapie sono gli sciroppi, le pillole», spiega incredulo Rolando Ciacci, papà di Chiara, 34enne e in stato vegetativo dopo un incidente che subì a 22 anni. «Una persona nella condizione di mia figlia – aggiunge in un crescendo di amarezza – si nutre con il sondino nello stomaco. È lo stesso che viene messo anche a persone che non possono deglutire per un breve periodo o per sempre. Non è una terapia. Si dovrebbero vergognare quelli che sostengono il contrario. Chi non è toccato da queste vicende le tratta con una certa superficialità. Fate venire i politici da noi – continua a ripetere –, che vedano le persone come mia figlia. Molti vogliono drammatizzare la situazione rappresentandoli attaccati alle macchine.

Lei non ha nessuna macchina attaccata. È una cosa scandalosa voler fare apparire una cosa che non è».

«Noi siamo dei corpi che esprimono la sete e la fame.

Loro si esprimono con gli occhi», spiega poi Matilde Granero, mamma di Oscar Calì, oggi 21enne, da 15 anni in stato vegetativo, e presidente dell’associazione «Amici di Oscar». «Nutrizione e idratazione – precisa senza mezzi termini – sono un dovere per garantire il massimo della dignità della vita».

Claudio Taliento, vice presidente dell’associazione «Risveglio», oltre che membro del direttivo della Fnatc (Federazione nazionale associazioni trauma cranico) e del Seminario permanente sullo stato vegetativo istituito dal ministero della Salute, non transige: «Un punto focale non può essere messo in discussione: l’alimentazione e l’idratazione non sono terapia, ma un atto dovuto nei confronti di una persona non autosufficiente. Una delle peggiori torture di un uomo – puntualizza – è morire di sete. Il posizionamento della peg nella prima settimana è un atto che consente di salvare la vita di tantissime persone, lo si fa ancora quando non si ha la prognosi. Si punta a salvare la vita a persone diversamente destinate a morire.

Promulgare una legge in cui si accetta di morire anche di sete è incivile, atroce.

Eppure pur di arrivare a decidere l’autodeterminazione siamo disposti a morire di fame e di sete».


Idratazione e alimentazione «non c’è dubbio, sono un fatto naturale che non ha nulla di terapeutico – rimarca ancora Francesco Napolitano, presidente di «Risveglio» –, è una necessità di assistenza al malato e quindi va sicuramente garantita in ogni situazione. E comunque siamo stati i primi a proporre un’integrazione al ddl: un’unica eccezione è possibile laddove c’è una situazione clinica in cui il paziente non può assorbire neanche nutrizione e idratazione». «Io a mia figlia do da mangiare e da bere con un sondino naso gastrico, con una siringa, né più né meno – spiega Fausto Quaresmini, papà di Moira, 39 anni, da 11 in stato vegetativo –. Noi le mettiamo acqua nel sondino e quel sondino la porta all’interno dello stomaco. Non è una medicina. Non usiamo macchine per tenere in vita nostra figlia. Si tratta solo di darle da bere e da mangiare. Ci sono persone che pensano che le persone con la sindrome della veglia a relazionale stiano in vita solo perché mangiano e bevono – aggiunge poi –. Ma tutti mangiano e bevono per stare in vita! Anche i legislatori che sono chiamati a votare la legge dovrebbero informarsi. Non si tratta di persone che vivono attaccate ai macchinari. Che vengano a vedere, casa mia è aperta!».


«Dat», perché queste regole: dieci dubbi e dieci risposte - In questi giorni si sono moltiplicate le prese di posizione di diver­so orientamento sul disegno di legge che introduce le Dichiara­zioni anticipate di tratta­mento. Idee e obiezioni che hanno fatto af­fiorare un gran numero di domande. Eccone dieci – con altrettante risposte – riassuntive di quelle più ricorrenti. - i nodi - Una legge è davvero necessaria? E perché le Dat non devono essere vincolanti? È giusto impedire a chi soffre di terminare la propria vita, se lo desidera? Il dibattito attorno alla norma sul fine vita ha aperto molti interrogativi Che meritano risposte chiare di Alberto Gambino


1.

Il rapporto tra medico e paziente è un territorio molto delicato, specie nella parte terminale della vita. Una legge che si pro­pone di regolamentarlo non rischia di u­niformare situazioni che sono ognuna di­versa dall’altra?

Perché ci sia un 'rapporto' tra medico e pa­ziente occorre che il malato sia cosciente. Nei casi di incoscienza, per avere elementi di co­noscenza sugli orientamenti in ordine alle te­rapie da somministrare può rivelarsi utile un documento scritto. Proprio perché le situa­zioni possono essere diversificate e differenti da come erano state immaginate nel momen­to della redazione del testo, il documento non può essere vincolante.

2.

Non si tutela meglio la vita uma­na lasciando che sia il medico a decide­re insieme al paziente o, se questi non è più cosciente, alla sua famiglia?

Se il paziente è cosciente il problema non si pone, avendo egli piena libertà di deci­dere su qualunque terapia. Se è incoscien­te non potranno mai essere i familiari a di­sporre della salute altrui, per quanto si trat­ti di persona per la quale si nutre sicuro af­fetto. Resta centrale il ruolo del medico, che per vocazione deve curare, a meno che non si tratti di situazioni di accanimento tera­peutico.

3.

Quando si legifera su una mate­ria come questa non si rischia di cedere anche senza volerlo a forme più o meno mascherate di eutanasia passiva?

Sì, il rischio esiste. Ma l’ordinamento ita­liano ha già tollerato almeno due casi e­clatanti di eutanasia passiva: Welby ed En­glaro. In entrambi i casi si è troncata la vi­ta di un essere umano, interrompendo pre­sìdi vitali. Questi casi formano precedenti giurisprudenziali e possono essere seguiti da altri. È compito allora della legge non la­sciare che 'zone grigie' diventino vere e proprie 'zone eutanasiche'. Il che avver­rebbe certamente in caso di inerzia del le­gislatore.

4.

Una norma così estesa e comples­sa non è destinata all’assalto di ricorsi e referendum, come la legge 40?

Lo sarebbe anche una legge di un solo ar­ticolo. La norma più chiara dovrebbe riaf­fermare che è sempre reato la disattivazio­ne di presidi vitali, salvo che questi siano i­nutili e sproporzionati. Ma se non si ha la forza politica di introdurre una norma del genere, meglio i paletti della legge che nien­te. Perché niente non sarebbe, stanti i già ri­cordati precedenti giurisprudenziali che chi opera nel campo del diritto sa essere ben più efficaci dei princìpi generali dell’ordi­namento e della dottrina più rigorosa.

5.

Se io scrivo le mie Dat è perché voglio

vederle rispettate. Perché la legge non impo­ne al medico di farlo?

Perché il medico non è un esecutore della volontà altrui. Sarebbe come imporre a un avvocato che fosse il suo cliente a scrivere gli atti giudiziari. Se il paziente è libero, lo è altrettanto il medico, che solo in scienza e coscienza seguirà le Dat.

6.

Se la nutrizione assistita è decisiva per mantenere un paziente in vita, come può non essere considerata una terapia ma solo un sostegno vitale?

Perché la nutrizione (anche quella non assistita) è sempre decisiva per mantenere in vita gli esse­ri umani. E nessuno si sognerebbe di considerarla 'terapia'.

7.

Ma se anche è un sostegno vitale, per­ché non posso disporre che un domani venga sospeso, se è quello che desidero? Perché 'disporre la sospensione di un sostegno vitale', in termini giuridici, significa chiedere a un altro di privarmi della vita: proprio que­sto è il caso dell’eutanasia. Poco importa che si tratti di eutanasia passiva o attiva, perché l’effetto è lo stesso. Anzi, l’eutanasia passiva è addirittura più logorante.

8.

Sospendere l’alimentazione in alcuni casi estremi può essere un gesto di pietà: una persona che soffre, e che non guarirà mai, può chiedere di farla finita. Perché impedirglielo?

Attenzione a non mescolare le situazioni. Se il paziente è cosciente e soffre, ha tutta la libertà di rifiutare finanche l’alimentazione. Ma se il paziente è incosciente, nessuno è in grado di dirci se ci sia sofferenza. La sofferenza è certa­mente quella di chi gli vive accanto: ma non per questo si ha il potere di interrompere una vita umana. Qui si annida la grande ambiguità dell’autodeterminazione, che è invece stata ap­plicata dai giudici tutelari per giustificare casi di eterodeterminazione – cioè scelta di altri – come è avvenuto nella decisione del padre­tutore nel caso Englaro.

9.

Sono convinto che l’eutanasia sia una cosa orribile, e non voglio che qualcu­no la pratichi su di me o sui miei cari. Ma perché si deve impedire che chi lo desidera possa farvi ricorso?

Perché significherebbe chiedere che il nostro ordinamento capovolga i suoi valori di riferi­mento, declassando la vita umana e la dignità della persona a favore della volontà indivi­duale e dell’arbitrio. Perderemmo un punto di riferimento cardinale: l’ordinamento – pena la sua incoerenza – dovrebbe allora legalizzare tutte le forme di autolesionismo della perso­na e della sua dignità, dall’utilizzo di droghe, alla prostituzione, al lavoro usurante, fino al non uso di casco o cinture di sicurezza. Al con­trario, proprio l’attenzione che il diritto riser­va a questi fenomeni, la dicono lunga di co­me sia radicato nel nostro ordinamento il pri­mato della vita umana e della dignità della persona rispetto alla libera volontà individua­le. Del tutto diverso è, ovviamente, il caso del­l’accanimento terapeutico, situazione contra­ria proprio alla dignità della persona.

10.


Nella mia vita vorrei essere li­bero di scegliere sempre ciò che è bene per me, e a maggior ragione nei momenti più importanti. Perché non si può approvare una legge che mi lasci libero di decidere, se lo desidero, il momento della mia morte?

Perché, come detto, la legge non può essere il 'braccio armato' di volontà individuali che cozzano contro i beni primari del nostro or­dinamento costituzionale a cominciare dalla vita e dalla dignità della persona. Se si ope­rasse questo ribaltamento, rischieremmo l’a­narchia dei valori con la conseguenza di ren­dere i deboli ancora più indifesi e i malati an­cora più fragili.


Il Catechismo? Difende il malato - Citato spesso in modo parziale, il testo che raccoglie il magistero della Chiesa rigetta ogni forma di accanimento terapeutico ma anche le procedure che «vogliono procurare la morte» - argomenti - di Michele Aramini, Avvenire, 3 marzo 2011

Nel progetto di legge sulle direttive anticipate di trattamento, anche il presidente della Camera, Gianfranco Fini, si è espresso con un riferimento al Catechismo della Chiesa cattolica. Il presidente di Montecitorio ha detto di ritrovarsi al cento per cento nelle poche righe seguenti: «L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza o la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente». Si tratta della citazione completa del numero 2278 del Catechismo. Bisogna ringraziare Fini dell’attenzione posta alla dottrina cattolica, la quale come ognuno può vedere è lontanissima dal sostenere posizioni insensate di accanimento terapeutico. Al contrario, proprio perché è una dottrina piena di umanità ed è attenta alla realtà complessiva della persona umana che sta per morire, sa che viene il momento in cui il decorso della malattia diventa inarrestabile e diventa sbagliato affliggere il paziente con cure inefficaci. Possiamo perciò dire che esiste un accordo generalizzato sul rifiuto dell’accanimento terapeutico.


Occorre però precisare che la sospensione delle terapie mediche quando esse si rivelino inutili o dannose non significa dismissione della cura per il paziente in condizione terminale o in stato vegetativo persistente. L’esperienza secolare e i grandi medici di oggi ormai ci hanno insegnato che non sempre si può guarire, ma sempre si può curare. La dimenticanza di questa distinzione è fonte di grande confusione. L’ambito più tipico in cui si rivela la confusione è quello relativo al ruolo dell’idratazione e dell’alimentazione in quei pazienti che non sono in grado di assumerle autonomamente. Secondo alcuni, il rifiuto delle terapie ormai inutili dovrebbe comprendere anche la rinuncia a ogni tipo di cura e a ogni sostegno vitale di acqua e cibo. Ma come è facile comprendere, in tal modo si realizzerebbe non tanto una cessazione delle terapie inutili ma una messa a morte della persona malata.

Si tratta di un esito disumano che in nessun modo può avere a che fare con la dottrina cattolica e con la corretta interpretazione del Catechismo.


Le ricorrenti citazioni che del Catechismo vengono fatte appaiono, nel migliore dei casi, parziali. Più spesso sono strumentali e sono intese a far apparire oscurantista la legge sulle «Dat», anche dal punto di vista della dottrina cattolica. Si tratta di un’operazione che può catturare solo gli sprovveduti, perché è lampante che la Chiesa non ha solo il chiaro rifiuto dell’accanimento terapeutico, ma con la stessa forza afferma l’interesse e il diritto della persona a vivere fino al termine naturale della propria esistenza. Questo implica il rifiuto della eutanasia che pone alla vita un termine artificiale e fa morire una persona prima che la vita sia giunta al suo termine naturale. Per questa ragione si devono apprezzare, nella legge, quelle norme che vietano i comportamenti che hanno carattere eutanasico. Tali norme, sempre perfettibili, non realizzano un’indebita interferenza nella libertà personale, ma rafforzano il giusto principio giuridico dell’indisponibilità della vita, cardine del nostro ordinamento.


Caro ateo, non cedere ai nuovi idoli... - verso il Cortile/6 - Il filosofo convertito Fabrice Hadjadj: «I laicisti militanti come Onfray non sono affatto senza Dio: lo chiamano solo in un altro modo» - «Il dialogo con i non credenti è possibile sulla base di una comune apertura all’'avventura' del divino. - Il nostro compito è quello di non banalizzare la fede» - di Lorenzo Fazzini, Avvenire, 3 marzo 2011

U na sana 'sfida' all’ateo, per­ché sia davvero senza idoli. E rimanga capace di aprirsi a «un’attesa dell’inatteso» che può a­vere il volto di Cristo, il Dio rifiutato dai credenti del suo tempo. Fabrice Hadjadj, filosofo francese converti­tosi al cristianesimo, interverrà que­sta sera all’Università Cattolica, su i­niziativa del Centro culturale di Mi­lano (Aula Magna, ore 21), su 'Mo­dernità e modernismo. A proposito del senso religioso'.

Dio. Possiamo parlarne con ii non credenti?

«Bisogna riconoscere che la prima difficoltà consiste nel discuterne coi credenti. Ce lo insegna il Vangelo: Ge­sù non si rivolge ad atei, ma agli spe­cialisti della fede, scribi e farisei. Egli vuole rivelare loro il mistero del Pa­dre. Ma essi non lo comprendono, addirittura finiscono per crocifigger­lo. Facciamo fatica ad ammettere che furono alcuni credenti a metter a morte il Figlio di Dio. Quando si cre­de bisognerebbe lottare per non ri­durre Dio a un piccolo idolo dome­stico. Questo nome dovrebbe aprirci la gola come un abisso. E invece lo pronunciamo come una banalità concettuale. Se lo pronunciassimo con la vertigine dell’innamorato! Pri­ma della mia conversione non sop­portavo che si pronunciasse la paro­la 'Dio': la consideravo come un jol­ly buttato sul tavolo, a tradimento, durante una partita di carte. Mi suo­nava come un modo per evitare i pro­blemi e misconoscere la tragedia del­la vita».

Come 'verificare' l’idea, spesso con­fusa, di Dio?

«Egli non abolisce il dramma dell’e­sistenza ma lo compie. È quanto ri­vela il mistero della Croce. I creden­ti vi crocifiggono sopra Dio e Dio gri­da a Dio: Perché mi hai abbandona­to? Non è qualcosa di abissale? Non è forse vero che questo distrugge o­gni nostro idolo e ci riporta al dram­ma dell’'amore forte come la mor­te'? È necessario che i cre­denti riconoscano tale dram­ma e vivano il secondo co­mandamento, il quale ci do­manda di non pronunciare invano il nome di Dio. I non credenti potranno intender­lo meglio».

Parla per esperienza?

«Sì. La mia fu anche una con­versione 'linguistica'. Ho scoperto che il significante 'Dio' cor­rispondeva alla verità del 'Sì' di Frie­drich Nietzsche e dell’'Aperto' di Rai­ner M. Rilke. E che non era un atteg­giamento poetico o un concetto filo­sofico, ma la realtà di una Persona che mi aveva preceduto nel fondo dell’oscurità. 'Dio' non significava più una soluzione ma un’avventura. Non una risposta ma un appello. Non si tratta di una strategia di marketing. Quando troveremo il modo migliore per parlare di Dio, non è sicuro che l’altro, ascoltandoci, si converta. Se parliamo di Dio imitando la forza di Gesù, alcuni si convertono, altri fini­scono per crocifiggerci. È il segno che abbiamo parlato bene».

Lei ha definito la spiritualità «un trucco del diavolo». Su cosa con­frontarci con gli atei?

«Sulla sessualità. Nel mio Mistica del­la carne mostro che il sesso ci ri­manda alla profondità autentica, fi­no alle viscere di Dio. In principio Dio crea l’uomo a sua immagine, ma­schio e femmina, in modo che la lo­ro relazione sessuale, con la sua fe­condità naturale, diventi l’immagine della Trinità. Qualunque sia il punto di partenza, anche una margherita o una lumaca, se ne parliamo corret­tamente, dobbiamo risalire a Dio: non va relegato nelle altezze ma va fatto comparire nel più 'basso'. Il cri­stianesimo è il contrario dello spiri­tualismo, e spiritualità dell’incarna­zione: il Verbo si è fatto carne e si do­na a noi mediante un atto spirituale e carnale, l’eucaristia. I sacramenti sono i tocchi di Cristo. Certo, per an­dare verso Dio dobbiamo recarci da quel prete che ci sta antipatico, da quel cristiano che ci dà fastidio sulla sedia accanto, da quel povero per in­vitarlo a tavola».

Di recente l’apologetica ha ripreso quota. Ma lei non ha scritto parole te­nere nei suoi confronti …

«Non ho niente contro l’apologetica. È quanto cerco di fare io stesso pro­prio adesso. Ma vi è il pericolo di re­stare al livello del dibattito delle idee. Il cristianesimo non riguarda un’i­deologia: è una vita. E la sua anima si trova nell’amore. Quando separiamo l’amore dalla verità cadiamo nel sen­timentalismo. E se allontaniamo ve­rità e amore, scadiamo nel dogmati­smo. La Verità propria del cristiane­simo è una Persona, non una teoria. E Dio stesso non è una natura ano­nima, ma una comunione di Perso­ne. Molte saggezze filosofiche pre­tendono che la realizzazione del­l’uomo consista in una conoscenza teorica o in uno stato di serenità. Il cristianesimo propone altro: un in­contro.

Per fare buona apologetica serve questo: prima del confronto i­deale, meravigliamoci del volto del nostro interlocutore; e anche se lui non ha compreso nulla e alla fine ci infastidisce, continuiamo ad ammi­rare in lui la meraviglia che Dio con­templa e che lui stesso, l’ateo, igno­ra ».

Nel suo libro-intervista Benedetto X­VI sottolinea il rapporto, positivo e fecondo, tra cristianesimo e moder­nità. Quali gli aspetti di tale relazio­ne che arricchiscono la fede?

«La modernità pone due esigenze. La prima è di natura critica: l’uomo mo­derno rifiuta di ricevere qualcosa so­lo perché trasmesso dai suoi genito­ri. Reclama delle ragioni e vuole com­prendere. Ma può essere ambigua: o conduce ad un ripiegamento morta­le su se stessa oppure guida ad una maggior intelligenza della fede. Se­condo: l’uomo moderno desidera u­na pienezza 'qui e ora'. Perciò rom­pe con l’aldilà. Ora, il nodo è che noi non siamo mai 'qui e ora' a noi stes­si. Il tempo fugge e, quando siamo da qualche parte, progettiamo di anda­re altrove. Manchiamo alla presenza. Non siamo mai gli uni con gli altri. Per essere del tutto presenti, do­vremmo coincidere con l’essere e po­ter dire: 'Io sono colui che sono'. Questo è il privilegio dell’Eterno. Per questo volgersi verso di Lui non è fug­gire il 'qui e ora', ma approcciarsi ad esso e cercare di essere più presenti a tutto e a tutti».

Nel suo 'La fede dei demoni' lei cri­tica i 'nuovi atei' come Michel On­fray, esempio dell’ateo 'sbagliato' che 'non cerca più'. I non credenti sono tutti così?

«Va rimproverato agli atei di non es­sere ciò che loro pretendono di esse­re. Un ateo è qualcuno 'senza dio', uno che deve disfarsi di tutti gli ido­li, sforzandosi di non rendere il pro­prio ateismo un idolo. Sarebbe triste liberarsi della religione di Cristo per fabbricarsene una dell’ateismo. È quanto capita nella maggior parte dei casi. Essere veramente atei rappre­senta qualcosa di veramente diffici­le. Quando si abbandona il Dio tra­scendente, ci si confeziona altri ido­li: ragione, razza, rivoluzione, mer­cato ... Visto che non siamo Dio ma esseri di desiderio, abbiamo bisogno di un principio per polarizzare le no­stre vite. Ho cercato di essere il più possibile ateo. Alla fine, sbarazzato­mi di ogni idolo, mi è rimasta la di­sponibilità di accogliere quanto non veniva da me, ciò che per alcuni è la trascendenza e che il catechismo chiama Rivelazione. Tale disponibi­lità consiste in un’apertura all’incon­tro. Eraclito la definiva 'l’attesa del­l’inatteso', un’apertura che si offre in un avvenimento che ci giunge attra­verso una moltitudine di testimoni: la 'tradizione apostolica'. Una serie di incontri partiti da Gesù e giunti fi­no a me».