lunedì 21 marzo 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Perché un'altra guerra? di Riccardo Cascioli e Andrea Tornielli, 21-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
2)    I conti in sospeso con il vecchio terrorista di Massimo Introvigne, 21-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3)    La Corte del buon senso di Marta Cartabia - lunedì 21 marzo 2011, il sussidiario.net
4)    GIAPPONE/ Quale posto ha l'uomo e quale Dio in questa tragedia? di Massimo Camisasca - lunedì 21 marzo 2011 – il sussidiario.net
5)    CRONACA - IL CASO/ 1. Quella strana tv che parla di vita tra Paris Hilton e Fabri Fibra di Carlo Bellieni - lunedì 21 marzo 2011 – il sussidiario.net

Perché un'altra guerra? di Riccardo Cascioli e Andrea Tornielli, 21-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Surreale, difficilmente spiegabile. Non si può definire in altro modo quanto sta avvenendo in questi giorni attorno alla Libia.


In due giorni si è entrati in guerra quasi senza neanche accorgersene, passando da una risoluzione all’Onu all’intervento armato in modo automatico. Senza una parvenza di dibattito politico – e non è che in queste settimane ne fosse mancato il tempo - e senza una strategia militare e politica comprensibile, oltre alla decisione di far fuori Gheddafi (verso il quale, sia ben inteso, non si può che avere riprovazione).


È forte la tentazione di pensare che l’intervento militare sia il rimedio – affrettato e non adeguatamente ponderato – a un’incapacità politica di comprendere quanto sta avvenendo, non solo in Libia ma in tutto il Nordafrica e Medio Oriente. Ricordiamo che la rivolta libica aveva preso di sorpresa tutti quanti, perché il regime di Gheddafi sembrava quello meno esposto al contagio dei moti di piazza, come quelli avvenuti in Tunisia ed Egitto. Dopo qualche giorno di indecisione, tutti i leader europei, ritenendo Gheddafi ormai finito, si sono precipitati nell’opera di demonizzazione, un tentativo di lavarsi in fretta la coscienza dopo decenni di complicità e grossi affari portati a termine con il “tiranno” che oggi viene deferito al Tribunale penale internazionale contro i crimini di guerra.

Lo abbiamo già fatto, ma vale ancora la pena ricordare che solo pochi mesi fa la Libia di Gheddafi è stata votata a stragrande maggioranza come membro della Commissione Onu per i diritti umani, senza che Sarkozy, Cameron e Obama avessero nulla da ridire.

Il problema è che la realtà ha colto di sorpresa per la seconda volta i leader occidentali: Gheddafi non solo non era finito, come si credeva, ma ha addirittura cominciato a riprendersi il terreno perduto, fino ad arrivare alle porte di Bengasi, da dove la rivolta era partita. Da qui l’imbarazzo drammatico di una classe politica occidentale impreparata e istintiva, che si muove senza obiettivi e strategie chiare. Condivisibili o meno, ma chiare. Che cosa sarebbe successo restando a guardare? Come spiegare all’opinione pubblica che il “demone” tornava a essere un capo di stato con cui sedersi a tavola a negoziare, un interlocutore inevitabile visto che la Libia è fondamentale per l’approvvigionamento di petrolio e gas?


Eccoci allora in guerra contro Gheddafi, con la Francia a comandare le operazioni, probabilmente con la convinzione di poter strappare più lucrosi contratti petroliferi già concordati con le forze ribelli, magari a spese dell’Italia.


Ma il problema è che, a parte l’obiettivo di eliminare Gheddafi – ammesso che possa essere una questione che riesce in poco tempo -, non sembra esserci un’idea per il dopo. L’esperienza insegna che la caduta di un regime – vedi Iraq e Afghanistan – è soltanto l’inizio, e in fondo la cosa più semplice, di una guerra che non si sa dove conduce. Nel caso di Iraq e Afghanistan, inoltre, una strategia – condivisibile o meno –  era chiara, così come già decisa era la presenza di una forza multinazionale chiamata a realizzate sul terreno l’obiettivo di una ricostruzione economica e politica dei due paesi. Ma nel caso della Libia, tutto questo non esiste anche perché la Libia resta un paese diviso per tribù, a cui neanche Gheddafi ha voluto dare una parvenza di istituzioni statali: è ben difficile considerare il “consiglio dei ribelli” come un interlocutore realistico e affidabile.


Il rischio per il dopo-Gheddafi è la somalizzazione della Libia, una guerra fra tribù, magari con un governo appoggiato dai paesi occidentali che non è in grado di controllare alcunché. A meno che la “coalizione dei volenterosi” (un nome che riecheggia il profetico romanzo di R. Benson “Il padrone del mondo”) non decida di occupare militarmente anche il territorio libico.


Si interviene per salvare i civili dai massacri e dalle ritorsioni di Gheddafi, si è detto per giustificare l’intervento. Ma in questo caso il ritardo delle operazioni militari non sarebbe di qualche settimana ma di qualche decennio. E comunque questo dovrebbe allora portare ad attaccare quasi tutti i paesi africani e buona parte dell’Asia.


Con le crisi di Iraq e Afghanistan ancora aperte e tutt’altro che vinte, preoccupa l’apertura di un terzo fronte. E proprio mentre poco più in là, nel Golfo, è in atto una crisi militare che può essere decisiva per l’assetto geopolitico della regione, per l’approvvigionamento energetico e per la stabilità mondiale. Gli scontri in Bahrein, con l’intervento diretto dell’Arabia Saudita, stanno facendo salire pericolosamente lo scontro tra sciiti e sunniti che ha sullo sfondo anche la battaglia tra Arabia Saudita e Iran per la leadership regionale e per il controllo delle fonti energetiche mondiali. Ma su questa vicenda i leader europei appaiono distratti: sembrano non avere una strategia in Libia, non vedono i processi profondi della storia. A dimostrazione che, paesi che stanno smarrendo la coscienza della propria identità e della propria missione nel mondo, faticano a comprendere il presente e costruire il futuro.


Certo, ora che la guerra è iniziata, non si può fare a meno di augurarsi che finisca presto e che raggiunga l’obiettivo di detronizzare il rais di Tripoli, evitando per quanto possibile sofferenze alla popolazione civile. Facciamo nostre, dunque, le preoccupazioni, e la «viva trepidazione» e la «grande apprensione» espresse da Benedetto XVI all’Angelus di ieri: «Rivolgo un pressante appello a quanti hanno responsabilità politiche e militari, perché abbiano a cuore, anzitutto, l’incolumità e la sicurezza dei cittadini e garantiscano l’accesso ai soccorsi umanitari».


I conti in sospeso con il vecchio terrorista di Massimo Introvigne, 21-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Il colonnello Muhammar Gheddafi è un vecchio terrorista. Dalla strage di Lockerbie del 1988 - l'esplosione di un aereo passeggeri sopra una cittadina scozzese, con 270 morti - a un'intera stagione di attacchi alla Francia, alcuni sventati all'ultimo minuto, non si contano gli attentati dietro a cui si è sospettata, e talora anche documentata, la presenza della mano di Gheddafi.
Il colonnello, però, non è solo un vecchio terrorista. È un terrorista vecchio. Si devono infatti distinguere nel mondo arabo un vecchio terrorismo che mescolava islam, anticolonialismo e marxismo e il nuovo terrorismo il cui tipo è al-Qa'ida, la cui logica obbedisce a un progetto preciso che fa riferimento esclusivamente all'ultrafondamentalismo islamico e al sogno di un nuovo califfato.

Del vecchio terrorismo Gheddafi è stato il punto di riferimento. Del nuovo - che alla fine aspira a rovesciare i regimi come il suo, considerati non abbastanza islamici e di oggettivo ostacolo al califfato - non si è mai fidato, e dopo l'11 settembre 2001 - certo anche per ragioni di convenienza - si è presentato come il suo nemico per eccellenza nel Nordafrica.

Le guerre in Afghanistan e in Iraq, qualunque cosa si pensi della loro gestione, avevano e hanno lo scopo di colpire basi o alleati del nuovo terrorismo. Le uniche prove davvero emerse contro Saddam Hussein riguardano precisamente i suoi rapporti con segmenti di al-Qa'ida. La guerra in Libia colpisce in Gheddafi un residuo del vecchio terrorismo diventato nemico di al-Qa'ida. Perché dunque lo si attacca oggi, quando non mancherebbero basi del nuovo terrorismo da colpire, dall'Iran alle regioni del Libano controllate dagli Hezbollah?

La spiegazione del presidente Obama - "L'Occidente non può restare indifferente quando un tiranno spara sui cittadini del suo Paese" - ovviamente ha un mero valore retorico. Nello stesso giorno dell'attacco alla Libia il tiranno che regna sullo Yemen, il presidente Ali Abdullah Saleh, ha fatto settantuno morti sparando sui dimostranti. Purtroppo, di tiranni che opprimono e massacrano i loro cittadini è pieno il mondo. Rispetto a quanto qualche libro coraggioso comincia a svelarci della Corea del Nord, la Libia sembra un villaggio vacanze.

Perché, dunque, Gheddafi? Per rispondere a questa domanda ci vogliono come al solito pazienza, studio e un po' di memoria storica. Propongo tre risposte, senza escludere che ve ne siano altre.

Prima risposta: alcuni Paesi pensano che sia arrivata l'occasione di saldare con Gheddafi conti sanguinosi che risalgono all'epoca del vecchio terrorismo. Occorre ricordare che il vecchio terrorismo colpì soprattutto la Francia e la Gran Bretagna, e attaccò dove poteva gli interessi degli Stati Uniti. Gli studi di Magdi Allam e di altri hanno messo bene in luce come i governi guidati da Giulio Andreotti e Bettino Craxi (1934-2000) non interruppero mai le linee di collegamento con Gheddafi, come con altri sponsor del vecchio terrorismo, tra cui Yasser Arafat (1929-2004). Fecero molte concessioni, forse troppe: ma ne ottennero in cambio una scelta che escluse l'Italia dagli obiettivi principali e strategici di quel terrorismo.

Non sempre i conti con i vecchi nemici sono saldati. Ma, quando se ne presenta l'occasione, è difficile resistere alla tentazione. Questa è una prima spiegazione del perché Francia e Gran Bretagna hanno preso l'iniziativa di attaccare Gheddafi, e gli Stati Uniti l'hanno - ma in seconda battuta rispetto ai primi due Paesi - appoggiata. A molti generali e dirigenti dei servizi segreti francesi e britannici non è mai andato giù che il colonnello, ispiratore di vecchi e sanguinosi attentati nei loro Paesi, sia sempre rimasto impunito. Agli Stati Uniti neppure, anche se oggi hanno altre priorità e per questo le loro gerarchie militari non erano entusiaste dell'attacco.

Seconda spiegazione: Francia e Gran Bretagna sono da anni potenze minori nel grande gioco della politica internazionale, dominato da Stati Uniti, Cina e Russia. L'opinione pubblica dei loro Paesi, che soffre di questa situazione a fronte di glorie passate, accusa pure la classe dirigente di avere sostenuto nelle ex-colonie personaggi impresentabili. Il presidente francese Sarkozy, in particolare, è in grande imbarazzo per avere appoggiato fino all'ultimo il dittatore ora deposto della Tunisia, che il suo partito ha sempre chiamato "notre ami Ben Ali". in Francia si va verso le elezioni presidenziali, e negli ultimi sondaggi Sarkozy era superato non solo da vari ipotetici concorrenti socialisti ma anche dalla candidata di destra Marine Le Pen. Negli Stati Uniti, da quando è scoppiata la crisi del mondo islamico, il presidente Obama è stato deriso non solo dai Repubblicani ma persino dagli umoristi per la sua indecisione e irrilevanza.

La Libia, un Paese che non è una ex-colonia né per i francesi né per gli inglesi, e dove gli americani non hanno alcun interesse che potrebbe essere messo a rischio, sembra offrire un'occasione ideale per rivendicare una perduta "grandeur" o fornire certificati di esistenza in vita a politiche estere latitanti come quelle di Obama. I rischi dell'operazione sul piano militare sembrano, almeno a prima vista, modesti. Si tratta dunque di ottenere benefici sul piano dell'immagine e del prestigio con costi relativamente limitati.

La terza spiegazione rimane a livello d'ipotesi. A tutt'oggi, nessuno specialista internazionale di cose nordafricane è stato in grado di tracciare una mappa credibile del mondo degli oppositori di Gheddafi e delle stesse forze che animano la lotta di Bengasi contro il colonnello. Si conoscono però alcuni nomi di capi di origine tribale che sembrano in posizione di forza nel cosiddetto governo provvisorio di Bengasi, il Consiglio Nazionale Libico. Si sa per esempio che il suo segretario è  Mustafa Mohamed Abud Al Jeleil, che fino al 21 febbraio era il ministro della Giustizia di Gheddafi e nel dicembre 2010 era stato inserito da Amnesty International nella lista dei più efferati responsabili di violazioni di diritti umani nel Nordafrica, per il trattamento riservato agli oppositori nelle carceri libiche di cui si era personalmente occupato. Un altro uomo forte della rivolta è il generale Abdul Fatah Younis, già Ministro dell'Interno e secondo alcuni numero due del regime di Gheddafi, e in precedenza capo della famigerata polizia politica del regime. Sono circolate voci confuse di sue trattative per rientrare nei ranghi dei lealisti fedeli a Gheddafi, ma dopo la risoluzione dell'ONU ha confermato la disponibilità a guidare le truppe dei rivoltosi.

Personaggi come questi non sono i "sinceri democratici" dei discorsi di Obama. Sono alcuni tra i peggiori arnesi del regime di Gheddafi, che aspirano a cacciare il colonnello per mettersi al suo posto. Non sono neppure fondamentalisti islamici, senza escludere affatto che una componente fondamentalista a Bengasi ci sia davvero. Ancora una volta, nessuno conosce davvero i movimenti degli ultimi mesi all'interno della nomenklatura del regime libico. Si sa però che alcuni avrebbero voluto un riavvicinamento alla Francia e ai Paesi filo-francesi dell'area in campo economico e politico, criticando la politica di Gheddafi che trattava quasi esclusivamente con l'Italia. Considerato il notevole attivismo dei servizi segreti francesi in Nordafrica, non è forse irragionevole ipotizzare che ministri come Al Jeleil e Younis avessero avuto qualche contatto con loro. La Francia è l'unico Paese che ha riconosciuto il loro governo provvisorio, ed è stato il motore dell'operazione che ha portato all'attacco a Gheddafi.

Com'è evidente, nessuno di questi tre motivi coinvolge in modo particolare l'Italia. L'opinione pubblica italiana non pensa di avere conti da saldare con la Libia, non rimprovera nella sua maggioranza al governo uno scarso attivismo in politica estera né sogna un'improbabile "grandeur" militare o neo-coloniale. Nei rapporti economici e politici con la Libia aveva un filo diretto con Gheddafi senza bisogno di rivolgersi a ministri ribelli. Questo filo diretto con un personaggio sgradevole ha portato talora ad atteggiamenti discutibili, ma ha anche garantito vantaggi sul piano economico e su quello fondamentale del controllo dell'immigrazione. Da questo punto di vista, personalmente ritengo che le perplessità della Lega e quelle esposte in una bella intervista al "Corriere della Sera" del 20 marzo dal sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano siano ampiamente giustificate.

Questo tipo di situazioni, tuttavia, evolve rapidamente. Messa agli atti la perplessità, si devono però segnalare anche tre aspetti ulteriori. Il primo è che un vecchio terrorista ferito può facilmente trasformarsi per rabbia o per vendetta in un nuovo terrorista, così che oggi - ma, appunto, la situazione cambia ogni giorno - la permanenza di Gheddafi al potere appare pericolosa anche per noi.

Il secondo è che l'asse della politica estera dell'Italia repubblicana è comunque da sempre l'alleanza con gli Stati Uniti. Per quanto oggi la guida incerta e debole di Obama ci metta tutti in pericolo, una volta che della coalizione hanno preso la guida gli Stati Uniti a questa alleanza l'Italia non poteva immaginare di sottrarsi.

Il terzo aspetto da sottolineare è che - per quanto altri probabilmente mentano quando affermano d'intervenire per ragioni umanitarie e a sostegno delle popolazioni civili - l'Italia, da Nasiriyya all'Afghanistan, ha dimostrato che operare per la difesa di chi le guerre non le vuole ma le subisce - anche pagando un tributo di sangue - fa parte del suo DNA, e delle ragioni che spingono molto italiani a stringersi intorno alle Forze Armate in un patriottismo, questo sì, genuino e condiviso.

L'Italia utilizzi dunque la sua partecipazione più o meno obbligata e convinta alla coalizione per operare subito per una soluzione pacifica e negoziata, dove le armi tacciano quanto prima possibile e gli interessi della popolazione civile siano sempre e davvero al primo posto. ? quanto ha chiesto il Papa all'Angelus di domenica 20 marzo. Prego, ha detto Benedetto XVI, "per coloro che sono coinvolti nella drammatica situazione di quel Paese [la Libia] e rivolgo un pressante appello a quanti hanno responsabilità politiche e militari, perché abbiano a cuore, anzitutto, l’incolumità e la sicurezza dei cittadini e garantiscano l’accesso ai soccorsi umanitari. Alla popolazione desidero assicurare la mia commossa vicinanza, mentre chiedo a Dio che un orizzonte di pace e di concordia sorga al più presto sulla Libia e sull’intera regione nord africana".


La Corte del buon senso di Marta Cartabia - lunedì 21 marzo 2011, il sussidiario.net

La decisione se il crocefisso debba essere presente nelle aule delle scuole statali spetta a ciascuno Stato europeo - così afferma la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nella decisione del 18 marzo scorso. Quindi nessuna violazione dei diritti individuali protetti dalla Convenzione europea deriva dalla presenza dei crocefissi nelle scuole pubbliche italiane. L’Italia, condannata all’unanimità circa un anno e mezzo fa dalla seconda sezione della stessa Corte, oggi viene “assolta” dalla Grande Camera, con quindici voti favorevoli e due contrari.

Cosa ha portato la Corte europea a rovesciare il proprio giudizio? Due fattori si impongono sopra ogni altro: una inusuale vivacità di partecipazione e una ricchezza di solide ragioni.

La vicenda del crocefisso sembra aver risvegliato una coscienza della società civile prima sonnolente. La condanna dell’Italia da parte della Corte europea nel 2009, infatti, ha provocato una reazione molto sentita. Da quel momento si è messo in moto un fermento che ha un che di nuovo.

Lo svolgimento processo davanti alla Corte europea rivela alcuni elementi inusuali, che meritano di essere sottolineati. Di norma, i soggetti che si fronteggiano nei processi europei sono due: la vittima che ha subito una lesione dei suoi diritti individuali e il governo dello Stato potenzialmente responsabile della violazione. Questa volta, invece, ben dieci stati dei 47 membri del Consiglio d’Europa sono intervenuti spontaneamente a supporto dell’Italia: un fatto questo, più unico che raro. Si è trattato evidentemente di governi che hanno percepito che la posta in gioco era decisiva anche per la possibilità di preservare la propria tradizione in fatto di rapporti tra religione e spazio pubblico. È da notare che alcuni dei tradizionali Stati cattolici mancano all’appello, mentre significativa è la presenza di molti paesi dell’Europa orientale, Russia compresa.

Accanto a questi, numerosissimi sono gli interventi della “società civile”, rappresentata da organizzazioni di vari orientamenti culturali e di varie provenienze geografiche: nei resoconti ufficiali compaiono una decina di soggetti, ma altri hanno sottoposto le loro osservazioni alla Corte, senza essere stati ammessi formalmente al processo (meriterebbe un discorso a parte il fatto che la Corte ha una piena facoltà di decidere chi ammettere e chi escludere, senza neppure dover motivare le sue scelte). Infine, 33 deputati del Parlamento europeo - una istituzione che non ha nessuna connessione formale con la Corte - sono anch’essi intervenuti portando le proprie ragioni a sostegno della posizione italiana. Anche questo, a quanto mi consta, un fatto del tutto inedito.
Una tale vivacità di richieste di partecipazione non può essere passata inosservata alla Corte, che si è trovata a decidere in uno “spazio pubblico” più vivo e più abitato di quanto non le accada normalmente. Ciascuno di questi soggetti ha dato il suo contributo, sollecitando così la Corte ad approfondire le ragioni della propria scelta, fino al punto di dover tornare sui suoi passi.

La qualità delle ragioni introdotte nel processo, poi, deve essere stata di altissimo livello, dato che la Corte ha dovuto cambiare completamente linea argomentativa. La prima decisione, quella che condannava l’Italia, era tutta incentrata sulla libertà di religione ed esprimeva una tipica posizione assai diffusa nella cultura dominante in materia di laicità dello stato: in un contesto pluralistico e multiculturale, l’unica possibilità perché lo Stato non sia compromesso con nessuna religione particolare è che le sue istituzioni siano “neutrali”. Ecco dunque motivati i muri bianchi, a partire dalle scuole: via i crocefissi per non ledere la libertà di religione delle minoranze e per rispettare la neutralità dello Stato.

Questa impostazione è stata messa a dura prova in particolare dalle ragioni di alcuni Stati intervenienti, difesi dal professor Joseph Weiler, il quale aveva fatto osservare alla Corte che nel contesto attuale le maggiori divisioni non sono quelle che separano le persone appartenenti a diverse religioni, ma piuttosto quelle che contrappongono i laici “militanti” e i credenti. In questo contesto, uno Stato che assume un’iconografia “laica” non è affatto neutrale, ma di fatto sostiene una delle visioni in campo, quella laica, appunto. Dunque, non c’è via d’uscita: se lasciare i simboli religiosi può generare la percezione che lo Stato si identifichi con una confessione religiosa, toglierli può generare la percezione che lo Stato militi a favore di una visione del mondo laica, senza Dio.
La Corte si è vista, perciò, costretta ad abbandonare la diatriba su laicità, libertà religiosa e simboli religiosi per spostarsi sul terreno della libertà di educazione. E infatti tutta la decisione finale è basata su di essa, mentre la questione dei rapporti tra Stato e chiesa è rimasta sullo sfondo, sostanzialmente impregiudicata.

Questo spostamento di piano ha spinto la Corte ad abbandonare le questioni teoriche di principio e ad assumere un approccio molto più realista: la Grande Camera descrive diffusamente l’ambiente scolastico italiano, facendo emergere una serie di elementi dai quali si comprende che si tratta di un ambiente aperto e accogliente verso l’altro e capace di trovare nella pratica uno spazio rispettoso per ogni identità. Nessuno vieta il velo o la kippah, l’insegnamento religioso non è obbligatorio e c’è la possibilità che le religioni diverse dalla cattolica organizzino corsi facoltativi, i contenuti delle materie sono vari e l’approccio critico: nulla fa pensare a scuole dove la presenza del crocefisso simboleggi una tendenza all’indottrinamento, al proselitismo religioso o alla violenza morale.

Alla luce di questa più comprensiva e realistica valutazione degli elementi in gioco, la Corte è giunta alla conclusione che in questo contesto il crocifisso in sé non possa in alcun modo determinare alcuna coartazione della libertà di non credere dei ricorrenti.

Benché questa decisione lasci ancora moltissimi problemi aperti e non risolva la grande questione della presenza del fattore religioso nello spazio pubblico, il passo compiuto è significativo perché sposta la discussione dal piano dello scontro astratto tra valori - che simboleggia lo scontro di civiltà - a quello della ricerca di una soluzione ragionevole e rispettosa per tutti.

“Ragionevolezza” è il principio giuridico non esplicitato, ma che spiega il rovesciamento della decisione nel caso Lautsi.
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GIAPPONE/ Quale posto ha l'uomo e quale Dio in questa tragedia? di Massimo Camisasca - lunedì 21 marzo 2011 – il sussidiario.net

È utile distinguere la riflessione sul terremoto-tsunami da quella sulla tragedia delle esplosioni nucleari. Il primo è un evento indipendente dall’opera dell’uomo, la seconda no. Dedico questo primo intervento alla riflessione che nasce dalla domanda: perché i disastri della natura? Dio vuole parlare attraversi di essi? Che posto ha il male in tutto ciò? Interverrò più avanti sull’altro tema.

Ci sono morti tragiche in ogni epoca della storia. Il secolo passato ne è stato testimone impressionante e anche questi primi anni del terzo millennio ne sono già una documentazione. Soprattutto ci sono state manifestazioni terribili del male, della cattiveria che è nell'uomo.
Ma qui, in Giappone, si assiste ad un dramma più profondo e radicale: sembra che alla sua origine, infatti, non ci sia nessuna volontà cattiva da parte dell'uomo. È un fatto della natura. Sorge allora la domanda: e Dio dove sta? Quale posto ha l'uomo e quale posto ha Dio nella storia, in particolare in ciò che è accaduto? Non si possono eludere queste domande. Il fatto che in questi giorni esse siano state per lo più evitate lascia un contorno oscuro di fronte al dramma. Soprattutto lascia più solo chi vive la morte dei propri parenti, dei propri amici e dei propri vicini.

Ci sono delle risposte che sorgono alla mente e che vanno respinte. La prima è: Dio si è disinteressato del mondo. Noi sappiamo invece che Dio ha tanto amato il mondo da mandare suo Figlio. Il mondo che Dio ha creato è oggetto delle sue cure. E allora, com'è potuto accadere ciò che è accaduto? Attraverso ciò che accade Dio vuole punire l'uomo che si allontana da lui? Anche questa risposta è negata dalla storia del dialogo tra Dio e l'uomo: Dio vuole il bene dell'uomo, la sua pienezza, vuole la vita.
Ma allora la tragedia cui assistiamo si può spiegare solo attraverso la considerazione di un terzo attore della storia, che è il Male. Il Maligno è stato vinto da Dio, ma è ancora attivo. In particolare, è accolto quotidianamente da noi uomini, da Adamo fino ad oggi, per la suggestività menzognera della sua proposta.
Un giorno si avvicinarono a Gesù gli apostoli e gli raccontarono di una torre che era caduta e che aveva sepolto sotto di sé alcune persone. La domanda degli apostoli è la nostra stessa domanda d'oggi: esiste un rapporto tra colpa della persona e calamità che la colpisce? Gesù nega questo rapporto, ma aggiunge: “Se voi non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”. Non si può evitare, di fronte alla catastrofe, di considerare quanto essa sia un richiamo di Dio alla vita di ogni uomo, perché torni ad ancorarsi a ciò che può dare solidità al tempo presente e che può permettere di affrontare con verità e con forza le lotte dell'esistenza. Un richiamo alla conversione sta dietro tutto ciò che accade, come la Madonna ripetutamente ha ricordato nelle apparizioni nel secolo passato e in quello ancora precedente.

Dobbiamo considerare infine il tema della Provvidenza: Dio ha creato un mondo buono, ma non interamente compiuto. È un mondo che è stato creato, dicono i teologi, in statu viae cioè verso una perfezione alla quale Dio lo ha destinato, ma che deve essere ancora raggiunta. L’idea cristiana di Provvidenza riguarda proprio questo cammino: per il cristianesimo la Provvidenza è la strada, l’aiuto che Dio dà al mondo per condurlo verso la sua perfezione. La testimonianza della Scrittura è unanime: Dio si prende cura di tutto, dalle cose più piccole ai più grandi eventi del mondo e della storia. Per realizzare il suo disegno, però, si serve anche della cooperazione delle creature: gli uomini possono partecipare liberamente alla sua Provvidenza. Egli affida loro la possibilità di soggiogare la terra e di dominarla.

La teologia dice che Dio è “causa prima” che opera per mezzo di cause seconde. È qui, allora, che ritorna il tema del male: se Dio è creatore di un mondo ordinato e buono e se Dio si prende cura delle sue creature, perché esiste il male? Dice sempre il Catechismo: “A questo interrogativo doloroso e misterioso non si può dare una risposta rapida: è l’insieme della fede cristiana che può dare una risposta a tale questione” (Cfr. n. 309). E la risposta che dà la fede cristiana è quella che ho esposto sopra, e cioè l’azione del Maligno.
Sorge qui una ulteriore domanda: “Perché Dio non ha creato un mondo a tal punto perfetto da non poter esistere il male?”. È la domanda che la filosofia, soprattutto quella moderna, si è posta più volte: se Dio abbia creato “il migliore mondo possibile”. L’esistenza del male è in connessione con l’esistenza della libertà. Se tutto fosse già compiuto, non esisterebbe la libertà. Dio, perciò, ha accettato un mondo buono, ma incompiuto, in cui ci siano esseri perfetti e imperfetti, in cui ci siano costruzioni e distruzioni, in cui oltre al bene fisico ci sia anche il male fisico, proprio per permettere all’uomo di camminare scegliendo il bene e non aderendo ad esso in modo obbligato.

L’uomo è una creature intelligente e libera. E così anche l’angelo: questo spiega il rifiuto degli angeli e la possibilità dell’esistenza del Maligno. Il male fisico è entrato nel mondo per la sua imperfezione. Il male morale per la libertà dell’uomo. Dio non è né direttamente né indirettamente la causa del male morale, però lo permette e sa trarne anche il bene. Come dice Sant’Agostino: “Dio onnipotente, supremamente buono, non permetterebbe mai che un qualsiasi male esistesse nelle sue opere, se non fosse sufficientemente potente e buono da trarre dal male stesso il bene”. Santa Caterina da Siena (richiama ancora il Catechismo al n. 313) dice a coloro che si scandalizzano e si ribellano a ciò che loro capita: “Tutto viene dall’amore, tutto è ordinato alla salvezza dell’uomo, Dio non fa niente se non a questo fine”. San Tommaso Moro, sempre citato dal Catechismo: “Sono sicuro che qualunque cosa avvenga, per quanto cattiva appaia, sarà in realtà sempre per il meglio”.

Così conclude il Catechismo, al n. 314: “Solo alla fine, quando avrà termine la nostra conoscenza imperfetta e vedremo Dio faccia a faccia, conosceremo pienamente le vie lungo le quali anche attraverso i drammi del male e del peccato Dio avrà condotto la sua creazione fino al riposo di quel sabato definitivo, in vista del quale ha creato il cielo e la terra”.
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CRONACA - IL CASO/ 1. Quella strana tv che parla di vita tra Paris Hilton e Fabri Fibra di Carlo Bellieni - lunedì 21 marzo 2011 – il sussidiario.net

Volete vedere qualcosa di eticamente elevato? Guardate Mtv. Sono impazzito? No. Non vi voglio mandare a vedere le follie di Paris Hilton che si sceglie la migliore amica del cuore (“Paris Hiltons’ BFF”), né i bulli e le cosce di “Jersey Shore”, programmi di grido dell’emittente. Ma… avete mai visto “Il testimone”? No, non è un talk-show, ma un programma condotto di una ex-iena - Pif, al secolo Pierfrancesco Diliberto -, fatto di servizi in presa diretta. Da urlo! Servizi sui non vedenti, sulle persone che lavorano nelle pompe funebri… senza caccia all’horror o banali sciocchezze sull’eutanasia; capite cosa vuol dire parlare di questi tabù ai giovani?

Vi invito a guardare i programmi che lo vedono con agio muoversi sul tema dei giovani delle periferie, sui malati, sulle vocazioni: già, parlare di vocazione in una televisione che dopo un’ora trasmetterà Paris Hilton e Jersey Shore… invece il modo c’è ed è intelligente e buono. Soprattutto in un periodo in cui sparare mediaticamente sui preti è uno sport obbligatorio. Ma non basta: guardatevi anche i servizi sui preti fatti nelle Mtv News.

Ad esempio, quella su Don Geremia, Jerry per gli amici, che gestisce una casa di accoglienza, l’ufficio Migrantes della Caritas e, con l’aiuto di alcuni giovanissimi volontari, ha creato la S.O.S.S., la squadra operativa di soccorso sociale che è attiva 24 ore su 24 per aiutare persone in difficoltà. E guardate quelli sulle sedicenni incinte che girano col loro bambino tra le braccia: quelli fatti in Usa (Sixteen and pregnant, La Vita Segreta di una Teenager americana, Teen Mom) e quelli italiani, anche loro tra le MTV news, che dicono a chiare parole che la vita è difficile, ma “abortire per andare in discoteca è da imbecilli” .
Certo, si parla anche in alcune puntate di comportamenti trasgressivi, di adozioni gay, su cui abbiamo le nostre riserve. Ma mentre di gay parlano tutti, di vocazioni non parla nessuno: vogliamo lamentarci se qualcuno inverte la tendenza? Fianco a fianco con programmi che detestiamo per il messaggio etico sbagliato che propongono, come ad esempio “Teen Cribs”, che vanta gli eccessi di sperperi fatti dagli straricchi Usa per creare ville-bunker ricchissime ultra attrezzate per i loro rampolli. Ma se è il prezzo da pagare, ci stiamo.

È il modo di comunicare l’etica, che ormai è diventata solo un necrologio: si parla solo di chi far morire, di come farla finita noi o gli altri. È una bioetica necrofila quella che leggiamo sui giornali, che vuole fuggire dalla vita, e che ammorba l’aria. E siamo trascinati su questo campo di morte a ribattere, per non lasciar soccombere i più indifesi.

Ma l’etica è anche altro. Il servizio di MTV news “Quelli che sgasano” inizia così: “Ci sono quelli che se hanno 10 euro li spendono per il fumo, ma anche quelli che preferiscono usarli per la benzina, per andare fuori da una periferia e scegliere come vivere il proprio tempo”. Ma su MTV News abbiamo anche le storie dei “Ragazzi di Lampedusa”, o degli “Emo contro Truzzi”: tutte da vedere. Così come, incredibile a dirsi, affascinano le storie “Fabri Fibra in Italia”.
Ecco, dunque, un modo di parlare di temi etici, che non è più il solito, e che, strano a dirsi, non è la banale pubblicità delle parole d’ordine del nuovo regime (“morte libera per tutti” e “mettete il preservativo”), unici richiami “etici” che la generazione degli adulti dà ai ragazzi.

I giovani non sono degli sciocchi, come li disegnano i media degli ex-sessantottini, tutti alcol, sesso e disco: pensano a divertirsi, ma si domandano perché i “grandi” li obblighino a una vita in cui hanno tutto il sesso che gli pare, ma niente figli, per carità! E loro i figli li vogliono, perché non sono pezzi di legno: le indagini Istat mostrano che i teenagers sognano quasi tutti una famiglia numerosa, ma che poi devono rinunciarci. Non ci vengano a raccontare i nostri soloni che dipende dai soldi: anche i ricchi non fanno figli, anzi. E pensano ai grandi temi, alla religione di cui non sanno più nulla, all’amore, all’impegno.

Racconta MTV questo mondo, certo non in modo bigotto e sonnolento, certo non censurando termini o discorsi forti, ma che c’è di male? La forza della vita è che quando si racconta bene, sa affermarsi da sé.


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