sabato 12 marzo 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    IL PAPA PREGA PER LE VITTIME DELLO TSUNAMI ABBATTUTOSI SUL GIAPPONE - Si parla di oltre 1.000 vittime dopo il terremoto nel Paese asiatico
2)    Bagnasco: umilia l'uomo chi manipola la vita, 11-03-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it
3)    «Non abbiate paura delle scomode verità» di Massimo Introvigne, 11-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/
4)    LECTIO DIVINA DEL PAPA NELL'INCONTRO CON I SACERDOTI DI ROMA - CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 11 marzo 2011 (ZENIT.org)
5)    "Un libro storico, che inaugura una nuova era dell’esegesi teologica" - Il nuovo "Gesù di Nazaret" di Benedetto XVI introdotto e spiegato da un cardinale teologo cresciuto alla sua scuola  di Marc Ouellet – da http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347062
6)    John Finnis, il filosofo di Oxford, racconta la sua conversione al cattolicesimo - 11 marzo, 2011, da http://www.uccronline.it
7)    Il carisma di Suor Verònica affascina la Spagna di Nastia Filippi, 12-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
8)    Corea del Nord, un vero inferno terrestre di Danilo Quinto, 12-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
9)    «Cellule embrionali non brevettabili». Svolta nell’Ue? - l’“arringa” - L’avvocato della Corte di giustizia incaricato di una causa sull’uso commerciale delle staminali: se si trasformano in esseri umani (o in organi umani) il loro stato giuridico è quello di vite a tutti gli effetti

IL PAPA PREGA PER LE VITTIME DELLO TSUNAMI ABBATTUTOSI SUL GIAPPONE - Si parla di oltre 1.000 vittime dopo il terremoto nel Paese asiatico

ROMA, venerdì, 11 marzo 2011 (ZENIT.org).- Benedetto XVI ha espresso cordoglio e vicinanza nella preghiera per tutti coloro rimasti coinvolti nel violento terremoto e nel successivo tsunami che questo venerdì ha devastato il Giappone, provocando per il momento oltre 1.000 morti.
Un terremoto di magnitudo 7.9 (con una seconda scossa di 8.8) ed epicentro in mare, a circa 400 km a nord-est di Tokyo, ha infatti colpito intorno alle 15 ora locale il Paese - situato nel cosiddetto “Anello di fuoco”, un arco di zone vulcaniche lungo la costa del Pacifico, dove si produce il 90% dei terremoti del pianeta -, scuotendo per diversi minuti le costruzioni.
Il sisma ha poi provocato uno tsunami con onde alte fino a 10 metri, che hanno investito terreni agricoli, case, raccolti, trascinando barche e auto e provocando incendi.
In un telegramma a firma del Cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone indirizzato a mons. Leo Jun Ikenaga, Presidente della Conferenza dei Vescovi Cattolici del Giappone, si legge: “Profondamente addolorato per gli improvvisi e tragici effetti del gigantesco terremoto e del successivo tsunami che hanno colpito le regioni costiere del nord-est del Giappone, Sua Santità il Papa Benedetto XVI assicura a tutte le vittime la sua vicinanza in questo momento di difficoltà”.
“Prega per tutti coloro che sono morti – continua il telegramma –, e sulle loro famiglie e sui loro amici in lutto invoca benedizioni divine di forza e consolazione. Il Santo Padre esprime inoltre la sua solidarietà orante per tutti coloro impegnati nelle operazioni di salvataggio e che offrono sollievo e sostegno alle vittime di questo disastro”.
Nel frattempo sono stati lanciati allarmi tsunami per l'intero bacino del Pacifico, a eccezione del territorio continentale di Usa e Canada.


Bagnasco: umilia l'uomo chi manipola la vita, 11-03-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it

“La fede non riguarda un sistema di idee e non può essere ridotta a una forma di gnosi; riguarda la persona di Gesù di Nazaret, il Dio che in Cristo è entrato nella storia umana, è venuto a cercare l’uomo smarrito e lacero, ha posto la dimora in mezzo a noi per stare con noi ed essere per ciascuno amore e salvezza, verità e vita”: lo ha detto oggi a Perugia il card. Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, invitato a tenere nell’aula magna dell’Università cittadina una lectio magistralis sul tema “Scienza e fede, vie per la formazione dell’uomo”, nell’ambito della “Missione diocesana ai giovani”. Partendo dalla “fede”, il cardinale la ha definita “un incontro, e si incontrano veramente solo le persone: è un rapporto, è vivere riferiti a Cristo, è sapere che Dio è Qualcuno, è intuire che noi esistiamo perché Dio vive. È esserne affascinati, ghermiti, posseduti”. Sull’altro lato si trovano l’ateismo – ha proseguito – “che nega espressamente l’esistenza di Dio”, e l’agnosticismo “che sospende il giudizio, e prende una specie di equidistanza tra l’esistenza e la non esistenza di Dio”. Ci si domanda – ha aggiunto - se l’uomo “possa mettere tra parentesi la questione di Dio, cioè della sua origine e del suo destino”. “Possiamo accontentarci – ha chiesto - di vivere sotto la forma ipotetica del ‘come se Dio non esistesse’, mentre può darsi che Egli esista davvero?”.

Sul rapporto tra scienza e fede, il card. Bagnasco ha quindi affermato che “non è possibile separare nettamente la riflessione sulla scienza da quella sulla tecnologia in forza della loro intrinseca relazione, anche se la prima è più di ordine teoretico, mentre la seconda più di ordine pratico”. Entrando specificamente nelle linee tracciate dal Magistero della Chiesa, ha affermato che esso “affronta la riflessione distinguendo due ambiti problematici: il rapporto della scienza con la verità e il rapporto tra scienza e fede”. In tali ambiti, “il dilemma centrale” è il seguente: “Se la scienza abbia la funzione e la possibilità di scoprire la verità delle cose come sono, oppure se abbia lo scopo puramente pratico di assicurare il controllo, il funzionamento dei fenomeni secondo una concezione strumentale della scienza”. “La Chiesa – ha risposto il cardinale - non si pronuncia in modo tecnico su tale questione, però le sue considerazioni si muovono nell’orizzonte di una visione realistica: ‘La ricerca della verità è il compito della scienza fondamentale’ affermò Giovanni Paolo II durante la commemorazione di Albert Einstein, il 10 novembre 1979. Noi siamo convinti che esiste una verità e tale verità è oggetto della ricerca scientifica”.

Passando a riflettere sulla formazione dell’uomo, specie dei giovani, il cardinale ha affermato che “la scienza e la fede hanno stretta relazione con la verità. Questo è il primo dato: bisogna educare l’uomo alla verità, al gusto della verità, al rigore della ricerca, alla gratuità di fronte al reale”. Ha quindi sostenuto che “si respira oggi un’aria che non sembra favorire il senso della verità: anziché tender alla verità per il gusto di contemplarla, per sapere il più possibile com’è la realtà che siamo e che ci circonda, per coglierne la bellezza e l’ordine interno, l’ intelligenza e la luce che ci avvolgono, la meraviglia dell’universo che non è caos ma razionalità, pare che la tensione dominante sia conoscere per usare, per piegare e sfruttare”. Secondo il card. Bagnasco, “l’uso della natura non è male in sé, corrisponde al disegno di Dio, alla gerarchia degli enti – l’uomo è al vertice dell’universo, ne è signore ma non dominatore, custode che deve usare ma non abusare – ma questa funzione della nostra ragione non deve assolutizzarsi fino ad oscurare l’altra funzione della ragione stessa, quella di conoscere per sapere, per capire, per contemplare, per vivere di meraviglia in un universo sorprendente e maestoso”. 

Nel complesso rapporto tra scienza e fede, si registra oggi – ha detto il cardinale – una “smania” di “dominare e manipolare fino all’estremo della vita umana, nel sacrario del suo principio e nel mistero del suo concludersi”. Questo “alimenta un atteggiamento strumentale che, mentre non rispetta correttamente la natura, umilia anche se stessa. L’educazione si colloca nell’ambito della contesa tra ‘utilitas’ e ‘veritas’: l’utilità non è malvagia in se stessa a condizione che non diventi un assoluto, nel tal caso l’utilità si nega e si elimina da sé”. Per educare “al senso e alla ricerca della verità .. è necessario – secondo il cardinale - maturare un atteggiamento complessivo che è di ordine ascetico e morale”, basato sull’ “umiltà” e non sull’ “arroganza”. Il rapporto tra scienza e fede diviene quindi campo dove “essere disponibili alla verità, quella che studia le scienze sperimentali e che richiede l’adesione a ciò che scopre; e quella che è oggetto della fede e che tocca la capacità di giudizio sull’essere e sull’esistere, tocca i comportamenti”.
Il card. Bagnasco ha quindi affermato che “lasciarsi giudicare dalla verità significa dunque essere disponibili a correggere o mutare modi di pensare e di agire che possono essere acquisiti e la cui revisione può costare fatica e sacrificio”.


«Non abbiate paura delle scomode verità» di Massimo Introvigne, 11-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/

Benedetto XVI ha incontrato il 10 marzo, come fa ogni anno, i sacerdoti della Diocesi di Roma in occasione dell'inizio della Quaresima. Con loro ha parlato anzitutto della Quaresima come cammino di conversione, un tema che aveva già affrontato ricevendo e imponendo le ceneri mercoledì nella Basilica di Santa Sabina. Ma ha anche proposto alcune riflessioni sull'attuale crisi del sacerdozio, che ha ricondotto anzitutto a una dimensione dottrinale.

La conversione cui ci chiama la Quaresima, ha detto il Papa, per il sacerdote dev'essere anche riflessione ed esame di coscienza sul contenuto della sua predicazione e sulla sua conformità a quanto insegna la Chiesa. Il sacerdote veramente convertito “non predica un cristianesimo à la carte, secondo i gusti propri, predicando un Vangelo secondo le proprie idee preferite, secondo le proprie idee teologiche”. Il rischio è quello da una parte di fare prevalere teologie alla moda sull'insegnamento della Chiesa e del Magistero, dall'altra di censurare, anche inavvertitamente, temi e verità percepite come impopolari e avversate dal mondo contemporaneo. Il prete che ha compiuto un cammino di conversione, invece, “non si sottrae dall'annunciare tutta, tutta la volontà di Dio, anche la volontà scomoda, anche i temi che personalmente non mi piacciono".

Perché la sua predicazione sia conforme all'insegnamento della Chiesa il sacerdote, traendo occasione dalla Quaresima, sempre di più - ha detto il Papa - dovrà imparare a guardare le cose non come le vede "il mondo" ma considerandole sempre alla luce della "presenza di Dio". I sacerdoti dovranno ricordare che sono stati "chiamati dal Signore" a un compito e a un annuncio specifico, molto diverso da una semplice funzione sociale. Nelle parole del sacerdote dovrà sempre trasparire “la gioia di poter andare con Cristo fino alla fine, di ‘condurre a termine la corsa’ sempre nell’entusiasmo di essere chiamati da Cristo per questo grande servizio”. Ma questa conversione, questo modo veramente sacerdotale di annunciare il Vangelo e di predicare sarà possibile solo se sarà sorretto da un'adeguata vita spirituale. Benedetto XVI torna qui su un tema che è sempre al centro dei suoi incontri con i sacerdoti e i seminaristi.

Noi preti, ha detto, non dobbiamo mai smettere di essere “attenti anche alla nostra vita spirituale, al nostro essere con Cristo”. “Pregare e meditare la Parola di Dio non è tempo perso per la cura delle anime – ha spiegato il Papa –, ma è condizione perché possiamo essere realmente in contatto con il Signore e così parlare di prima mano del Signore agli altri”. Il sacerdote che, radicato nella vita spirituale autentica, si dispone ad annunciare anche le verità scomode che il mondo non gradisce, in piena consonanza con quanto insegna la Chiesa, deve attendersi opposizioni e persecuzioni. Potrà anche scoraggiarsi. Ma il Papa lo invita a non perdere la speranza. Infatti, "la verità è più forte della menzogna, l’amore è più forte dell’odio, Dio è più forte di tutte le forze avverse". “E con questa gioia, con questa certezza interiore prendiamo la nostra strada [...] nelle consolazioni di Dio e nelle persecuzioni del mondo”.


LECTIO DIVINA DEL PAPA NELL'INCONTRO CON I SACERDOTI DI ROMA - CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 11 marzo 2011 (ZENIT.org)

CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 11 marzo 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Lectio divina tenuta giovedì da Benedetto XVI nell'incontrarsi in Vaticano con il clero della diocesi di Roma per il tradizionale appuntamento di inizio Quaresima.

* * *
Eminenza,
Eccellenze e cari fratelli,
è per me una grande gioia essere ogni anno, all’inizio della Quaresima, con voi - il Clero di Roma - e cominciare con voi il cammino pasquale della Chiesa. Vorrei ringraziare Sua Eminenza per le belle parole che mi ha donato, ringraziare voi tutti per il lavoro che fate per questa Chiesa di Roma, che - secondo sant’Ignazio - presiede la carità, e dovrebbe essere sempre anche esemplare nella sua fede. Facciamo insieme tutto il possibile perché questa Chiesa di Roma risponda alla sua vocazione e perché noi, in questa "Vigna del Signore", siamo lavoratori fedeli.
Abbiamo ascoltato questo brano degli Atti degli Apostoli (20,17-38), nel quale san Paolo parla ai presbiteri di Efeso, raccontato volutamente da san Luca come testamento dell’Apostolo, come discorso destinato non solo ai presbiteri di Efeso, ma ai presbiteri di ogni tempo. San Paolo parla non solo con coloro che erano presenti in quel luogo, egli parla realmente con noi. Cerchiamo quindi di capire un po’ quanto dice a noi, in quest’ora.
Comincio: "Voi sapete come mi sono comportato con voi per tutto questo tempo" (v. 18) e su questo suo comportamento per tutto il tempo, san Paolo dice, alla fine, che "notte e giorno, io non ho cessato… di ammonire ciascuno di voi" (v. 31). Ciò vuol dire: in tutto questo tempo egli era annunciatore, messaggero, ambasciatore di Cristo per loro; era sacerdote per loro. In un certo senso, si potrebbe dire che era un prete lavoratore, perché - come dice anche in questo brano – egli ha lavorato con le sue mani come tessitore di tende per non pesare sui loro beni, per essere libero, per lasciarli liberi. Ma benché avesse lavorato con le sue mani, tuttavia in tutto questo tempo egli era sacerdote, per tutto il tempo egli ha ammonito. In altre parole, anche se non tutto il tempo era esteriormente a disposizione della predicazione, il suo cuore e la sua anima erano sempre presenti per loro; egli era penetrato dalla Parola di Dio, dalla sua missione. Questo mi sembra un punto molto importante: prete non lo si è a tempo solo parziale; lo si è sempre, con tutta l’anima, con tutto il nostro cuore. Questo essere con Cristo ed essere ambasciatore di Cristo, questo essere per gli altri, è una missione che penetra il nostro essere e deve sempre più penetrare nella totalità del nostro essere.
Poi san Paolo dice: "Ho servito il Signore con tutta umiltà" (v. 19). "Servito": una parola chiave di tutto il Vangelo. Cristo stesso dice: Non sono venuto per dominare, ma per servire (cfr Mt 20,28). E’ il Servitore di Dio, e Paolo e gli Apostoli continuano ad essere "servitori"; non padroni della fede, ma servitori della vostra gioia, dice san Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi (cfr 1,24). "Servire", questo deve essere anche per noi determinante: siamo servitori. E servire vuol dire non fare quanto io mi propongo, quanto sarebbe per me la cosa più simpatica; servire vuol dire lasciarmi imporre il peso del Signore, il giogo del Signore; servire vuol dire non andare secondo le mie preferenze, le mie priorità, ma lasciarmi realmente "prendere in servizio" per l’altro. Questo vuol dire che anche noi dobbiamo fare spesso cose che non appaiono immediatamente spirituali e che non rispondono sempre alle nostre scelte. Dobbiamo fare tutti, dal Papa fino all’ultimo vice parroco, lavori di amministrazione, lavori temporali; tuttavia lo facciamo come servizio, come parte di quanto il Signore ci impone nella Chiesa e facciamo quanto la Chiesa ci dice e quanto si aspetta da noi. E’ importante questo aspetto concreto del servizio, che non scegliamo noi cosa fare, ma siamo servitori di Cristo nella Chiesa e lavoriamo come la Chiesa ci dice, dove la Chiesa ci chiama, e cerchiamo di essere proprio così: servitori che non fanno la propria volontà, ma la volontà del Signore. Nella Chiesa siamo realmente ambasciatori di Cristo e servitori del Vangelo.
"Ho servito il Signore con tutta umiltà". Anche "umiltà" è una parola-chiave del Vangelo, di tutto il Nuovo Testamento. Umiltà, ci precede il Signore. Nella Lettera ai Filippesi, san Paolo ci ricorda che Cristo, il quale era sopra a noi tutti, era realmente divino nella gloria di Dio, si è umiliato, è sceso facendosi uomo, accettando tutta la fragilità dell’essere umano, andando fino all’obbedienza ultima della Croce (cfr 2,5-8). Umiltà non vuol dire una falsa modestia - siamo grati per i doni che il Signore ci ha dato -, ma indica che siamo consapevoli che tutto quanto possiamo fare è dono di Dio, è donato per il Regno di Dio. In questa umiltà, in questo non voler apparire, noi lavoriamo. Non chiediamo lode, non vogliamo "farci vedere", non è per noi criterio decisivo pensare a che cosa diranno di noi sui giornali o altrove, ma che cosa dice Dio. Questa è la vera umiltà: non apparire davanti agli uomini, ma stare sotto lo sguardo di Dio e lavorare con umiltà per Dio e così realmente servire anche l’umanità e gli uomini.
"Non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi" (v. 20). San Paolo ritorna, dopo alcune frasi, di nuovo su questo punto e dice: "Non mi sono sottratto al dovere di annunciarvi tutta la volontà di Dio" (v. 27). Questo è importante: l’Apostolo non predica un Cristianesimo "à la carte", secondo i propri gusti, non predica un Vangelo secondo le proprie idee teologiche preferite; non si sottrae all’impegno di annunciare tutta la volontà di Dio, anche la volontà scomoda, anche i temi che personalmente non piacciono tanto. E’ la nostra missione di annunciare tutta la volontà di Dio, nella sua totalità e ultima semplicità. Ma è importante il fatto che dobbiamo istruire e predicare - come dice qui san Paolo - e proporre realmente la volontà intera di Dio. E penso che il mondo di oggi sia curioso di conoscere tutto, tanto più dovremmo essere curiosi noi di conoscere la volontà di Dio: che cosa potrebbe essere più interessante, più importante, più essenziale per noi che conoscere cosa vuole Dio, conoscere la volontà di Dio, il volto di Dio? Questa curiosità interiore dovrebbe essere anche la nostra curiosità di conoscere meglio, in modo più completo, la volontà di Dio. Dobbiamo rispondere e svegliare questa curiosità negli altri: di conoscere veramente tutta la volontà di Dio e di conoscere così come possiamo e come dobbiamo vivere, qual è la strada della nostra vita. Quindi dovremmo far conoscere e capire - per quanto possiamo - il contenuto del Credo della Chiesa, dalla creazione fino al ritorno del Signore, al mondo nuovo. La dottrina, la liturgia, la morale, la preghiera - le quattro parti del Catechismo della Chiesa Cattolica - indicano questa totalità della volontà di Dio. E anche è importante non perderci nei dettagli, non creare l’idea che il Cristianesimo sia un pacchetto immenso di cose da imparare. Ultimamente è semplice: Dio si è mostrato in Cristo. Ma entrare in questa semplicità - io credo in Dio che si mostra in Cristo e voglio vedere e realizzare la sua volontà – ha contenuti, e, a seconda delle situazioni, entriamo poi in dettaglio o meno, ma è essenziale che si faccia capire da una parte la semplicità ultima della fede. Credere in Dio come si è mostrato in Cristo, è anche la ricchezza interiore di questa fede, le risposte che dà alle nostre domande, anche le risposte che in un primo momento non ci piacciono e che sono tuttavia la strada della vita, la vera strada; in quanto entriamo in queste cose anche non così piacevoli per noi, possiamo capire, cominciamo a capire che è realmente la verità. E la verità è bella. La volontà di Dio è buona, è la bontà stessa.
Poi l’Apostolo dice: "Ho predicato in pubblico e nelle case, testimoniando a giudei e greci la conversione a Dio e la fede nel Signore Nostro Gesù" (v. 20-21). Qui c’è un riassunto dell’essenziale: conversione a Dio, fede in Gesù. Ma rimaniamo un attimo nella parola "conversione", che è la parola centrale o una delle parole centrali del Nuovo Testamento. Qui è interessante - per conoscere le dimensioni di questa parola - essere attenti alle diverse parole bibliche: in ebraico "šub" vuol dire "invertire la rotta", cominciare con una nuova direzione della vita; in greco "metanoia", "cambiamento del pensiero"; in latino "poenitentia", "azione mia per lasciarmi trasformare"; in italiano "conversione", che coincide piuttosto con la parola ebraica di "nuova direzione della vita". Forse possiamo vedere in modo particolare il perché della parola del Nuovo Testamento, la parola greca "metanoia", "cambiamento del pensiero". In un primo momento il pensiero appare tipicamente greco, ma andando in profondità vediamo che esprime realmente l’essenziale di ciò che anche le altre lingue dicono: cambiamento del pensiero, cioè reale cambiamento della nostra visione della realtà. Siccome siamo nati nel peccato originale, per noi "realtà" sono le cose che possiamo toccare, sono i soldi, sono la mia posizione, sono le cose di ogni giorno che vediamo nel telegiornale: questa è la realtà. E le cose spirituali appaiono un po’ "dietro" la realtà: "Metanoia", cambiamento del pensiero, vuol dire invertire questa impressione. Non le cose materiali, non i soldi, non l’edificio, non quanto posso avere è l’essenziale, è la realtà. La realtà delle realtà è Dio. Questa realtà invisibile, apparentemente lontana da noi, è la realtà. Imparare questo, e così invertire il nostro pensiero, giudicare veramente come il reale che deve orientare tutto è Dio, sono le parole, la parola di Dio. Questo è il criterio, Dio, il criterio di tutto quanto faccio. Questo realmente è conversione, se il mio concetto di realtà è cambiato, se il mio pensiero è cambiato. E questo deve poi penetrare tutte le singole cose della mia vita: nel giudizio di ogni singola cosa prendere come criterio che cosa dice Dio su questo. Questa è la cosa essenziale, non quanto ricavo adesso per me, non il vantaggio o lo svantaggio che avrò, ma la vera realtà, orientarci a questa realtà. Dobbiamo proprio - mi sembra - nella Quaresima, che è cammino di conversione, esercitare ogni anno di nuovo questa inversione del concetto di realtà, cioè che Dio è la realtà, Cristo è la realtà e il criterio del mio agire e del mio pensare; esercitare questo nuovo orientamento della nostra vita. E così anche la parola latina "poenitentia", che ci appare un po’ troppo esteriore e forse attivistica, diventa reale: esercitare questo vuole dire esercitare il dominio di me stesso, lasciarmi trasformare, con tutta la mia vita, dalla Parola di Dio, dal pensiero nuovo che viene dal Signore e mi mostra la vera realtà. Così non si tratta solo di pensiero, di intelletto, ma si tratta della totalità del mio essere, della mia visione della realtà. Questo cambiamento del pensiero, che è conversione, tocca il mio cuore e unisce intelletto e cuore, e mette fine a questa separazione tra intelletto e cuore, integra la mia personalità nel cuore che è aperto da Dio e che si apre a Dio. E così trovo la strada, il pensiero diventa fede, cioè un aver fiducia nel Signore, un affidarmi al Signore, vivere con Lui e intraprendere la sua strada in una vera sequela di Cristo.
Poi san Paolo continua: "Costretto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme, senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo, di città in città, mi attesta che mi attendono catene e tribolazione. Non ritengo in nessun modo preziosa la mia vita, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di dare testimonianza al Vangelo della grazia di Dio" (vv. 22-24). San Paolo sa che probabilmente questo viaggio a Gerusalemme gli costerà la vita: sarà un viaggio verso il martirio. Qui dobbiamo tenere presente il perché del suo viaggio. Va a Gerusalemme per consegnare a quella comunità, alla Chiesa di Gerusalemme, la somma per i poveri raccolta nel mondo dei Gentili. E’ quindi un viaggio di carità, ma di più: questa è un’espressione del riconoscimento dell’unità della Chiesa tra ebrei e gentili, è un riconoscimento formale del primato di Gerusalemme in quel tempo, del primato dei primi Apostoli, un riconoscimento dell’unità e dell’universalità della Chiesa. In questo senso, il viaggio ha un significato ecclesiologico e anche cristologico, perché ha così tanto valore per lui questo riconoscimento, questa espressione visibile dell’unicità e dell’universalità della Chiesa, che mette in conto anche il martirio. L’unità della Chiesa vale il martirio. Così egli dice: "Non ritengo in nessun modo preziosa la mia vita, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio" (v. 24). Il puro sopravvivere biologico - dice san Paolo - non è il primo valore per me; il primo valore per me è realizzare il mio servizio; il primo valore per me è l’essere con Cristo; il vivere con Cristo è la vera vita. Anche se egli perde questa vita biologica, non perde la vera vita. Invece se perdesse la comunione con Cristo per conservare la vita biologica, avrebbe perso proprio la vita stessa, l’essenziale del suo essere. Anche questo mi sembra importante: avere le giuste priorità. Certamente dobbiamo essere attenti alla nostra salute, a lavorare con ragionevolezza, ma anche sapere che il valore ultimo è stare in comunione con Cristo; vivere il nostro servizio e perfezionarlo conduce a termine la corsa. Forse possiamo rimanere ancora un attimo su questa espressione "purché conduca a termine la mia corsa". Fino alla fine l’Apostolo vuol essere servitore di Gesù, ambasciatore di Gesù per il Vangelo di Dio. Questo è importante, che anche nella vecchiaia, anche se procedono gli anni, non perdiamo lo zelo, la gioia di essere chiamati dal Signore. E’ facile direi, in un certo senso, all’inizio del cammino sacerdotale essere pieni di zelo, di speranza, di coraggio, di attività, ma può seguire facilmente, se vediamo come le cose vanno, come il mondo rimane sempre lo stesso, come il servizio diventa pesante, perdere un po’ questo entusiasmo. Ritorniamo sempre alla Parola di Dio, alla preghiera, alla comunione con Cristo nel Sacramento - questa intimità con Cristo - e lasciamoci rinnovare la nostra gioventù spirituale, rinnovare lo zelo, la gioia di poter andare con Cristo fino alla fine, di "condurre a termine la corsa", sempre nell’entusiasmo di essere chiamati da Cristo per questo grande servizio, per il Vangelo della Grazia di Dio. E questo è importante. Abbiamo parlato di umiltà, di questa volontà di Dio, che può essere dura. Alla fine, il titolo di tutto il Vangelo della Grazia di Dio è "Vangelo", è "Buona Notizia" che Dio ci conosce, che Dio mi ama, e che il Vangelo, la volontà ultima di Dio è Grazia. Ricordiamoci che la corsa del Vangelo comincia a Nazareth, nella stanza di Maria, con la parola "Ave Maria", ma in greco è "Chaire kecharitomene": "Gioisci perché stai nella Grazia!". E questa parola rimane il filo conduttore: il Vangelo è invito alla gioia perché siamo nella Grazia, e l’ultima parola di Dio è la Grazia.
Poi viene il brano sul martirio imminente. Qui c’è una frase molto importante, che vorrei un po’ meditare con voi: "Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio" (v. 28). Comincio con la parola "vegliate". Qualche giorno fa, ho tenuto la catechesi su san Pietro Canisio, apostolo della Germania al tempo della Riforma, e mi è rimasta in mente una parola di questo Santo, una parola che era per lui un grido d’angoscia nel suo momento storico. Egli dice: "Vedete, Pietro dorme, Giuda è sveglio". Questa è una cosa che ci fa pensare: la sonnolenza dei buoni. Papa Pio XI ha detto: "il problema grande del nostro tempo non sono le forze negative, è la sonnolenza dei buoni". "Vegliate": meditiamo questa cosa, e pensiamo che il Signore nell’Orto degli Ulivi per due volte ha detto ai suoi apostoli: "Vegliate!", ed essi dormono. "Vegliate", dice a noi; cerchiamo di non dormire in questo tempo, ma di essere realmente pronti per la volontà di Dio e per la presenza della sua Parola, del suo Regno.
"Vegliate su voi stessi" (v. 28): anche questa è una parola ai presbiteri di tutti i tempi. Esiste un attivismo bene intenzionato, ma nel quale uno dimentica la propria anima, la propria vita spirituale, il proprio essere con Cristo. San Carlo Borromeo, nella lettura del Breviario della sua memoria liturgica, ci dice, ogni anno di nuovo: non puoi essere un buon servitore per gli altri se trascuri la tua anima. "Vegliate su voi stessi": siamo attenti anche alla nostra vita spirituale, al nostro essere con Cristo. Come ho detto tante volte: pregare e meditare la Parola di Dio non è tempo perso per la cura delle anime, ma è condizione perché possiamo essere realmente in contatto con il Signore e così parlare di prima mano del Signore agli altri. "Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio" (v. 28). Qui due parole sono importanti. In primo luogo: "lo Spirito Santo vi ha costituiti"; cioè, il sacerdozio non è una realtà in cui uno trova un’occupazione, una professione utile, bella, che gli piace e che si sceglie. No! Siamo costituiti dallo Spirito Santo. Solo Dio può farci sacerdoti, solo Dio può scegliere i suoi sacerdoti e, se siamo scelti, siamo scelti da Lui. Qui appare chiaramente il carattere sacramentale del presbiterato e del sacerdozio, che non è una professione che deve essere svolta perché qualcuno deve amministrare le cose, deve anche predicare. Non è una cosa che facciamo noi, semplicemente. E’ un’elezione dello Spirito Santo e in questa volontà dello Spirito Santo, volontà di Dio, viviamo e cerchiamo sempre più di lasciarci prendere nelle mani dallo Spirito Santo, dal Signore stesso. In secondo luogo: "costituiti come custodi, per essere pastori". La parola che qui, nella traduzione italiana, suona "custodi" è in greco "episkopos". San Paolo parla ai presbiteri, ma qui li chiama "episkopoi". Possiamo dire che, nell’evoluzione della realtà della Chiesa, i due ministeri non erano ancora chiaramente divisi e distinti, sono ancora evidentemente l’unico sacerdozio di Cristo ed essi, i presbiteri, sono anche "episkopoi". La parola "presbitero" viene soprattutto dalla tradizione ebraica, dove vigeva il sistema degli "anziani", dei "presbiteri", mentre la parola "episkopos" è stata creata – o trovata – nell’ambito della Chiesa dai pagani, e viene dal linguaggio dell’amministrazione romana. "Episkopoi" sono quelli che sorvegliano, che hanno una responsabilità amministrativa nel sorvegliare l’andamento delle cose. I cristiani hanno scelto questa parola nell’ambito pagano-cristiano per esprimere l’ufficio del presbitero, del sacerdote, ma naturalmente ciò ha cambiato subito il significato della parola. La parola "episkopoi" è stata subito identificata con la parola "pastori". Cioè, sorvegliare è "pascolare", fare il lavoro del pastore: in realtà ciò è diventato subito "poimainein", "pascolare" la Chiesa di Dio; è pensato nel senso di questa responsabilità per gli altri, di questo amore per il gregge di Dio. E non dimentichiamo che, nell’antico Oriente, "pastore" era il titolo dei re: essi sono i pastori del gregge, che è il popolo. In seguito, il re-Cristo trasforma interiormente – essendo il vero re – questo concetto. E’ il Pastore che si fa agnello, il pastore che si fa uccidere per gli altri, per difenderli contro il lupo; il pastore il cui primo significato è amare questo gregge e così dare vita, nutrire, proteggere. Forse questi sono i due concetti centrali per questo ufficio del "pastore": nutrire facendo conoscere la Parola di Dio, non solo con le parole, ma testimoniandola per volontà di Dio; e proteggere con la preghiera, con tutto l’impegno della propria vita. Pastori, l’altro significato che hanno percepito i Padri nella parola cristiana "episkopoi" è: uno che sorveglia non come un burocrate, ma come uno che vede dal punto di vista di Dio, cammina verso l’altezza di Dio e nella luce di Dio vede questa piccola comunità della Chiesa. Questo è importante anche per un pastore della Chiesa, per un sacerdote, un "episkopos": che veda dal punto di vista di Dio, cerchi di vedere dall’alto, nel criterio di Dio e non secondo le proprie preferenze, ma come giudica Dio. Vedere da questa altezza di Dio e così amare con Dio e per Dio.
"Essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio" (v. 28). Qui troviamo una parola centrale sulla Chiesa. La Chiesa non è un’organizzazione che man mano si è formata; la Chiesa è nata nella Croce. Il Figlio ha acquistato la Chiesa nella Croce e non solo la Chiesa di quel momento, ma la Chiesa di tutti i tempi. Ha acquistato con il suo sangue questa porzione del popolo, del mondo, per Dio. E questo mi sembra che debba farci pensare. Cristo, Dio ha creato la Chiesa, la nuova Eva, con il suo sangue. Così ci ama e ci ha amati, e questo è vero in ogni momento. E questo ci deve anche far capire come la Chiesa è un dono; essere felici che siamo chiamati ad essere Chiesa di Dio; avere gioia di appartenere alla Chiesa. Certo, ci sono anche sempre aspetti negativi, difficili, ma in fondo deve rimanere questo: è un dono bellissimo che posso vivere nella Chiesa di Dio, nella Chiesa che il Signore si è acquistata con il suo sangue. Essere chiamati a conoscere realmente il volto di Dio, conoscere la sua volontà, conoscere la sua Grazia, conoscere questo amore supremo, questa Grazia che ci guida e ci tiene per mano. Felicità di essere Chiesa, gioia di essere Chiesa. Mi sembra che dobbiamo re-imparare questo. La paura del trionfalismo ci ha fatto forse un po’ dimenticare che è bello essere nella Chiesa, e che questo non è trionfalismo, ma è umiltà, essere grati per il dono del Signore.
Segue subito che questa Chiesa è sempre anche non solo dono di Dio e divina, ma anche molto umana: "Verranno lupi rapaci" (v. 29). La Chiesa è sempre minacciata, c’è sempre il pericolo, l’opposizione del diavolo che non accetta che nell’umanità sia presente questo nuovo Popolo di Dio, che vi sia la presenza di Dio in una comunità vivente. Non deve quindi meravigliarci che ci sia sempre difficoltà, che ci sia sempre erba cattiva nel campo della Chiesa. E’ stato sempre così e sarà sempre così. Ma dobbiamo essere consapevoli, con gioia, che la verità è più forte della menzogna, l’amore è più forte dell’odio, Dio è più forte di tutte le forze avverse a Lui. E con questa gioia, con questa certezza interiore prendiamo la nostra strada inter consolationes Dei et persecutiones mundi, dice il Concilio Vaticano II (cfr Cost. dogm. Lumen gentium, 8): tra le consolazioni di Dio e le persecuzioni del mondo.
Ed ora il penultimo capoverso. A questo punto non vorrei più entrare nei dettagli: alla fine appare un elemento importante della Chiesa, dell’essere cristiani. "In tutte le maniere vi ho mostrato che i deboli si devono soccorrere lavorando così, ricordando le parole del Signore Gesù, che disse: ‘Si è più beati nel dare che nel ricevere’" (cfr v. 35). L’opzione preferenziale per i poveri, l’amore per i deboli è fondamentale per la Chiesa, è fondamentale per il servizio di ciascuno di noi: essere attenti con grande amore per i deboli, anche se forse non sono simpatici, sono difficili. Ma essi aspettano la nostra carità, il nostro amore, e Dio aspetta questo nostro amore. In comunione con Cristo siamo chiamati a soccorrere con il nostro amore, con i nostri fatti, quelli che sono i deboli.
Infine, l’ultimo capoverso: "Dopo aver detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò" (v. 36). Alla fine, il discorso diventa preghiera e Paolo si inginocchiò. San Luca ci ricorda che anche il Signore nell’Orto degli Ulivi pregava in ginocchio, e ci dice che anche santo Stefano, nel momento del martirio, si è inginocchiato per pregare. Pregare in ginocchio vuol dire adorare la grandezza di Dio nella nostra debolezza, grati che il Signore ci ami proprio nella nostra debolezza. Dietro ciò appare la parola di san Paolo nella Lettera ai Filippesi, che è la trasformazione cristologica di una parola del profeta Isaia, il quale dice, nel capitolo 45, che tutto il mondo, il cielo, la terra e quanto è sotto terra, si inginocchierà davanti al Dio di Israele (cfr Is 45,23). E san Paolo concretizza: Cristo è sceso dal cielo alla croce, l’obbedienza ultima. E in questo momento si realizza questa parola del Profeta: davanti al Cristo crocifisso l’intero cosmo, i cieli, la terra e quanto è sotto terra, si inginocchia (cfr Fil 2,10-11). Egli è realmente l’espressione della vera grandezza di Dio. L’umiltà di Dio, l’amore fino alla croce, ci dimostra chi è Dio. Davanti a Lui noi siamo in ginocchio, adorando. Essere inginocchiati non è più espressione di servitù, ma proprio della libertà che ci dà l’amore di Dio, la gioia di essere redenti, di porsi insieme, con il cielo e la terra, con tutto il cosmo, ad adorare Cristo, essere uniti a Cristo e così essere redenti.
Il discorso di san Paolo finisce nella preghiera. Anche i nostri discorsi devono finire nella preghiera. Preghiamo il Signore perché ci aiuti ad essere sempre più penetrati dalla Sua Parola, sempre più testimoni e non solo maestri, essere sempre più sacerdoti, pastori, "episkopoi", cioè quelli che vedono con Dio e fanno il servizio del Vangelo di Dio, il servizio del Vangelo della Grazia.
[© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana]


"Un libro storico, che inaugura una nuova era dell’esegesi teologica" - Il nuovo "Gesù di Nazaret" di Benedetto XVI introdotto e spiegato da un cardinale teologo cresciuto alla sua scuola  di Marc Ouellet – da http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347062

Nonostante sia assai denso, questo libro si legge per intero senza interruzioni. Percorrendone i nove capitoli e le prospettive finali, il lettore è trasportato per sentieri scoscesi verso l’avvincente incontro con Gesù, una figura familiare che si rivela ancor più vicina nella sua umanità come nella sua divinità. Completata la lettura, si vorrebbe proseguire il dialogo, non soltanto con l’autore ma con Colui del quale egli parla. "Gesù di Nazaret" è più di un libro, è una testimonianza commovente, affascinante, liberatrice. Quanto interesse susciterà tra gli esperti e tra i fedeli!


L’EVENTO


Oltre l’interesse d’un libro su Gesù, è il libro del papa che si presenta in umiltà al foro degli esegeti, per confrontarsi con loro sui metodi e sui risultati delle loro ricerche. Lo scopo del Santo Padre è quello di andare con loro più lontano, in stretto rigore scientifico, certo, ma anche nella fede nello Spirito Santo che scandaglia le profondità di Dio nella Sacra Scrittura. In questo foro, gli scambi fecondi predominano di molto sugli accenti critici, e ciò contribuisce a far meglio conoscere e riconoscere l’essenziale contributo degli esegeti.

Non c’è forse da trarre grande speranza da questo riavvicinamento tra l’esegesi rigorosa dei testi biblici e l’interpretazione teologica della Sacra Scrittura? Io non posso fare a meno di scorgere in questo libro l’aurora d’una nuova era dell’esegesi, una promettente era di esegesi teologica.

Il papa dialoga in primo luogo con l’esegesi tedesca ma non ignora importanti autori che appartengono alle aree linguistiche francofona, anglofona e latina. Eccelle nell’individuare le questioni essenziali e i nodi decisivi, costringendosi ad evitare le discussioni sui dettagli e le dispute di scuola che pregiudicherebbero il suo proposito, che è quello di "trovare il Gesù reale", non il "Gesù storico" proprio del filone dominante dell’esegesi critica, ma il "Gesù dei Vangeli" ascoltato in comunione con i discepoli di Gesù d’ogni tempo, e così "giungere anche alla certezza della figura veramente storica di Gesù" (9).

Questa formulazione del suo obiettivo manifesta l’interesse metodologico del libro. Il papa affronta in modo pratico ed esemplare il complemento teologico auspicato dall’Esortazione Apostolica "Verbum Domini" per lo sviluppo dell’esegesi. Nulla stimola di più dell’esempio dato e dei risultati ottenuti. "Gesù di Nazaret" offre una magnifica base per un fruttuoso dialogo non solo tra esegeti, ma anche tra pastori, teologi ed esegeti.

Prima di illustrare con alcuni esempi i risultati di questa esegesi di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, aggiungo ancora un’osservazione sul metodo. L’autore si sforza di applicare in maggior profondità i tre criteri d’interpretazione formulati al Concilio Vaticano II dalla Costituzione sulla Divina Rivelazione "Dei Verbum": tener conto dell’unità della Sacra Scrittura, del complesso della Tradizione della Chiesa e rispettare l’analogia della fede. Come buon pedagogo che ci ha abituati alle sue omelie mistagogiche, degne di san Leone Magno, Benedetto XVI, a partire dalla figura – oh quanto centrale ed unica – di Gesù, mostra la pienezza di senso che promana dalla Sacra Scrittura "interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta " (DV 12).

Anche se l’autore si preclude d’offrire un Insegnamento ufficiale della Chiesa, è facile immaginare che la sua autorità scientifica e la ripresa in profondità di certe questioni disputate saranno di grande aiuto per confermare la fede di molti. Serviranno inoltre a far progredire dei dibattiti rimasti insabbiati a motivo dei pregiudizi razionalisti e positivisti che hanno intaccato il prestigio dell’esegesi moderna e contemporanea.

Tra la comparsa del primo volume nell’aprile 2007 e quella del secondo in questa Quaresima 2011, un gran numero di eventi felici ma anche di penose esperienze ha segnato la vita della Chiesa e del mondo. Ci si chiede come il papa sia riuscito a scrivere quest’opera molto personale e molto impegnativa, di cui l’attualità del tema e l’audacia del progetto balzano agli occhi di chiunque s’interessi al cristianesimo. Come teologo e come pastore, ho la sensazione di vivere un momento storico di grande portata teologica e pastorale. È come se in mezzo alle onde che agitano la barca della Chiesa, Pietro avesse ancora una volta afferrato la mano del Signore che ci viene incontro sulle acque, per salvarci (Mt 14, 22-33).


NODI DA SCIOGLIERE


Detto ciò che riguarda il carattere storico, teologico e pastorale dell’evento, veniamo al contenuto del libro che vorrei riassumere assai a grandi linee attorno ad alcune questioni cruciali. Innanzitutto la questione del fondamento storico del cristianesimo che attraversa i due volumi dell’opera; poi la questione del messianismo di Gesù, seguita da quella dell’espiazione dei peccati da parte del Redentore, che costituisce un problema per molti teologi; allo stesso modo la questione del sacerdozio di Cristo in rapporto alla sua Regalità e al suo Sacrificio che tanta importanza rivestono per la concezione cattolica del sacerdozio e della Santa Eucaristia; da ultimo la questione della risurrezione di Gesù, il suo rapporto alla corporeità ed il suo legame con la fondazione della Chiesa.

Non occorre dire che l’elenco non è esaustivo e molti troveranno altre questioni più interessanti, ad esempio il suo commento del discorso escatologico di Gesù o ancora della preghiera sacerdotale in Giovanni 17. Io identifico le questioni qui esposte come nodi da sciogliere in esegesi come in teologia, allo scopo di ricondurre la fede dei fedeli alla Parola stessa di Dio, compresa in tutta la sua forza e la sua coerenza, nonostante i condizionamenti teologici e culturali che a volte impediscono l’accesso al senso profondo della Scrittura.

1. La questione del fondamento storico del cristianesimo impegna Joseph Ratzinger fin dagli anni della sua formazione e del suo primo insegnamento, come appare dal suo volume su "Introduzione al cristianesimo [Einführung in das Christentum]", pubblicato oltre quarant’anni or sono, e che ebbe all’epoca un notevole impatto sugli uditori e i lettori. Dal momento che il cristianesimo è la religione del Verbo incarnato nella storia, per la Chiesa è indispensabile stare ai fatti ed agli avvenimenti reali, proprio in quanto essi contengono dei "misteri" che la teologia deve approfondire utilizzando chiavi d’interpretazione che appartengono al dominio della fede. In questo secondo volume che tratta degli avvenimenti centrali della passione, della morte e della risurrezione di Cristo, l’autore confessa che il compito è particolarmente delicato. La sua esegesi interpreta i fatti reali in maniera analoga al trattato su "i misteri della vita di Gesù" di san Tommaso d’Aquino, "guidato dall’ermeneutica della fede, ma tenendo conto nello stesso tempo e responsabilmente della ragione storica, necessariamente contenuta in questa stessa fede" (9).

Sotto questa luce, si comprende l’interesse del papa per l’esegesi storico-critica ch’egli ben conosce e da cui trae il meglio per approfondire gli avvenimenti dell’Ultima Cena, il significato della preghiera del Getsemani, la cronologia della passione ed in particolare le tracce storiche della risurrezione. Non manca di porre in evidenza di passaggio il difetto d’apertura di un’esegesi esercitata in modo troppo esclusivo secondo la "ragione", ma il suo principale intendimento rimane quello di far luce teologicamente sui fatti del Nuovo Testamento con l’aiuto dell’Antico Testamento e viceversa, in modo analogo ma più rigoroso rispetto all’interpretazione tipologica dei Padri della Chiesa. Il legame del cristianesimo con l’ebraismo appare rafforzato da questa esegesi che si radica nella storia di Israele ripresa nel suo orientamento verso il Cristo. Ecco allora, per esempio, che la preghiera sacerdotale di Gesù, che sembra per eccellenza una meditazione teologica, acquisisce in lui una dimensione del tutto nuova grazie alla sua interpretazione illuminata dalla tradizione ebraica dello Yom Kippur.

2. Un secondo nodo riguarda il messianismo di Gesù. Certi esegeti moderni hanno fatto di Gesù un rivoluzionario, un maestro di morale, un profeta escatologico, un rabbi idealista, un folle di Dio, un messia in qualche modo a immagine del suo interprete influenzato dalle ideologie dominanti.

L’esposizione di Benedetto XVI su questo punto è diffusa e ben radicata nella tradizione ebraica. Egli s’inserisce nella continuità di questa tradizione che unisce il religioso e il politico, ma sottolineando a qual punto Gesù operi la rottura tra i due domini. Gesù dichiara davanti al Sinedrio d’essere il Messia, ma non senza chiarire la natura esclusivamente religiosa del proprio messianismo. È d’altra parte per questo motivo che è condannato come blasfemo, poiché si è identificato con "il Figlio dell’uomo che viene sulle nubi del cielo". Il papa espone con forza e chiarezza le dimensioni regale e sacerdotale di questo messianismo, il cui senso è quello d’instaurare il culto nuovo, l’adorazione in Spirito e in Verità, che coinvolge l’intera esistenza, personale e comunitaria, come un’offerta d’amore per la glorificazione di Dio nella carne.

3. Un terzo nodo da sciogliere riguarda il senso della redenzione e il posto che vi deve o meno occupare l’espiazione dei peccati. Il papa affronta le obiezioni moderne a questa dottrina tradizionale. Un Dio che esige una espiazione infinita non è forse un Dio crudele la cui immagine è incompatibile con la nostra concezione d’un Dio misericordioso? Come conciliare le nostre moderne mentalità sensibili all’autonomia delle persone con l’idea di un’espiazione vicaria da parte di Cristo? Questi nodi sono particolarmente difficili da sciogliere.

L’autore riprende queste domande più volte, a diversi livelli, e mostra come la misericordia e la giustizia vadano di pari passo nel quadro dell’Alleanza voluta da Dio. Un Dio che perdonasse tutto senza preoccuparsi della risposta che deve dare la sua creatura avrebbe preso sul serio l’Alleanza e soprattutto l’orribile male che avvelena la storia del mondo? Quando si guardano da vicino i testi del Nuovo Testamento, domanda l’autore, non è Dio a prendere su se stesso, nel suo Figlio crocifisso, l’esigenza d’una riparazione e d’una risposta d’amore autentico? "Dio stesso ‘beve il calice’ di tutto ciò che è terribile e ristabilisce così il diritto mediante la grandezza del suo amore che, attraverso la sofferenza, trasforma il buio" (258-259).

Tali questioni sono poste e risolte in un senso che invita alla riflessione ed in primo luogo alla conversione. Non si può infatti veder chiaro in tali questioni ultime rimanendo neutrali o a distanza. Occorre investirvi la propria libertà per scoprire il senso profondo dell’Alleanza che giustamente impegna la libertà d’ogni persona. La conclusione del Santo Padre è perentoria: "Il mistero dell’espiazione non dev’essere sacrificato a nessun razionalismo saccente" (267).

4. Un quarto nodo concerne il Sacerdozio di Cristo. Secondo le categorie ecclesiali del giorno d’oggi, Gesù era un laico investito d’una vocazione profetica. Non apparteneva all’aristocrazia sacerdotale del Tempio e viveva al margine di questa fondamentale istituzione del popolo d’Israele. Questo fatto ha indotto molti interpreti a considerare la figura di Gesù come del tutto estranea e senza alcun rapporto con il sacerdozio. Benedetto XVI corregge quest’interpretazione appoggiandosi saldamente sull’Epistola agli Ebrei che parla diffusamente del Sacerdozio di Cristo, e la cui dottrina ben si armonizza con la teologia di san Giovanni e di san Paolo.

Il Papa risponde ampiamente alle obiezioni storiche e critiche mostrando la coerenza del sacerdozio nuovo di Gesù con il culto nuovo ch’egli è venuto a stabilire sulla terra in obbedienza alla volontà del Padre. Il commento della preghiera sacerdotale di Gesù è d’una grande profondità e conduce il lettore a pascoli che non aveva immaginato. L’istituzione dell’Eucaristia appare in questo contesto d’una bellezza luminosa che si ripercuote sulla vita della Chiesa come suo fondamento e sua sorgente perenne di pace e di gioia. L’autore si attiene strettamente alle più approfondite analisi storiche ma dipana egli stesso delle aporie come solo un’esegesi teologica può farlo. Si giunge al termine del capitolo sull’Ultima Cena non senza emozione e restandone ammirati.

5. Un ultimo nodo da me considerato riguarda infine la risurrezione, la sua dimensione storica ed escatologica, il suo rapporto alla corporeità e alla Chiesa. Il Santo Padre comincia senza giri di parole: " La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti " (269).

Il papa insorge contro le elucubrazioni esegetiche che dichiarano compatibili l’annuncio della risurrezione di Cristo e la permanenza del suo cadavere nel sepolcro. Egli esclude queste assurde teorie osservando che il sepolcro vuoto, anche se non è una prova della risurrezione, di cui nessuno è stato diretto testimone, resta un segno, un presupposto, una traccia lasciata nella storia da un evento trascendente. "Solo un avvenimento reale d’una qualità radicalmente nuova era in grado di rendere possibile l’annuncio apostolico, che non è spiegabile con speculazioni o esperienze interiori, mistiche" (305).

Secondo lui, la risurrezione di Gesù introduce una sorta di "mutazione decisiva", un "salto di qualità" che inaugura "una nuova possibilità d’essere uomo". La paradossale esperienza delle apparizioni rivela che in questa nuova dimensione dell’essere "egli non è legato alle leggi della corporeità, alle leggi dello spazio e del tempo". Gesù vive in pienezza, in un nuovo rapporto con la corporeità reale, ma è libero nei confronti dei vincoli corporei quali noi li conosciamo.

L’importanza storica della risurrezione si manifesta nella testimonianza delle prime comunità che hanno dato vita alla tradizione della domenica come segno identificativo d’appartenenza al Signore. "Per me,  dice il Santo Padre  la celebrazione del Giorno del Signore, che fin dall’inizio distingue la comunità cristiana, è una delle prove più forti del fatto che in quel giorno è successa una cosa straordinaria – la scoperta del sepolcro vuoto e l’incontro con il Signore risorto" (288).

Nel capitolo sull’Ultima Cena, il papa affermava: "Con l’Eucaristia, la Chiesa stessa è stata istituita". Qui aggiunge un’osservazione di grande portata teologica e pastorale: "Il racconto della risurrezione diviene per se stesso ecclesiologia: l’incontro con il Signore risorto è missione e dà alla Chiesa nascente la sua forma" (289). Ogni volta che noi partecipiamo all’Eucaristia domenicale andiamo all’incontro con il Risorto che torna verso di noi, nella speranza che noi rendiamo così testimonianza ch’Egli è vivente e ch’Egli ci fa vivere. Non c’è in tutto questo di che rifondare il senso della messa domenicale e della missione?


INVITO AL DIALOGO


Dopo aver citato questi nodi senza che mi sia possibile estendermi in modo adeguato sulla loro soluzione, mi preme concludere questa sommaria presentazione facendo un poco più spazio al significato di questa grande opera su Gesù di Nazaret.

È evidente come mediante quest’opera il successore di Pietro si dedichi al suo ministero specifico che è di confermare i suoi fratelli nella fede. Ciò che qui colpisce in sommo grado, è il modo con cui lo fa, in dialogo con gli esperti in campo esegetico, ed in vista di alimentare e fortificare la relazione personale dei discepoli con il loro Maestro e Amico, oggi. Una tal esegesi, teologica quanto al metodo, ma che include la dimensione storica, si riallaccia effettivamente al modo di interpretare dei Padri della Chiesa, senza tuttavia che l’interpretazione s’allontani dal senso letterale e dalla storia concreta per evadere in artificiose allegorie.

Grazie all’esempio che dà ed ai risultati che ottiene, questo libro eserciterà una mediazione tra l’esegesi contemporanea e l’esegesi patristica, da un lato, come anche nel necessario dialogo tra esegeti, teologi e pastori, da un altro. In quest’opera vedo un grande invito al dialogo su ciò che è essenziale del cristianesimo, in un mondo in cerca di punti di riferimento, in cui le differenti tradizioni religiose faticano a trasmettere alle nuove generazioni l’eredità della saggezza religiosa dell’umanità.

Dialogo dunque all’interno della Chiesa, dialogo con le altre confessioni cristiane, dialogo con gli Ebrei il cui coinvolgimento storico in quanto popolo nella condanna a morte di Gesù viene una volta di più escluso. Dialogo infine con altre tradizioni religiose sul senso di Dio e dell’uomo che emana dalla figura di Gesù, così propizia alla pace e all’unità del genere umano.

Al termine d’una prima lettura, avendo maggiormente gustato la Verità di cui con umiltà e passione è testimone l’autore, sento il bisogno di dar seguito a questo incontro di "Gesù di Nazaret" sia con l’invitare altri a leggerlo che riprendendone la lettura una seconda volta come meditazione del tempo liturgico di Quaresima e di Pasqua.

Credo che la Chiesa debba rendere grazie a Dio per questo libro storico, per quest’opera cerniera tra due epoche, che inaugura una nuova era dell’esegesi teologica. Questo libro avrà un effetto liberatorio per stimolare l’amore della Sacra Scrittura, per incoraggiare la "lectio divina" e per aiutare i preti a predicare la Parola di Dio.

Alla fine di questo rapido volo su un’opera che avvicina il lettore al vero volto di Dio in Gesù Cristo, non mi rimane che dire: Grazie, Santo Padre! Consentitemi tuttavia di aggiungere ancora un’ultima parola, una domanda, poiché un simile servizio reso alla Chiesa e al mondo nelle circostanze che si conoscono e con i condizionamenti che si possono intuire, merita più d’una parola o d’un gesto di gratitudine. Il Santo Padre tiene la mano di Gesù sulle onde burrascose e ci tende l’altra mano perché insieme noi non facciamo che una cosa sola con Lui. Chi afferrerà questa mano tesa che ci trasmette le parole della Vita eterna?

Roma, 10 marzo 2011


John Finnis, il filosofo di Oxford, racconta la sua conversione al cattolicesimo - 11 marzo, 2011, da http://www.uccronline.it

Uno dei maggiori riformulatori del giusnaturalismo è unanimemente considerato John Finnis. Docente nelle prestigiose Università di Oxford e Notre Dame, ateo negli anni della giovinezza, è quindi passato a una visione teistica, arrivando a convertirsi al cattolicesimo dopo il primo anno di permanenza a Oxford. Descrive così questi passaggi in un’intervista su Avvenire: «Avevo due amici all’Università di Adelaide che fecero un viaggio simile al mio e nei medesimi anni, tuttavia seguendo autori e riferimenti diversi. Arrivammo alla consapevolezza, attraverso lo studio e la riflessione, che Dio esisteva, che era intervenuto nella storia e che la fede cattolica era la sola, seria possibile espressione di tale divina rivelazione. E la Chiesa cattolica era l’unica seria candidata a essere la comunità fondata per trasmettere tale rivelazione e la grazia di Dio fino alla fine dei tempi». Continua il filosofo: «A me furono di grande aiuto per superare David Hume e Bertrand Russell alcuni libri sull’empirismo inglese scritti da un sacerdote e filosofo inglese scomparso prematuramente durante il Concilio, D.J.B. Hawkins. Ma importanti furono anche le letture di Newman, specialmente l’Apologia pro vita sua, e la critica dell’empirismo fatta del gesuita Bernard Lonergan».

Finnis ha elaborato una filosofia della legge naturale che verte su una serie di “basic goods” di evidenza antropologica, i quali non necessitano di essere di per sé dei credenti in Dio. Lui la spiega così: «Tutta la realtà poggia ontologicamente o “presuppone” un’esistenza divina, una Creazione e una Provvidenza. Ma uno può occuparsi di fisica anche senza occuparsi del suo presupposto ontologico definito filosoficamente. Allo stesso modo, uno può arrivare molto lontano nella ragion pratica senza doversi confrontare con le primissime precondizioni ontologiche (metafisiche) dei beni verso i quali si orienta. L’ordine epistemologico della scoperta e l’ordine metafisico della dipendenza seguono direzioni opposte, è possibile quindi trovare un punto di incontro con tutti coloro che non siano nichilisti dogmatici».

Il filosofo conclude elogiando il pensiero di San Tommaso: «Tutta la mia filosofia della ragione pratica, della legge naturale, della giustizia, della legge positiva, dell’intenzione e dell’azione, i miei lavori sulla teologia naturale seguono profondamente la linea, per quanto posso giudicare, di san Tommaso. In particolare, la sua teoria della legge positiva è di un tale livello che non è stata veramente mai superata. Il mio lavoro a riguardo è poco più che una sua elaborazione». In un’intervista per II Tempo, oltre a elogiare il Santo Padre e il suo discorso a Ratisbona, ha dichiarato: «Considero Tommaso un fondatore del pensiero moderno perché è alla lunga il più lucido e comprensivo divulgatore delle parti migliori della migliore tradizione filosofica della storia umana». Ha poi accennato anche alla portata dei cambiamenti culturali inaugurati dalla contraccezione: «è emersa l’auto-distruzione demografica delle culture che li hanno abbracciati».


Il carisma di Suor Verònica affascina la Spagna di Nastia Filippi, 12-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Un miracolo sta avvenendo nella Spagna laicista di Zapatero. Un fenomeno che nella Chiesa spagnola non si vedeva dal XVI secolo, dai tempi di Santa Teresa d’Avila, e in quella mondiale almeno da Madre Teresa di Calcutta. Ma la storia è sempre pronta a fare il bis, anche nella Chiesa. E quanto accadde con benedettini o cistercensi, clarisse o carmelitani, può ripetersi oggi: che qualcuno faccia rifiorire le vocazioni religiose. Un vero tsunami spirituale che si è scatenato dalle parti di Burgos, la cabeza de Castilla per cinque secoli capitale del regno, dove dozzine di ragazze fanno la fila per entrare nei conventi di Lerma e di La Aguilera. Molte sono laureate, in legge, economia, fisica, chimica, ingegneria, architettura, medicina, farmacia, biologia, pedagogia. C’è chi faceva la fotografa, chi studiava aeronautica e persino chi faceva la modella. Molte provengono dai movimenti laicali più cari a Wojtyla e a Ratzinger. Ad affascinarle è il carisma di una giovane badessa dagli occhi verdi e dalla parola che infiamma. La donna che sta inondando con un’alluvione di vocazioni la siccità spirituale iberica si chiama suor Verónica Maria, al secolo María José Berzosa Martinez, ha solo 45 anni e in lei c’è chi già vede la Teresa d’Avila del XXI secolo: anche la grande mistica cinquecentesca era un’appassionata riformatrice nata in terra di Castiglia…

Le Hermanas de Iesu Communio, la nuova congregazione che sor Verónica ha fondato rinnovando il carisma francescano delle clarisse, si sono presentate in società a Burgos sabato 12 febbraio, con una celebrazione di ringraziamento nella bellissima cattedrale gotica di Santa Maria, stipata di tremila burgalés in fibrillazione: nessuno pareva avvertire il gelo che d’inverno prende possesso della Seo, il tempio gotico voluto nel 1221 dal re Fernando il Santo. E nessuno, per una volta, prestava attenzione al muro su cui è appeso il leggendario cofre del Cíd Campeador, il leggendario forziere del malinconico protagonista del Cantare del mio Cíd, l’eroe nazionale medievale le cui spoglie sono qui dal 1921. A fianco dell’arcivescovo locale Gíl Hellín, che presiedeva, c’erano il nunzio pontificio Renzo Fratini, l’arcivescovo di Madrid e presidente dei vescovi spagnoli Rouco Varela, e Raúl Berzosa, neovescovo di Ciudad Rodrigo nonché il maggiore dei quattro fratelli di suor Verónica. Finora sulla comunità di Lerma-La Aguilera era stato osservato un silenzio encomiabile. Il 4 dicembre, però, Hellín ha comunicato a suor Verónica che Benedetto XVI aveva accolto la richiesta che la sua comunità di clarisse si trasformasse in un nuovo istituto di diritto pontificio (l’approvazione ufficiale porta la data dell’8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione). Così, il 12 febbraio, 186 monache (novizie, postulanti, professe temporanee e perpetue) sono uscite dal chiostro della Catedral formando una lunga colonna nella navata centrale. Giovanissime per la maggior parete, portavano un abito in tela vaquera (cioè tela di jeans) e una cappa blu, mentre erano azzurri il cordone alla cintura e, per le professe, anche il velo. Tutte si sono inginocchiate a una a una davanti all’arcivescovo, che poneva loro le tre domande di rito (atto solo simbolico, perché la professione già era stata fatta all’atto di diventare clarisse). Poi suor Verónica  ha infilato al dito di ciascuna un anello bianco (simbolo della vittoria di Gesù risorto) sul quale erano incise le parole “Iesu Communio”, prima di abbracciarla con tenerezza materna e riservarle una carezza al viso o un bacio sulla guancia.

Vibranti le parole con cui suor Verónica  ha iniziato la sua orazione: “Mi appassiona essere cristiana e appartenere a questa Chiesa. E mi appassiona vivere”. La superiora del nuovo Istituto ha spiegato che, quando s’è prostrata davanti all’altare, “in quel momento ho visto che questo era il posto mio. Sono stata cosciente del momento che viviamo e della nostra responsabilità”. E ammesso di avere “lo spavento in corpo” ma anche “molta gioia”. L’arcivescovo Gil Hellin nell’omelia le ha fatto eco: “Le vocazioni che stanno arrivando ci riempiono di allegria”.

Dicono che a suor Verónica i giornalisti facciano venire l’orticaria. Di sicuro, li ha sempre evitati, anche dopo la cerimonia in cattedrale. L’unica intervista vera la rilasciò il 14 maggio 2005, per l’ordinazione episcopale di suo fratello Raúl, a un noto giornalista cattolico, Javier Moran de La Nueva España. “Sono la donna più felice della terra. Gesù Cristo è stato il mio respiro, la mia vita, il mio palpitare, il mio sentire”, proclamò Verónica  al giornalista, impressionato da questa “bella donna, dai grandi occhi verdi, che pare abitare in un’altra dimensione, mistica, come se ricevesse un’ispirazione superiore e rispondesse a una grande presenza nella sua vita”.

Più disponibile con i media è il prediletto fratello vescovo Raúl, spesso interpellato per sapere qualcosa della sorella. La premessa di solito è: “Per rispettare il suo silenzio devo rispondere con il mio”. Poi però qualcosa rivela: per esempio, che da ragazza Mayse (così la chiamavano i quattro fratelli maggiori) era un tipetto irrequieto e volubile, tanto che, quando lei compì 15 anni, Raúl, già seminarista, le regalò una farfalla di tela comprata dai cinesi, su cui aveva scritto: “Mayse, non essere come le farfalle, che hanno belle ali ma non mettono mai radici in nessun posto”. Lei continuò a fare teatro, a giocare a basket e a uscire con i ragazzi, però lo prese sul serio, come ha raccontato nel libro semi autobiografico Chiara ieri e oggi: “Qualcosa dentro di me mi spingeva a cercare senza sosta. Vedendo come la gente distruggeva la sua vita, desideravo trovar qualcosa che non si esaurisse, che fosse eterno”.

Raúl fu ordinato sacerdote nel novembre 1982 da Giovanni Paolo II, durante la visita papale a Valencia. Al ritorno, stremato, Raúl si addormentò sulla spalla della sorella: “Lei mi toccava i capelli e diceva: guarda, Signore, adesso che mio fratello è consacrato dammi un po’ del suo spirito. E mi toccava i capelli e si passava le mani sui suoi perché lo Spirito si infondesse in lei”. In 15 giorni, così, la ragazza decise: voleva farsi monja. Mayse, a differenza di Teresa d’Avila, non dovette fuggire di casa, però nella sua cattolicissima famiglia, ad Aranda del Duero, tutti erano scettici. Invece il 22 gennaio 1984, la ragazza smetteva di studiare medicina ed entrava come novizia fra le clarisse del monastero dell’Ascensione, a Lerma, cittadina di 2.500 abitanti vicino a Burgos: aveva 18 anni e da ora si sarebbe chiamata suor Verónica Maria. “Nessuno mi capiva”, ha scritto nel suo libro, “scommettevano che non sarebbe durata. Non sapevano dell’uragano che mi trascinava”. Suor Verónica in convento è rimasta (“Qui mi sento libera”, ha detto), e anzi, l’ha trasformato totalmente, a partire da quando, nel 1994, a soli 28 anni, le fu affidato l’incarico di maestra delle novizie. Nasceva così quello che è stato chiamato “el milagro de Lerma”: il numero delle vocazioni iniziò a crescere in modo impressionante. All’epoca del suo ingresso, Mayse nel vecchio convento fondato nel 1604 aveva trovato 23 monache, da 23 anni non entrava alcuna novizia e la più giovane di anni ne aveva 40. Nel 2000, le suore erano già in 50. E poi, 72 nel 2002, 92 nel 2004, 105 nel 2005, 134 nel 2009. Con l’età media scesa a 35 anni!

Nel piccolo monastero di Lerma, pensato per 32 suore al massimo, però non c’era posto per tutte. Né poteva bastare tirar su in sacrestia delle mini-celle prefabbricate. Il cardinal Rouco ebbe un’idea esagerata: un monastero modernissimo, progettato vicino a Madrid niente meno che dall’archistar Santiago Calatrava. I maligni insinuano che il convento europeo con il maggior numero di vocazioni farebbe gola a qualunque vescovo. Ma, comunque fosse, il progetto si scontrò contro due ostacoli insormontabili: il costo (12 milioni di euro), e l’opposizione di suor Verónica, che a spostarsi non ci pensava nemmeno. La soluzione la trovò la settantenne badessa suor Blanca Mateos: un enorme, fatiscente convento abitato solo da quattro frati a La Aguilera, a 40 chilometri da Lerma, presso il santuario e la tomba di san Pedro Regalado, grande asceta quattrocentesco e protettore dei toreri. La dinamica suor Blanca cionvinse i francescani a cederlo alle suore, mentre un potente manager-benefattore e un paio di fondazioni bancarie hanno finanziato i restauri. Così il 9 giugno 2009 cento suore si spostavano nelle cento celle nuove di zecca (dieci metri quadri ciascuna) di un convento modello, moderno, luminoso, illuminato da pannelli solari. Con tanto di attrezzato laboratorio di pasticceria da cui escono apprezzatissime pasteles y bombones. Senza grate divisorie, ma con una sorta di anfiteatro per 500 persone, dove nei weekend le suore accolgono i visitatori, cantando e ballando con loro. Da soli tre mesi (dal marzo 2009) il capitolo aveva eletto al primo turno di voto suor Verónica  come nuova badessa. Con un problema: due sedi e un’unica superiora per una stessa comunità contemplativa claustrale non s’erano mai viste. Ma il Vaticano di fronte a tanta grazia non era il caso di sottilizzare: il Vaticano ha concesso, inizialmente per tre anni, la facoltà speciale di costituire un solo monastero, “dell’Ascensione del Signore”, con due case, un unico governo, un solo noviziato e un Capitolo comune. Una situazione unica al mondo, sancita già da una lettera inviata il 27 giugno 2009 alla madre abadesa dal cardinal Franc Rodé, il prefetto della Congregazione per gli istituti di vita consacrata. Del resto, la benevolenza con cui il Papa guarda a questa eccezionale esperienza si riscontra anche nel fatto che, per dare inizio alla fase delle due sedi staccate, a predicare gli esercizi spirituali alle hermanas della comunità fu inviato il predicatore pontificio Raniero Cantalamessa. Che, fra l’altro, ne “approfittò” per registrare un breve servizio televisivo (andato in onda su Raiuno e cliccatissimo su Youtube), impressionante per la gioia di vivere comunicata dalle giovani veroniquesas: più che in clausura, sembra di trovarsi alle Giornate mondiali della gioventù o a un raduno di giovani di Taizè. O di kikos, i neocatecumenali dalle cui famiglie arrivano parecchie ragazze. Proprio in questo modo frizzante di vivere la spiritualità monastica sta la novità di Iesu Communio, che hanno ottenuto di passare dalla restrittiva “clausura papale” a una “clausura secondo le costituzioni dell’ordine”, che permette di sviluppare opere caritative e apostoliche. Ogni grande riforma monastica del resto ha sempre comportato un rinnovamento, pur nella fedeltà alla Chiesa. Giovanni Paolo II lo intuiva, quando nel 1982 esortò le suore del Carmelo di Avila: “Lasciate che i vostri monasteri si aprano a quelli che hanno sete. I vostri monasteri sono comunità di preghiera e potranno essere anche centri di accoglienza, soprattutto per giovani (…). Voi potrete dare la risposta evangelizzatrice ai giovani del nostro tempo”.

Se quella di Wojtyla era una provocazione, suor Verónica  l’ha colta alla lettera. I suoi due conventi traboccano di allegria, affetto reciproco, fraternità reale. Oltre a lavorare e studiare, le suore pregano, ballano, recitano, giocano, scherzano, cantano (hanno anche inciso un cd con le loro canzoni originali, dal titolo Soy de Cristo), e accolgono i visitatori senza smettere mai di sorridere. Così Lerma e Las Aguilera oggi sono centri di spiritualità viva, contemporanea ma pienamente ortodossa, sviluppatisi secondo lo slogan “Todo por Cristo y para Cristo”. Ogni weekend vi arrivano, come ha raccontato la stessa suor Verónica, “due o trecento giovani, senza essere stati chiamati. Chiedono di venire, arrivano in autobus. Ci fanno domande sulla fede, su Dio”. A tutti, suor Verónica cerca di comunicare quanto capì  il giorno della Prima comunione, quando il suo confessore le disse: “Se vuoi essere felice per un giorno, metti un paio di scarpe nuove. Per una settimana, ammazza un maiale. Per tutta la vita, monaca di clausura”. Questa coscienza, la madre badessa l’ha messa al servizio degli altri. Monsignor Raúl Berzosa ha spiegato che la sorella ha una grande capacità di discernimento, di conoscere le persone: “Ha un dono speciale per conoscere in profondità le persone con cui parla, nel positivo e nel negativo. Ed è altrettanto portata alla direzione spirituale, ma nonostante ciò vive nell’austerità e nel sacrificio: è una donna libera con un enorme istinto materno che ha indirizzato verso la maternità spirituale, perché generare una persona alla fede è tanto importante come darla alla luce fisicamente”. E un altro fratello, Jesus, medico, è convinto che Mayse sarebbe riuscita in qualunque cosa cui si fosse dedicata, perché “è intelligente, sensibile, ottimista, ha le idee molto chiare, un’enorme costanza, un gran temperamento, un genio che scatta quando occorre, forza interiore e voglia di vivere, ed è anche una esecutrice nata”.

Un fenomeno del genere, insomma, nella Chiesa non si vedeva da secoli. Chissà: se nell’alto Medioevo l’Europa fu salvata dai monaci benedettini, forse saranno le suore di clausura di Iesu Communio a salvare il mondo contemporaneo dalla nuova barbarie, a rispondere al bisogno di una nuova evangelizzazione. Sarà il tempo a dirlo. E a decidere se un giorno si parlerà della loro fondatrice come della Teresa d’Avila del XXI secolo.


Corea del Nord, un vero inferno terrestre di Danilo Quinto, 12-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

L'Annuario Pontificio continua a dare come "disperso" il vescovo di Pyongyang, capitale della Corea del Nord, Monsignor Francis Hong Yong-ho, che oggi avrebbe cent’anni. La Santa Sede fa questo per segnalare la situazione drammatica che ha vissuto e che continua a vivere la Chiesa cattolica in quel Paese, che la “United States Commission on International Religious Freedom” fa rientrare nella lista degli otto Stati che destano particolare preoccupazione per l’affermazione della libertà religiosa. Dato confermato nell’ultimo rapporto delle Nazioni Unite diffuso del novembre dello scorso anno, nel quale si afferma che in Corea del Nord si vivono sul piano politico «restrizioni estese nel campo dei diritti civili e politici», fra cui la «libertà di pensiero, coscienza, religione, opinione ed espressione».

Il cristianesimo arriva in terra coreana dalla Cina nel 1600, attraverso il libro del missionario gesuita Matteo Ricci La vera dottrina di Dio. L’inizio dell’evangelizzazione risale al 1784, quando il primo coreano - Lee Seung Hun, un laico e uomo colto - fu battezzato a Pechino con il nome di Pietro. Tornato in Corea, Lee battezzò a sua volta i suoi compagni e diede inizio alla prima comunità cristiana. Si formò così una forte comunità: «Una comunità unica nella storia della Chiesa - affermò Giovanni Paolo II a Seoul nel 1984 - perché fondata unicamente da laici». Pur senza sacerdoti - i primi missionari provenienti dalla Francia si introdussero segretamente nella regione solo dopo il 1836 - la comunità coreana era piena di coraggio, pronta a fronteggiare le persecuzioni, giustificate dal nazionalismo nordcoreano, che fa riferimento al “Chondogyo”, una forma di sincretismo religioso tra buddhismo, taoismo, confucianesimo, sciamanesimo e cristianesimo. Del numero globale di martiri coreani, che viene calcolato intorno a diecimila mila nell’arco di un secolo, segnato da durissime persecuzioni che si susseguirono alternandosi a periodi di tolleranza, a seconda del prevalere delle forze tradizionaliste o riformiste al potere, è conosciuto e documentato il martirio di 103 persone, canonizzate da Giovanni Paolo II a Seoul, in piazza Yoido, il 6 maggio 1984. «Dal trentenne Pietro Yu Tae-chol al settantaduenne Mark Cong - disse il Santo Padre in quell’occasione. - Maschi e femmine; sacerdoti e laici; ricchi e poveri; persone ordinarie e nobili; tutti sono stati felici di morire per testimoniare Cristo».

Tra loro, vi fu Andrea Kim Taegon, il primo sacerdote martire coreano. Arrestato, venne portato davanti al re e rifiutò ogni lusinga di fronte alle richieste di abiura. Torturato, venne decapitato il 16 settembre 1846 a Seoul. Aveva 25 anni. Poco prima di morire inviò ai compagni di fede una lettera dal carcere in cui diceva che i cristiani portano un “nome glorioso”. «Ma a che cosa gioverebbe - si chiedeva - avere un così grande nome senza la coerenza della vita?». Andrea Kim era convinto che «la Chiesa cresce in mezzo alle tribolazione», «ma sebbene le potenze del mondo la opprimano e la combattano, tuttavia non potranno mai prevalere». Il martire coreano incoraggiava con queste ultime parole i suoi fratelli: «Abbracciate la volontà di Dio e con tutto il cuore sostenete il combattimento per Gesù, re del cielo … vi prego di camminare nella fedeltà; e alla fine entrati nel cielo, ci rallegreremo insieme».

La persecuzione dei cristiani iniziò a decrescere a seguito dei trattati stipulati con i paesi occidentali, intorno al 1880, per poi riprendere dopo il 1910 – anno in cui la Corea fu invasa dal Giappone - quando fu vietato l’uso dell’Antico Testamento e solo una versione del Nuovo Testamento, severamente censurata, poteva essere predicata.

Con l’indipendenza ottenuta nel 1945, la penisola coreana fu divisa in due parti: il Nord e il Sud. In quegli anni, nel Sud vi erano centomila cattolici in circa cento parrocchie, nel Nord circa cinquantacinquemila, in circa cinquanta parrocchie. I missionari si trasferirono nella Corea del Sud e nessun missionario, viste le durissime restrizioni imposte ai cristiani, riuscì a ritornare nel nord della Corea.

Durante la Guerra di Corea (1950-1953),  le truppe nord-coreane penetrarono nel Sud e rastrellarono missionari, religiosi stranieri e cristiani coreani. Al Nord furono rasi al suolo i Monasteri e le Chiese; i monaci e i sacerdoti furono arrestati e condannati a morte. La persecuzione religiosa portò nei lager centosessantasei tra sacerdoti e religiosi presenti nel territorio, di cui oggi non si hanno più notizie. I cattolici presenti nel paese, nel corso degli anni, sparirono nel nulla. Nicholas Cheong Jin-suk, arcivescovo di Seoul, nominato cardinale da Benedetto XVI il 24 marzo 2006, ha definito la Chiesa coreana una “Chiesa del silenzio”.

Oggi – secondo i dati di uno Stato che si proclama ufficialmente ateo - i cristiani-cattolici nordcoreani sono circa quattromila, oltre a circa undicimila protestanti. Testimonianze raccolte da “AsiaNews” sostengono che i “veri” cattolici nel paese non sarebbero più di duecento, per la maggior parte molto anziani. Piu’ fonti sostengono cha dal 1948 – anno di nascita del regime nordcoreano - ispirato ai principi dell’ideologia politica della “juche”, dell’auto-realizzazione, un sincretismo di neo-confucianesimo, nazi-maoismo e stalinismo – i cattolici “spariti” siano stati almeno trecentomila.

Attualmente, il numero dei luoghi di culto varia a seconda dei visitatori che riescono a entrare nel Paese. Si conoscono solo i dati che riguardano Pyongyang, dove, oltre a quattro templi buddisti, esistono solo tre luoghi di culto autorizzati per la fede cristiana: due protestanti e uno cattolico, la Chiesa di Changchung, costruita nel 1988. Molti analisti internazionali la considerano una “vetrina” al servizio del regime.

Nel libro intitolato Eyes of the Tailless Animals, la scrittrice coreana Soon Ok Lee descrive i terrori da lei sperimentati in un campo di rieducazione nord-coreano, a Kae-Chon, nella provincia meridionale di  Pyung-Yang, «dove  i cristiani - scrive - se si rifiutavano di negare Dio venivano bruciati fino a morire con metallo fuso» e «dove - aggiunge - venivano fatti molti esperimenti su esseri umani. Essi dicevano che era superfluo testare armi e prodotti chimici sugli animali, perché loro erano stati generati per colpire i loro nemici, altri esseri umani». Esistono testimonianze - ne ha dato notizia la Missione Evangelica “Porte Aperte”, che alla Corea del Nord dà il primo posto nella “World Watch List”, che compila ogni anno - che confermano come in alcuni casi i cristiani siano stati usati come cavie per provare l’efficacia di armi biologiche e chimiche.

Nell’ottobre scorso, il responsabile del lavoro in Corea del Nord di “Porte Aperte”, ha affermato che supera il milione - su una popolazione che attualmente conta circa 24 milioni di persone - il numero dei prigionieri politici chiusi nei campi gestiti dal regime e che un quarto dei cristiani presenti nel paese, che più fonti stimano in 200mila, ma che potrebbero essere addirittura 500mila, si trovano in questi campi. Dai quali difficilmente si esce vivi. L'Associazione di diritto pontificio “Aiuto alla Chiesa che Soffre” riporta che molti esuli nord-coreani hanno testimoniato nel corso del 2009 l’esistenza di campi di internamento o rieducazione, la cui presenza è confermata anche da immagini satellitari, come nel caso del campo di Yodok. Al momento, nei campi - un centro di rieducazione e cinque campi di concentramento sparsi per il Paese, secondo il quotidiano sudcoreano Chosun Ilbo, che ha ripreso fonti del governo della Corea del Sud - sarebbero rinchiusi dai 150mila ai 200mila prigionieri, che subiscono torture, stupri, esperimenti medici, lavori e aborti forzati, esecuzioni capitali “segrete”. Con maggiore violenza sembra siano puniti coloro che vengono imprigionati per motivi religiosi, anche solo per aver messo in circolazione copie della Bibbia. Com’è accaduto, il 16 giugno 2009, a Ryongchon, città del nord-ovest, poco distante dal confine con la Cina, a Ri Hyon-ok, una cristiana di 33 anni, condannata a morte e giustiziata in pubblico.

Dopo la sua esecuzione, i suoi genitori, il marito e i tre figli sono stati rinchiusi in un campo per prigionieri politici nella cittadina nord-orientale di Hoeryong. Analoga la sorte di Son Jong-nam, il quale – secondo la testimonianza del fratello raccolta da fonti di “Asia News” nel 2010 - «sognava di aprire una Chiesa libera a Pyongyang, dove poter insegnare il Vangelo». Era nato a Pyongyang nel 1958. Trascorsi dieci anni nei servizi di sicurezza presidenziali, fu nominato sergente maggiore nel 1983. Nel 1997, la moglie, incinta di otto mesi, fu arrestata con l’accusa di aver attribuito al leader nord-coreano la carestia che stava affamando il paese. Per cercare di ottenere una confessione scritta, le guardie la picchiarono sulla pancia e le causarono un aborto. Son e la sua famiglia fuggirono in Cina nel 1998. Dopo la morte della moglie - colpita dalla leucemia - Son incontrò una comunità di cristiani protestanti. Si convertì e decise di dedicare la propria vita al Vangelo e all’evangelizzazione della Corea del Nord. Scoperto in possesso di venti copie della Bibbia e di materiale religioso, le autorità lo chiusero in un lager. Dopo la tortura, “confessò” le sue colpe e fu messo a morte nel novembre 2008.

Il 2 maggio dello scorso anno, “Porte Aperte” ha diffuso il resoconto di un’intervista realizzata dalla “United States Commission on International Religious Freedom, USCIRF, nel corso della quale sei tra poliziotti ed agenti di sicurezza hanno ammesso di essere stati specificatamente formati ed istruiti dai loro superiori per infiltrarsi, fingendosi cristiani, nelle riunioni di preghiera, al fine di incriminare, arrestare e, a volte, giustiziare i credenti in Corea del Nord. È quanto, per esempio, accaduto nel maggio del 2010 – la notizia fu diffusa dal “North Korea Intellectuals Solidarity”, network di esuli dal Nord - quando furono scoperti fedeli cristiani riuniti in una chiesa domestica nella contea di Pyungsung, provincia di Pyongan, dove erano riuniti per celebrare una funzione clandestina. In ventitre furono arrestati. Dopo un lunghissimo interrogatorio, tre di loro, considerati leader del gruppo, furono condannati a morte e immediatamente fucilati. Gli altri furono inviati al lager numero 15, il Kwanliso di Yoduk.

“Aiuto alla Chiesa che Soffre” riferisce che la Chiesa della Corea del Sud organizza seminari e gruppi d’azione per aiutare i fratelli del nord. L’ultimo di questi incontri della Rete episcopale per la Riconciliazione del popolo coreano, di cui è presidente il Vescovo ausiliare di Seul, Monsignor Lucas Kim Woon-hoe – che si è svolto a Seul il 22 novembre dello scorso anno – ha avuto come tema “I saeteomin, agenti di Vangelo”. Saeteomin in coreano significa “rifugiati, coloni”, ed è il termine con cui i sudcoreani chiamano coloro che riescono a scappare dal regime di Pyongyang per stabilirsi dall’altra parte del confine. Col tempo, dato il bassissimo livello di integrazione degli esuli, è divenuto un termine dispregiativo. Considerati traditori in Corea del Nord, i Saeteomin – è stimata in 20 mila la loro presenza in Corea del Sud – vivono in sud Corea come eterni mendicanti. «Dobbiamo essere veri testimoni di quello che accade nel Nord - ha affermato mons. Lucas Kim Woon-hoe - e niente può aiutarci di più, in questo compito, dei nostri fratelli saeteomin, che hanno la nostra identica dignità e sono agenti di evangelizzazione, membri a tutti gli effetti della nostra società e amici con cui costruire insieme il futuro. Pregherò Dio, affinché giunga presto il giorno in cui tutti noi potremo vivere, con un cuore solo, la riconciliazione delle due Coree».


«Cellule embrionali non brevettabili». Svolta nell’Ue? - l’“arringa” - L’avvocato della Corte di giustizia incaricato di una causa sull’uso commerciale delle staminali: se si trasformano in esseri umani (o in organi umani) il loro stato giuridico è quello di vite a tutti gli effetti

DA MILANO

A leggere l’opinione resa pubblica ieri dall’avvocato gene­rale della Corte di giustizia europea Yves Bot sugli em­brioni, la domanda sorge spontanea: che il tribunale supremo dell’Unione sia pronto finalmente a ricono­scere la vita fin dal concepi­mento? Sarebbe,certo, un segnale importante di cam­biamento culturale, ma so­prattutto una svolta verso u­na nuova eticità della ricer­ca scientifica, nel futuro. Ma prima i fatti.

Tutto comincia con lo “stra­no” caso del dottor Oliver Brüstle, uno dei più impor­tanti ricercatori tedeschi nel campo delle cellule stami­nali embrionali. Mister Brü­stle registra nel 1997 un bre­vetto per una sua esclusiva scoperta: è riuscito a isolare cellule progenitrici neurali, ottenuto a partire da cellule staminali embrionali uma­ne, con cui – sostiene – po­tranno essere curati azienti affetti dal morbo di Parkin­son.

Ad accorgersene è Green­peace, che denuncia il fatto alla Corte federale dei bre­vetti tedesca. Quest’ultima ritira l’“esclusiva” allo scien­ziato, che tuttavia non ci sta e impugna la sentenza in­nanzi all’Alta corte federale di giustizia. Di qui il “salto” alla Corte europea, cui il tri­bunale tedesco – prima di decidere sul caso – chiede di dare una chiara definizione di “embrione umano” (defi­nizione non presente nella Direttiva n.98/44 sulla bre­vettabilità delle invenzioni biotecnologiche). La que­stione sul banco è tanto semplice quanto fonda­mentale: e cioè se l’esclusio­ne della brevettabilità della vita umana e degli embrio­ni (sostenuta in quella diret­tiva) comprenda tutti gli sta­di di sviluppo della vita u­mana a partire dalla fecon­dazione dell’ovulo o se deb­bano essere rispettate ulte­riori condizioni, come, ad e­sempio, il raggiungimento di un determinato stadio di svi­luppo dell’embrione stesso. Ieri, a qualche mese dal pro­nunciamento ufficiale della Corte di giustizia europea sul caso 'Brüstle-Greenpeace' (che ha preso in esame lo scorso gennaio e dovrebbe arrivare a una decisione in estate) a dire la sua è stato l’avvocato generale designa­to per la causa, una sorta di “pm” in seno al tribunale co­munitario. Secondo Yves Bot «le cellule che hanno la ca­pacità di diventare un esse­re umano devono essere considerate giuridicamente come esseri umani a tutti gli effetti» motivo per cui «è da escludere – conclude Bot – che siano brevettabili».

Ma c’è di più ancora, visto che nella sua “arringa” l’av­vocato generale sottolinea come «non importi da qua­le stadio dell’evoluzione del corpo umano una cellula provenga»: la sola condizio­ne accettabile per la brevet­tabilità è che il suo prelievo «non comporti la distruzio­ne di tale corpo umano nel­la fase della sua evoluzione in cui il prelievo è effettuato». In conclusione, Bot reputa che un’invenzione non pos­sa essere brevettabile quan­do l’attuazione del procedi­mento richiede, preventiva­mente, «sia la distruzione di embrioni umani, sia la loro utilizzazione come materia­le di partenza». ( V. Dal.)