Nella rassegna stampa di oggi:
1) Una singolare sentenza in Gran Bretagna - Vietato affidare bambini a coppie cristiane (©L'Osservatore Romano 11 marzo 2011)
2) "Giustizia, riforma necessaria ma sui punti c'è da discutere" di Riccardo Cascioli, 11-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
3) Italia, nuova Germania di Mario Mauro, venerdì 11 marzo 2011, il sussidiario.net
4) Distinguere frequenter Di padre Serafino Lanzetta - 11/03/2011 - Religione -Il Vaticano II e gli assolutismi. In dialogo con P. Giovanni Cavalcoli, da http://www.libertaepersona.org
5) Avvenire.it, 11 marzo 2011 - A proposito di simboli che esprimono storia e civiltà - C’è chi ricorre anche all’elica per far fuori la croce di Davide Rondoni
6) Avvenire.it, FINE VITA - Fine vita, Sgreccia: «Legge necessaria» di Pier Luigi Fornari
7) J’ACCUSE/ E ora la Spagna di Zapatero “vieta” anche le messe ai cristiani di Luca Volontè, venerdì 11 marzo 2011, il sussidiario.net
Una singolare sentenza in Gran Bretagna - Vietato affidare bambini a coppie cristiane (©L'Osservatore Romano 11 marzo 2011)
LONDRA, 10. L'Alta Corte di Giustizia d'Inghilterra e Galles ha emesso una sentenza in base alla quale a una coppia di coniugi cristiani, appartenente alla comunità pentecostale, è stato confermato il divieto di affidamento di bambini a causa dei loro principi morali in materia di educazione sessuale e omosessualità. L'Alta Corte ha di fatto stabilito che i principi morali basati sulla fede dei coniugi sono "ostili" per l'educazione dei bambini. I coniugi, Owen e Eunice Johns, in particolare, avrebbero espresso - secondo quanto stabilito dalla Royal Courts of Justice - opinioni contrarie all'omosessualità, violando per questo il rispetto dell'"Equality Act" 2010 (la legge che punisce discriminazioni sulla base del sesso) che condensa una serie di normative che tutelano i diritti degli omosessuali. La legislazione in materia, risalente al 1965, si era infatti notevolmente arricchita nel tempo anche in attuazione di alcune direttive europee. I coniugi - che nel passato avevano già ricevuto in affidamento una quindicina di minori - si erano appellati all'Alta Corte contro un provvedimento del municipio di residenza (Derby), con il quale era stata bloccata la loro richiesta di accogliere e assistere per brevi periodi nella propria abitazione anche bambini e bambine al di sotto dei dieci anni di età, senza famiglia naturale o con problemi psichici, in quanto si erano rifiutati di aderire all'Equality Act. Il Christian Legal Centre, il servizio di assistenza legale, aveva fornito supporto alla coppia nella causa contro i funzionari del servizio municipale di affido di Derby. Secondo l'Alta Corte la decisione non sarebbe stata presa tenendo conto della fede dei due coniugi ma, hanno puntualizzato i giudici, "è fondamentale, per la legge e per il nostro modo di vivere, che a ciascuna persona sia garantita l'uguaglianza. Noi viviamo in questo Paese, in una società democratica e pluralistica, in uno Stato secolare e non teocratico". L'organo giudiziario ha concluso, pertanto, che le leggi che garantiscono la non discriminazione sulla base degli orientamenti sessuali hanno la precedenza sulle convinzioni religiose. I coniugi hanno sottolineato che la propria fede cristiana non ha comportato alcuna discriminazione. In una dichiarazione scritta rilasciata dopo la sentenza è scritto: "Volevamo offrire amore e una casa ai bambini che hanno bisogno senza alcuna distinzione. Ora siamo stati esclusi dall'affidamento per le opinioni morali basate sulla nostra fede e, per questo, un bambino in difficoltà ha probabilmente perduto l'occasione di trovare un'abitazione sicura e un'assistenza". E concludono: "Non riteniamo che i nostri principi morali cristiani siano dannosi. Essere cristiani non significa ostilità nei confronti delle leggi e non dovrebbe essere considerato di ostacolo nella crescita e nell'educazione dei bambini". Il responsabile del Christian Legal Centre, Andrea Minichiello Williams, ha osservato che attualmente in Gran Bretagna c'è "un grande disequilibrio a livello legislativo", aggiungendo che "non possiamo avere una società dove una persona risulta esclusa in base all'etica sessuale prevalente. La Gran Bretagna in questo momento sta guidando in Europa l'intolleranza contro i principi morali della fede".
L'Equality Act vieta qualsiasi discriminazione nei confronti delle coppie omosessuali e prevede, fra l'altro, anche la possibilità, per queste, di adottare bambini. In pratica, le agenzie britanniche di adozioni che ricevono finanziamenti pubblici, non possono fare differenza sulla base degli orientamenti sessuali delle persone che chiedono di poter avere cura dei bambini, ma questo ha implicato per diverse strutture cattoliche la chiusura delle attività. Le agenzie cattoliche coprono circa il 4 per cento del totale delle adozioni. Secondo alcune stime, dal 2007 almeno tredici agenzie cattoliche di adozioni hanno deciso di interrompere l'attività o di limitarla fortemente. In una nota pubblicata dalla Conferenza episcopale d'Inghilterra e Galles, pubblicata in occasione del lungo dibattito nazionale che ha accompagnato la stesura e la promulgazione dell'Equality Act, era stato evidenziato che la legge avrebbe costretto le agenzie cattoliche "ad agire contro i principi della fede". Le agenzie cattoliche, già nel 2007, avevano chiesto di essere esentate dall'applicazione di quanto stabilito nell'Equality Act, ma la proposta ha incontrato il rifiuto delle autorità statali. Anche la Comunione anglicana aveva espresso disappunto per la decisione di non concedere l'esenzione. In una lettera pubblica, l'arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, osservava come molte persone che fanno volontariato nel settore delle adozioni siano animate da motivazioni religiose e che è già prevista in altre leggi, come nel settore sanitario, l'obiezione di coscienza. L'arcivescovo di Canterbury aveva anche aggiunto che il Governo, pur garantendo i principi di non discriminazione non dovrebbe, su questioni morali controverse, compiere scelte indistinte per tutti.
"Giustizia, riforma necessaria ma sui punti c'è da discutere" di Riccardo Cascioli, 11-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
“Una riforma della giustizia è necessaria e fino a venti anni fa era d’accordo anche la sinistra, basti ricordare la Bicamerale presieduta da D’Alema. Servirebbe discutere sui punti della riforma, invece si fanno polemiche assurde su problemi inesistenti confondendo anche le idee alla gente”. Non è molto tenero Francesco Mario Agnoli con chi ha trasformato il dibattito sulla giustizia in una rissa politica. Agnoli è un magistrato in pensione, presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione, ex presidente di sezione alla Corte d’Appello di Bologna ed ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm) tra il 1986 e il 1990, anni in cui il Csm si scontrò duramente con l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Agnoli ha dunque una grande esperienza della macchina della giustizia, e con lui discutiamo della riforma appena approvata dal Consiglio dei Ministri.
Professor Agnoli, lei ha una lunghissima esperienza di magistratura. Quali sono i veri problemi della giustizia?
Ci sono soprattutto due problemi sentiti dai cittadini: il primo è l’estrema lunghezza dei processi, specie quelli civili; il secondo la certezza della pena: l’opinione pubblica si meraviglia di vedere persone condannate per gravi reati tornare in circolazione dopo poco tempo o pene definitive che vengono scontate solo in minima parte. Il che non vuol dire che l’opinione pubblica abbia sempre ragione, ma questa è la percezione.
E in che cosa l’opinione pubblica sbaglia?
Ad esempio, i cittadini sono portati a ignorare o dimenticare che le pene hanno anche una dimensione rieducativa. Ma soprattutto è poco attenta ad altri aspetti sostanziali della giustizia.
Di cosa si tratta?
Il problema più grosso riguarda l’equilibrio costituzionale, che peraltro è un problema comune nei paesi occidentali. Vale a dire che negli anni il potere giudiziario ha finito per occupare spazi che all’origine erano di altri poteri dello Stato.
In altre parole, lei dice che la giustizia ha invaso il campo della politica.
E’ evidente, e ripeto non è un caso soltanto italiano, è una tendenza comune. Però in Italia una svolta decisiva si è avuta quando sull’onda di Tangentopoli è stata cancellata l’immunità parlamentare: è stato l’inizio di uno squilibrio andato sempre crescendo. E’ vero che il Parlamento aveva abusato dell’immunità parlamentare negando autorizzazioni a procedere anche quando avrebbe dovuto rilasciarle, ma quella riforma costituzionale ha turbato l’equilibrio dei poteri. A proposito, chi parla sempre in nome della Costituzione dovrebbe ricordare che l’immunità parlamentare era prevista proprio dalla Costituzione. Ripeto, c’erano stati degli abusi, ma quell’istituto era un prezioso filtro per bloccare iniziative politiche del potere giudiziario. E di questa invasione di campo fanno parte anche le sentenze creative in fatto di bioetica.
A questo la riforma presentata dal governo pone rimedio?
Direi proprio di no, però dobbiamo tenere presente che si tratta di una evoluzione che è in corso in tutto il mondo occidentale. Basti ricordare che quando era presidente, George Bush jr avrebbe voluto introdurre una legge per limitare l’aborto, ma non poté farlo perché sapeva che la Corte Suprema gli avrebbe annullato qualsiasi legge in tal senso. In pratica, le Corti hanno acquisito un diritto di veto. E’ un dato di fatto a cui è veramente difficile porre rimedio.
Ma almeno la riforma varata dal governo risponde ai problemi dei processi lunghi e della incertezza della pena?
Non risponde a questi problemi, però si mettono le basi per riformare il sistema giudiziario. E’ un peccato che l’opposizione in Parlamento si sia lanciata in una polemica completamente fuori luogo. Questa è una riforma costituzionale che non ha niente a che vedere con i problemi giudiziari del presidente del Consiglio. Peraltro, se abbiamo presente quale sia l’iter di un progetto di legge di riforma costituzionale dovremmo sapere che, ammesso che vada in porto, diventerà esecutivo quando Berlusconi sarà ormai a fine mandato.
Ma lei come giudica i punti fondamentali di questo progetto di legge? Cominciamo dalla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri: è davvero una riforma così importante?
Io direi che non è affatto fondamentale. Se il timore è quello di una “complicità” tra il giudice e il pm, magari perché hanno dato insieme il concorso o perché insieme hanno lavorato, mi sembra un rischio minimo. Nella mia carriera ho visto cose di questo genere molto sporadicamente, ho visto molto più spesso dei pm arrabbiatissimi con il giudice.
Sono previsti anche due Csm, uno per i giudici, l’altro per i pubblici ministeri…
E’ la conseguenza della separazione delle carriere, che sarà a sua volta rafforzata da questo articolo. I pm si ritroveranno ad avere una posizione inferiore rispetto al giudice e saranno sullo stesso piano degli avvocati difensori. Il rischio è che i pm perdano la loro autonomia e siano controllati dal governo, un rischio che negli Stati Uniti, ad esempio, è già molto alto.
Veniamo a un secondo punto qualificante della riforma: inappellabilità in caso di assoluzione. Così si dovrebbero tagliare molti processi…
L’inappellabilità è esagerata, perché può creare profonde ingiustizie: pensiamo a un’assoluzione data per un clamoroso errore, sarebbe impossibile riparare. D’altra parte non è corretto neanche procedere con appelli generalizzati. Probabilmente la soluzione sta in un sistema sul modello di quello statunitense, dove è la Corte d’Appello a decidere se il ricorso a una sentenza è ammissibile oppure no.
Altro punto caldo è quello della responsabilità civile stabilita per i giudici.
In linea di principio sono d’accordo con la responsabilità civile. Non si capisce perché il medico, l’insegnante, tutti siano chiamati a rispondere dei loro errori, mentre i magistrati no. Però poi bisognerà vedere come questa legge sarà attuata. Gli errori sono facili, basti pensare ai processi indiziari nel codice penale. La responsabilità dei giudici dovrebbe essere prevista solo nei casi di dolo e di colpa grave, altrimenti si rischia di paralizzare la giustizia.
Ma la responsabilità civile dei giudici non era già stata decisa da un referendum negli anni ’80?
Sì, è vero ma è un percorso che rende veramente difficile arrivare alla condanna di un giudice. Di casi conclusisi con un successo ne ricordo 3 o 4 in 20 anni. In ogni caso il danneggiato può ricorrere ma contro lo Stato e non contro il giudice responsabile, come prevederebbe l'attuale riforma. Lo Stato potrebbe poi rivalersi, ma dal punto di vista della carriera. Ma ripeto, è accaduto in casi rarissimi.
Polemiche ha suscitato anche la questione dell’obbligatorietà dell’azione penale.
L’obbligatorietà resta ma vengono posti dei limiti. Ora, bisogna vedere attentamente cosa si intende. Se si deciderà di indicare le priorità, ebbene questo viene già fatto. Siccome non è possibile perseguire tutti i reati, i giudici già oggi fanno una scaletta per calendarizzare le udienze. Certo, anche qui si corre il rischio che il Parlamento decida che i reati più urgenti siano quelli dei ladri di polli, mentre fatti più gravi non sono in cima alle priorità. Insomma, è ancora tutto da vedere come verrà attuata questa disposizione.
Italia, nuova Germania di Mario Mauro, venerdì 11 marzo 2011, il sussidiario.net
Si è parlato molto negli ultimi giorni di una sorta di piano Marshall per i paesi del Mediterraneo. Una proposta affascinante, che va però contestualizzata. Quando gli Stati Uniti ci hanno concesso i finanziamenti di quel piano ci hanno imposto precise condizioni: ossia cacciare i comunisti dalle coalizioni di Governo dell’Europa occidentale.
Noi quali condizioni intendiamo porre ai paesi del Mediterraneo oggi? Vogliamo limitarci a veder sostituiti i dittatori con altri dittatori o, invece, far crescere in questi paesi istituzioni democratiche forti con un solido legame con una forte società civile?
Gli sconvolgimenti in atto portano la speranza di una vita migliore per le popolazioni della regione e per i valori universali di cui l’Europa si fa portatrice. Ma il raggiungimento di una piena democrazia non è mai un passaggio semplice. Ci sono innumerevoli rischi associati a queste transizioni. Gli scontri che stanno insanguinando l’Egitto e che hanno causato la morte di numerosi cristiani sono un segnale preoccupante, ma tutt’altro che inaspettato.
Gli eventi in Libia e in altri paesi della regione evidenziano l’urgente necessità di sviluppare politiche e strumenti più ambiziosi ed efficaci per incoraggiare e sostenere le riforme politiche, economiche e sociali nei paesi del vicinato meridionale dell’Ue. La revisione strategica in corso della politica europea di vicinato deve riflettere gli attuali sviluppi nella regione e trovare nuovi e migliori metodi per soddisfare le esigenze e le aspirazioni delle popolazioni.
Durante la riunione di oggi del Consiglio europeo, insieme con il pacchetto di proposte dell’Alto rappresentante per la politica estera, sarà discusso nel dettaglio il contenuto della Comunicazione che lo scorso 8 marzo la Commissione europea ha inviato al Parlamento europeo e al Consiglio, che rappresenta il progetto di medio periodo per l’Unione europea per l’area euro mediterranea. La comunicazione è intitolata “Una partnership per la democrazia e prosperità condivisa con il sud del Mediterraneo”.
Adattare il nostro approccio alle esigenze di ogni singolo Paese, supportare la costruzione di istituzioni democratiche, contrastare le sfide della mobilità, promuovere uno sviluppo economico inclusivo, assicurare il massimo impatto possibile al commercio e agli investimenti, rafforzare la cooperazione settoriale. Il futuro dei paesi che si preparano a una transizione verso la democrazia passa attraverso la condivisione di questi obiettivi.
L’impegno per la democrazia, i diritti umani, la giustizia sociale, il buon governo e il ruolo della legge devono essere condivisi, ma con un approccio differenziato. Nonostante alcune similitudini, nessun Paese nella regione è uguale a un altro, occorre quindi reagire alle specificità di ognuno di essi.
Un nuovo inizio è possibile, ma soltanto riconoscendo i fallimenti del passato. Parlo, per esempio, del processo di Barcellona e dell’Unione per il Mediterraneo. Dobbiamo in sostanza far capire a tutti i Paesi europei che il nostro futuro è sulle sponde del Mediterraneo. Parlarne adesso dà maggiore credibilità a una presa di coscienza da parte dell’Europa di quanto sia decisivo per il proprio futuro il destino di questi paesi.
L’Italia ha un ruolo chiave perchè può fare da battistrada a un’operazione analoga a quella fatta dalla Germania con i Paesi dell’est dell’Europa nel momento dell’implosione del sistema comunista.
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Distinguere frequenter Di padre Serafino Lanzetta - 11/03/2011 - Religione -Il Vaticano II e gli assolutismi. In dialogo con P. Giovanni Cavalcoli, da http://www.libertaepersona.org
Carissimo P. Giovanni,
ho letto i suoi ultimi interventi sul Vaticano II, pubblicati da Riscossa Cristiana. Ammiro la sua infaticabile passione per un argomento così spinoso ma centrale nell’attuale situazione ecclesiale. Mi permetta di rivolgerle qualche domanda e di riflettere insieme con lei, come abbiamo avuto già modo di fare in precedenza. Muoverei da un primo approccio: la situazione della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II. È indubitabile che dopo ogni concilio la Chiesa abbia vissuto momenti di forti turbolenze, in ragione di un riassestamento lento e progressivo della compagine ecclesiale, scossa, normalmente, da errori che la minacciavano, smascherati però dalle definizioni delle verità di fede. Non sono mancate fratture, riacutizzatesi proprio in ragione della chiara ed infallibile posizione dei concili. Mi sovviene quanto si verificò per il Concilio di Nicea. È vero che l’errore subordinazionista, che ammaliava anche vescovi dal calibro di Eusebio, fu sconfitto definitivamente solo con il Concilio successivo di Costantinopoli, definendo la divinità della Spirito Santo, mentre, nel frattempo, gli ariani si muovevano con sinodi ben precisi volti a conquistare dalla loro parte le Chiese. I confini dell’esagitazione ecclesiale però erano ben delineati: da un lato la fede della Chiesa, difesa da S. Atanasio e definita al Concilio, dall’altra l’eresia della non-consustanzialità del Figlio col Padre e di conseguenza un principio di svuotamento del mistero stesso della Redenzione. La cattolicità si stringeva intorno alla stessa fede, mettendo sempre più al bando l’errore dottrinale, che qui si avvaleva dell’accondiscendenza dell’Imperatore. Anche dopo il Concilio di Trento i confini della fede cattolica furono ben presto visibili, e con un’opera di intelligenza pastorale, la Chiesa tornò a risplendere della sua bellezza, graffiata dai suoi figli rivoltosi. Si insegnò che la S. Scrittura e le Tradizioni non scritte sono le due fonti dell’unico deposito rivelato da Dio e consegnato alla sua Chiesa. La Chiesa attinge la sua regola di fede da entrambe, unite nell’unico atto rivelativo, custodite e trasmesse indefettibilmente dal Magistero autentico.
Dopo il Vaticano II, però, si assiste a qualcosa di nuovo: è la stessa Chiesa ad essere colpita da una profonda crisi. Una crisi d’identità. È nel suo interno che si mettono in discussione i dogmi: o li si vuole superare in nome di un meta-dogmatismo o – ciò che mi sembra abbia prevalso – li si vuole arrestare ad ogni costo al Vaticano I, per dare una svolta nuova all’Assise ultima: quella della conciliarità. Che presto diventa neo-conciliarismo.
Lo stesso approccio pastorale del Concilio – che lei dice esser il cavallo di battaglia dei lefebvriani per affossare il Vaticano II – si prestò a svariate letture. Ci fu chi come Y. Congar voleva un concilio pastorale, che non fosse da meno di uno dottrinale e che non si limitasse a definire o ad atomizzare la fede, ma raggiungesse gli uomini del tempo. A questi gli farà presto eco G. Alberigo, il quale dirà che il Concilio pastorale aveva messo in discussione l’ecumenismo dottrinale, fino a far abbandonare la via antiqua per una svolta epocale; chi, poi, come il card. G. Siri, che vedeva proprio nell’elevata enfasi data al lemma pastorale un «equivoco-ombra» per risistemare la dottrina passando al lato della condanna degli errori, ma provocando necessariamente una certa mescolanza. Una misericordia verso gli erranti poteva trasformarsi in una misericordia verso l’errore. Questo in larga parte si è verificato, seppur involontariamente. Riporto una lucida e coraggiosa analisi di questa situazione, fatta dal card. G. Biffi, che dice: «Un magistero che non condanna niente e nessuno – naturalmente con tutta la prudente attenzione alle concrete circostanze e alle esigenze della carità pastorale – è fatale che diventi complice involontario dell’errore e quindi di colui che il Signore Gesù ha chiamato “menzognero e padre della menzogna” (cfr. Gv 8,44)» (Memorie e digressioni di un italiano cardinale, Siena 2010, p. 53).
Per questa ragione, caro Padre, trovo il suo argomentare un po’ troppo affrettato. Non risponde al vero dire, a mio modo di vedere, che i lefebvriani: solo loro o anche altri?, correggono il Papa e il Concilio in nome della Tradizione – mi sentirei anch’io chiamato in causa, per quanto ciò possa aver peso –, in ragione della pastoralità del Concilio e del fatto che il Vaticano II non ha emanato nuovi dogmi. Questo lo dice anche Paolo VI e con lui in modo particolare Giovanni Paolo II, che ne attuò le istanze più proprie. Si pensi solo alla missionarietà interreligiosa ed ecumenica di questo amato Pontefice.
Mi rendo conto della sua accorata preoccupazione per il Concilio e per le sue dottrine. Il riconoscimento del Concilio: a priori irrinunciabile per ogni figlio della «Cattolica», la spinge però a rendere infallibili tutte le sue dottrine. Giustamente, dall’accettazione delle dottrine dipende l’accettazione del Concilio, ma non necessariamente l’accettazione delle dottrine deve prevederne l’infallibilità perché si accetti il Concilio. Leggo nei suoi scritti, e questo è sicuramente invidiabile, una grande volontà di riscattare il Concilio dai modernisti e dai tradizionalisti. Ma così facendo, ho l’impressione che il “nuovo” del Concilio, che comunque lei riconosce come sviluppo e aggiunta e mai abrogante quello di prima, perché sempre infallibile, debba richiedere necessariamente un atto di fede teologale. Questo vale sempre? In questo modo, però, come si potrà distinguere ciò che è dottrinale da ciò che è pastorale?, cosa che invece lei giustamente vuole fare.
Allora, le mie domande: quali sono a suo modo di vedere le dottrine infallibili del Concilio e gli insegnamenti pastorali fallibili e rivedibili? Riuscirebbe a farne un quadro ben delineato o troverebbe sempre la difficoltà di dover disgiungere il fine e la natura pastorali del Concilio anche dai suoi insegnamenti dottrinali? E se gli insegnamenti dottrinali non sono definiti quindi dichiarati infallibili, in ragione di cosa li si può vedere come tali? Solo in ragione del dato dottrinale nuovo portato dal Concilio o non piuttosto in ragione della Tradizione della Chiesa, metro dello sviluppo dogmatico? Il criterio dell’infallibilità non sta nel dopo, ma nel prima. La Tradizione non dovrebbe essere mai contro il Papa. Se lo è, è perché si è smarrito il suo vero concetto. Pertanto, distinguerei tra accettazione delle dottrine/insegnamenti del Concilio e loro (generale) infallibilità. Accettarle non dipende dalla loro infallibilità, ma dal fatto che sono insegnamenti del Magistero della Chiesa. È la Chiesa la garanzia della loro autenticità. Questo potrebbe aiutarci a liberarci da una soffusa ondata di neo-conciliarismo, quando, ad ogni piè sospinto, si invoca l’autorità dottrinale del Concilio, con un generalissimo “il Concilio dice”, “il Concilio insegna”, ignorando magari lo stesso Magistero post-conciliare. Potrebbe essere anche il modo con cui ci si accosta alle dottrine del Vaticano II, senza prevenzioni dogmatiste, con una libertà, sempre nei confini del vero tracciati dall’Autorità, per verificarne, ad un tempo, il loro ancoraggio al Deposito della fede e lo sforzo della novità in ragione della nuova pastoralità voluta dai Padri.
È vero che il Magistero post-conciliare ha dichiarato a più riprese la continuità delle dottrine conciliari con la Tradizione della Chiesa. Si pensi ultimamente alla Verbum Domini quanto al rapporto Scrittura e Tradizione in Dei Verbum. Ma questo non ci redime ancora, purtroppo, da un angosciante e sordo appello al Concilio e sempre al Concilio. Non sarebbe inopportuno un nuovo Sillabo per mettere in guardia dagli errori declamati in nome del Concilio, con il quale non si chiederebbe alla Chiesa di correggersi ma di correggere gli errori.
Dopo il Vaticano I, ad esempio, non c’era molto da dibattere sul contenuto della Pastor aeternus. Ci furono quelli che lo rifiutarono, ma la Chiesa non dovette ritornare sul suo significato per una sapiente ermeneutica. Invece, si nota una singolarità del Vaticano II, che nasconde un problema ermeneutico di approccio e di lettura degli insegnamenti. Mi convinco sempre più, che più che nelle dottrine del Vaticano II, il vero problema si nasconde nel principio ermeneutico con cui le si legge, tema classico della modernità, postasi proprio come problema gnoseologico. Quel mondo moderno con cui si voleva dialogare ha presentato alla Chiesa il conto della sua principale difficoltà: mettersi in questione per arrivare, solo dopo, alla sua comprensione?
Vengo così all’Ad tuendam fidem (Motu proprio di Giovanni Paolo II, del 1998), che lei cita nel suo ultimo scritto (28 febbraio 2011). Con questo documento, il venerabile Pontefice, si premurava di munire di due paragrafi il canone 750 del CIC (e rispettivamente il can. 598 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali) per preservare la fede della Chiesa dagli errori che insorgono. Il primo paragrafo di detto canone richiama le cose da credere con fede divina e cattolica, in quanto insegnate infallibilmente dal Magistero solenne o dal Magistero ordinario e universale e contenute nella Parola di Dio scritta o tramandata (allusione alla due fonti della Rivelazione). Il secondo paragrafo, invece, riguarda l’accoglienza ferma di quelle cose che il Magistero insegna come definitive circa la fede e i costumi. Non si fa però menzione, per appurare l’infallibilità di una dottrina, alla sola “materia” di fede come lei invece dice. Il metro è ancora una volta il Magistero. È interessante notare che questa definitività della dottrina, sebbene di cose non rivelate ma connesse con la Rivelazione e dichiarate tali dal Magistero, fu riconosciuta anche dalla Scuola di Bologna, che all’uscita del Motu proprio, subito s’allarmò con un intero numero monografico di Cristianesimo nella Storia (n. 1, 2000). Si sarebbe così compromessa la voluta scelta del Vaticano II di mettere un certo silenziatore alla Tradizione costitutiva, che ora Giovanni Paolo II, pretendeva rispolverare quanto all’infallibilità di dottrine definitive, insegnate infallibilmente dal Magistero. Si andava così a riprendere un certo modo controversistico e antiprotestante, accantonato dal Concilio. Si ripiombava in una visione dottrinale contro quella propriamente pastorale (vedi ad esempio G. Ruggieri, in Ibid., pp. 4. 103-131: l’unico italiano ad aver firmato il controverso memorandum “Chiesa 2011” dei teologi tedeschi).
Con accenti di rottura, certo, ma anche quest’ermeneutica riconosce che Ad tuendam fidem parla di definitività delle dottrine appurata dal Magistero e dà così piena cittadinanza alla Traditio costitutiva.
Con Benedetto XVI possiamo allora affermare, che «la Parola di Dio si dona a noi nella sacra Scrittura, quale testimonianza ispirata della Rivelazione, che con la viva Tradizione della Chiesa costituisce la regola suprema della fede» (Verbum Domini 18).
Ogni dottrina, anche quella di un concilio, non dovrà mai prescindere da questa «regola suprema».
Con devoti sensi di fraterna amicizia.
p. Serafino M. Lanzetta
Firenze, 5 marzo 2011
Avvenire.it, 11 marzo 2011 - A proposito di simboli che esprimono storia e civiltà - C’è chi ricorre anche all’elica per far fuori la croce di Davide Rondoni
Se la prendono con la croce. Se la son presa. Se la prenderanno.
Perché a un certo punto è così: non ce l’hanno nemmeno più con i cristiani, con i peccati, gli scandali, l’orrore che anche noi, io, possiamo fare. Con i nostri peccati. Le nostre tiepidezze. Le nostre fughe. Tutte quelle cose per cui giustamente ce l’hanno con noi e, se posso dirlo, a volte comprensibilmente ce l’hanno con la Chiesa, con la madre. A un certo punto, ed è questo il punto, è arrivata l’epoca, provano fastidio per lui.
Direttamente per Lui. Per il suo corpo esposto. Il suo corpo che è del Padre nostro che sei nei cieli. E che però è proprio carne, corpo, storia… Non lo vogliono vedere. Lo vogliono cancellare dallo spazio. Al limite si può tenere in privato, come un vizio, una vergogna, una mania.
Provano rigetto. Provano nausea per Lui. Uno strano, antico e futuro livore per questo Dio che ha osato incarnarsi, farsi lacrima e grido, sorriso e sera a cena, in una parola semplice e scandalosa: amico. E ora come allora se la prendono con lui.
Non più solo per noi, per i nostri difetti. E si addossa al crocifisso ogni genere di contumelia. Di irrisione. Lo fecero gli scribi, lo fanno i nuovi scribi. Con puntualità svizzera, a pochi giorni dalla sentenza europea sulla querelle del diritto dell’Italia di esporre il crocifisso in luoghi pubblici, arriva un pamphlet Einaudi firmato da Sergio Luzzatto, Il crocifisso di Stato.
Dove oltre a prendersela con tutti quelli – ebrei, ex comunisti, laici, non credenti – che non la pensano come lui, Luzzatto arriva a proporre il nascondimento di questo segno, la croce, che divide e scandalizza (è vero) con uno che a sentir lui unisce e lascia tranquilli: l’elica del Dna (idea non sua, aggiunge l’autore). Libro religioso, dunque, questo di Luzzatto l’antireligioso (che non accetta il crocifisso esposto in Italia ma accetta di vivere in un Paese, la Svizzera, dove la croce è sulla bandiera…). Libro che facendo della religione una specie di 'scienza' (ma non so quanti scienziati siano d’accordo) ne alza un simbolo. Un idolo. Che a ben vedere è lontano da indicare qualcosa che unisce: provate a dire al mio amico F. malato dalla nascita per malattia genetica che quel che mi rende uguale a lui è il Dna... In ogni caso, Luzzatto, nella verve polemica che affastella troppe cose e storie e nomi non sempre perde lucidità: ad esempio deve ammettere che J. Weiler (l’insigne giurista ebreo che ha difeso il crocifisso davanti alla Corte europea) ha ragione. Il muro bianco non è rispetto della libertà, ma negazione della storia e della civiltà. E proponendo dunque il suo idolo – lo Scientismo – Luzzatto fa piazza pulita di una finta laicità che nell’azzeramento dei segni e delle culture vede un bel punto d’arrivo. Idea finta di laicità che viene (spesso ipocritamente) sbandierata. Questo libro dice chiaro che lui non crede che la nostra storia umana sia simboleggiabile da un crocifisso. Per lui si tratta di una questione di fede: sostituire un simbolo con un altro. Per noi cristiani non è una questione di fede.
Non dipende certo dai crocifissi esposti in un’aula scolastica la mia poca o molta fede. So dove pregare o bestemmiarlo, non lì.
È invece una questione storica e civile: la nostra storia millenaria di cultura, civiltà e arte è espressa meglio dal crocifisso – dalla pietà, dalla considerazione del dolore, dalla gloria dei morti ingiustamente, da un evento storico che ha rivoluzionato il mondo e ha coperto l’Italia di monumenti e arte – o dal simbolo che rappresenta una delle tante importanti scoperte scientifiche?
Avvenire.it, FINE VITA - Fine vita, Sgreccia: «Legge necessaria» di Pier Luigi Fornari
«Una legge a protezione della vita è necessaria», il cardinale Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita, non ha dubbi sul dovere di approvare una normativa sul fine vita, portando a termine l’iter iniziato alla Camera. Il porporato auspica che sia varata una legge «la più vicina possibile» al disegno varato dal Senato nel marzo del 2009, e si trova d’accordo con l’ultimo aggiustamento subito dall’articolato in seguito al parere espresso dalla Commissione Affari costituzionali, cioè la cancellazione del carattere vincolante del parere espresso dal collegio di specialisti in caso di contrasto tra medico curante e fiduciario sulla attuazione delle dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat).
«È indispensabile legiferare, al punto in cui siamo giunti – spiega il bioeticista – in particolare dopo la tragica conclusione della vicenda di Eluana Englaro, per cui non si riuscì a varare un decreto che potesse correggere la decisione della magistratura di farle sospendere idratazione ed alimentazione. Se non si fissa una norma, episodi simili a quelli della giovane di Lecco si possono moltiplicare tutte le volte che vi saranno persone intenzionate a percorrere quell’itinerario di morte. E questo non si può consentire».
È in gioco dunque il principio della indisponibilità della vita umana?
Infatti. È un valore tutelato dalla Costituzione e da tutto il nostro ordinamento. E sono convinto che si tratta di un principio riconosciuto da una maggioranza molto ampia di italiani. È il valore base a cui deve essere improntata tutta la legge sul fine vita, ivi comprese le Dat.
Qualcuno preferisce la dizione "testamento biologico"...
È una denominazione inaccettabile, perché in questo caso si intende che le volontà espresse dalla persona sono vincolanti, confliggendo con il principio della indisponibilità della vita umana. L’obbligo tassativo per il medico di mettere in atto la volontà espressa "ora per allora" è insostenibile.
In che punto è violato il principio?
Con la vincolatività delle Dat, di fatto si stabilirebbe il potere di qualcuno di disporre sulla vita umana, che sia quella propria o quella di altri. Verrebbe violato anche il principio di uguaglianza tra gli uomini.
Lei nel 2003 faceva parte del Comitato nazionale per la Bioetica. Quale fu allora la principale preoccupazione nella elaborazione del parere sulle Dat?
Si pose molta attenzione alla denominazione, rifiutando tanto la parola "testamento", quanto "disposizioni", in quanto implicavano un carattere vincolante. Si è scelto invece il termine "dichiarazioni", per indicare un’espressione di orientamenti, di desideri, dei quali il medico tiene conto, se riscontra che la loro attuazione è conforme al principio della indisponibilità della vita e al bene del paziente.
E la Convenzione di Oviedo?
Quel parere era perfettamente in accordo con tale documento. Ricordo anche che, nella elaborazione della Convenzione del Consiglio d’Europa, si evitarono volutamente termini che avessero un peso tale da obbligare il medico a mettere in atto quanto scritto nelle dichiarazioni di volontà della persona riguardo ai futuri trattamenti medici.
Come si inserisce in questo contesto il ruolo del medico?
Questo è un altro punto decisivo, perché il medico ha una responsabilità, anzi, un dovere di garanzia.
In che senso?
È proprio il suo profilo professionale ad assegnargli questo ruolo di garanzia. Una responsabilità che esercita rispetto alla stessa salute del paziente, alla sua coscienza professionale, allo Stato e, diciamo, di fronte alla cittadinanza tutta. Per cui una persona che voglia esercitare un rifiuto attuale di terapie necessarie alla salvaguardia della propria vita non può pretendere la sua collaborazione. Anzi, deve espressamente interrompere il rapporto con il medico, assumendosi personalmente la responsabilità fino al punto di abbandonare di sua volontà la struttura sanitaria.
E nel caso del "testamento biologico" ?
Facendo crollare con delle norme o con degli <+corsivo>escamotage<+tondo> il ruolo di garanzia della vita e della salute del paziente esercitato dal medico, si scardina un caposaldo della Costituzione e della professione medica.
Allora quali sono le indicazioni da ricavare per la legge?
Che le Dat, oltre ad essere redatte in forma scritta e rinnovate dopo un certo periodo di tempo, non possono essere vincolanti nel momento in cui si verificano circostanze nuove che spetta al medico curante valutare.
Quali altri compiti spettano al medico?
Evitare sia l’accanimento sia l’abbandono terapeutico, e garantire il sostegno vitale fornito da alimentazione e idratazione, che non sono terapie mediche.
C’è un dovere di evitare anche ogni forma di eutanasia...
Infatti, però sarebbe opportuna nel testo in approvazione una definizione precisa. L’eutanasia è un’azione o un’omissione di un intervento che mira di fatto e con le intenzioni a interrompere la vita o anticipare la morte, sia pure con l’intento di lenire o interrompere il dolore.
Altre limature possibili?
Sarebbe auspicabile una precisazione sulla platea dei soggetti per i quali entrano in vigore le Dat, perché l’allargamento avvenuto alla Camera appare un po’ generico e tale da richiedere precisazioni. Ad esempio, i malati di Parkinson e di Alzheimer in certe condizioni non sono in grado di comprendere le indicazioni del medico e di decidere, ma sarebbe un errore trattarli allo stesso modo degli stati vegetativi persistenti e toglier loro certe terapie proprie della loro patologia. Ci potrebbe essere un rischio di abusi. Anche l’aggiunta fatta a Montecitorio sulla sospensione della idratazione ed alimentazione, quando essa non è più efficace, è una specificazione superflua: non vorrei che apra uno spazio di arbitrio.
Quali indicazioni dare per l’applicazione della legge?
Aumentare i sostegni e le disponibilità per le terapie palliative; servono assistenze specifiche per malati terminali e gli stati vegetativi. Va inoltre estesa la formazione per tutto il personale sanitario, anche nei corsi universitari.
Che cosa ha da dire il magistero della Chiesa sulle patologie nelle quali la coscienza sembra scomparire...
Già quattro anni fa il Santo Padre nella udienza ai partecipanti al congresso sugli stati vegetativi promossa dal Pontificio consiglio per la vita, evidenziò che già il termine stato vegetativo è ambiguo. Non ci troviamo di fronte a un vegetale, ma a un uomo. Spesso confondiamo incapacità di espressione con perdita di coscienza. Quindi, è necessario un atteggiamento di estrema prudenza. La ricerca recente non ha fatto che confermare quella indicazione etica.
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J’ACCUSE/ E ora la Spagna di Zapatero “vieta” anche le messe ai cristiani di Luca Volontè, venerdì 11 marzo 2011, il sussidiario.net
In Spagna la deriva anticristiana, e in particolare anticattolica, non si ferma. Paradossalmente, il Psoe, pur essendo destinato a una sconfitta catastrofica alle prossime elezioni regionali, accelera nella sua campagna. Ovviamente, nella Spagna cattolica, quest'azione culturale del Governo Zapatero, assume sempre più le caratteristiche di una campagna demolitrice della storia e della società nazionale. Le università, dopo l'assurda legge sulle discriminazioni e sull'educazione civica, sembrano essere entrate nel mirino di atei e socialisti spagnoli.
A fine febbraio, all'università di Madrid si sono dati appuntamento diversi esponenti della linea oltranzista: cantanti blasfemi, supporter di gay e lesbiche, ex ambasciatori, uomini di spettacolo. Tutti uniti con l’unico scopo di protestare per la decisione del Papa di tenere la prossima Giornata Mondiale della Gioventù a Madrid. L’iniziativa, che ha avuto il permesso del Rettorato universitario, è stata organizzata dall'Associazione madrilena degli atei e dei liberi pensatori e ha voluto unire tutti coloro che “sono contrari alla visita del ‘senor Benedicto’”.
L’argomento principale delle tesi, o meglio degli insulti al Papa, è la spesa economica che l’amministrazione pubblica sopporterà per l’organizzazione della Giornata Mondiale. Lo stesso argomento era stato usato dagli atei inglesi e, pare incredibile, i cugini spagnoli non hanno preso atto dell’incredibile successo del viaggio del Santo Padre a Londra.
Il 13 gennaio, dopo che nelle settimane precedenti gruppuscoli di giovani laicisti intolleranti avevano disturbato la celebrazione della santa Messa nella cappella universitaria, l'Università di Barcellona ha deciso di vietare la celebrazione della Messa quotidiana, fino a quando “non potrà essere assicurata la sicurezza dei partecipanti”.
Dal 10 novembre dello scorso anno al 1° dicembre c’erano stati "sit-in" e tafferugli da parte di giovinastri che volevano impedire la partecipazione alla celebrazione eucaristica. Una situazione "lamentevole", dice il comunicato ufficiale del Rettorato e della facoltà di Economia dell'univeristà, che ha spinto le istituzioni dell'ateneo a cedere, con la scusa della sicurezza, alle richieste degli studenti progressisti, apertamente in “guerra contro i cattolici”.
Tuttavia, il Decano dell’Università ha assicurato che “verrà fatto tutto il possibile per preservare l’esercizio della libertà di culto e dei diritti fondamentali e della libera espressione” ai cattolici. Infatti, la soluzione trovata dall’Università è stata quella di introdurre una "lista negra". Il 20 gennaio il Rettorato obbliga coloro che desiderano partecipare alla Messa o pregare nella Cappella a identificarsi personalmente e chiedere il permesso al proprio Preside di facoltà o direttamente al Rettorato.
In poche parole, Cappella chiusa, la Messa non si può celebrare liberamente, ma solo dopo la consegna delle generalità e ottenuto il permesso scritto. Bella libertà e tolleranza, puntuale rispetto dell’esercizio di "libertà di culto e dei diritti fondamentali".
Che dire di più? Ora si comprende la vera ragione per la quale il Ministro degli Esteri spagnolo ha così tanto lavorato per impedire l’approvazione a livello europeo di un chiaro documento a favore dei cristiani in Medio Oriente. Se avesse sostenuto l’idea di Frattini avrebbe dovuto mettere sotto accusa anche il proprio Governo.
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