Nella rassegna stampa di oggi:
1) 03/03/2011 – PAKISTAN - Assassinio Bhatti, domani i funerali nel Punjab. La condanna dei musulmani
2) 03/03/2011 – PAKISTAN - Punjab, chiese e tombe profanate: i cristiani temono nuovi massacri
3) LA POLITICA E LA FEDE - Riflessioni sul libro “Il cattolico in politica” di mons. Giampaolo Crepaldi di Stefano Fontana*
4) La disonestà intellettuale del senatore Marino - Autore: Pandolfi, Massimo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: www.massimopandolfi.it - giovedì 3 marzo 2011
5) Modernismo e senso religioso - La tradizione è più moderna della modernità - Non occorre conservare tutto ciò che si faceva ieri ma trasmetterne l'essenziale di Fabrice Hadjadj (©L'Osservatore Romano - 4 marzo 2011)
6) I Piccoli fratelli di Gesù di Charles de Foucauld – Contemplativi ma sulla strada - Da un convegno organizzato a Roma dall'istituto internazionale Jacques Maritain e dal Pontificio Ateneo Sant'Anselmo su "Filosofia e contemplazione in Raïssa e Jacques Maritain", pubblichiamo ampi stralci dell'intervento di un piccolo fratello di Gesù su "La "contemplazione nelle strade"" di LORENZO CHAVELET, (©L'Osservatore Romano - 4 marzo 2011)
7) Il filosofo Fabrice Hadjadj, la sua conversione e la contraddizione degli atei - 3 marzo, 2011, da http://www.uccronline.it
8) "Voglio solo un posto ai piedi di Gesù". Ecco il suo testamento. di Shahbaz Bhatti, 04-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
9) Il "mostro di Filadelfia" rischia la pena di morte di Marco Respinti, 04-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
10) Quando divento grande, voglio... di Lorenzo Albacete, venerdì 4 marzo 2011, il sussidiario.net
11) IL CASO/ Quella paura di sbagliare che ha ammazzato Daniel di Monica Mondo, giovedì 3 marzo 2011, il sussidiario.net
12) Avvenire.it, 4 marzo 2011 - In morte di un sacerdote che tutti amavano - La bontà del prete inesausta fame d'infinito di Maurizio Patriciello
03/03/2011 – PAKISTAN - Assassinio Bhatti, domani i funerali nel Punjab. La condanna dei musulmani
La cerimonia a Khushpur, villaggio natale del ministro cattolico per le Minoranze. Centinaia di persone hanno manifestato a Islamabad, bruciando pneumatici e intonando slogan. Imam e studiosi islamici deplorano il “brutale omicidio”. La stampa punta il dito contro la debolezza del governo , incapace di fermare le violenze.
Islamabad (AsiaNews) – I funerali di Shahbaz Bhatti, ministro per le Minoranze assassinato ieri da un commando estremista, si svolgeranno domani all’una del pomeriggio nel villaggio natale di Khushpur (Punjab). Oggi, per tutta la giornata centinaia di persone hanno manifestato a Islamabad, bloccando le arterie principali della capitale. I dimostranti hanno bruciato pneumatici e intonato slogan contro le violenze anti-cristiane; le autorità hanno deviato il traffico di auto e moto. La morte del parlamentare cattolico ha suscitato sdegno e biasimo anche all’interno della comunità musulmana pakistana che, con poche eccezioni, condanna il brutale omicidio.
Le esequie di Shahbaz Bhatti sono in programma domani alle 13 a Khushpur, villaggio natale situato nella cittadina di Samundri, poco distante da Faisalabad, provincia orientale del Punjab. Alle esequie dovrebbero essere presenti sia la madre che due fratelli, il cui arrivo è previsto nella tarda serata di oggi. Intanto la polizia ha diffuso l’identikit di uno dei componenti del commando che ha massacrato il parlamentare cattolico; l’uomo, di colore scuro, sarebbe originario del Punjab. I terroristi avrebbero utilizzato anche dei kalashnikov – 30 le ferite da arma da fuoco fra testa e tronco, nessuna agli arti – e sarebbero fuggiti a bordo di un’auto di colore bianco.
La morte di Shahbaz Bhatti, difensore dei diritti delle minoranze, attivo nel denunciare gli abusi compiuti in nome della blasfemia e sostenitore della causa di Asia Bibi, la 45enne cristiana condannata a morte in base alla “legge nera”, ha destato profondo sconcerto anche fra i musulmani pakistani. Mohammad Mehfooz Ahmed, studioso musulmano e membro dell’Islamic Ideological Council di Islamabad, condanna il “brutale omicidio” che bolla come “atto codardo”. Egli definisce il parlamentare cattolico “uomo impavido” che ha compiuto “notevoli sforzi” per il dialogo interreligioso. E non manca di accusare il partito di governo Pakistan People’s Party (Ppp), che ha le “mani sporche del sangue di Salman Taseer e Shahbaz Bhatti” perché non ha saputo proteggerli in modo adeguato.
Mohammad Azam, leader della moschea Badshahi a Lahore, è “scioccato” dalla notizia della morte di Bhatti, che definisce “un buon amico”. La guida musulmana sottolinea che “la gente non ha più il diritto di esprimere le proprie opinioni”, mentre si continua a definire “democratico” il governo che regge il Paese. Azam chiarisce che “quanti hanno rivendicato l’assassinio non sono musulmani, né esseri umani”, perché “l’islam è una religione di pace, che insegna a rispettare le minoranze”. Invocando il bisogno di tolleranza e armonia, egli conferma che aderirà “alla tre giorni di lutto indetta dalla comunità cristiana”.
Intanto si levano voci di condanna per l’assassinio anche nel mondo dei media pakistani, anche se una parte dell’informazione vorrebbe scindere la morte di Bhatti con la sua battaglia contro la legge sulla blasfemia. In un editoriale, il Daily Times spiega che “ci stiamo trasformando in una società violenta”, per l’inerzia del governo che “fa pensare ai terroristi di avere mano libera”. Il giornale critica i “buchi” nell’apparato di sicurezza attorno al politico, che andava garantito “anche contro la sua volontà”. E definisce “sconcertante” l’uso che la frangia estremista fa degli attentati, sebbene le proposte di modifica alla legge sulla blasfemia siano “morte con l’omicidio di Salman Taseer”.
Critiche allo Stato e al governo sono rivolte pure dal Dawn, che definisce l'esecutivo “debole” e “più interessato alla sua sopravvivenza”, tanto da scendere a compromessi anche con l'ala fondamentalista del Paese. Non mancano le accuse anche alla nazione, alla sua visione estremista e totalitaria della religione, fino ad affermare che “il Pakistan è stato creato in nome dell’islam”. La teocrazia porta quindi a rivendicare – erroneamente – il solo diritto dei musulmani a governare, mentre le minoranze religiose (cristiani) e le sette considerate “eretiche” (gli ahmadi) sono bandite, “isolate a livello costituzionale, sociale e culturale”.
Desta sorpresa, invece, la presa di posizione del The Nation che, in un articolo, nega i legami fra la “legge nera” e l’assassinio di Shahbaz Bhatti. Il quotidiano sottolinea che “la tragedia non ha nulla a che fare con la legge sulla blasfemia”, ma è una “cospirazione per destabilizzare il Pakistan” e favorire “le critiche della comunità internazionale”. Per il giornale, il ministro per le Minoranze era “favorevole alla condanna a morte per i blasfemi” (posizione mai assunta dal politico cattolico, ndr) e per questo “non poteva essere contrario alla norma”.(JK-DS)
03/03/2011 – PAKISTAN - Punjab, chiese e tombe profanate: i cristiani temono nuovi massacri
La comunità di Kot Addu impotente di fronte ai soprusi dei latifondisti locali, che confiscano campi e negozi con la connivenza di polizia e funzionari. Dissacrati simboli cristiani, ma non vale la legge sulla blasfemia applicata solo contro i cristiani. Le autorità parlano di vicende “montate”, ma mancano motivazioni legali per l’esproprio dei beni.
Lahore (AsiaNews) – “Ho lavorato tutta la vita” per comprare un appezzamento di terreno, nel quale “ho seppellito i miei antenati. Sono un vecchio, con quattro figlie, e ho sempre pensato di salvaguardare le mie proprietà in vista del loro matrimonio”. Lo sfogo di Boota Masih è il sintomo dell’impotenza cui sono costretti i cristiani di un villaggio del Punjab, in Pakistan; la comunità locale devo sottostare ai soprusi dei piccoli latifondisti, che sfruttano la complicità degli amministratori locali e l’inerzia della polizia per confiscare terreni e proprietà. La tensione è in continuo aumento, l’assassinio del ministro per le Minoranze Shahbaz Bhatti ha esasperato il clima e se non vi saranno interventi delle autorità – avvertono le forze di sicurezza – è possibile il ripetersi di eventi analoghi alla tragedia di Gojra.
Kot Addu è una città del distretto di Muzaffargarh, nel sud del Punjab, ed è teatro di un nuovo caso di violenze ai danni della comunità cristiana. Lo scorso anno si sono registrate discriminazioni nella distribuzione degli aiuti per le vittime delle alluvioni. In precedenza, nel luglio 2009, Anwar Masih è stato incriminato con (false) accuse di blasfemia; il procedimento nei suoi confronti è stato archiviato l’anno successivo, quando la famiglia ha acconsentito a cedere le proprietà a un parlamentare musulmano della zona.
Nei giorni scorsi ancora nuovi soprusi: un gruppo di proprietari terrieri di Kot Addu ha occupato senza alcun diritto negozi, campi e un cimitero cristiano; hanno minacciato i locali, dissacrato bibbie e croci di una chiesa e demolito 150 tombe, occupando l’area grazie anche al sostegno di parlamentari e amministratori locali. I leader cristiani hanno provato a denunciare il caso alla polizia di Jaggi Moor, senza risultato: l’ufficiale Zubair Khalid ha aperto la pratica – il Fir, First Information Report – ma ha tralasciato di inserire particolari fondamentali, consentendo così ai colpevoli di rimanere impuniti.
Boota Masih, una delle molte vittime, racconta ad AsiaNews che il locale distretto di polizia ha respinto le denunce, affermando che “i cristiani hanno occupato illegalmente i terreni per costruire chiesa e cimitero”. Ghani Masih aggiunge che le forze dell’ordine hanno registrato il caso “in base all’articolo 297 del codice penale pakistano” e non “il 295 A e B” inerente la legge sulla blasfemia, visto che “hanno profanato la Bibbia, croci e tombe”. La tensione ha raggiunto livelli critici e si temono esplosioni di violenza estrema, come avvenuto a Gojra nell’agosto 2009 (vedi foto) quando migliaia di estremisti hanno attaccato un villaggio cristiano, bruciando vive otto persone. L’assassinio a inizio anno del governatore Salman Taseer e l’esecuzione di Shahbaz Bhatti hanno acuito il dramma dei cristiani, che temono nuovi attacchi scatenati in nome della legge sulla blasfemia.
Un parlamentare cristiano, dell’ala di minoranza del partito di governo Pakistan People’s Party (Ppp), ha visitato la zona e ha promesso azioni decise a sostegno della comunità di Kot Addu. Interpellato da AsiaNews, il funzionario distrettuale (DCO) della zona non intende rilasciare dichiarazioni. Il responsabile del dipartimento di polizia (DPO), invece, nega che vi siano stati incidenti; al contrario, la vicenda è una “montatura della comunità cristiana”, che vuole esacerbare gli animi. Tuttavia, quando abbiamo ricordato il caso di Anwar Masih – costretto a cedere le proprietà dietro pressioni e in base a false denunce – il funzionario si è rifiutato di rispondere. (JK)
LA POLITICA E LA FEDE - Riflessioni sul libro “Il cattolico in politica” di mons. Giampaolo Crepaldi di Stefano Fontana*
ROMA, giovedì, 3 marzo (ZENIT.org).- La questione di fondo che il libro di mons. Crepaldi (Il cattolico in politica. Manuale per la ripresa, Cantagalli, Siena 2010) affronta è lo statuto della politica, cosa essa sia, ed assume una visione metafisica della politica, che fa da fondamento epistemologico per una fondazione teologica della politica. Per dirla con l’Horkheimer della “Nostalgia del totalmente altro”, ma prima ancora con Joseph De Maistre, la politica è soprattutto e prima di tutto una questione teologica. Questo è l’assunto principale del libro e su questo esso chiama in causa i cattolici in politica. Così impostate le cose, si apre tutta una serie di questioni di fondo. Vediamone qualcuna.
Augusto Del Noce affermava che la fede cristiana presuppone una metafisica e che la filosofia cristiana – o il filosofare nella fede – altro non è che l’esplicitazione di questa metafisica. Per rimanere “nella metafisica” la filosofia ha bisogno di rimanere “nella fede”, dato che se se ne distacca – e qui l’affinità con Ratzinger è evidente – diventa per forza “positivismo” (e con ciò fideismo perché a quanto non risulta empiricamente “si crede”). Sul piano culturale, e quindi anche sul piano politico, oggi il principale ostacolo alla comunicazione tra i cattolici e “gli altri” è proprio la questione metafisica.
Quando il cattolico parla di persona, di famiglia, di relazione, di comunità, di bene comune, di natura, di anima, di vita … li intende in senso metafisico, mentre “gli altri” non intendono più tutte queste cose in senso metafisico. Se anche i cattolici, per dialogare con gli altri, non le intendono più in senso metafisico, finiranno per forza con intenderle in senso funzionale e soggettivistico, e a quel punto avranno già perso la partita.
Anche la politica dovrebbe venire intesa dal cattolico in tale senso, anche se non c’è niente di più lontano dal sentire moderno. Questo punto è importante per comprendere il libro di Monsignor Crepaldi, il quale mi sembra fondarsi sull’assunto che nella politica si giochino significati assoluti, come si legge in più luoghi del libro.
Anche quando il cattolico parla di “fede” la intende in senso metafisico. Non solo la fede presuppone la metafisica ma anche la metafisica presuppone la fede. Nella metafisica, infatti, ci si dà l’indisponibile, proprio come nella fede: in essa non siamo noi a raggiungere l’indisponibile ma è questo ad irrompere. L’atteggiamento metafisico non comporta un “fare” ma, come dice Ratzinger in Introduzione al Cristianesimo, uno “stare”, una disponibilità alla Parola che si rivela, proprio come la fede.
Il libro presenta quindi la politica in modo molto diverso dalle correnti opinioni, ad indicare che nessun rinnovamento della presenza politica dei cattolici sarà possibile se prima essi non si saranno riappropriati di questa loro “tradizionale” – nel senso forte del termine - visione della politica.
Questa non è un’azione che costituisce la comunità, ma presuppone che la comunità sia costituita da altro. Qui abbiamo lo scontro principale espresso dal libro: lo scontro tra una politica cattolica che accetta pienamente la laicità – o la maturità della democrazia come diceva Dossetti -, al punto da pensare di costituirsi in modo autonomo, e una politica cattolica secondo la quale, per dirla con Papa Benedetto XVI, un mondo senza Dio non è un mondo neutro, è un mondo senza Dio.
Su questo si consuma tutta la grande questione della laicità, della democrazia, dell’autonomia delle realtà terrene, a cui il libro di mons. Crepaldi accenna nella bella e profonda Introduzione del libro. Nei decenni scorsi si è via via consolidato un profondo e complesso orientamento teso a condurre i cattolici ad acquisire la maturità della democrazia, da intendersi come la piena consistenza metafisica del finito rispetto all’infinito. Non a caso Crepaldi cita nella sua Introduzione tre opere degli anni Sessanta che, da punti di partenza diversi, hanno contraddetto questa pretesa e secondo lui il magistero di Benedetto XVI, sulla scia di quello dei precedenti Pontefici, ha definitivamente chiarito questi equivoci, sostenendo appunto che un mondo senza Dio non è un mondo neutro ma un mondo senza Dio.
Insisto su questo punto perché mi sembra fondamentale: la ragione senza la fede non è neutra, ma è una ragione-senza-la-fede: essa si erge a nuovo assoluto in quanto vede e costruisce il mondo “senza Dio”. C’è l’assolutezza di un mondo costruito su Dio, ma c’è anche l’assolutezza di un mondo costruito senza Dio. Ciò, naturalmente, vale anche per la ragione politica.
Uno dei punti più interessanti del libro è il capitolo sull’allargamento della ragione politica e le nuove ideologie, nel quale si possono vedere le conseguenze di un linguaggio politico privo ormai della densità metafisica. Quando il papa parla di “sostenibilità” non usa il termine nel senso di Latouche o dei Rapporti delle agenzie Onu; quando parla di “sobrietà” non la intende nel senso dei movimenti ecologisti e animalisti; quando parla di “salvaguardia del creato” non lo fa nel senso di GreenPeace; quando parla di pace non usa gli slogan della marcia Perugia-Assisi.
E’ però evidente che i cattolici spesso si appiattiscono su queste accezioni le quali, riducendo o escludendo la densità metafisica dei concetti, finiscono per espungerne il vero significato e a non lasciare spazio per un significato religioso. Senza spazio metafisico, dal punto di vista concettuale, la religione non ha più possibilità di respiro. L’orizzontalizzazione del linguaggio politico non è privo di dense conseguenze negative sulla conduzione della politica.
Come si vede, un livello molto importante della problematica è quello epistemologico. Se la fede non è “conoscenza” nel vero senso della parola, essa si aggiungerà dall’esterno alla conoscenza razionale, di per sé autonoma: ma la conoscenza razionale di per se autonoma non è per niente autonoma dato che, come abbiamo visto, ragionare fuori della fede è cadere nel positivismo e un mondo senza Dio non è un mondo neutro ma è un mondo senza Dio.
La fede quindi è destinata a venir espulsa dal quadro del sapere. C’è oggi una “laicità epistemologica” che diventa per forza “laicismo epistemologico”. La via con cui ciò avviene è ormai consolidata: rivendicare una autonomia del piano razionale rispetto a quello della fede che però in realtà è una espulsione della fede dalla vita. Tutto ciò ha fondamenatali ripercussioni politiche.
Per questo il libro di mons. Crepaldi dice che la presenza politica dei cattolici comincia prima della politica. Egli non vuol dire solo – anche, ma non solo – che i seminari, le università cattoliche, gli istituti di scienze religiose, le comunità diocesane eccetera non formano più alla politica. Questo è anche vero, ma egli sembra voler andare alla radice e riconoscere che la formazione politica non viene fatta perché alla fede non si riconosce più – da parte dei cattolici, intendo - un significato conoscitivo fondante; perché si accetta la neutralità delle questioni politiche dalla prospettiva di fede. Ma se questa si aggiunge “dopo” vuol dire che non si aggiunge mai, in quanto se si aggiunge dopo vuol dire che le cose potevano andare bene anche “prima”.
Vorrei sottolineare come Benedetto XVI continui ad insistere su questo. Molti suoi interventi, dedicati ai più vari argomenti, hanno questo filo rosso: la sua critica all’assolutizzazione del metodo storico critico, l’insistenza con cui proclama che l’opera del teologo non è mai solo concettuale in quanto la fede cristiana crede in Dio Verità e Amore, l’affermazione che solo la sapienza che si apre al mistero è vera conoscenza, quando dice che senza Dio non si ha una vera conoscenza della realtà, quando ci spiega cos’è la Tradizione: non una manomissione degli eventi storici, ma una loro maggiore penetrazione e attualizzazione, non una deformazione delle Scritture ma una loro illuminazione.
Possiamo ora ben comprendere la presenza nel libro del tema dei “principi non negoziabili”. Su di essi mons. Crepaldi insiste molto e dà ai politici anche delle indicazioni di comportamento molto precise. Però non riduce mai questi principi a indicazioni operative: essi, infatti, rimandano al fondamento assoluto della politica che solo la fede cristiana può garantire. Non sono l’ultima ridotta in cui asserragliarsi, ma il punto di forza per una “ripresa” tesa a creare un posto per Dio nella società. Possiamo così anche comprendere come il libro tratti del problema del pluralismo religioso, mantenendo vivo il “dovere” - come dice la Humanae vitae – delle società nei confronti della vera religione.
Il tema del libro è quindi se la città dell’uomo si possa costituire adeguatamente senza il riferimento alla città di Dio. Si tratta dell’autonomia del temporale rispetto allo spirituale, della natura rispetto alla grazia, della politica rispetto alla religione. Tema fondamentale per tutte le epoche, ma specialmente per la nostra, che sembra avere addirittura smarrito il senso stesso del problema, e non solo delle sue soluzioni. Sant’Agostino si domanda le cause della caduta dell’Impero Romano.
Difende i cristiani dalle accuse, che rimanda invece ai pagani: l’Impero è caduto a causa dei vizi che avevano sostituito le antiche virtù. Ma questo significa che le virtù esistevano anche prima del cristianesimo. Nota Gilson a questo proposito: egli lo precisa proprio perché non ci si inganni sul fine specifico soprannaturale delle virtù cristiane. Le virtù cristiane rendono cittadini di un’altra città. Ma con ciò il cristianesimo sprigiona anche tutte le sue forze costruttive della società terrena e non è necessario che il temporale rifiuti di concepirsi come una tappa verso l’eterno.
Per questo motivo ritengo che la frase più importante del libro di mons. Crepaldi sia quella che si trova a pagina 63, frase che da sola vale tutto il libro: «Quando il cattolico in politica cerca di chiarire a se stesso il problema della laicità, penso che dovrebbe farsi due domande: la prima è se per la costruzione di una convivenza sociale conforme alla dignità umana, Cristo sia solo utile o anche indispensabile. La seconda è se la vita eterna oltre la morte materiale abbia una relazione con l’organizzazione comunitaria di questa vita nella società».
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*Stefano Fontana è direttore dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuan” sulla Dottrina Sociale della Chiesa (http://www.vanthuanobservatory.org/).
La disonestà intellettuale del senatore Marino - Autore: Pandolfi, Massimo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: www.massimopandolfi.it - giovedì 3 marzo 2011
Pubblicato da Massimo Pandolfi sul suo blog, a cui rimandiamo per ogni approfondimento Mer, 02/03/2011 - 11:30
C’è un grande inganno dietro il dibattito che si è acceso in questi ultimi giorni, ma che in realtà va avanti da anni, sulla legge per le dichiarazioni anticipate di trattamento, sull’eventuale testamento biologico e sul presunto fine vita. Inganno che è frutto di ignoranza (esempio: Gianfranco Fini. O se volete Roberto Saviano) o di disonestà intellettuale (esempio: Ignazio Marino). In conseguenza di ciò si sentono e si leggono sciocchezze di ogni tipo. Il problema sta a monte: usiamo termini del cui significato non abbiamo pieno possesso. Anzi: di cui non conosciamo proprio il significato. Nell’immaginario collettivo due parole - disabile grave e malato terminale - hanno ormai lo stesso significato. Sono state mischiate, shakerate, confuse, parificate: ma non è così! Il disabile grave non è nella stragrande maggioranza dei casi un malato terminale! Eluana Englaro, tanto per capirci, non era una malata terminale. Malato terminale è colui che, a causa di una patologia, è arrivato agli sgoccioli della sua esistenza: ha un male dentro che avanza inesorabile. Il disabile è invece colui che, a causa di una malattia o di un trauma, vive in una condizione appunto di disabilità. Ma non ha dentro un male che avanza! Ha bisogno soltanto di essere curato, cioè ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di lui. E allora il nodo sull’idratazione e nutrizione artificiale da fornire sempre e comunque, oppure no, a chi ne necessita, ruota attorno proprio a questi equivoci. Ignazio Marino (che è un medico, e queste cose dovrebbe saperle bene) ci prende in giro quando scrive su Il Corriere della Sera: ‘Immaginiamo una donna di 80 anni, con un tumore al seno e metastasi al cervello, ricoverata in coma in un reparto di terapia intensiva. Il suo corpo apparentemente continua a funzionare, i polmoni si gonfiano, l’intestino riceve nutrimento artificiale, il battito cardiaco è regolare grazie ai farmaci’. E poi Marino prosegue: ‘Fino a quando verrà tenuta in vita questa donna? Non si sa… Non ci sono decisioni da prendere, perché nessuno, né il medico, né i familiari, né il paziente stesso, può autorizzare l’interruzione delle terapie’. E per terapie Marino intende ovviamente anche idratazione e nutrizione artificiale. Il senatore del Pd, purtroppo, racconta una balla colossale. Non è vero che per un malato terminale (come la signora del suo esempio) è vietato interrompere l’idratazione e la nutrizione artificiale. Anche la nuova legge che il 7 marzo andrà all’esame della Camera prevede che ‘idratazione e alimentazione possono essere sospese quando non sono più efficaci nel fornire i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche del corpo’. Queste cose qui me le ha spiegate in modo molto più semplice un mio amico medico, Marco Maltoni, primario di due hospice in Emilia Romagna. Gli hospice sono i reparti di cure palliative dove spesso i malati terminali vanno a morire. ‘Arriva il momento - ha spiegato Maltoni durante un incontro pubblico - che il paziente che pure non ha bisogno di una nutrizione o idratazione artificiale, non riesce più a mangiare. Il suo corpo quasi respinge il cibo. Molti familiari mi dicono: non mangia più, così muore. Io gli rispondo: no, purtroppo sta morendo e quindi non mangia più’. Ma qui stiamo parlando di malati terminali, pazienti agli sgoccioli, e allora sì che in alcuni casi l’alimentazione forzata può diventare anche accanimento terapeutico. Ma se noi trasferiamo tutto ciò anche ai disabili gravi, gravissimi, estremi - alle persone in stato vegetativo, ad esempio - il discorso cambia completamente. Loro, lo ripeto, non hanno malattie, non hanno un male che avanza, non stanno per morire. Sono malati terminali come io che scrivo o tu che leggi. Il problema è un altro e allora guardiamoci negli occhi e diciamocela tutta la verità camuffata dietro ideologie o discorsi: non sono utili, sono un peso, magari un costo, qualcuno di noi ritiene che la loro vita non sia degna di essere vissuta, perché per il mondo moderno vita piena vuol dire soltanto correre come dei forsennati dalla mattina alla sera, mica restare immobili e silenziosi per giorni, settimane, mesi, magari anni, in una stanza, in una carrozzina. Non bariamo, caro senatore Marino, sul significato delle parole. Qualcuno potrà dire che noi ‘sani’ possiamo decidere se vivere o morire, eventualmente abbiamo anche la possibilità di suicidarci se l’esistenza diventa un peso insostenibile, mentre una persona in stato vegetativo no, non può fare nulla e allora sarebbe giusto che una sua precedente volontà valesse oro colato. ‘Fatemi morire se mi dovesse capitare di...’. Calma, i suicidi da che mondo è mondo esistono, certo, ma la legge, uno Stato, non ti danno gli strumenti per ammazzarti. Sarebbero disumani. Casomai una legge, uno Stato, dovrebbero mettere tutti, ma proprio tutti, nella condizione di provare a trovare un significato alla propria esistenza anche in caso di disabilità grave, gravissima, estrema. Dovrebbero aiutare di più i disabili e i loro familiari che soffrono e spesso non sanno che fare di fronte al mistero. E’ possibile, si può! Io ho tanti amici, disabili gravi, disabili estremi, che sono felici! La realtà batte i ragionamenti. Aveva proprio ragione Alexis Carrel: ‘Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità’.
Modernismo e senso religioso - La tradizione è più moderna della modernità - Non occorre conservare tutto ciò che si faceva ieri ma trasmetterne l'essenziale di Fabrice Hadjadj (©L'Osservatore Romano - 4 marzo 2011)
Nell'ambito del ciclo di incontri organizzati dal Centro Culturale di Milano sul tema "Il desiderio e l'uomo contemporaneo. Confronti", nella serata di giovedì 3 marzo a Milano, nell'Aula Magna dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, si tiene una conferenza della quale anticipiamo ampi stralci.
di FABRICE HADJADJ
La modernità dell'epoca di Péguy aveva ancora delle ambizioni umaniste. Ora tutto questo è finito. Il secolo trascorso tra l'epoca di Péguy e i nostri tempi ha posto le condizioni per una sparizione completa dell'umanesimo. Il fatto nuovo sta nella coscienza della finitezza non più individuale ma collettiva della specie umana. Il XX secolo, con Kolyma, Auschwitz e Hiroshima (adopero appositamente dei nomi propri perché i nomi comuni non sarebbero sufficienti a definire questi eventi), il XX secolo è stato allo stesso tempo l'era dell'apoteosi e poi della morte delle ideologie del progresso. Perché? Perché il progressismo è stato al potere e, invece di dare vita a una società più giusta, ha prodotto il totalitarismo. Quindi, come dice Rimbaud in Una stagione all'inferno: "A che serve un mondo moderno, se è per inventare veleni simili!". Se poi mettete al di sopra di queste catastrofi il darwinismo che ci spiega come l'umanità altro non sia che un bricolage dovuto alla casualità e alla competizione, diventa difficile credere nell'avvenire, nella storia e nella posterità.
È questo il motivo per cui noi assistiamo a una crisi della modernità e stiamo andando verso il post-umano. Un post-umano che può assumere tre forme: una tecnocratica, una teocratica e una ecologica.
Nel primo caso si tratta di creare un superuomo. Nel secondo caso si promuove un fondamentalismo che schiaccia la cultura umana, mentre nel terzo assistiamo a un ritorno alla cosiddetta Madre Natura. In ognuno di questi casi noi abbiamo perduto ogni speranza per l'uomo storico, colui che promuoveva la modernità. Non crediamo più nella continuità, nella cultura di lunga durata. La tecnocrazia, dal momento che esige l'efficienza, ci schiaccia immediatamente. La teocrazia ci proietta nell'aldilà. L'ambientalismo ci fa ritornare ai cicli naturali.
Questi tre errori si contrappongono l'uno agli altri, ma solo per farci cadere più facilmente in trappola. Denunciandone uno, si rischia sempre di cadere in un altro. È così che il demone gioca da tutti i lati della tavola di scopa.
Questa situazione nuova di crisi della modernità ha tuttavia alcuni vantaggi notevoli: sposta le barriere di un tempo. Il figlio della Chiesa e il partigiano dei Lumi possono diventare alleati di fronte a questa distruzione massiccia della cultura umana. Il moderno può ammettere che la tradizione cristiana aveva qualcosa di buono. D'altronde - e ve lo accenno solo al volo - la prima occorrenza conosciuta dell'aggettivo basso latino moderni si incontra nel V secolo e serve a designare i cristiani. Ecco perché abbiamo assistito in Francia a una certa difesa della storia e della tradizione da parte di intellettuali piuttosto di sinistra (Max Gallo, Régis Debray, Alain Finkielkraut, e così via).
Com'è possibile questa nuova alleanza? Potremmo spiegarla attraverso un semplice artificio logico e psicologico: di fronte al post-moderno, che rappresenta il nemico comune, i moderni e i sostenitori della tradizione formano un fronte comune.
Ma esiste una ragione più profonda, legata alla lingua. L'amore per le parole, il gusto del linguaggio, la certezza che non sia un mezzo di comunicazione ma un luogo di verità e comunione, uno spazio in cui il mondo si raccoglie e che quindi dobbiamo sforzarci di curare e parlare bene, è questo ciò che unisce antichi e moderni contro la com dei tecnocrati, le bombe dei teocrati e i nitriti dei fanatici ambientalisti. Il linguaggio ha questo di singolare: nella sua essenza è allo stesso tempo tradizionale e moderno. È tradizionale perché il linguaggio è sempre ricevuto: parlo perché qualcuno ha parlato a me e parlo una lingua il cui nome rimanda a una nazionalità e quindi a una comunità che esiste attraverso i tempi. Il linguaggio, però, è allo stesso tempo anche moderno, perché è attraverso di esso che si può dire "Io", che ci si può affermare qui e ora, che si può protestare, che si possono inventare forme nuove.
Noi non parliamo solo per ripetere, ma per cantare e dunque per variare, rinnovare, far risuonare il linguaggio in un modo nuovo. "Cantate al Signore un canto nuovo", dice il re David. Questa è l'essenza della parola: ci permette di sentire il comandamento antico e di cantare un canto nuovo, ed è ricevuta per poi essere nuovamente donata in maniera unica e personale.
Ciò che è precipuo di una vera novità è che non ha bisogno di rompere con ciò che la precede per affermarsi. Se fosse stata nuova solo per spirito d'avanguardia o di rottura, apparterrebbe a quella forma mutilata di modernità che chiamiamo "moda". La moda propone novità di rottura con ciò che precede.
Ecco perché queste novità diventano ben presto vecchiume: altre novità si affacciano all'orizzonte e la moda passa di moda. La novità mantiene la sua freschezza e la sua giovinezza non allontanandosi da ciò che la precede ma avvicinandosi alla fonte. Non è eccentrica: è originale. Questo vuol dire che non si allontana dal centro, che non cerca di trovare un posto soltanto in relazione a ciò che l'ha preceduta (che sia per prenderne le distanze oppure per avvicinarsene). La novità si volta verso l'origine.
Parlare in maniera davvero nuova, come ha fatto Dante per esempio, non vuol dire rompere ma mettersi in comunicazione con l'origine della parola, e questa origine risiede in un duplice silenzio: il silenzio della morte e il silenzio dell'Eterno. Tutti coloro che hanno parlato con una forza nuova, tutti coloro che hanno cantato un canto nuovo, sono stati capaci di mettersi tra l'angoscia davanti al silenzio della morte e la speranza davanti al silenzio dell'Eterno: hanno attraversato l'inferno e sono stati abbagliati dal paradiso. Resta il fatto che la modernità della lingua è secondaria a confronto con la sua tradizione. Occorre innanzitutto imparare le regole prima di poter giocare. Colui che attacca i propri genitori può farlo solo se li ha prima ascoltati e se è a loro che ancora si rivolge.
Eppure anche la tradizione della lingua è in funzione della sua modernità: l'apprendimento delle regole non è fine a se stesso, ma in funzione di una nuova partita da giocare. Noi non veniamo al mondo per ripetere ciò che ci hanno detto i nostri genitori, né tanto meno per insultarli, ma per dialogare con loro, per rispondere, per arricchire con la nostra melodia la grande corale della vita.
Questa struttura della parola, allo stesso tempo moderna e tradizionale, permette di comprendere la tesi di Romano Guardini in La fine dell'epoca moderna. Secondo Guardini la modernità ha essenzialmente ripreso alcune realtà colte dal cristianesimo per rivoltarle contro il cristianesimo stesso. Sulla base della rivelazione della dignità della persona si costruisce l'individualismo. Sulla base della verità del libero arbitrio si costruisce il liberalismo. Sulla base dell'esigenza della giustizia sociale si costruisce il socialismo, e via discorrendo.
La modernità riconosce un tal fiore evangelico, lo raccoglie e lo mette in un vaso. Il fiore viene addirittura valorizzato, tanto da sembrare persino più meraviglioso. L'isolamento gli dona una luminosità speciale, un profumo estasiante, tanto da far pensare che il fiore non abbia più niente a che vedere con le sue radici. La verità è invece che lo si condanna a marcire.
L'oblio può funzionare solo per un certo periodo di tempo, abbastanza perché il progressismo arrivi a mascherare di essere soltanto un sostituto della speranza teologale.
Ma cosa vediamo oggi? Ve l'ho detto: il crollo dei progressismi e, al contrario, la moda di un catastrofismo generalizzato, e quindi la crisi radicale della modernità. Sarebbe dovuta arrivare prima o poi, poiché tutte queste nozioni recise dalle loro radici e dal loro sole non possono fare altro che perdere a poco a poco la linfa vitale. Paradossalmente oggi la modernità può essere salvata solo facendo ricorso alla tradizione, e più specificamente alla tradizione ebraica e cristiana.
Le speranze mondane sono morte. È impossibile partire da queste e riuscire ancora a credere in una via d'uscita per l'umano. Ma la speranza teologale non può morire. Non dipende dall'avvenire: dipende dall'eterno. Ricordo sempre questo: quando mi avvertiranno che alla fine del mondo non manca che un solo anno, non rinuncerò ad amare mia moglie, ad avere con lei un altro bambino, a fare scoprire agli altri miei cinque figli la poesia di Dante... Perché so che questa vita non serve per avere un futuro ma perché ciascuno abbia la vita eterna.
Il modernismo, ossia la modernità che pretende di basarsi su se stessa, può quindi solo distruggere la modernità. È sempre spazzata via dal post-umano. Perché non si può giocare senza aver prima imparato le regole. In un attimo la protesta si spegne e lascia il posto al programma in codice o al verso dell'animale, perché siamo usciti dalla tradizione e dalla tradizione della parola. Da questo momento la modernità deve rivoltarsi contro il modernismo e la modernizzazione sistematica se vuole rimanere viva e umana. Deve ritrovare la sua tradizione, quella tradizione che riecheggia nel comandamento della Bibbia: "Cantate al Signore un canto nuovo".
La tradizione non è così contrapposta alla modernità quanto si potrebbe immaginare, poiché la tradizione non è né conservatorismo né fascinazione del passato storico.
Ciò che ha orientato verso la distruzione di ogni tradizione è stata proprio la conoscenza storica fine a se stessa: moltiplica le informazioni sul passato, ma solo per metterle in vetrina. Niente è più lontano dalla tradizione di un museo folkloristico. La verità è che la tradizione non consiste in una semplice trasmissione del sapere: è la trasmissione di un saper vivere.
Io posso conoscere con grande precisione tutto ciò che ha fatto Gesù e posso persino sapere la Bibbia a memoria; posso addirittura essere il curatore di un grande museo del cristianesimo. Ma questo rapporto col museo non è un rapporto con la tradizione: la cultura non ha a che fare con il culto. L'erudito conosce la tradizione alla perfezione, ma non vive nella tradizione.
L'anziana che prega Gesù vive nella tradizione, anche se conosce della tradizione quanto ne sa l'erudito. Nella tentazione di Gesù nel deserto, Satana cita a memoria il Deuteronomio, dimostrando di essere un esperto di esegesi storico-critica: vive nell'erudizione per evitare di entrare nella tradizione viva. D'altra parte la tradizione non è un conservatorismo. Un buon esempio ci è dato dal motu proprio di Giovanni Paolo II, Ecclesia Dei afflicta. Questo testo prende atto dello scisma provocato da monsignor Marcel Lefebvre e da quelli che chiamiamo "integralisti" o "tradizionalisti".
Qual è il principio di questo scisma? Non l'amore per la tradizione, dice Giovanni Paolo II, ma l'amore per il conservatorismo, ossia per una forma di conservazione che vuole mantenere tutto assolutamente intatto, e che dunque pietrifica invece di conservare in vita. Lo sapete bene: se volete conservare tutto di un essere vivente, non potete mantenerlo in vita e siete costretti a congelarlo. "La radice di questo atto scismatico è individuabile in una incompleta e contraddittoria nozione di tradizione. Incompleta, perché non tiene sufficientemente conto del carattere vivo della tradizione che - come ha insegnato chiaramente il concilio Vaticano II - progredisce nella Chiesa sotto l'assistenza dello Spirito Santo". Il tradizionalismo si contrappone alla tradizione perché uccide l'organismo vivente per divenire un adepto del fossile. La vera tradizione non consiste nel conservare tutto di ciò che si faceva ieri, ma nel trasmetterne l'essenziale. E per poterlo trasmettere occorre saper riconoscere i segni del tempo e quindi adattarsi a certe nuove condizioni di trasmissione. Josef Pieper scrive con forza: "Una coscienza autentica della tradizione ci rende liberi e indipendenti di fronte a coloro che pretendono di esserne i "guardiani". Può accadere che questi famosi "difensori della tradizione", proprio per il fatto che si limitano a forme storiche, ostacolino quella che invece è la vera e necessaria trasmissione (che non può avvenire se non con forme storiche mutevoli)".
La vera tradizione è una relazione viva col mistero, nella misura in cui questa relazione è ricevuta e trasmessa, come la parola e la vita, attraverso la parola e la vita, sin dall'origine. La tradizione è dunque più ancora che critica, perché è confronto con ciò che sfugge alla critica, con ciò che ci supera, con ciò che ci pone più interrogativi di quanti non ne poniamo noi, con ciò che ci chiama più di quanto noi sappiamo rispondere.
Anche in questo la tradizione è più moderna della modernità: è sempre avanti, nella misura in cui si basa sulla speranza; non si regge sul futuro prossimo, ma sull'eterno, e dunque su ciò che risorge persino dopo la fine dei tempi. In questo la tradizione è ancora più giovane della modernità, perché la tradizione presuppone che i padri siano anche e prima di tutto dei figli e quindi dei bambini: non hanno avuto l'iniziativa della parola, non hanno inventato la vita, l'hanno soprattutto ricevuta.
Il complesso di Edipo esiste solo fuori dalla tradizione. La rivolta dei Titani esiste solo fuori dalla tradizione. In seno alla tradizione il figlio non ha alcuna ragione di uccidere il padre perché scopre che suo padre è anche un figlio, che ogni originalità pura, ogni vero genio, è sempre filiale. Perché essere figlio dell'Eterno è infinitamente più grande che essere padre per un breve momento.
Lo scrive anche Josef Pieper a proposito della speranza: "La gioventù dell'uomo che aspira all'eterno è per sua natura indistruttibile. Non è esposta né all'invecchiamento né alla delusione".
I Piccoli fratelli di Gesù di Charles de Foucauld – Contemplativi ma sulla strada - Da un convegno organizzato a Roma dall'istituto internazionale Jacques Maritain e dal Pontificio Ateneo Sant'Anselmo su "Filosofia e contemplazione in Raïssa e Jacques Maritain", pubblichiamo ampi stralci dell'intervento di un piccolo fratello di Gesù su "La "contemplazione nelle strade"" di LORENZO CHAVELET, (©L'Osservatore Romano - 4 marzo 2011)
Per dire chi sono i figli di Charles de Foucauld utilizzo le parole con le quali la Chiesa riconosce la loro "vocazione sull'esempio di Gesù a Nazaret, umile e nascosto, in una vita contemplativa propria, l'adorazione di Cristo nell'Eucaristia, la povertà evangelica, il lavoro manuale e la partecipazione effettiva alla condizione sociale di coloro che non hanno un nome e non contano niente."
Senza sviluppare il lungo percorso delle relazioni tra i Maritain e i primi piccoli fratelli di Gesù, voglio soltanto ricordare che dopo la morte di Raïssa, Jacques è venuto a vivere a Tolosa laddove i fratelli studiavano la teologia nello studium dei domenicani. È in quel periodo che ha fatto l'edizione degli scritti di sua moglie. Per le Notes sur le Pater che sarebbero state la prima parte del libro Contemplation sur les chemins, desiderato ma incompiuto da Raïssa, Jacques Maritain ha scritto una dedica: "Ai piccoli fratelli di Gesù" che suggerisce quali erano i legami che univano lui e Raïssa con la Fraternità.
L'espressione scelta da Raïssa "contemplazione sulle strade" pone una questione. Come si può legare la contemplazione con un certo tipo di vita che non è quello abitualmente riconosciuto come tipico della vita contemplativa che richiede, nella tradizione cristiana, clausura, silenzio e spesso salmodia? In che cosa quest'espressione può essere dedicata alla Fraternità dei piccoli fratelli di Gesù?
La risposta va cercata nel tipo di vita proposto dalla Fraternità. I fratelli iniziarono il loro cammino da discepoli di Charles de Foucauld con una vita marcatamente monastica, ma in ricerca, per cogliere l'originalità dell'intuizione di Fratel Carlo. Dopo la seconda guerra mondiale, trovarono la loro via che i primi scritti di René Voillaume (Au coeur des masses, in italiano Come loro) espressero chiaramente. Questi scritti rimangono per noi l'espressione fondatrice del nostro carisma. Spesso, semplificando, parliamo di carisma di Nazaret.
A fine ottobre 1950 - i Maritain e i primi fratelli si conoscono già da anni - Raïssa e Jacques leggono, prima che siano stampati, alcune pagine di questi scritti. Jacques annota nei suoi Carnets: "Molto commosso. Questi piccoli fratelli sono quello che aspettavamo da tanto tempo".
Nel primo capitolo di questo libro René Voillaume s'interroga: "Fintanto che la società sarà suddivisa in categorie sociali, non è forse necessario che alcuni religiosi e alcuni preti scelgano liberamente di appartenere realmente alla classe più povera?". E continua: "D'altra parte l'appartenenza alla classe dei poveri presenta meno rischi spirituali, pur essendo più conforme allo spirito del Vangelo e allo stato religioso. I discepoli di Fratel Carlo di Gesù hanno scelto di appartenere alla classe dei poveri di tutto il mondo. L'appartenenza al mondo dei poveri importa per la Fraternità [degli] obblighi" - vivere del proprio lavoro, scelta del quartiere, dell'abitazione, del modo di vestirsi. E in un altro capitolo: "Questa appartenenza si esprimerà con un desiderio senza riserve di completa comunanza di destino e di sofferenza". Ogni persona e ogni società sono un tessuto di appartenenze multiple che non sempre convivono senza conflitti. Ce ne sono alcune che prevalgono e dominano. L'appartenenza al mondo dei poveri è determinante nella vita dei fratelli non solo in quanto individui, ma in quanto gruppo sociale. Non si tratta solo del voto di povertà che ogni religioso vive, ma di una situazione sociale che marca il singolo fratello e i fratelli come gruppo umano. Un uomo semplice del popolo non ha alcun possesso né alcun titolo che lo possono rendere distinto e onorevole.
Appartenere alla classe dei poveri ha delle conseguenze che incidono in vari modi sulla vita. Sappiamo che le cose che abbiamo, possediamo o utilizziamo - che siano materiali o no - non solo ci permettono di agire ma anche esprimono qualche cosa di noi, per noi stessi e per gli altri. Sono segni che uniscono a un gruppo sociale e distinguono da altri.
Appartenere al mondo dei poveri significa anche vivere secondo un ritmo di vita non scelto personalmente. Colui che lavora per un altro non è neanche padrone del proprio lavoro. Colui che non è proprietario del suo campo, del suo laboratorio del suo capannone, non è gestore del suo tempo. Una larga parte della sua giornata è dominata dalle esigenze di qualcun altro.
Appartenere a un mondo significa essere pertinente a quel mondo, apre il cuore e lo spirito per conoscerlo e partecipare alla sua storia. Se questo mondo è il mondo di "coloro che non hanno un nome e non contano niente", la partecipazione non potrà essere che fraterna.
Queste poche caratteristiche dell'appartenenza al mondo dei poveri indicano di che cosa è fatta la nostra strada. Il tipo di terreno sul quale si cammina è importante. Spesso determinante. Ma non ha valore in se stesso.
Scegliere una tale appartenenza come "luogo di vita", in nome di Gesù e del suo Vangelo, non viene da una riflessione fatta a tavolino con lo scopo d'innovare a ogni costo o di seguire le esigenze missionarie-pastorali del momento. La scelta di quest'appartenenza è il frutto di un amore radicato nel Vangelo. Nell'incontro con Gesù nei Vangeli, Charles de Foucauld prima, e i suoi piccoli fratelli dopo, trovano lo spirito che li porta ad amare colui che è immagine del Tutt'Altro. Intuiscono e scoprono che il modo di vivere di Gesù è una scelta di Dio per dirci qualche cosa di se stesso nel nostro mondo finito. Non si tratta di una condizione sociale. L'umiltà e la povertà di Gesù sono Parola di Dio.
Siamo allora condotti ad aprirci alla presenza divina laddove Dio sceglie di incontrarci. Siamo invitati a vivere a imitazione di Gesù a Nazaret, senza distinguerci dal popolo che non possiede averi, e vive non appesantito da cose possedute, a eguaglianza con i compagni di lavoro e di vita, gratuitamente nelle relazioni di fratellanza aperte all'amicizia.
Gratuità, reciprocità, fratellanza, amicizia sono segni del Regno che siamo invitati a cercare; aprono gli occhi sul Regno che è già presente.
Così ci si avvicina al mistero della Passione. Il giogo di Gesù è leggero per gli "affaticati e oppressi" perché il Figlio, umile e povero, vuole farli entrare nella relazione che lui stesso vive con il Padre suo. L'unione di Gesù con il Padre è vissuta in mezzo a coloro che soffrono. Gesù lo dice rallegrandosi e benedicendo il Padre suo perché le cose del Regno sono rivelate ai piccoli e non ai sapienti e agli intelligenti: "Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare". Alla luce di queste parole del Signore, René Page - priore quando la Chiesa ha approvato lo "stato di vita contemplativa in mezzo al mondo" dei piccoli fratelli di Gesù - scrive: "Quando si ama la Chiesa, quando si sa quali tesori di saggezza, di amore e di fecondità essa riconosce alla contemplazione, non si può non essere commossi vedendola oggi nascondere nuovamente molto in profondità tutte queste promesse di vita contemplativa nel cuore del mondo e della povertà del mondo".
Per concludere, ricordandoci della bella e interrogante espressione di Raïssa - "Contemplazione sulle strade" - dobbiamo dire che ci sono delle strade che non si può volontariamente scegliere. Raïssa Maritain ha avuto una vita colpita dalla malattia, povertà imposta, ma non da tutti accolta come una strada di vita e di unione con il Signore. Per quanto riguarda Jacques, dopo anni di vita a Tolosa, chiede di diventare piccolo fratello di Gesù, e scrive (luglio 1970): "Mi sento libero di seguire il mio desiderio di condividere a fondo la vostra vita, convinto che [i piccoli fratelli di Gesù] apportano al nostro tempo ciò di cui ha il più grande bisogno".
Noi piccoli fratelli di Gesù cerchiamo - non senza fatica ne fallimenti - di essere fedeli allo spirito di Nazaret. Su questa strada, non siamo condotti a fuggire dal mondo, ma a non entrare nel mondo dei potenti. Questo ci aiuta a vivere nel mondo con la sua storia travagliata, perché Dio lo ama malgrado le ferite che lo sfigurano. Con il suo Figlio ci apre il cuore e gli occhi affinché sappiamo rallegrarci della vedova che dà pochi spiccioli, dei poveri in spirito, e di tutti coloro che Gesù dichiara beati. Da lui siamo invitati a cercare il regno del suo Padre già presente tra di noi. Siamo chiamati a "esistere con il popolo" di tanti uomini e donne che, tutti i giorni, offrono la loro vita e il loro sangue. E a fare questo in memoria sua. Non si può tacere che, secondo Giovanni, coloro che ascoltano Gesù erano disprezzati dai farisei che ne parlavano come della "gentaglia che non conosce la legge [ed] è maledetta" (Giovanni, 7,49). Già all'inizio del suo Vangelo aveva riportato la battuta sprezzante di Natanaèle su Nazaret. Poi, allorché Giovanni non ha mai dato a Gesù il nome di Nazoreo, glielo dà solamente nell'ultimo giorno della passione, all'inizio e alla fine di quest'ultimo giorno, giorno della glorificazione del Figlio. È in quell'ora che Giovanni evoca Nazaret. Alla ripetizione dello stesso appellativo "Gesù Nazoreo" il Signore risponde offrendo se stesso per la salvaguardia dei suoi compagni. Poi, alla fine del giorno Giovanni racconta dell'iscrizione sopra il condannato: "Gesù Nazoreo re dei Giudei". Solo lui ricorda il nome Nazoreo. I grandi sacerdoti contestano il fondamento di questa iscrizione dicendo che "questo qua" non si merita un tale titolo. Infatti, non può pretendere di essere Re dei Giudei questo Nazoreo disprezzato da loro. Il disprezzo oscura i loro occhi e la loro intelligenza. Li porta all'errore, alla non comprensione. In francese potremo dire: le mépris porte à la méprise.
È possibile conoscere quello che si disprezza? Eppure Dio si offre a noi così in Gesù, disprezzato dai potenti. Chi è questo Dio che non teme di rivelarsi in questo modo? Chi è questo Dio se non Colui che tanti poveri conoscono e verso il quale lanciano un grido. Grido che non conosce frontiere di nessun tipo e dice qualche cosa del Regno, dove siamo chiamati a vivere.
Il filosofo Fabrice Hadjadj, la sua conversione e la contraddizione degli atei - 3 marzo, 2011, da http://www.uccronline.it
L’importante seppur giovane filosofo francese, convertitosi al cattolicesimo nel 1998, Fabrice Hadjadj, interverrà questa sera all’Università Cattolica, su iniziativa del Centro culturale di Milano (Aula Magna, ore 21), su “Modernità e modernismo. A proposito del senso religioso”. Parteciperà anche al dialogo con i “non credenti” previsto per il 24 e 25 marzo 2011 all’Unesco, al Collège des Bernardins e all’Università Sorbona di Parigi. Il quotidiano Avvenire lo ha intervistato: «Prima della mia conversione non sopportavo che si pronunciasse la parola “Dio”: la consideravo come un jolly buttato sul tavolo, a tradimento, durante una partita di carte. Mi suonava come un modo per evitare i problemi e misconoscere la tragedia della vita. Egli non abolisce il dramma dell’esistenza ma lo compie. Distrugge ogni nostro idolo e ci riporta al dramma dell’”amore forte come la morte”? È necessario che i credenti riconoscano tale dramma e vivano il secondo comandamento, il quale ci domanda di non pronunciare invano il nome di Dio. I non credenti potranno intenderlo meglio».
Parla per esperienza personale Hadjadj: «La mia fu anche una conversione “linguistica”. Ho scoperto che il significante “Dio” corrispondeva alla verità del “Sì” di Friedrich Nietzsche e dell’”Aperto” di Rainer M. Rilke. E che non era un atteggiamento poetico o un concetto filosofico, ma la realtà di una Persona che mi aveva preceduto nel fondo dell’oscurità. “Dio” non significava più una soluzione ma un’avventura. Non una risposta ma un appello. Quando troveremo il modo migliore per parlare di Dio, non è sicuro che l’altro, ascoltandoci, si converta. Se parliamo di Dio imitando la forza di Gesù, alcuni si convertono, altri finiscono per crocifiggerci. È il segno che abbiamo parlato bene».
Il filosofo continua sottolineando su quali argomenti è possibile un incontro con i “non credenti in Dio” e sul concetto corretto di fare apologetica (cioè «non separando l’amore dalla verità»). Conclude sostenendo il pensiero di diversi intellettuali, cioè che in fondo l’ateismo vero non esiste: «Va rimproverato agli atei di non essere ciò che loro pretendono di essere. Un ateo è qualcuno “senza dio”, uno che deve disfarsi di tutti gli idoli, sforzandosi di non rendere il proprio ateismo un idolo. Sarebbe triste liberarsi della religione di Cristo per fabbricarsene una dell’ateismo. È quanto capita nella maggior parte dei casi. Essere veramente atei rappresenta qualcosa di veramente difficile. Quando si abbandona il Dio trascendente, ci si confeziona altri idoli: ragione, razza, rivoluzione, mercato…».
Rifacendosi anche alla sua esperienza prima della conversione, conclude: «Tutti abbiamo bisogno di un principio per polarizzare le nostre vite. Ho cercato di essere il più possibile ateo. Alla fine, sbarazzatomi di ogni idolo, mi è rimasta la disponibilità di accogliere quanto non veniva da me, ciò che per alcuni è la trascendenza e che il catechismo chiama Rivelazione. Tale disponibilità consiste in un’apertura all’incontro. Eraclito la definiva “l’attesa dell’inatteso”, un’apertura che si offre in un avvenimento che ci giunge attraverso una moltitudine di testimoni: la “tradizione apostolica”. Una serie di incontri partiti da Gesù e giunti fino a me».
"Voglio solo un posto ai piedi di Gesù". Ecco il suo testamento. di Shahbaz Bhatti, 04-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Quella che segue è una testimonianza di Shahbaz Bhatti, il ministro pachistano per le Minoranze religiose ucciso il 2 marzo da un commando di fondamentalisti islamici che lo hanno "punito" perché cercava di modificare la Legge sulla blasfemia che in 25 anni di applicazione è costata la vita a centinaia di cristiani. Il testo è tratto da "Cristiani in Pakistan. Nelle prove la speranza", Marcianum Press 2008.
"Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.
Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.
Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: «No, io voglio servire Gesù da uomo comune».
Questa devozione mi rende felice. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora — in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan — Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita.
Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Io dico che, finché avrò vita, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri.
Credo che i cristiani del mondo che hanno teso la mano ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005 abbiano costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno nel nome della religione, ma si ameranno le une le altre, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione.
Voglio dirvi che trovo molta ispirazione nella Sacra Bibbia e nella vita di Gesù Cristo. Più leggo il Nuovo e il Vecchio Testamento, i versetti della Bibbia e la parola del Signore e più si rinsaldano la mia forza e la mia determinazione. Quando rifletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato tutto, che Dio ha mandato il Suo stesso Figlio per la nostra redenzione e la nostra salvezza, mi chiedo come possa io seguire il cammino del Calvario. Nostro Signore ha detto: «Vieni con me, prendi la tua croce e seguimi».
I passi che più amo della Bibbia recitano: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro.
Per cui cerco sempre d’essere d’aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati.
Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani qualunque sia la loro religione vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù ed io potrò guardarLo senza provare vergogna".
Il "mostro di Filadelfia" rischia la pena di morte di Marco Respinti, 04-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Ora - riporta The Washington Times - Kermit Gosnell [nella foto] rischia la pena di morte. L’uomo - pare infatti che chiamarlo medico sia proprio da temerari -, 70enne, è stato incriminato a fine gennaio a Filadelfia assieme alla moglie Pearl (49 anni) e a nove collaboratori per avere provocato la morte di una donna e di sette bambini. Sul suo capo pesa dunque l'imputazione di omicidio e di infanticidio multiplo, reati che in Pennsylvania vengono puniti mediante iniezione letale.
Gosnell è noto per la sua specializzazione in aborti tardivi, che pratica disinvoltamente da circa 30 anni. Titolare della Gosnell West Philadelphia Women’s Medical Society, la “clinica degli orrori” ora chiusa dalle autorità, l’uomo viene accusato adesso di avere procurato la morte, alla fine del novembre 2009, di Karnamaya Mongar - 41enne di Woodbridge, in Virginia, immigrata dal Buthan -, che a lui si era rivolta per ottenere un aborto tardivo dopo che due cliniche, una in Virginia e l’altra nella città di Washignton, ne avevano respinto la richiesta. La donna sarebbe quindi deceduta a causa di una overdose di anestetici somministratale da Gosnell, denunciato poi da un membro della sua équipe.
Poi però ci sono i sette bimbi. Di età compresa fra le 24 e le somministraate32 settimane di gestazione: cioè ancora in quei grembi delle loro madri da cui sono stati estratti vivi, appositamente vivi - questa l’accusa - durante operazioni d’interruzione di gravidanza (nello Stato della Pennsylvania l’aborto è illegale dopo la 24 settimana e comunque la maggior parte delle cliniche si rifiuta di praticarlo dopo la 12sima settimana di vita del feto) per poi essere finiti a colpi di forbici. In questo modo Gosnell avrebbe infatti rescisso loro la colonna vertebrale. Del resto l’irruzione dell’Fbi nella clinica che ha portato all’incriminazione da parte del Gran Giurì ha messo gli agenti di fronte a scene da vero incubo (fotograficamente documentate nelle quasi 300 pagine della memoria d'accusa). Fra apparecchiature obsolete e disordine ovunque, sparsi per tutti i locali sono stati trovati recipienti ricolmi dei piedi amputati dei bimbi uccisi, contenitori di varia natura - da brocche per il latte a vasi per il cibo dei gatti - e sacchetti con stoccati feti abortiti. Dappertutto, mobili e pavimenti erano macchiati di sangue e di urina rendendo l’aria irrespirabile. Del resto, parecchio del personale fermato in quello che il rapporto del Gran Giurì definisce un «ossario per bambini» era privo di licenza professionale.
Davanti a tanta crudeltà, l’arcidiocesi cattolica di Filadelfia ha definito quelle «ripetute azioni […] ripugnanti e intrinsecamente malvage nel loro disprezzo per la vita del nascituro e il benessere delle donne». Peraltro, secondo il procuratore distrettuale R. Seth Williams è possibile tra il 1979 e il 2010 centinaia di altri bimbi siano morti nella clinica in modi forse analoghi.
L’avvocato di Gosnell, Jack McMahon, pare peraltro non preoccuparsi granché. Dice che seppure il suo cliente venisse condannato alla pena capitale, ora che questa venisse portata a termine egli, data l’età, sarebbe già bell’e morto…
Quando divento grande, voglio... di Lorenzo Albacete, venerdì 4 marzo 2011, il sussidiario.net
La scorsa settimana sono rimasto ancora una volta “fuori circolazione”, perché ho dovuto accompagnare un mio stretto parente all’ospedale per delle cure. In ogni stanza c’era un televisore, così come in tutte le sale di attesa, sintonizzato per lo più su canali di notizie tipo Cnn, per cui non mi sono trovato del tutto isolato da quanto stava succedendo nel Paese e nel mondo, oltre le mura dell’ospedale. Tuttavia, ciò che stava accadendo tra le mura dell’ospedale rivelava della realtà molto più che non il confronto tra ideologie che stava avvenendo fuori.
Per esempio, al Pronto Soccorso, nel Reparto di Cura Intensiva, come negli altri reparti dell’ospedale, mi si sono riproposti gli argomenti di Susan Jacoby nel suo nuovo libro “Never Say Die” (Mai dire morire), recensito questa domenica da Ted C. Fishman in The New York Times. Secondo Fishman, in questo libro l’autrice “combatte per abbattere quelle combinazioni di ignoranza e avidità che lei pensa nascondano una sola, del tutto irrefutabile, verità: la vecchiaia più avanzata può essere brutta, abbrutente e lunga”.
C’è un telecomunicato pubblicitario in cui delle persone attorno ai sessant’anni descrivono i loro piani per il futuro e dicono, come dei bambini, “Quando divento grande, voglio…”, per poi parlare dei loro programmi di carriera come se fossero degli adolescenti. L’assunto è chiaro: gli anziani non devono essere portati a pensare di dover smettere di intraprendere nuove iniziative, studi, progetti, ecc., né a considerare le loro vite praticamente finite.
L’annuncio è sponsorizzato da un’organizzazione che si occupa di lobbying a favore degli anziani. Una di queste organizzazioni, alla quale io stesso appartengo, è stata definita come la più potente forza economica oggi in America, dato che i politici e i legislatori hanno paura di perdere i voti di una popolazione che sta rapidamente invecchiando. Secondo Fishman, “Jacoby vede il sorgere di una nuova discriminazione nei confronti degli anziani, che non si limita a stigmatizzare l’età, ma colpevolizza gli anziani per malanni fisici che nessun cambiamento di stile di vita o trattamento medico possono prevenire. In particolare, la sua opinione è che i nostri sogni di una vecchiaia attiva e vitale impediscano una chiara visione di cosa è l’età ‘vecchia-vecchia’, lo stadio estremamente vulnerabile che inizia attorno agli 85 anni”.
Io dovrei saperlo. Ho visto mia madre sparire lentamente sotto le devastazioni dell’Alzheimer, mentre amici e conoscenti andavano in crociera per il mondo. In aggiunta all’Alzheimer e ad altre forme di demenza, vi sono i dolori invalidanti, la perdita di autonomia, l’isolamento sociale, la povertà e altre condizioni di questo tipo che difficilmente possono essere superate dall’ingegnosità medica, da dosi di filosofia del tipo “lo posso fare”, o da innovazioni tecnologiche. La generazione dei “baby boomers” può credere di poter reinventare la vita dopo i sessant’anni, così come hanno reinventato l’adolescenza e la gioventù… o pensano di aver fatto, allungando di molto il periodo precedente la ricerca di un lavoro che potesse mantenerli insieme a una famiglia. Adesso sembra arrivato il momento di ridisegnare anche l’invecchiamento, allungando i tempi dopo i 60 e, magari, dopo i 90 anni.
Questa idea di poter ridisegnare la nostra vita non è del tutto nuova in America. Jacoby la considera una componente del pensiero americano e offre come prova vari esempi storici. Non voglio però discutere la particolare forma americana delle ideologie sull’invecchiamento. Il punto è che stiamo assistendo alla nascita di un nuovo mondo culturale: quello dei “vecchi giovani” distinto da quello dei “vecchi vecchi”.
Questa nuova categoria culturale è basata su una bugia, come fa notare Jacoby: “A 85 o 90 anni, qualunque soddisfazione si possa ipotizzare per il futuro, solo un pazzo o uno che ha avuto una vita estremamente infelice può immaginare che gli anni migliori debbano ancora arrivare”. Come mai tanti cadono in questa illusione? Perché, considerando la realtà angosciante, scelgono l’illusione (in termini giovannei: amano le tenebre più che la luce). Considerano la realtà spaventosa e insopportabile perché non riescono a vedere la bellezza della realtà radicata nel Mistero di essere. Ma anche questa strada può portare o alla tristezza o alla speranza e alla supplica che il Mistero riveli il suo Volto.
La Jacoby si definisce atea ed è quindi disposta a considerare il suicidio come una possibile soluzione a questo inarrestabile processo di decadimento fisico e intellettuale. Lo posso capire, ma, avendo avuto la Grazia dell’incontro con Cristo, il suicidio e ogni altra forma di disperazione sono per me irrealistici come una crociera ai Caraibi.
Ho scritto all’inizio che questa settimana in ospedale, circondato da pazienti anziani incapaci di vivere secondo i canoni della cultura “vecchia giovane”, ha influenzato il mio modo di vedere ciò che stava succedendo al di fuori dell’ospedale. Dovunque si parlava di rivoluzione dei giovani, di come la generazione di Facebook e Twitter avrebbe riunito tutti gli amanti della libertà e della pace nel mondo. Anche in questo caso, credo, si è di fronte a una fuga dalla realtà, non tra i giovani idealisti, ma tra gli osservatori e gli esperti adulti che non sanno educare questi giovani a dar corpo al loro idealismo in un modo realistico, aperto al Mistero cui la realtà tende.
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IL CASO/ Quella paura di sbagliare che ha ammazzato Daniel di Monica Mondo, giovedì 3 marzo 2011, il sussidiario.net
Daniel aveva paura. Daniel aveva vent’anni, e un viso da bambino, dei nostri figli, dei nostri fratellini. Faceva il muratore, Daniel. Dunque doveva fare l’uomo. E forse anche correre in macchina la sera gli sembrava da uomini, da duri, come quelli che si vedono a cinema. Un po’ di trasgressione, quando stai otto ore in cantiere, l’amico che magari ti dice vai, spingi su quell’acceleratore. Poi uno schianto e in un attimo lungo come la vita capisce che ha torto, vede il compagno a lato coperto di sangue, crede di averlo ucciso, vede suo padre costernato, il carcere, chissà.
Daniel scappa. Attacco di panico? Non credo. Hanno un tempo, gli attacchi di panico, poi ti calmi, ragioni, soprattutto se non ti capita spesso. Daniel invece ha paura, una paura che gli mette le ali, che lo trasforma in una preda, in fuga da cani rabbiosi. Corre, suda, si toglie il giubbotto, quella terra non è più la sua terra, è buio, sente che lo chiamano, ecco, sono qui, mi prendono. Che gli dico a mio padre, a quella ragazza che forse mi diceva di sì. Lei no, lei l’avviso. Un sms, così. Per dirle addio. Perché è finita. Ora è finita, i nemici si avvicinano.
E invece è suo padre, sono gli amici che lanciano appelli, che pregano le forze dell’ordine di essere caute, attente, riempiono i boschi di manifesti, per tranquillizzarlo, per dirgli: dai, non è successo niente, ti aspettiamo. Perché sì, la macchina è un rottame, ma noi abbiamo ringraziato Dio che sei vivo, anche il tuo amico ha solo dei graffi, qualche livido, insomma, di quelli che ti ricordano la prossima volta che non devi più fare sciocchezze. Forse è andata così. E Daniel si è raggomitolato, ha aspettato che il freddo portasse la nebbia e il nulla nei suoi pensieri, solo. Come doveva aver sempre vissuto.
Eppure credo che Daniel non volesse uccidersi, non volesse morire: spero che al contrario abbia pensato di passare la notte, e poi, il mattino, avrebbe trovato la strada, avrebbe chiesto, parlato, spiegato. Il mattino, perché in quella notte nera proprio non aveva più forze. C’era la voce amica dell’acqua di quel torrente, e lui era tanto stanco, aveva sonno, solo un attimo per riposarsi, domani, poi. Come Renzo Tramaglino quando cerca il confine della salvezza, spera San Marco, e passa la notte tra i fantasmi, aspetta l’alba che rischiari il cammino.
Daniel se n’è andato così, e so che questo, nello strazio del cuore, è conforto per i suoi genitori. Non voleva morire. Penso a quel che avranno provato, in questi giorni affannati e d’angoscia. Perché ha paura di noi? Vedi, è colpa tua, gli urli sempre dietro. No invece, sei tu che gli metti l’ansia, è troppo immaturo, l’hai tenuto nella bambagia… In fondo, che sappiamo di Daniel? Che sappiamo dei nostri figli? Ci siamo preoccupati che trovasse un lavoro, siamo gente semplice, ce n’era bisogno, e poi è pieno di sbandati, con un lavoro si cresce, si diventa grandi. Abbiamo pensato alle cattive amicizie, alla droga, si sa, i ragazzi di oggi.
Non sapevamo quanto avesse paura. Quanto fosse solo. Non sapevamo che non aveva preso la tempra solida di noi di campagna, e se ne vergognava, si sentiva in colpa per darci dei fastidi. Si struggeva per quel sangue sul sedile accanto a lui, così timido, così docile, che voleva solo divertirsi, una sera. Che sappiamo dei nostri figli. Quando li salutiamo la mattina, e dovremmo pregare ogni attimo di vederli tornare. Quando esigiamo da loro che siano almeno un po’ come noi. Quando pensiamo che hanno tutto, in fondo, un po’di soldi, la salute, qualche amico. E gli manca un senso per vivere.
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Avvenire.it, 4 marzo 2011 - In morte di un sacerdote che tutti amavano - La bontà del prete inesausta fame d'infinito di Maurizio Patriciello
La Chiesa di Napoli piange la scomparsa di don Emanuele Amati, l’anziano prete ucciso martedì dall’incendio della canonica annessa alla chiesa di San Rocco a Capodimonte. La tragedia ha sconvolto l’intero quartiere. Gli volevano bene tutti. Lo avevo conosciuto anni fa, quando – giovane paramedico non cattolico – frequentavo i frati francescani rinnovati, che vivevano a ridosso della sua parrocchia in vecchi vagoni ferroviari arrugginiti, gelidi di inverno e roventi d’estate. Mi colpì allora quel prete che piangeva la sua mamma, deceduta da poco, come un adolescente. Aveva rifiutato, da anziano, di abitare nella confortevole struttura per il clero che il cardinale Sepe aveva inaugurato, preferendo la solitudine della vecchia canonica.
Il prete. Se ne parla molto, e non sempre a proposito. È rimasto vittima, nel bene e nel male, di pigri stereotipi che tardano a morire. Il prete è un uomo, che resta tale anche dopo l’ordinazione sacerdotale. Un uomo al quale il mondo non bastava per i suoi desideri e, confusamente, avvertiva il fascino di doversi inoltrare per una strada impervia e sconosciuta. Non è vero che era tanto buono e altruista da non desiderare niente. Al contrario: era un ingordo che voleva tutto. «Se Dio c’è – pensava – voglio che mi diventi amico». E Dio un giorno tolse dal Suo volto un velo, uno solamente, e lo abbagliò. Lo sedusse. Non si comprenderà mai chi è il prete se non si parte da questa storia d’amore.
Afferrato da Dio, liberamente accetta di esserne fatto prigioniero. Ricerca e si rifugia nel silenzio della solitudine, perché è nel silenzio che Dio gli parla al cuore. E lui ha terribilmente bisogno di ascoltarlo. Non è un monaco, però, e non può rinchiudersi nella sua celletta in perenne contemplazione. Deve calcolare i tempi per correre incontro all’uomo. All’uomo senza aggettivi. A qualsiasi uomo che Dio gli manda alle porte della chiesa.
«Le porte della Chiesa!»: se fossi un poeta le vorrei cantare. A quelle porte bussano in tanti. Più di quanti gli ingenui ingenuamente credono. Mendicanti nei quali si nasconde Dio. O, forse, Dio stesso travestito da mendicante. Mendicanti di comprensione, di ascolto, di pane. Gente che prende il proprio cuore e glielo affida, chiedendo al prete di amarlo e custodirlo.
A quelle porte giungono anche i ricchi. Anche per loro il prete è prete. Non tutti riescono a capire. «La Chiesa – dicono costoro – deve stare con i poveri». Verissimo. Con tutti i poveri, senza distinzione. Cioè con tutta l’umanità che è sempre povera, anche quando nuota nel benessere. Di fronte al mistero in cui siamo immersi, all’egoismo che ci assale, alle delusioni e alle tragedie che si abbattono impietose, gli uomini sono tutti e sempre poveri.
Il prete lo sa. E sa che, mentre gli viene chiesto tanto, non gli sarà perdonato niente. Non saprei dire se è un bene o un male. Certamente è uno stimolo a stare svegli, con i calzari ai piedi e le lucerne accese. La gente, anche chi non crede, lo vuole santo, distaccato, umile. È come se gli dicesse: «Siamo peccatori. Ma tu che affermi di aver incontrato Dio faccelo vedere. Parlaci di lui, anche quando siamo stanchi di ascoltare. Insisti. Non ti fidare di ciò che appare a prima vista...». Vive nel mondo, che ama e per il quale prega, ma è come se quel mondo non gli appartenesse. La sua presenza deve richiamarne incessantemente un’Altra. Si avverte come l’asinello che la Domenica delle Palme porta in groppa il Figlio dell’Altissimo. È lui che il mondo cerca. È una sfida affascinante e ardua che accetta con timore sapendo di contare sulla fedeltà di Dio.
Don Emanuele, prete discreto e mite, è morto. Era solo, la notte dell’incendio, e questo ci rattrista. Ma la sua solitudine era carica della presenza di quel Dio che per tutta la vita ha cercato e contemplato: «Alla sera della vita ciò che conta è avere amato».
Avvenire.it, 4 marzo 2011 - Ai difensori della vita «incerti» - Questa legge s'ha da fare - Alberto Gambino
Il dibattito mediatico sulla legge relativa al fine vita si sta avvitando intorno a una contraddizione evidentissima, che proprio perché così lapalissiana scivola nell’indifferenza di molti commentatori che si stanno cimentando sul tema: la proposta di legge è avversata sia dai paladini dell’assolutezza dell’autodeterminazione, sia da chi si propone come più strenuo difensore dell’indisponibilità della vita umana. Come mai? La risposta è semplice: i primi sono soprattutto giuristi, i secondi sono soprattutto filosofi. O meglio, molti dei primi operano da decenni nel settore giudiziario (si noti che l’«appello Rodotà» è firmato anche dal presidente degli avvocati italiani), mentre non pochi dei secondi sono dei teorici, di alto spessore morale, ma del tutto avulsi dal pragmatismo del diritto applicato quotidianamente nelle aule dei tribunali italiani.
Ora, se è certamente vero che il nostro ordinamento prevede i reati di suicidio assistito e di omicidio del consenziente, è altrettanto vero che i giudici non li hanno applicati ai due casi più eclatanti di eutanasia passiva: Welby ed Englaro. Nel primo caso, proprio i giudici penali, pur astrattamente configurando quei reati, hanno ritenuto che il medico che procedette al distacco del ventilatore a Welby non era punibile in quanto eseguiva le volontà del paziente. Nel caso Englaro, l’accusa all’équipe medica è stata archiviata dalla Procura in quanto la sospensione di alimentazione e idratazione era stata autorizzata da un giudice. Due casi, insomma, di eutanasia passiva ammessi nel nostro ordinamento: la legittimità dei comportamenti individuali al dunque la decidono i giudici e non i teorici del sistema.
Non solo. Nel frattempo, il punto più debole del caso Englaro (la ricostruzione della volontà del paziente attraverso presunzioni e testimonianze) si sta quotidianamente colmando attraverso due vie, una giudiziaria, l’altra amministrativa. Quella giudiziaria vede protagonisti alcuni giudici tutelari che ritengono che l’istituto dell’amministrazione di sostegno, finalizzato a prestare assistenza alle persone non autonome, possa ben utilizzarsi per raccogliere dichiarazioni anticipate e quindi renderle esecutive allorquando l’assistito finisse in uno stato di incoscienza. La via amministrativa vede invece protagonisti alcuni Comuni italiani che hanno istituito albi relativi a biotestamenti. In entrambi i casi, sebbene si sia ampiamente segnalata la distorsione delle procedure, non si registrano allo stato prese di posizione giudiziarie che ne abbiano impedito l’attuazione.
Dunque? Dunque è purtroppo facile pronosticare che di qui a poco avremo altre sentenze che legittimeranno "testamenti biologici" e conseguenti vicende di eutanasia passiva, forti del fatto cha anche il punto debole della ricostruzione della volontà del paziente incosciente è sanato dalle dichiarazioni anticipate espresse all’amministratore di sostegno o nell’albo comunale. Ed è altrettanto facile pensare che se ciò oggi non sia ancora avvenuto è proprio perché, essendo pendente una legge a riguardo, essa abbia agito da deterrente. Ma è evidente che se si decidesse di archiviare questa legge, il sistema giuridico italiano offrirebbe nel suo complesso gli elementi ricordati per consentire alla giurisprudenza di accogliere altri casi di richieste eutanasiche. Senza neanche scomodare troppo la creatività, e con tutte le giustificazioni del caso, stante appunto l’inerzia del legislatore.
Si comprende a questo punto perché i paladini dell’autodeterminazione, in gran parte giuristi e avvocati, abbiano colto nella proposta di legge pendente alla Camera un bel passo indietro rispetto a quanto già oggi può ottenersi nella aule dei tribunali. E si capisce perché critichino la proposta di legge con tutta la forza possibile e puntino a farla arenare. Non è sufficiente questa facile constatazione per ravvedere le intelligenze di quei giusti difensori della vita umana e farli scendere dai piani alti della teoria sino al terreno scivoloso e decisivo delle aule giudiziarie?
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