Nella rassegna stampa di oggi:
1) Nel "Gesù di Nazaret" - Lo sguardo nuovo di Benedetto di ALAIN BESANÇON (©L'Osservatore Romano 23 marzo 2011)
2) La fiducia messianica nei cambiamenti di Massimo Introvigne, 23-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
3) L'Occidente alla guerra delle tribù di Massimo Introvigne, 22-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
4) Avvenire.it, 23 marzo 2011 - BIOETICA E POLITICA - Dat, una legge per evitare altri casi Eluana di Graziella Melina
5) Avvenire.it, 23 marzo 2011 - Fine vita: perché dire sì a questo ddl - Una legge ci vuole. Lo si deve ai più fragili di Alberto Gambino
6) 23/03/2011 – PAKISTAN - Due cristiani uccisi in Pakistan davanti a una chiesa da musulmani armati
Nel "Gesù di Nazaret" - Lo sguardo nuovo di Benedetto di ALAIN BESANÇON (©L'Osservatore Romano 23 marzo 2011)
Il primo sentimento che ho provato nel leggere il Gesù di Nazaret è stato di ammirazione. Ho molti motivi per ammirare questo libro, come cristiano, come cattolico e infine come professore. So abbastanza bene che cos'è un buon libro. Questo, formalmente, è eccellente, degno non solo di un cardinale e di un Papa (l'autore firma con questi due titoli) ma, e lo dico con ironia, anche di un grande professore. Un arcivescovo di Parigi, monsignor Hyacinthe-Louis de Quélen, durante la Restaurazione, verso il 1820, disse che Gesù Cristo non era solo il figlio di Dio, ma anche, da parte di sua madre, di ottima famiglia.
Un buon professore conosce la sua materia a fondo, un grande professore è capace di esporla con semplicità e chiarezza. La materia è puramente e semplicemente la fede cristiana e il Papa, che ne è il custode, non ha affatto intenzione di proporre un'interpretazione personale. Non si troverà in questo libro una "teologia d'autore". Non c'è novità. Ma c'è del nuovo. Questo Papa non smette di leggere e di studiare. Ritiene altresì necessario indicare una breve bibliografia di libri contemporanei. Si tratta principalmente di libri in lingua tedesca, perché è la sua lingua e perché i tedeschi hanno scritto molto, ma cita anche libri in altre lingue. In francese non dimentica Lubac, uno dei suoi maestri, Feuillet, Louis Bouyer.
Benedetto XVI possiede l'arte di sbrogliare le questioni complesse. Un esempio: la data dell'Ultima Cena. Il Papa sostiene che è meglio seguire la cronologia di Giovanni piuttosto che quella suggerita dai Sinottici. Ne trae una conclusione teologica molto importante: Gesù non ha celebrato proprio la pasqua ebraica, ha celebrato un'altra pasqua, la sua, che ha un senso allo stesso tempo uguale e diverso.
La spiegazione è così luminosa da far provare alla mente del lettore il piacere della dimostrazione riuscita di un teorema dalla vasta portata. Questo piacere l'ho ritrovato in tutto il libro. Voltaire ha scritto che tutti i generi sono buoni eccetto quello noioso. Questo libro è di quelli che, una volta aperti, non si possono più chiudere. È appassionante.
L'interpretazione storico-critica è stata aperta al pensiero cattolico dall'enciclica di Pio XII, Divino afflante spiritu (1943), a partire dalla quale gli esegeti cattolici hanno velocemente recuperato terreno rispetto all'esegesi protestante, fino alle ipotesi più avventurose. Il Papa ritiene che questa interpretazione, ora decantata, abbia ormai "dato ciò che di essenziale aveva da dare". Ebbene, "tale esegesi deve riconoscere che un'ermeneutica della fede, sviluppata in modo giusto, è conforme al testo e può congiungersi con un'ermeneutica storica consapevole dei propri limiti, per formare un'interezza metodologica".
Un'interezza metodologica? L'obiettivo è molto ambizioso. Si tratta in definitiva di armonizzare le esigenze della fede, che non cambia, con le evidenze della ragione, che cambiano continuamente, che sono sempre da criticare e da ricostruire ma nel loro ordine legittimo.
La sfida non è nuova. Risale ai primordi della religione cristiana. A partire da Richard Simon, da Spinoza, dall'Illuminismo, dall'erudizione tedesca, non ha fatto altro che radicalizzarsi. È urgente raccoglierla. È ciò che fa questo libro, in modo calmo, irenico e generoso. È lo stile costante di Benedetto XVI.
Gli eventi si svolgono in una settimana, dalla Domenica delle Palme alla Domenica della Risurrezione. La Settimana Santa ha per i cristiani un significato inesauribile. È meno una successione di eventi che una successione di misteri. Ma ciò non impedisce allo storico d'indagare su quello che è realmente accaduto. Il metodo di Ratzinger è di seguire passo dopo passo il testo e, nel farlo, di dissipare le interpretazioni improprie. Non ne segnalo che due.
La prima fa di Gesù Cristo un attore politico, più esattamente un rivoluzionario. Durante il XIX secolo abbiamo incontrato il Cristo sanculotto nel 1792 e il Cristo socialista nel 1848. Nel XX secolo il Cristo delle "teologie della liberazione". Si trattava di un'iniezione di marxismo leninismo nel Vangelo. Ciò ha sconvolto interi continenti e i poveri fedeli hanno preferito spesso o passare direttamente ai partiti leninisti o rifugiarsi nelle sette dove, quanto meno, si credeva seriamente in Dio e nella salvezza per mezzo di Gesù Cristo. Non rimane nulla di queste teologie se si segue in buonafede lo sviluppo di questo libro. La seconda interpretazione è il protestantesimo liberale. Ratzinger ha trovato degli alleati nel protestantesimo autentico, in particolare in Joachim Ringleben che saluta come un "fratello ecumenico". Il bersaglio principale è Rudolf Bultmann, e in generale le interpretazioni simboliche degli eventi. Dico bersaglio anche se in queste pacifiche esposizioni non c'è alcuna aggressività. Quando Bultmann ha ragione, Ratzinger fa il suo elogio.
Da queste analisi si deduce che Cristo si mantiene il più vicino possibile alla Legge e ai Profeti, che non smette mai di citare e ai quali fa continuamente riferimento. Segue passo passo la tradizione. Così facendo, osservando la Torà senza cambiare una virgola, la trasforma.
Sono molto fiero di aver sottolineato, a proposito del film di Mel Gibson, La passione di Cristo, un punto che qui ritrovo sviluppato a fondo. Riguarda Caifa e Pilato. Non c'è bisogno di attribuire loro una malvagità particolare. Uno voleva la salvezza del suo popolo, l'altro voleva salvare la pax Romana. Cristo è stato messo a morte da tutti gli uomini, dai cattivi, naturalmente, ma anche dai buoni, che non lo sono fino a quel punto e che non sanno di aver bisogno di essere salvati. Ciò vale per tutti noi. Il mondo ebraico ha reagito favorevolmente a questa affermazione, dimenticando che era già stata fatta nel concilio di Trento e nel Vaticano II. Non è inutile ripeterlo.
Il nuovo rapporto con il popolo ebraico, che sussiste tuttora, è una delle conquiste più importanti del Vaticano II. Bisogna tuttavia conservare l'equilibrio. Si vede qua e là in alcuni cattolici, sempre inclini all'idolatria, un certa idealizzazione del popolo ebraico, che quest'ultimo non chiede. C'è continuità fra i due Testamenti. Ma c'è anche un taglio. Cristo non è un rabbino. Non è un altro Hillel.
Può essere che il lavoro dello storico-critico sul Nuovo Testamento si sia esaurito, ma continua sull'Antico Testamento. Da un secolo si scava con passione nella terra d'Israele alla ricerca di prove. Ebbene, non solo non sono state trovate, ma l'archeologia pensa di averne trovato alcune che dimostrano che le cose non sono avvenute come suggerisce la narrazione biblica. Sembra che si sia creato un vasto consenso fra gli archeologi e gli esegeti ebrei, protestanti e cattolici. Io ho letto, come molte persone, i libri di Finkelstein e di Silberman, e quello di Liverani. Ci sono reazioni molto critiche dal lato ebraico.
Ebbene, noi cristiani siamo sulla stessa barca. La nostra religione è una storia. Non si può far passare troppi eventi dalla parte della leggenda. Due punti appaiono cruciali. Il primo riguarda il soggiorno del popolo eletto in Egitto e la sua liberazione da parte di Mosè. È l'origine tanto dell'ebraismo quanto del cristianesimo. Cristo, ci spiega Ratzinger, si presenta come il nuovo Mosè. Sarebbe difficile ammettere che l'esodo sia un racconto leggendario.
Il secondo concerne la datazione e lo statuto di Davide, di Salomone e di Gerusalemme.
Lascio il mio giudizio in sospeso in attesa che queste nuove teorie si decantino. Nel suo libro il Papa sembra rimandare tali questioni a più tardi. Questioni che inevitabilmente si porranno.
Attendo con impazienza la terza parte dell'indagine che il Papa ci ha promesso. Riguarderà i Vangeli dell'infanzia. Vorrei essere informato sulla questione dei "fratelli di Gesù", divenuta scottante nel nostro tempo. Per me si tratta di un Shiboleth. Quando vedo un libro che osa affermare che la Vergine Maria avrebbe avuto vari figli, lo rifiuto con la stessa indignazione che provavano Lutero e Calvino quando una simile tesi veniva sostenuta dinanzi a loro. È l'Incarnazione a essere in gioco.
La fiducia messianica nei cambiamenti di Massimo Introvigne, 23-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
In principio era il figlio di buona donna. Il segretario di Stato dei presidenti statunitensi John F. Kennedy (1917-1963) e Lyndon B. Johnson (1908-1973), Robert S. McNamara (1916-2009), elaborò la teoria del "nostro figlio di buona donna". Molti dittatori che gli Stati Uniti sostenevano - spiegava McNamara, che tra parentesi non era un rozzo politicante ma un economista di livello mondiale e il fondatore della moderna disciplina dell'analisi politica - erano degli autentici figli di buona donna. Opprimevano i loro popoli, torturavano gli oppositori e non ci si poteva neppure andare a cena insieme perché davano pacche sul sedere alle signore e dicevano volgarità. Ma nel clima della Guerra Fredda l'importante non era se chi dominava nei Paesi del Terzo mondo fosse o meno presentabile. L'importante per McNamara è che fosse il "nostro" figlio di buona donna: che fosse amico degli americani e non dei sovietici, i quali del resto quanto a figli di buona donna sostenuti nell'orbe terraqueo non scherzavano davvero neppure loro.
La strategia raggiunse vertici di cinismo negli anni 1970. Ormai le malefatte dei dittatori si vedevano in televisione: gli americani si ribellarono e nel 1977 elessero presidente Jimmy Carter, un coltivatore di noccioline della Georgia che prometteva di stare sempre e soltanto dalla parte del Bene, della Democrazia e della Libertà. La sua strategia, antitetica a quella di McNamara, fu riassunta nello slogan "¡Mejor que Somoza, cualquier cosa!", riferito a uno dei più tipici fra i "nostri figli di buona donna": il dittatore del Nicaragua Anastasio Somoza Debayle (1925-1980).
Nel 1979 Somoza si trovò di fronte alla guerriglia del Fronte Sandinista, sostenuto da Cuba e dall'Unione Sovietica. Si rivolse a Carter che, considerandolo un dittatore ripugnante, non lo aiutò, anzi coniò il famoso slogan secondo cui chiunque sarebbe stato meglio di Somoza. Il dittatore nicaraguense cadde, e finì ammazzato nel 1980 nel suo esilio in Paraguay. Lo slogan, però, non funzionò, come capita spesso agli slogan. I sandinisti imposero un regime di stile sovietico e riempirono il Nicaragua di consiglieri cubani. Ne segui una guerra civile, che fece più vittime di quante ne avesse fatto Somoza.
Nello stesso anno 1979 Carter rifiutò di aiutare un altro dei "nostri figli di buona donna": lo scià dell'Iran Mohammad Reza Pahlevi (1919-1980). Lo scià fu cacciato e al suo posto andarono quelli che Carter presentava come "sinceri democratici", guidati dall'ayatollah Ruhollah Khomeyni (1902-1989). I sinceri democratici ringraziarono Carter dopo pochi mesi occupando l'ambasciata degli Stati Uniti e prendendo in ostaggio cinquantadue americani. Fu troppo anche per l'opinione pubblica statunitense: dopo quattro anni di mandato, Carter fu rimandato a coltivare noccioline e gli americani elessero al suo posto Ronald Reagan (1911-2004), per molti versi l'antitesi del suo predecessore, che invece molti in queste settimane stanno paragonando a Barack Obama.
Il fallimento clamoroso ed evidente della strategia "¡Mejor que Somoza, cualquier cosa!" riportò per breve tempo in auge la dottrina McNamara del "nostro figlio di buona donna". Ma Reagan stesso finì per convincersi che i tempi dei dittatori stavano finendo. Avviò la loro sostituzione con regimi democratici, non facile ma in molti Paesi riuscita, partendo dall'America Latina.
Nei Paesi a maggioranza islamica le cose stavano diversamente. Fino all'11 settembre 2001 la paura del khomeinismo e del fondamentalismo islamico indusse gli Stati Uniti - e molto di più la Francia, nelle ex colonie dove aveva influenza - a sostenere dov'erano disponibili "nostri figli di buona donna" locali. L'11 settembre 2001 il presidente George W. Bush si convinse che la strategia era fallita. I dittatori arabi non erano neppure riusciti a impedire che, sotto il loro naso, il terrorismo ultra-fondamentalista islamico crescesse e arrivasse fino al cuore di New York. Con la consulenza di un'illustre politologa universitaria, Condoleeza Rice, Bush smantellò la strategia del "nostro figlio di buona donna" anche nel mondo islamico. Ovunque prese contatto con gli oppositori dei dittatori. Sostenne che la democrazia era un prodotto che si poteva esportare, se necessario con la forza delle armi, come tentò di fare in Afghanistan e in Iraq.
In questa strategia c'era un nucleo di verità: i dittatori del mondo islamico - quasi tutti nazionalisti laici con venature di socialismo, in crisi dopo la caduta dell'Unione Sovietica e il risveglio dell'islam - sono destinati presto o tardi a cadere. All'Occidente conviene pilotare la loro caduta anziché subirla. Ma c'era anche un problema: non dovunque ci sono classi dirigenti disponibili a sostituire i dittatori, per quanto le si cerchi. Né le opinioni pubbliche dell'Occidente sono disposte a tollerare lunghe occupazioni militari, con molti soldati occidentali morti, mentre si cerca e si forma una classe dirigente alternativa, come sta succedendo in Iraq.
Giuliano Ferrara ha coniato una formula che descrive molta politica italiana recente: TTB, Tutto Tranne Berlusconi. Molti politici e giornalisti - alcuni certamente anche ispirati dal fatto che Gheddafi era in buoni rapporti con l'odiato B - ci propongono oggi una formula analoga: TTG, Tutto Tranne Gheddafi. Il colonnello, ci spiegano, è un manigoldo e chi esprime dubbi sull'intervento (presunto) "umanitario" è, se non proprio un suo complice, un nostalgico della dottrina McNamara dove i figli di buona donna facevano i gendarmi per conto terzi.
Ma l'accusa si può facilmente ribaltare. Lo slogan TTG è una riedizione non particolarmente brillante del ""¡Mejor que Somoza, cualquier cosa!", che la storia ha dimostrato essere falso e foriero di disastri. Chi potrebbe ancora pensare oggi che fosse giusto nel 1979 sostenere Khomeyni?
La Bussola Quotidiana ha ricordato con dovizia di particolari che Gheddafi è un vecchio terrorista con le mani sporche di sangue. Ma ha anche spiegato che non basta essere contro Gheddafi, o di un'altra delle tribù che si contendono il controllo della Libia, per avere diritto alla patente di "moderato" o "democratico", e che i capi del governo provvisorio di Bengasi hanno un curriculum in materia di diritti umani che non dovrebbe lasciare tranquillo nessuno. Né possiamo credere alla fola dell'azione soltanto "umanitaria". Ci sarebbero tanti interventi umanitari da fare, da Cuba all'Iran e alla Corea del Nord. Finalmente, da cattolici siamo capaci di criticare ogni forma di mito del progresso e sappiamo che il cambiamento non è mai di per sé automaticamente buono e foriero di pace e di giustizia.
Chi ha dubbi e disturba il manovratore vuole, allora, tornare a McNamara? No di certo. I dittatori, anche nel mondo islamico, sono destinati a cadere e cercare di pilotare la loro caduta è espressione di saggezza. Ma pilotare la caduta significa sapere esattamente chi, come, quando e dove mettere al loro posto. I TTG non lo sanno. Si limitano a esprimere una fiducia quasi messianica nelle "magnifiche sorti e progressive" che dovrebbero conseguire necessariamente a ogni rovesciamento di un tiranno. Lo pensava anche Carter. Dovette tornare a coltivare noccioline.
L'Occidente alla guerra delle tribù di Massimo Introvigne, 22-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Chi sono i “ribelli” che l’Occidente è andato a sostenere in Libia? Il rischio è che non lo sappia nessuno. La versione corrente è che il Consiglio Nazionale Libico, che ha sede nella città orientale Bengasi, controllata dai ribelli – e che la Francia ha riconosciuto come governo provvisorio, seguita per ora solo dal Portogallo – rappresenti l’opposizione “democratica” al regime dittatoriale del colonnello Muhammar Gheddafi. Ma le cose sono molto più complicate.
Per farsi un’idea occorre dare uno sguardo alla composizione etnica della Libia. Il nome Libia viene da Libu, una tribù berbera di antichissima origine nota ai Greci, che qualche volta usavano “Libya” come sinonimo di quella che noi oggi chiamiamo Africa. Con l’invasione araba del Nordafrica nel secolo VII il termine fu quasi dimenticato. Fu risuscitato agli inizi del XX secolo dal geografo italiano – di famiglia cattolica ma d’idee garibaldine – Federico Minutilli (1846-1906), i cui lavori influirono sulla decisione del primo ministro italiano Giovanni Giolitti (1842-1928) di chiamare nel 1911 “Libia” le due province ottomane, Tripolitania e Cirenaica, che l’Italia aveva conquistato in una delle sue poche imprese coloniali. Nel 1927 il fascismo divise la colonia in due secondo la vecchia partizione ottomana – Tripolitania e Cirenaica – ma nel 1934 si tornò a una sola Libia, divisa in tre province la terza delle quali era il Fezzan, il deserto del Sud abitato dai tuareg. Dalla Libia colonia italiana si passò poi nel 1951 alla Libia indipendente.
Com’è spesso avvenuto nella storia del colonialismo, la Libia è dunque stata inventata a tavolino, in questo caso da Giolitti e dai suoi geografi, mettendo insieme due province ottomane di cultura diversa e che non erano mai state unite, e una vasta zona desertica meridionale dai confini piuttosto incerti e porosi – il che spiega perché sia sempre stata facilmente “infiltrata” da popolazioni africane provenienti da Sud, che oggi cercano di raggiungere le coste per emigrare illegalmente in Europa. Gli abitanti originari della Libia – prima dell’invasione araba – sono i berberi, che oggi rappresentano circa il 17% della popolazione e sono quasi tutti musulmani. I tuareg del deserto, sia pure con caratteristiche proprie, sono affini per caratteristiche etniche e linguistiche ai berberi, e sono in gran parte nomadi.
Gli arabi – che si sono talora mescolati con berberi arabizzati – costituiscono la maggioranza della popolazione, ma sono divisi in centoquaranta tribù, distinte in tre gruppi: tripolitane, cirenaiche e centrali. In Tripolitania la più grande tribù – un milione di persone – è quella Warfallah, che risulta dalla grande immigrazione araba promossa nell’XI secolo dai califfi Fatimidi – i quali volevano assicurare agli arabi la maggioranza demografica rispetto ai berberi –, ed è oggi divisa in cinquantadue sottotribù. Le tribù della Cirenaica risultano anch’esse in parte dal flusso migratorio dell’XI secolo. Benché gli etnologi non siano d’accordo fra loro né sulla sostanza né sulla terminologia, si parla di una confederazione Harabi che tiene insieme, non senza difficoltà, le tribù cirenaiche in una sorta di alleanza precaria. Un ruolo centrale in questa confederazione ha la tribù Obeidat, divisa in quindici sottotribù.
La Libia Centrale è un’area prevalentemente desertica che sta tra la Tripolitania e la Cirenaica e a rigore non appartiene a nessuna delle due regioni. Le sue tribù hanno spesso giocato un ruolo di ago della bilancia nei conflitti tribali regionali, ottenendo posizioni di potere sproporzionate ai loro numeri. I due gruppi principali sono la Magariha e la Qaddhafa. Da quest’ultima viene il cognome Qaddhafi o Gheddafi, il quale più che l’appartenenza a una famiglia indica dunque quella a una tribù.
Per una serie di ragioni, l’adesione all’islam almeno negli ultimi due secoli si è dimostrata più fervente in Cirenaica. Qui ha messo radici il movimento Senussi, insieme confraternita e movimento di risveglio islamico, fondato nel 1835 alla Mecca dall’algerino Sayyid Muhammad ibn Ali as-Senussi (1787–1860). I Senussi della Cirenaica furono l’anima della resistenza al colonialismo italiano e il quarto capo della confraternita, Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Senussi (1889-1983) divenne, con l’appoggio inglese, prima Emiro della Cirenaica nel 1949, quindi re Idris I della Libia nel 1951. Fu deposto da Gheddafi nel 1969. È probabile che alcuni studiosi abbiano esagerato i legami dei Senussi con il tradizionalismo saudita e con il fondamentalismo islamico del XX secolo, ma questi legami esistono e si sono fatti più forti negli ultimi anni. Avversato da Gheddafi, il movimento Senussi continua a riunire un terzo dei libici e la maggioranza degli abitanti della Cirenaica, delle cui tribù Harabi costituisce l’autentico collante.
Il colpo di Stato di Gheddafi nel 1969 ha costituito una rivolta contro il potere in mano alle tribù della Cirenaica e ai Senussi, che esprimevano la classe dirigente della monarchia, delle tribù della Tripolitania, guidate dalla Warfallah, e della Libia centrale, cioè la Magariha e la Qaddhafa. Queste ultime, com’era avvenuto anche in passato, sono riuscite a far pesare il loro ruolo decisivo – con chi si schierano le tribù centrali è determinante per l’esito del conflitto fra Est e Ovest – e a diventare egemoniche.
Gheddafi, della tribù centrale Qaddhafa, divenne il padrone della Libia. Un esponente dell’altra principale tribù centrale, la Magariha, gradito però anche alla tribù occidentale Warfallah, Abdessalam Jalloud, diventò il numero due del regime e il primo ministro. Le tribù libiche, peraltro, non si fidano mai veramente le une delle altre, e Gheddafi si assicurò che solo i Qaddhafa controllassero l’aviazione. Questo gli permise più tardi, nel 1993, di reprimere il tentativo di colpo di Stato organizzato dalla Warfallah e dalla Magariha, che erano diventate insofferenti dell’egemonia sproporzionata di una tribù relativamente piccola come i Qaddhafa. Dopo l’episodio del 1993 Jalloud fu arrestato, e in seguito confinato per molti anni agli arresti domiciliari.
Negli anni 2000 la Magariha ha chiesto a Gheddafi d’intervenire per ottenere il rilascio di Abdelbaset Mohmed Ali al-Megrahi, un importante leader della tribù condannato all’ergastolo in Gran Bretagna per l’attentato terroristico di Lockerbie del 1988, l’esplosione a bordo di un aereo in volo tra Londra e New York che fece 270 morti. Nel 2009 Gheddafi ha ottenuto il rilascio di al-Megrahi – il cui “cognome” indica ancora una volta la tribù, la Magariha –, il che ha portato a una sorta di riconciliazione anche con Jalloud, che nel 2010 è ricomparso al fianco del colonnello.
In seguito al tentativo di colpo di Stato contro di lui del 1993, Gheddafi ha cercato contatti con i vecchi nemici della Cirenaica per bilanciare il potere delle tribù occidentali. Ha così via via incluso nel governo esponenti della confederazione Harabi, tra cui il ministro della Giustizia Mustafa Mohamed Abud Al Jeleil – secondo alcune fonti, membro della confraternita Senussi – e il ministro dell’Interno generale Abdul Fatah Younis, che appartiene all’importante tribù orientale Obeidat. I due si sono distinti nella feroce repressione degli oppositori del regime, ma la loro lealtà a Gheddafi – formalmente ribadita fino al febbraio 2011 – è sempre stata messa in dubbio, tanto profondo e antico è l’odio delle tribù orientali legate ai Senussi contro il colonnello e contro l’egemonia delle tribù occidentali e centrali.
Non sappiamo tutto del Consiglio Nazionale Libico di Bengasi che ha preso la guida della rivolta contro Gheddafi. Ma sappiamo che è principalmente espressione delle tribù orientali della Cirenaica, quelle legate al movimento Senussi e alla monarchia che ne era espressione, e più vicine anche al fondamentalismo islamico. Al Jeleil è il segretario del Consiglio Nazionale e Younis è il comandante militare. Per presentarsi come “nazionale” e non semplicemente espressione della Cirenaica il Consiglio di Bengasi ha reclutato qualche esponente della Warfallah – e tra i dimostranti contro Gheddafi si sono visti anche giovani della Magariha –, ma rimane dominato dalle tribù orientali della confederazione Harabi.
Poco si sa dell’orientamento delle minoranze berbere e tuareg, anche se negli ultimi giorni circolano voci del distacco di queste ultime – che si muovono da nomadi nel Sud della Libia, senza rispettare i confini nazionali, e hanno antichi legami con i servizi francesi – da Gheddafi, cui in passato si erano mostrate in maggioranza leali. Benché il colonnello abbia sangue berbero, i berberi non lo hanno mai amato perché ha sempre cercato di reprimere l’eredità e la cultura berbera a profitto di quella araba.
Non tutti i membri delle tribù orientali Harabi – e a rigore neppure tutti i Senussi – sono fondamentalisti. Ma, per la loro storia, si tratta delle realtà più vicine al fondamentalismo islamico, così che chi teme derive in questo senso della rivolta contro Gheddafi non ha torto. L’intrico tribale libico è comunque molto complesso. Ridurlo a uno scontro tra democrazia e dittatura, o fra buoni e cattivi, è ridicolo. A chiunque si entusiasmi per avventure militari in Libia occorre chiedere se sa veramente quale governo alternativo a Gheddafi sta andando ad aiutare a imporsi.
Avvenire.it, 23 marzo 2011 - BIOETICA E POLITICA - Dat, una legge per evitare altri casi Eluana di Graziella Melina
«Nel caso di disabilità grave, che è quella dello stato vegetativo, bisogna lavorare perché queste persone possano conservare la loro vita, la loro dignità e il loro benessere». Ma è «abbastanza difficile pensare che sia "benessere" togliere l’idratazione a chi è incapace di opporsi a questo intervento, anche perché qualsiasi consenso o dissenso può esser interrotto dalla persona in caso di sofferenza, mentre chi non ha capacità di reagire rischiamo di farlo soffrire senza che possa opporsi».
Lorenza Violini – ordinario di Diritto costituzionale dell’Università di Milano e membro supplente del Consiglio di amministrazione dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) – non ha dubbi: quella sulle Dat in discussione alla Camera «è una legge importante, necessaria, soprattutto per porre rimedio a delle degenerazioni giurisprudenziali» come nel caso di Eluana Englaro.
Una vicenda drammatica, che ieri sera al convegno organizzato dall’Università europea di Roma su «Discriminazioni e persone con disabilità» è stata riportata come esempio paradigmatico, ma non unico, di forme di disabilità che hanno bisogno del sostegno costante delle famiglie che se ne fanno carico e, quindi, hanno bisogno di maggiori risorse. Il punto fondamentale quando non si è autosufficienti è l’aspetto assistenziale: primo fra tutti, ovviamente, la semplice nutrizione. «È molto importante che ci sia il divieto di disporre di alimentazione e idratazione», tranne i casi in cui la persona non è più in grado di assorbirla.
Ma, ha chiarito subito Violini, «a nessun medico verrebbe in mente di nutrire un malato terminale prossimo alla morte. Sollevare simili argomenti è pretestuoso. Si usa questa ovvietà – ha ribadito poi – per mettere in crisi un principio di civiltà, che è quello secondo cui alle persone, in qualsiasi stato, non può essere negata la cura base, quella primaria del mantenimento». «Gli stati vegetativi non sono i candidati alle Dat, perché dietro questa idea c’è una profonda discriminazione, cioè che la loro qualità della vita non esista e che quindi siano persone che in realtà devono morire», ha poi sottolineato il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella.
Con la legge sulle Dat, ha poi spiegato, «cerchiamo di far proseguire l’alleanza terapeutica anche oltre lo stato di coscienza del paziente. Superando il paternalismo medico e sconfiggendo un quadro di autodeterminazione. Criterio che alla fine può diventare anche illiberale». Regolare «il consenso informato e applicarlo – ha aggiunto – intanto è una presa d’atto di una situazione, perché il consenso ormai è nella prassi. Nessun medico oggi farebbe un intervento prescindendo dal consenso».
Nella legge è prevista la non vincolatività per il medico: «Noi cerchiamo di proseguire il rapporto di alleanza terapeutica – ha precisato il sottosegretario – tenendo conto in materia anche di quanto indica la Convenzione di Oviedo, ma mettendo un argine forte rispetto al modo con cui si vuole introdurre il criterio di autodeterminazione nei confronti dell’eutanasia». D’accordo sui contenuti della legge anche il rettore dell’ateneo, padre Paolo Scarafoni.
«È una legge conveniente più che necessaria – ha detto –. Il principio che rimane fermo è che l’uomo non può disporre della vita. Fissati questi paletti pertanto c’è una deontologia che deve assicurare delle cure normali, ma anche idratazione e nutrizione. Le dichiarazioni anticipate di trattamento – ha precisato – dovrebbero rimanere sempre delle indicazioni. Deve essere il medico a decidere». E sull’urgenza del testo nessun dubbio: «Se non si legifera, si arriverà a definire una prassi che è molto permissiva e che è praticamente eutanasia attiva».
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Avvenire.it, 23 marzo 2011 - Fine vita: perché dire sì a questo ddl - Una legge ci vuole. Lo si deve ai più fragili di Alberto Gambino
Nel dibattito pubblico sul fine vita appare urgente sgomberare il campo da una doppia lettura, diametralmente opposta e perciò foriera di confusione. Ancora ieri sulla stampa si registravano due interpretazioni clamorosamente antitetiche delle norme in approvazione alla Camera dei Deputati. L’una, avallata dai media più inclini alla valorizzazione dell’assolutezza dell’autodeterminazione, la quale vedrebbe nel testo sulle Dat una legge che assolutizza il principio di naturalità e di indisponibilità dei concetti di vita e di morte.
L’altra, promossa in ambiti scrupolosi e attenti alla centralità e alla tutela della vita umana, che, invece, interpreta il testo come la prova generale – che poi si realizzerà pienamente con successive letture giudiziali – di una breccia eutanasica scolpita sul nostro sistema ordinamentale. Ancora una volta preme rilevare che tale doppia e divergente lettura non è né logica né reale. Delle due l’una: o la legge apre all’eutanasia, oppure chiude; tertium non datur.
L’unanime coro di no alla legge da parte dei paladini della libera autodeterminazione in realtà si oppone a un’altra prospettiva che reclama a gran voce l’intervento legislativo, in quanto percepisce chiaramente che già oggi esistono strumenti giurisdizionali pronti ad avallare derive eutanasiche. Già, infatti, accade ed è sufficiente scorrere le riviste giuridiche italiane o essere frequentatori delle aule giudiziarie per accorgersi di alcune decisioni di giudici tutelari, le quali davvero segnano la quotidianità delle persone, le loro abitudini, i loro intendimenti circa l’applicazione della legge. Queste sentenze legittimano già oggi tutori e amministratori di sostegno a dare rilevanza giuridica alle dichiarazioni anche eutanasiche di assistiti e pazienti e lo possono fare sulla scorta della giurisprudenza dei casi Welby ed Englaro.
Neanche appare centrato il problema di chi intravede esiti pericolosi nella promozione a rango di legge della prassi del consenso informato. Il consenso informato – si riterrebbe – potrebbe portare a instaurare protocolli eutanasici, sotto le mentite spoglie del rifiuto consapevole, perché in questo caso cosciente, delle cure. È evidente, però, che l’eventuale rifiuto di una terapia non potrà slittare legalmente in casi di abbandono terapeutico, in quanto in questi casi – come già oggi avviene – la rottura dell’alleanza terapeutica con il medico avrà quale conseguenza le dimissioni dalla struttura sanitaria nella quale si è ricoverati. L’attuale testo di legge vieta, infatti, al suo articolo 1 «ogni forma di eutanasia e ogni forma di assistenza o di aiuto al suicidio, considerando l’attività medica nonché di assistenza alle persone esclusivamente finalizzata alla tutela della vita e della salute nonché all’alleviamento della sofferenza».
Anche la percezione che l’espressione «dichiarazione» utilizzata appunto per contrassegnare le Dat possa comportare una maggiore vincolatività delle stesse è disattesa proprio dal carattere non vincolante che ancora oggi alla Camera il legislatore ha confermato.
Ma anche ove residuino dubbi interpretativi, la via maestra non può che essere quella di collaborare al miglioramento di un testo e non certo quello di sanzionarne l’inutilità e dunque l’affossamento. Si finisce altrimenti – in un palese caso di eterogenesi dei fini – per fare lo stesso gioco di chi non vuole la legge perché la ritiene inaccettabile proprio nei confronti di quelle vite umane in condizioni di fragilità che, con immaginifico linguaggio, altro non sono che «puro guscio biologico affidato alle macchine, ormai privo di qualunque funzione riconducibile al pensiero».
Si tratta a ben vedere, invece, di alcune migliaia di persone in condizione vegetativa, molte delle quali si risvegliano, assistite e sostentate da familiari, infermieri e assistenti, che proprio per la loro non autosufficienza richiedono l’ovvio ausilio di sondini naso-gastrici, necessari per veicolare quel sostentamento che in caso di piena capacità certo non si negherebbe a nessuno. E che forse un certo cinismo legato a un’analisi costi-benefici della degenza di tali persone ammanta sotto il profilo ideologico della sovranità dell’autodeterminazione.
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23/03/2011 – PAKISTAN - Due cristiani uccisi in Pakistan davanti a una chiesa da musulmani armati
L’aggressione è avvenuta a Hyderabad. Altri due sono rimasti gravemente feriti. Un gruppo di musulmani infastidiva le donne che entravano in chiesa. Ne è nato un diverbio, e gli aggressori hanno aperto il fuoco sui cristiani. Sono ancora a piede libero. La polizia non ha arrestato nessuno degli aggressori.
Karachi (AsiaNews/Agenzie) – Due cristiani sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco e altri due sono in serie condizioni dopo che dei giovani musulmani li hanno attaccati davanti a una chiesa a Hyderabad la sera del 21 marzo. I cristiani residenti a Camp Hurr, a Hyderabad, nel Sindh, stavano celebrando il 30mo anniversario della fondazione della loro chiesa dell’Esercito della Salvezza quando un gruppo di giovani musulmani si è riunito davanti alla chiesa e ha cominciato a suonare musica ad altissimo volume, e a dar fastidio alle donne cristiane che entravano nella chiesa.
Younis Masih, di 47 anni, Siddique Masih, di 45 anni, Jameel Masih, di 22 anni e un certo Waseem sono usciti dalla chiesa per chiedere ai musulmani di rispettare le persone e il luogo. Ne è nato un diverbio. I musulmani se ne sono andati, per tornare più tardi armati di pistole. I testimoni affermano che i musulmani hanno aperto il fuoco immediatamente, uccidendo sul colpo Younis Masih e Jameel Masih, e ferendo seriamente gli altri due cristiani, che sono stati trasportati in ospedale a Karachi. Younis Masih lascia moglie e quattro figli; Jameel si era sposato un mese fa.
L’atteggiamento delle autorità ha esacerbato i cristiani. La madre di Jameel, Surraya Bibi, ha dichiarato che “la polizia si è comportata come se non fosse nulla di importante. Non hanno registrato la denuncia fino a tarda notte, quando tutti noi abbiamo bloccato la strada principale di Hyderabad, con i due cadaveri, per varie ore”. La polizia non ha arrestato finora nessuno degli accusati, che sono ancora a piede libero. Sono stati invece fermati alcuni teenager che non sono coinvolti nel delitto.