mercoledì 2 marzo 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Eutanasia, l'inganno dei "casi limite" Di Giuliano Guzzo - 01/03/2011 - Eutanasia – da http://www.libertaepersona.org
2)    STAMINALI, LA RACCOLTA IN BIOBANCHE PUBBLICHE O PRIVATE? - L'Accademia pro Vita si pronuncia, ufficiosamente, per un sistema misto di Mariaelena Finessi - CITTÀ DEL VATICANO, martedì, 1° marzo 2011 (ZENIT.org)
3)    CRESCE LA PRATICA DELL’ADORAZIONE EUCARISTICA PERPETUA - Intervista a don Alberto Pacini di Antonio Gaspari
4)    Silvia e l'aborto. E poi fuori a riveder le stelle di Giorgio Gibertini, 01-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
5)    Pier Giuliano e il regno sociale di Gesù Eucaristico di Massimo Introvigne, 01-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
6)    La scrittura "rock" della cattolica Flannery di Antonio Giuliano, 01-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
7)    L’omaggio di un freudiano a Paul Newman - Autore: Genga, Glauco Maria  Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 28 febbraio 2011
8)    Nottingham University: «pillola giorno dopo aumenta diffusione malattie sessuali» - 1 marzo, 2011 - http://www.uccronline.it
9)    L'EQUILIBRIO DEL RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE SCONGIURA L'EUTANASIA - “Scienza & Vita” riflette su fine vita e autodeterminazione di Roberta Sciamplicotti - ROMA, martedì, 1° marzo 2011 (ZENIT.org)
10)                      Fini fa il furbetto con il Catechismo di Riccardo Cascioli, 02-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
11)                      Caro Saviano, tutto qui? Di Davide Rondoni, mercoledì 2 marzo 2011, il sussidiario.net
12)                      Ucciso il ministro cattolico per le minoranze - 02-03-2010, da http://www.labussolaquotidiana.it
13)                      Avvenire.it, 2 marzo 2011 - Sì a una seria legge sul fine vita - Indispensabile buon senso di Francesco Ognibene
14)                      Avvenire.it, 27 febbraio 2011 - INTERVISTA ESCLUSIVA - Io, superstite dei monaci di Tibhirine di Di Jean-Marie Guénois (traduzione di Anna Maria Brogi)
15)                      I contenuti del testo - Per la Dat platea “allargata” Ma sostegni vitali intoccabili, di Ilaria Nava, Avvenire, 2 marzo 2011

Eutanasia, l'inganno dei "casi limite" Di Giuliano Guzzo - 01/03/2011 - Eutanasia – da http://www.libertaepersona.org

Ma il diritto di morire non dovrebbe riguardare, semmai, solo i “casi limite”? Domanda ovvia, si potrebbe rilevare. Il punto è che sono anni che i fautori dell’autodeterminazione ci rassicurano sul fatto che mai e poi mai l’eutanasia, una volta legalizzata, potrebbe sconfinare in abusi, mentre, purtroppo per loro (e per noi), la realtà dice ben altro. Nella civilissima Olanda, il Rapporto Remmelink, primo rapporto ufficiale commissionato dal Governo sulla “dolce morte”, rivelò che almeno un terzo dei 5.000 pazienti ai quali, già nel lontano ‘91, era stata somministrata la “dolce morte”, non aveva dato alcun esplicito consenso e ben 400 ammalati non avevano neppure accennato alla questione con il loro medico personale. Scusate, e l’autodeterminazione? Dettagli, evidentemente.

Analogamente non si capisce perché si insita nel parlare di “casi limite” per quanto riguarda la possibilità di chiedere di essere aiutati a morire. Non lo si capisce perché basterebbe dare un’occhiata a quel che succede, per dire, nella vicina Svizzera, dove il suicidio assistito è legale e dove, giusto poche settimane fa, Andrè Rieder, uomo di 56 anni afflitto da sindrome maniaco-depressiva, è stato ucciso e pure ripreso, mentre spirava, per un documentario in programma alla televisione svizzera tedesca. Una morte in diretta in piena regola, insomma. Caso limite anche il suo? Adesso ci mettiamo ad ammazzare i depressi? Sarebbe bene chiarirci su questo punto, perché sono anni che si recano mortalmente in Svizzera persone che, pur non essendo affatto incurabili, vengono aiutate a morire. Un paio di anni fa il quotidiano The Guardian ottenne un elenco di 114 persone inglesi recatesi in terra elvetica per morire: tra queste, alcune erano malate all’addome, altre al fegato, altre ancora di artrite. Di malati terminali, insomma, neppure l’ombra.

E c’è poco di che stupirsi: una volta che s’inizia a discettare del diritto a morire per alcuni, rarissimi “casi limite”, anche se lo si fa in Paesi di proverbiale efficienza come l’Olanda, si finisce inevitabilmente per inaugurare scenari inquietanti. Per diffondere una vera e propria cultura della morte. Se così non fosse non ci si spiegherebbe come mai proprio in Olanda, al St Pieters en Bloklands, un centro anziani di Amerfott, si sia deliberatamente deciso di non rianimare i pazienti al di sopra di 70 anni. Né si potrebbe comprendere come mai si sia affermato, sempre in terra olandese guarda caso, Per volontà propria, un movimento che si batte per chiedere ed ottenere il “suicidio assistito” per quanti, superati i 70 anni, si sentissero “stanchi di vivere”.

La tendenza è talmente grave e crescente che Lucien Israël, luminare francese non credente, osservando gli scenari contemporanei, pochi anni fa, nel corso di un’intervista, ebbe ad avvertire: «Se questa tendenza continua […] gli anziani dovranno difendersi dai giovani. Ma non solo: dovranno anche difendersi da medici e infermieri. Forse si comporteranno come gli anziani olandesi che, oggi, vengono a cercare protezione in Francia e in Italia. Può darsi che un giorno i nostri anziani saranno costretti a cercare rifugio nel Benin» (Contro l’eutanasia, Lindau, Torino 2007, p.86). Domanda: se anche non credenti come Israël hanno capito e denunciato l’inganno eutanasico, cosa stiamo aspettando a ribellarci contro la "dolce morte"? Perché insistiamo con la tiritera dell’autodeterminazione e ne trascuriamo gli effetti collaterali? E' davvero il caso di ascoltare altre prediche di Roberto Saviano in materia? E dire che basterebbe volgere lo sguardo nella vicina Svizzera per aprire gli occhi..


STAMINALI, LA RACCOLTA IN BIOBANCHE PUBBLICHE O PRIVATE? - L'Accademia pro Vita si pronuncia, ufficiosamente, per un sistema misto di Mariaelena Finessi - CITTÀ DEL VATICANO, martedì, 1° marzo 2011 (ZENIT.org)

CITTÀ DEL VATICANO, martedì, 1° marzo 2011 (ZENIT.org).- Raccolto in 3.500 ospedali di 70 Paesi, attualmente il sangue da cordone ombelicale è conservato in circa 100 banche pubbliche per un totale di 450mila campioni stoccati in tutto il mondo. Da sola l’Italia ha sul suo territorio il numero più alto di biobanche non commerciali, contando 19 istituti dislocati in 11 regioni. Sono questi solo alcuni dei dati emersi durante il convegno, tenuto il 26 febbraio in Vaticano ed organizzato dalla Pontificia Accademia pro Vita (PAV), sul tema delle cellule staminali e il trauma post-aborto.

Per molti anni il midollo osseo è stato considerato la fonte principale di cellule staminali e, di conseguenza, fino a poco tempo fa il trapianto di midollo osseo era il metodo più comune per trattare le patologie curabili con le staminali. Tuttavia esistono numerosi problemi legati al trapianto, compresa la difficoltà di trovare un soggetto compatibile, l’aumentato rischio di infezioni, quello del rigetto nonché il rischio per il donatore.

Inizialmente ritenuto "materiale di scarto", il cordone ombelicale è invece ricco di cellule staminali, e il suo sangue rappresenta un vero e proprio salvavita perché permette di combattere malattie ematiche molto gravi. Identiche a quelle del midollo osseo, tali cellule - la cui caratteristica consiste nel generare gli elementi fondamentali del sangue umano, quali globuli rossi, globuli bianchi e piastrine - possono essere infatti trapiantate nei pazienti malati, ad esempio, di leucemia, anemia e talassemia. E anche «rispetto alle cellule staminali embrionali, che rimangono il gold standard», come sottolinea monsignor Jacques Suaudeau (PAV), quelle ricavate dal cordone ombelicale «sono una valida alternativa».

«Il grosso problema - spiega Carlo Petrini dell'Unità di Bioetica dell'Istituto Superiore di Sanità, nonché membro della PAV - è che però non esiste una regolamentazione uniforme delle banche deputate alla raccolta di questo genere di cellule staminali». La legislazione che disciplina le biobanche varia infatti da Paese a Paese. Ad esempio, in base ai dati presentati, oltre all'Italia altri 4 Stati vietano le strutture private: Olanda, Francia, Belgio e Lussemburgo.

«Nel nostro Paese - continua Petrini - è consentita la conservazione solo per uso allogenico, mentre è permesso l'uso autologo dedicato, cioè se al momento del parto c'è un rischio di salute accertato per il neonato o un altro membro della famiglia. Chi vuole invece conservare il cordone per uso autologo può farlo all'estero a proprie spese, chiedendo l'autorizzazione alle Regioni».

Fino all'anno scorso erano circa 9-10mila le richieste annuali fatte dalle coppie per esportare all'estero il cordone del proprio figlio, il più delle volte in Svizzera, Gran Bretagna, Germania, Repubblica di San Marino e Francia, forse uno dei maggiori Paesi importatori, quest'ultimo, tanto che la spesa sostenuta per conservare il sangue da cordone ombelicale nel 2006, pari a 2.82 milioni di euro, è quasi raddoppiata nel 2008, attestandosi intorno ad una cifra di 4.94 milioni d’euro. Istituito nel 1999, il Réseau français de Sang Placentaire (RFSP) conserva oggi circa 10mila unità di sangue.

La regolamentazione delle banche cordonali segue, in Spagna, la polemica nata invece dalla rivelazione che la Casa Reale spagnola aveva inviato negli Stati Uniti il sangue prelevato dal cordone ombelicale dell'Infanta Leonor di Borbone, figlia dei principi delle Asturie Felipe e Letizia, nonché nipote di re Juan Carlos e futura erede al trono, perché venisse conservato in un centro specializzato. La Spagna si trovò costretta a varare una legge, entrata in vigore nel 2006, dove è detto che le spese per la conservazione del sangue cordonale sono oggetto di rimborso: un elemento che ha fatto moltiplicare le esportazioni, quindi il lucro, ed incrementare il numero delle banche commerciali.

Per quanto riguarda l’Olanda - secondo quanto è stabilito dal Blood Supply Act - la Sanquin è l’unica organizzazione (nata nel 1998 da una fusione delle banche del sangue con il Central Laboratory of the Netherlands Red Cross Blood Transfusion Service - CLB) autorizzata a provvedere al fabbisogno di sangue e prodotti emoderivati. In Belgio le 5 biobanche per la conservazione allogenica sono invece regolamentate da una legge del 2008 che le associa alla banca del midollo osseo.

In Austria, poi, dove esiste una sola banca pubblica, la Cord Blood Bank di Linz, il Tissue Safety Act stabilisce il divieto di pubblicità della conservazione autologa mentre in Grecia le biobanche di fatto non sono regolamentate poiché esiste una legge ma non è stata ancora nominata l’autorità competente in materia.

Interessante, infine, il caso dell’Inghilterra dove ha sede la Virgin Health Bank, il cui profitto è in parte devoluto alla ricerca. Creata nel 2006 dal professor Colin McGuckin (membro della PAV) per finalità mediche alternative, questa biobanca si  avvantaggia di un cosiddetto sistema duale (20% uso privato, 80% pubblico) che è lo stesso che molti altri membri dell’Accademia salutano come soluzione fattibile.

Così Justo Aznar, dell'Istituto di Scienze della vita di Valencia, il quale sostiene che «è difficile giustificare eticamente la conservazione per uso autologo perché costa molto ed è poco probabile la sua necessità». Dal 1998 al 2009, infatti, sono stati eseguiti 14mila trapianti di sangue da cordone ombelicale e tra questi è stato documentato un solo caso di innesto per uso autologo.

Se però la raccolta viene realizzata rispettando «il principio di dignità dell'uso del corpo umano – conclude Aznar -, del principio di giustizia che garantisca a tutti un uguale accesso al trapianto, senza distinzione tra le varie classi sociali ed economiche, se alla madre viene assicurato che non subirà danni psichici e fisici oltre a garantirne il consenso informato, la proprietà del sangue stoccato e la protezione dei dati, non vi sono ostacoli alla creazione di banche miste, pubbliche-private».


CRESCE LA PRATICA DELL’ADORAZIONE EUCARISTICA PERPETUA - Intervista a don Alberto Pacini di Antonio Gaspari


ROMA, lunedì, 28 febbraio 2011 (ZENIT.org).- L’adorazione eucaristica perpetua è una realtà presente in tutto il mondo e coinvolge ormai milioni di persone.
In Italia è presente in circa 50 parrocchie con oltre 15.000 adoratori che hanno scelto di vivere la propria vita offrendo un’ora settimanale alla presenza di Gesù Eucarestia.
A Roma il 4 marzo prossimo, alle ore 18,00, nella Basilica di S. Anastasia al Palatino si celebrerà il decimo anno di adorazione eucaristica perpetua.
Ma a cosa serve l’adorazione eucaristica? Perchè c’è questo ritorno ad una pratica antica? Qual è il significato per i credenti? E perchè i non credenti dovrebbero prestargli attenzione?
Queste ed altre domande ZENIT le ha rivolte a don Alberto Pacini, predicatore e rettore della chiesa di S. Anastasia a Roma, che dieci anni fa ha iniziato l'adorazione eucaristica perpetua.
Dieci anni di adorazione perpetua. Da dove è nata questa necessità e quali sono stati i risultati?
Don Alberto Pacini: Nell’antica Basilica di S. Anastasia al Palatino, riaperta durante il Giubileo e funzionante come sacrestia durante gli eventi giubilari, nella zona più antica di Roma, a ridosso del Palatino e dei resti del primitivo insediamento dell’antica Roma, il 2 marzo 2001 iniziava l’adorazione eucaristica perpetua.
Giovanni Paolo II, aveva scritto: “Sì, carissimi Fratelli e Sorelle, le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche «scuole» di preghiera, dove l'incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino ad un vero «invaghimento» del cuore. Una preghiera intensa, dunque, che tuttavia non distoglie dall'impegno nella storia: aprendo il cuore all'amore di Dio, lo apre anche all'amore dei fratelli, e rende capaci di costruire la storia secondo il disegno di Dio”.
Egli accolse con entusiasmo la notizia della nascita di questa adorazione eucaristica perpetua, nella sua diocesi, proprio durante il Giubileo, in attuazione di quanto aveva precedentemente detto a Siviglia, nel 1993, alla conclusione del 45°Congresso eucaristico internazionale: "Spero che questa forma di Adorazione Perpetua, con esposizione permanente del SS. Sacramento continui in futuro. Specificamente, spero che il frutto di questo Congresso si manifesti nell’istituzione dell’Adorazione Eucaristica Perpetua in tutte le parrocchie e comunità Cristiane nel mondo" e fece pervenire la sua benedizione ai fedeli che la frequentavano. Più tardi lo stesso Benedetto XVI, durante l’annuale incontro col clero di Roma, all’inizio della Quaresima del 2006, ebbe a dire: “Non sapevo e sono grato di esserne stato informato, che adesso la chiesa (di S. Anastasia) è sede dell’adorazione perpetua; è quindi un punto focale della vita di fede a Roma. Questa proposta di creare nei cinque settori della Diocesi di Roma, cinque luoghi di adorazione perpetua la pongo fiduciosamente nelle mani del Cardinale Vicario. Vorrei soltanto dire: grazie a Dio perché dopo il Concilio, dopo un periodo in cui mancava un po’ il senso dell’adorazione eucaristica è rinata la gioia di questa adorazione dappertutto nella Chiesa, come abbiamo visto e sentito nel Sinodo sull’Eucaristia”.
Da quei meravigliosi incoraggiamenti, ci siamo sentiti motivati e spinti a portare avanti la nostra missione: non solo adorare il Signore, ma anche aiutare quanti più possibile ad adorarlo e trovare parrocchie che si aprissero all’adorazione perpetua del SS. Sacramento. Questo è avvenuto attuando un movimento di evangelizzazione eucaristica nella diocesi, in tutta l’Italia ed in alcune nazioni del mondo, con cui siamo collegati al fine di suscitare anche là tanti luoghi di adorazione.
Abbiamo sperimentato quanto sia vero che “La Chiesa vive dell’Eucaristia”, come ebbe a dire nella sua ultima enciclica Giovanni Paolo II, infatti tutte le parrocchie in cui si apriva l’adorazione eucaristica perpetua, sono oggi luoghi di una straordinaria vitalità e rinascita spirituale. I fedeli partecipano alla vita liturgica, catechetica, caritativa, missionaria con uno slancio ed uno zelo del tutto diversi. Le parrocchie sono rigenerate dal di dentro non dai carismi del pastore, ma dallo stesso autore di tutti i carismi: Gesù il Vivente.
Oggi, come disse in una udienza del mercoledì Benedetto XVI, “stiamo assistendo ad una nuova primavera eucaristica”. L’Anno sacerdotale, che è stato un grande richiamo a noi sacerdoti e a tutti i pastori della Chiesa, ci ha messo di fronte alla prospettiva di un modo nuovo ed al tempo stesso assai tradizionale di fare pastorale: collocare Gesù al centro delle nostre parrocchie, come polo gravitazionale di tutta la vita ecclesiale.
Giovanni Paolo II diceva che ogni programmazione pastorale dovrebbe essere fatta in vista della santità dei fedeli, lo ha detto e personalmente lo ha realizzato in pienezza e ci ha dato lo spunto per realizzarlo anche noi, in comunità centrate nell’Eucaristia, non soltanto ben celebrata, ma anche adorata e collocata al cuore della vita pastorale e dei singoli fedeli. Oggi, con il diffuso secolarismo assistiamo ad un grande ritorno ai valori dello spirito e la gente si sofferma volentieri nella meditazione e nell’ascolto. I pastori che desiderano essere al passo con i tempi si orientano proprio a questa nuova tendenza: Cristo al centro.
Cristo è presente in modo sostanziale proprio nell’Eucaristia e così chi lo celebra, adora ed ascolta, si troverà ben orientato verso la santità e la vera attuazione dei valori dello Spirito Santo, che non ha mai cessato di alimentare la Chiesa. “L’Eucaristia è una pentecoste perpetua”, disse Benedetto XVI ai giovani e tale si dimostra nelle parrocchie che con coraggio la sanno collocare al centro della vita pastorale.
Quante sono le parrocchie in Italia che svolgono l’adorazione perpetua e quante nel mondo?
Don Alberto Pacini: Oggi in Italia ci sono una cinquantina di adorazioni eucaristiche perpetue, di cui due in ospedali, ed in quasi tutte le regioni del Nord, Centro, Sud, mentre nel mondo sono oggi più di 9.500. Il risveglio eucaristico è un fenomeno in grande crescita ed è fortemente incoraggiato e promosso personalmente dal Papa Benedetto, ci ha detto il Card Piacenza in un incontro privato, che ci ha concesso nella sede della Congregazione del Clero ed è il vero antidoto alla crisi della Chiesa e del Clero. Non a caso le iniziative dell’Anno sacerdotale e la lettera per promuovere in tutto il mondo una cordata di adorazione eucaristica per la santificazione del Clero (8 dicembre 2007), sono centrate nel Sacramento dell’Eucaristia.


[Martedì 1° marzo, verrà pubblicata la seconda parte dell'intervista]


CRESCE LA PRATICA DELL’ADORAZIONE EUCARISTICA PERPETUA (II) - Intervista a don Alberto Pacini di Antonio Gaspari

ROMA, martedì, 1° marzo 2011 (ZENIT.org).- Porre l’Eucaristia al centro genera in tutti i parrocchiani “un grande risveglio” ed “un rinnovato slancio” ad una più viva partecipazione. E' quanto afferma a ZENIT don Alberto Pacini, predicatore e rettore della chiesa di S. Anastasia a Roma.
Cosa pensa il Pontefice dell’adorazione perpetua? Ed in che modo questa pratica sta entrando nella vita ordinaria delle parrocchie?
Don Alberto Pacini: Il Papa Benedetto scrive in Sacramentum Caritatis 66: « Già Agostino aveva detto: «nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus non adorando – Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell'Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l'adorazione eucaristica non è che l'ovvio sviluppo della Celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d'adorazione della Chiesa. Ricevere l'Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo.
Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste. L'atto di adorazione al di fuori della santa Messa prolunga ed intensifica quanto s'è fatto nella celebrazione liturgica stessa. Infatti, «soltanto nell'adorazione può maturare un'accoglienza profonda e vera. E proprio in questo atto personale di incontro col Signore matura poi anche la missione sociale che nell'Eucaristia è racchiusa e che vuole rompere le barriere non solo tra il Signore e noi, ma anche e soprattutto le barriere che ci separano gli uni dagli altri».
Inoltre specificamente sull’adorazione perpetua dice in Sacramentum Caritatis 67: « A questo proposito, di grande giovamento sarà un'adeguata catechesi in cui si spieghi ai fedeli l'importanza di questo atto di culto che permette di vivere più profondamente e con maggiore frutto la stessa Celebrazione liturgica. Nel limite del possibile, poi, soprattutto nei centri più popolosi, converrà individuare chiese od oratori da riservare appositamente all'adorazione perpetua. Inoltre, raccomando che nella formazione catechistica, ed in particolare negli itinerari di preparazione alla Prima Comunione, si introducano i fanciulli al senso e alla bellezza di sostare in compagnia di Gesù, coltivando lo stupore per la sua presenza nell'Eucaristia».
L’iniziativa portata avanti dalla Congregazione del Clero, di promuovere una cordata di adorazione perpetua per la santificazione dei sacerdoti, mostra con chiarezza la linea del Papa. Questa linea è stata rafforzata anche dall’Anno sacerdotale, in cui la figura del Santo Curato D’Ars è stato il riferimento della Chiesa intera per un ritorno al culto eucaristico, vissuto con profonda intensità in tutte le parrocchie, dopo un notevole raffreddamento nel post-Concilio.
Se dovesse spiegare ad un non credente o a un cattolico che non frequenta i sacramenti l’importanza della adorazione perpetua, cosa direbbe?
Don Alberto Pacini: Il Sacramento dell’Eucaristia istituito da Gesù durante la sua ultima Cena Pasquale con gli apostoli, lo rende presente in persona, secondo le sue parole: “questo è il mio corpo… questo è il mio sangue”. Pertanto Gesù si dona a noi e continua ad essere presente nelle specie del pane consacrato. Quando esponiamo una particola consacrata e ci soffermiamo a fissare
lo sguardo su di essa, nel silenzio di una chiesa, nel raccoglimento della meditazione, troviamo che quel silenzio si riempie di “presenza”. Questo silenzio è molto eloquente anche per chi non crede, è un fatto oggettivo, come il senso di pace indicibile che si prova in un luogo dove tanti pregano a lungo… in questo silenzio e questa pace incontriamo Colui che riporta la pace nei nostri cuori e parla nel silenzio, in modo più eloquente di ogni altra voce.
Quali i frutti di questa devozione così decisiva per la fede cristiana? Può riportarci qualche commento di persone che praticano l’adorazione perpetua?
Don Alberto Pacini: In una “normale” parrocchia, la presenza dell’adorazione perpetua, non tanto la classica adorazione settimanale, il giovedì, o mensile il primo venerdì del mese, suscita un grande cambiamento, una vera rivoluzione copernicana della vita pastorale. Il fatto di aver collocato l’Eucaristia al centro, genera in tutti i parrocchiani un grande risveglio, specialmente se accompagnati e stimolati dall’esempio e dalla preghiera del pastore. La vita liturgica, catechistica, caritativa, dei movimenti più o meno presenti nella parrocchia in questione, vengono totalmente rinnovati. Nasce un grande impulso ed un rinnovato slancio ad una più viva partecipazione nel cuore di tutti, insomma, ognuno trova in Colui che è esposto solennemente sull’altare, il Buon Pastore che ancora oggi pasce il suo gregge e dona la vita per le sue pecorelle.
Qui di seguito offro alcune testimonianze, che possiamo trovare nel nostro sito, insieme a molte altre, incluse quelle di parroci che hanno scoperto questo modo per rigenerare la loro parrocchia, proprio come successe nel villaggio di Ars, ai tempi del santo Curato.
• I ragazzi ai quali faccio catechismo hanno sperimentato una nuova vita. Mentre all’inizio, quando gli ho proposto di fare dieci minuti di adorazione, molti di loro erano assai perplessi e dubbiosi su quanto avrebbero retto in silenzio, poi, passato il tempo della loro adorazione, sono venuti a dirmi di averci preso gusto e di voler riprovare. È nato il progetto girasole.
• Da Dio abbiamo ottenuto molte grazie, alcune strepitose. La fatica nel mettersi in adorazione e nel portare avanti l’impegno per tre anni è stato pienamente ripagato.
• È Nata una più profonda conoscenza del Signore, che molti hanno seguito e poi si sono impegnati a testimoniarlo presso i loro amici e conoscenti.
• L’adorazione è stata per me una fonte di vita rinnovata, che ha riempito e rigenerato il vuoto che il mondo lascia nei cuori. È stata un forte aiuto nel vivere i rapporti con gli altri; ho iniziato ad intercedere per il mondo giovanile.
• L’adorazione è un punto di riferimento importante per persone provenienti non solo da questa parrocchia ma anche da tanti luoghi diversi, è un luogo dove attingere e dove “scaricarsi” dei propri pesi. Specie la notte ha una ricchezza straordinaria, avevo molte paure, ma varcata la soglia di casa le mie paure sono finite nel nulla per lasciare il posto ad una indicibile gioia, via, via che mi avvicino alla cappella di adorazione.
• È una “valvola di sfogo” dove posso dire tutto al Signore, senza timore e senza essere giudicato da lui. Non posso più fare a meno di adorarlo di trascorrere il mio tempo con lui.
• È Dio stesso che provvede a comporre il mosaico della vita e dei tempi di adorazione, interviene quando ci sono problemi di riempimento di ore rimaste vuote. Ho ritrovato la forza nella mia sofferenza e nel dramma della malattia sentendomi avvolta dalla preghiera dei fratelli e dall’amore di Dio che ha alleviato le mie sofferenze.
• Nei momenti critici della vita, se non hai la fede non c’è niente da fare. Ho trasformato in preghiera i miei problemi.
• Bisognerebbe inventare l’adorazione eucaristica perpetua, se non ci fosse. Un’ora solo è poco.
• Gesù ha esaudito i desideri del mio cuore. La mia è una lode continua, intercedo perché Dio raggiunga tutti i cuori.
• Esperienza entusiasmante.
• Ha cambiato la mia vita ed il mio modo di pormi con Dio. Gioia interiore grande, mai provata prima.
• Sono passato da una preghiera egoistica ad un’attenzione agli altri.
• Ho scoperto l’amore di Dio e la sua misericordia.
• Se hai fede Dio ti ascolta e soddisfa anche le tue esigenze materiali. La fede è la chiave. Me lo hai promesso… lo devi dare.
• Tante guarigioni fisiche. Mi costringo a pubblicizzare l’adorazione. Non riesco ad ascoltare, ma parlo sempre io.
• Ho fatto una vita di turni, e mi sono detto che non avrei mai più fatto una notte! Sono adoratore della notte, non posso più farne a meno.
• In un paese come questo… comunista, non avrei mai creduto!
• Mi ha cambiato interiormente, sento di avere un amico che mi ama. Niente mi fa più paura. Vado avanti dritta, Gesù trova la strada.
• Mi sembrava di salire una montagna, in tre anni e tre mesi non sono mai mancata, niente mi può fermare.
Esistono realtà ecclesiali ufficialmente riconosciute dalla Chiesa che promuovono l’adorazione perpetua?
Don Alberto Pacini: La Federazione Mondiale delle Opere Eucaristiche, nata in Spagna originariamente per promuovere l’adorazione notturna, è stata riconosciuta con approvazione ufficiale dal Pontifico Consiglio per i Laici, il 22 gennaio 2009. A questa federazione possono aderire tutte le associazioni laicali locali che hanno lo scopo di promuovere il culto reso all’eucaristia. È interesse della Federazione promuovere un coordinamento in ogni nazione, che renda sempre più capillare e diffuso il Movimento Eucaristico.
In Italia il nostro coordinatore nazionale è don Giovanni Lo Sapio, parroco della Diocesi di Nola, che ha felicemente accolto la proposta dell’adorazione perpetua, ne è diventato strenuo promotore ed è anche ideatore del nostro Convegno Nazionale Adoratori. Siamo felicemente giunti al terzo Convegno Nazionale Adoratori, che quest’anno si svolgerà a Loreto dal 28 al 30 giugno e già in varie regioni italiane sono stati celebrati, o si celebreranno Convegni regionali: Campania, Toscana, Lazio, Triveneto, Emilia-Romagna. Queste ed altre informazioni si possono attingere nel sito www.adorazioneperpetua.it.


[La prima parte dell'intervista è stata pubblicata il 28 febbraio]


Silvia e l'aborto. E poi fuori a riveder le stelle di Giorgio Gibertini, 01-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Sabato scorso, ricevendo in assemblea i membri della Pontificia Accademia per la vita, Papa Benedetto XVI ha dapprima parlato dell’aborto come inganno per la vita e per la donna (soprattutto quello terapeutico), quindi ha richiamato i medici al proprio impegno per la vita e la società tutta a un impegno maggiore verso le mamme che hanno abortito.
In Italia della sindrome post-abortiva si occupano saltuariamente molti Centri di aiuto alla vita, magari appoggiandosi direttamente a qualche psicologa locale, e sistematicamente associazioni quali La Vigna di Rachele e Il Dono.
Proprio grazie a Il Dono incontriamo Silvia, 34 anni, nella sua città, Milano: un aborto alle spalle, un futuro davanti «perché la morte non abbia l’ultima parola», come continua ripeterci con le parole, e lo sguardo, durante l’intervista.

Non volevi pregiudizialmente bambini o hai deciso l’aborto dopo aver scoperto di essere incinta?
Mi ero sempre proclamata contraria all’aborto, ma quel test positivo era talmente inatteso che, pochi minuti dopo aver visto il risultato, alla domanda fatta tra me e me “e adesso?” quel pensiero si è insinuato, quasi ovvio, tra un palpito del cuore e l’altro: “Prima di tutto devo dirlo a lui. E comunque, si può sempre interrompere”.

Quando hai scoperto di essere incinta che sensazioni hai vissuto?
Lo stupore ha prevalso su tutto: avevo vissuto un solo momento d’intimità negli ultimi anni, in occasione di un incontro con il mio ex ragazzo. E quella sera sono rimasta incinta. Allo stupore son seguiti a breve la paura e la confusione…

La scelta dell’aborto l’hai condivisa con il padre di tuo figlio o sei stata lasciata sola?
Ero stupita e un po’ spaventata da qualcosa di tanto grande e tanto lontano dai miei programmi. Ho cercato rassicurazioni, ma le ho cercate nel posto sbagliato: lui da subito non ne ha voluto sapere. Ma quel che è peggio, a posteriori, è che non si è fatto da parte subito: voleva che io mi convincessi che l’aborto era la scelta migliore, per me, per lui, persino per il bambino. Abbiamo passato notti intere a parlare e mi sembrava che, per quanto dolorose, le sue ragioni fossero ragionevoli. Quanto a me, alternavo momenti in cui tutto sembrava chiaro a favore dell’interruzione della gravidanza ad altri in cui ogni cosa sembrava ugualmente chiara ma dire il contrario, tanto che una volta chiamai l’ospedale per annullare tutto. Però ritelefonai due giorni dopo, convinta che quella non fosse la scelta migliore, ma l’unica possibile. Mi sentivo sola, confusa e angosciata, e volevo che tutto passasse. Volevo solo che la mia vita tornasse come prima.
Lui mi ha accompagnato in ospedale, c’era prima e dopo l’intervento. Dopo ha iniziato a sparire. Più stavo male io, più si allontanava lui. Eravamo amici da 16 anni, avevamo alle spalle una storia di 2, credevo ci fosse un legame forte fra noi. Non l’ho più sentito.

Cosa ti ha fatto rinascere?
La mia rinascita è avvenuta nelle mani di Dio, che si è manifestato in più persone e in più momenti. Di questo non sarò mai grata abbastanza. Un ruolo chiave l’hanno avuto, in modi diversi, un amico sacerdote, una psicologa,  e soprattutto le donne e gli uomini de “Il Dono”. Con loro sono stata aiutata a fare verità, non solo sul mio aborto, ma sulla mia vita, perché ho capito che il mio “no” a quel figlio inatteso veniva da lontano. Non era un fulmine a ciel sereno, ma l’esito di tanti altri rifiuti, il gesto logico di una mentalità che, fino ad allora, non sapevo appartenermi.

Il Papa ha invitato i medici a non ingannare le madri con l’aborto. Anche per te l’aborto è un inganno?
Sì, perché a chi lo compie sembra l’unica strada percorribile e invece c’è sempre un’altra via. È un inganno perché chi lo compie pensa di riportare le cose come prima, ma un figlio cambia sempre la vita. E un figlio che ti entra sempre più nel cuore e nell’anima, ma che non potrai mai veder crescere e abbracciare, e questo per tua scelta, è qualcosa che la stravolge la vita.

Quanto potrebbero fare i medici e quanto avrebbero potuto fare per te?
Potrebbero fare molto. Anche indirizzando le donne che si rivolgono a loro verso associazioni ed enti in grado di ascoltarle con pazienza e attenzione. Nel mio caso, anche se alla visita piangevo come una fontana, la risposta glaciale che ebbi al mio «non sono sicura di volerlo fare», fu un secco «non è un mio problema». Il medico che avviò l’iter non mi chiese neppure i motivi del mio rivolgermi a lui. Penso che sarebbe stato importante sentirmi accolta e ascoltata con i miei timori e i miei dubbi.

A una madre che oggi si trova nella tua situazione di allora cosa diresti?
Prima di tutto le farei le congratulazioni! Cercherei di spostare la sua prospettiva: dal considerare quella novità come un problema da risolvere al vederla un’opportunità di gioia. E prima di qualunque consiglio, la ascolterei, mi metterei al suo fianco, le direi: “Parliamone. Come ti senti, cosa ti preoccupa, quali sono i tuoi pensieri?”. Promettendole che non resterà sola…

La sindrome post-abortiva è poco studiata, ma esiste. Come stai “sopravvivendo” al tuo aborto?
Dopo l’aborto avrei voluto morire. Provavo un dolore, un senso di vuoto e un senso di colpa così grandi che pensavo che continuare a vivere fosse un inferno. Il cammino umano e di fede co “Il Dono” e col mio padre spirituale ha accompagnato la mia conversione: mi hanno insegnato che con il dolore, e con un’altra morte, benché non fisica, non avrei rimediato al mio sbaglio, non avrei restituito la vita a mio figlio, né avrei onorato la memoria della sua breve esistenza. Mettere in pratica invece tutto quello che grazie a lui ho imparato e imparo ogni giorno, mettermi in gioco per diventare una persona migliore, mettermi alla scuola dell’Amore per vivere una vita piena e autentica, questo posso farlo, e farlo per lui. Perlomeno ci provo. Il sacramento della Riconciliazione è stato una tappa fondamentale perché si compisse la trasformazione del mio sguardo.


Pier Giuliano e il regno sociale di Gesù Eucaristico di Massimo Introvigne, 01-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Per tutto l’anno 2011 la Chiesa Cattolica francese, con diverse iniziative, ricorda il secondo centenario della nascita di san Pier Giuliano Eymard (1811-1868), che è caduto il 4 febbraio. Il santo nasce infatti il 4 febbraio 1811 a La Mure, nell’Isère, a quaranta chilometri da Grenoble. Le condizioni della famiglia – molto cattolica, ma povera – ostacolano la sua vocazione al sacerdozio, che Pier Giuliano riesce comunque a perseguire nonostante gravi difficoltà. È ordinato sacerdote a Grenoble nel 1834. Parroco esemplare, è però affascinato dalla vita religiosa ed entra nel nuovo ordine dei Maristi, fondato da Jean-Claude Colin (1790-1875).

La sua vocazione specifica è però l’Eucarestia. Soffre delle profanazioni di cui è vittima da parte di anticlericali nella Francia del suo tempo, dell’abbandono di molti tabernacoli, del fatto che sempre più numerosi, soprattutto nelle grandi città industriali, sono gli adulti che non hanno mai fatto la Prima Comunione. Un’esperienza spirituale del 1851 nella Basilica di Nostra Signora di Fourvière, a Lione, lo induce a fondare una nuova congregazione tutta dedita all’Eucarestia, i Padri del Santissimo Sacramento o Sacramentini. Un buon numero di opposizioni ostacolano la fondazione, che – sostenuta dal santo Curato d’Ars Jean-Marie Vianney (1786-1859) – è finalmente approvata dal Papa beato Pio IX (1792-1878) nel 1863. Provato da molte sofferenze fisiche e morali, san Pier Giuliano Eymard muore nel 1868 nel villaggio natale di La Mure. I Sacramentini continuano la sua opera e, dovunque sono presenti, insieme a molte altre iniziative assicurano la diffusione dell’adorazione eucaristica, carissima al loro fondatore.

Un aspetto poco conosciuto della biografia di san Pier Giuliano è il suo interesse per la scuola cattolica detta contro-rivoluzionaria e la sua amicizia per uno dei principali esponenti suoi contemporanei di questa scuola, il filosofo di Lione Antoine Blanc de Saint-Bonnet (1815-1880). Continuatore di Joseph de Maistre (1753-1821), di cui ribadisce e fa conoscere le tesi sull’infallibilità pontificia, Blanc de Saint-Bonnet prepara, con un’articolata critica delle ingiustizie della Rivoluzione industriale, la generazione successiva di contro-rivoluzionari come René de La Tour du Pin (1834-1924), che metteranno al centro delle loro preoccupazioni i problemi socio-economici. Sulla scia di Maistre, Blanc de Saint-Bonnet riflette anche sulla Rivoluzione francese e sulla storia, mostrando il nesso fra tre Rivoluzioni che discendono una dall’altra e costituiscono un’unica Rivoluzione: quella protestante, quella illuminista e quella socialista.

Ispirato dalla frequentazione di un filosofo geniale ma non sempre ortodosso, Pierre-Simon Ballanche (1776-1847), del cui pensiero peraltro non adotterà mai gli aspetti più discutibili, Blanc de Saint-Bonnet vede l’origine della Rivoluzione nella rottura fra fede e ragione: «voi che separate la ragione dalla religione – scrive – sappiate che distruggete l’una e l’altra. La religione senza ragione diventa superstizione. La ragione senza religione diventa incredulità». L’equilibrio fra fede e ragione è però garantito – contro l’orgoglio razionalista – solo dalla consapevolezza del peccato originale, cui siamo costantemente richiamati dal dolore, cui il filosofo francese dedica pagine anche letterariamente apprezzabili nel suo La Douleur.

È proprio quest’opera, pubblicata nel 1849, che suscita l’entusiasmo del padre Eymard. Nel 1850, il santo scrive a Blanc de Saint-Bonnet e ne nasce una lunga amicizia. Nel 1863 è nel castello di Saint-Bonnet, presso il filosofo, che Pier Giuliano si rifugia per scrivere, con i consigli di Blanc de Saint-Bonnet, le costituzioni della sua congregazione religiosa. In una lettera del 6 ottobre 1863 così il santo racconta quei giorni: «Era Saint-Bonnet, sembra, che doveva essere per me la grotta sacra di san Benedetto [480-547], la Verna di san Francesco [1182-1226], la Manresa di sant’Ignazio [1491-1556] o, per meglio dire, il mio Cenacolo dove mi sono raccolto. Qui, anche, il lavoro mi è facile. Quando mi servono, ho due buone segretarie e nel signor de Saint-Bonnet un consigliere saggio ed elevato in Dio». Si dovrebbe anche ricordare – a proposito dell’amicizia fra Eymard e Blanc de Saint-Bonnet – la presenza almeno epistolare nelle vicende che riguardano il loro rapporto del servo di Dio dom Prosper Guéranger (1805-1875), abate benedettino di Solesmes, a sua volta amico e confidente del filosofo di Lione.

Il rapporto con la scuola contro-rivoluzionaria e con Blanc de Saint-Bonnet è tutt’altro che secondario nella vita di san Pier Giuliano Eymard. Egli, infatti, non ha un accostamento puramente devozionale all’adorazione eucaristica. «Il Signore Gesù – scrive – sia senza interruzione adorato nel Sacramento e glorificato con culto sociale in tutto il mondo». L’adorazione pubblica dell’Eucarestia, il «culto sociale» attraverso le processioni e l’omaggio anche delle città e degli Stati è al cuore del programma di restaurazione sociale delineato da Blanc de Saint-Bonnet ne La Restauration françaiseLa Légitimité (la grande opera politica del filosofo, , che gli varrà il breve di elogio Fils bien aimé, firmato dal beato Pio IX l’11 ottobre 1873, uscirà solo dopo la morte del santo), dove si legge: «Il male è religioso, la Rivoluzione è religiosa, il rimedio è religioso, guariremo solo in modo religioso». La regalità eucaristica di Gesù Cristo è il nome adatto al secolo – e benedetto – che san Pier Giuliano Eymard dà alla regalità sociale del Signore.


La scrittura "rock" della cattolica Flannery di Antonio Giuliano, 01-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Ci vuole occhio per essere scrittori. E la narratrice statunitense Flannery O’Connor (1925-1964) non ha mai nascosto la sua prospettiva: «Scrivo come scrivo perché sono (non sebbene sia) cattolica». E anzi: «Proprio perché sono cattolica non posso permettermi di esser meno di un’artista». Una rivendicazione orgogliosa, così stridente con una certa cultura dominante, al punto da sospettarne la censura. Come dimostra una raccolta di saggi ancora stranamente inediti che esce il 2 marzo da Rizzoli Il volto incompiuto. Saggi e lettere sul mistero di scrivere (Rizzoli, pp. 180, euro 9). Scritti giudicati mai degni di pubblicazione ora presentati per la prima volta dal gesuita Antonio Spadaro, critico letterario de La Civiltà Cattolica, folgorato dall’autrice statunitense di cui da anni è impegnato a farne conoscere l’opera, ora anche attraverso un sito (www.flanneryoconnor.it). Stroncata dal lupus, a Flannery O’Connor bastarono 39 anni per diventare una scrittrice di culto grazie a ventisette racconti e due romanzi: “La saggezza nel sangue” e “Il cielo è dei violenti” in cui spiccano trame forti e scioccanti, e personaggi tragicomici. Non è un caso, ci dice Spadaro, che registi pulp come Quentin Tarantino o i grandi del rock abbiano tratto ispirazione dalle sue opere.


Perché Flannery O’Connor sente il bisogno di manifestare chiaramente la sua fede?
È la sua visione del mondo. Flannery non è né bigotta né intellettuale o interleckchul (intellettualoide) come diceva lei. La sua fede certamente illumina la sua ispirazione artistica, lei stesso scrive: «Credo che se non fossi cattolica, non avrei ragione di scrivere, nessuna ragione di vedere, nessuna ragione di provare orrore, o di provare piacere in nulla... Non ho mai percepito l’essere cattolica come un limite alla libertà dello scrittore, piuttosto l’opposto». Per lei la fede è vedere le cose: la fede è una sorta di motorino di avviamento della percezione e, quindi, della scrittura: «La fede, nel mio caso almeno, è il motore che aziona la percezione».  Chi ha fede ha l’occhio giusto per essere scrittore. «Per lo scrittore di narrativa, non credere in niente equivale a non vedere niente». E così le si amplia il campo visivo su un mondo che Flannery ha definito come Christ-haunted, cioè “infestato da Cristo”.

Un cattolicesimo, quello della scrittrice, che lei nella prefazione definisce hardcore (duro), in cui la fede sembra diventare una sorta di lente di ingrandimento…
Sì secondo lei «gli scrittori che vedono alla luce della loro fede cristiana saranno, di questi tempi, i più fini osservatori del grottesco, del perverso e dell’inaccettabile» perché «non vi sarà niente nella vita di troppo grottesco, o troppo “non cattolico”, da non poter fornire materiale». La O’Connor è particolarmente sensibile agli aspetti più drammatici e paradossali dell’incisività della grazia, che può arrivare fino all’abbrutimento del personaggio. Anzi, l’irruzione della grazia non sempre migliora la vita personale e sociale dei personaggi e, nel suo caso, è proprio esattamente il contrario. La sua narrativa allora non potrà che risultare “selvaggia”, insieme violenta e comica, per via delle discrepanze che cerca di ricomporre.

Una scrittura che comunque colpisce per la concretezza, per una dura realtà…
Per Flannery «l’universo visibile è un riflesso di quello invisibile». Dio è un dato dell’esperienza non un’intuizione della mente. La scrittrice dà alla dimensione spirituale una consistenza materiale o “sacramentale”. Quando una sua collega scrittrice le diceva di considerare l’Eucarestia solamente come un simbolo, la sua risposta fu netta: «Beh, se è un simbolo, che vada al diavolo» (“Well, if it’s a symbol, to hell with it”). E aggiungeva: «Non sono scrittrice dell’impercettibile, io».

Nella scelta dei protagonisti delle sue trame sembra esserci una preferenza per personaggi del Vangelo, come storpi, ciechi…
Il suo modello è la Bibbia. Non si fanno storie senza una storia di riferimento e la Bibbia fornisce una storia nella quale «chiunque possa riconoscere la mano di Dio e la sua discesa». E infatti per Flannery la nostra reazione della vita sarà diversa se «ci hanno inoculato soltanto una definizione della fede o se abbiamo tremato insieme ad Abramo che levava il coltello su Isacco». Ma lei stessa lamentava che la Bibbia «non ha fatto breccia nel profondo della nostra coscienza» e la cultura ha eliminato il mistero. La scrittrice attacca non tanto gli atei, quanto coloro che ammettono l’esistenza di un essere divino che non ha niente a che fare con la storia.

Non solo per la rivendicazione della fede: mi pare raggiunga vette di anticonformismo nel panorama culturale (anche di quello cattolico) parlando spesso di diavolo. Secondo la scrittrice per fare la prova dell’esistenza di Satana basta provare a resistere a una qualsiasi tentazione per cinque minuti….
Flannery dice di essere interessata all’azione della grazia in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo. La scrittrice riconosce che il lettore troverà che il diavolo getta le basi necessarie affinché la grazia sia efficace. Il senso del male è garanzia del nostro senso del mistero e dunque il diavolo diventa, in qualche modo, una necessità drammatica dello scrittore. Più anticonformista di così…

Perché anche critici nostrani come Fernanda Pivano, l’hanno ignorata?
Non solo lei. Flannery è scomoda per tutti. Imbarazzante. Nelle opere della O’Connor i personaggi sono sempre e in ogni momento tutti allineati al principio di tutte le loro possibilità. Così la salvezza può venire da un assassino e, invece, un cieco egoismo può essere l’espressione tipica di un filantropo umanista. Ogni ideologia esplode, e così ogni prevedibilità. E poi la O’Connor è sempre stata defilata rispetto al mondo delle mode.

Perché alcuni grandi del rock le sono debitori?
Nick Cave come la O’Connor assume dalla Bibbia, e in particolare dall’Antico Testamento immagini e linguaggio. Cave trova nella tough prose, la prosa dura del Vecchio Testamento una lingua perfetta, allo stesso tempo misteriosa e familiare. Il mondo dei personaggi di Springsteen è un mondo cupo: se per la O’Connor la grazia agisce in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo, così anche per Springsteen: ogni forma di grazia possibile si trova soltanto in badlands (bassifondi) e darkness (oscurità), per usare due delle tante metafore possibili. La luce brilla solamente se ci sono tenebre. Ma l’eredita “oconnoriana”, in realtà, è più estesa e dunque si dovrebbe prendere in considerazione, ad esempio, almeno In God’s Country e l’intero album The Joshua Three degli U2, il disco Murmur dei R.E.M., Blood Money di Tom Waits.

Parliamo di una donna che nonostante la propria malattia non ha mai imputato a Dio la sofferenza, nè l’inspiegabilità del male.
La sua è una visione radicalmente escatologica. Vede il mondo under construction, in costruzione, non finito, e così tiene il suo sguardo lasciando intatto il senso del mistero. Non si accontenta della tenerezza: vuole andare oltre, avere una visione del significato del male, e comprende che a volte l’eccessiva tenerezza distrae l’occhio e lo rammollisce. Scrive testualmente: «Una tenerezza staccata dalla persona di Cristo è avvolta nella teoria. Quando la tenerezza è separata dalla sorgente della tenerezza, la sua logica conseguenza è il terrore. Finisce nei campi di lavoro forzato e nei fumi delle camere a gas». Il rischio è la trasformazione della carità in idea, o meglio, in ideologia del bene per l’umanità. La carità che non sa accettare l’incompletezza della condizione umana, e non solo la debolezza, rischia di rimanere cieca. Da qui deriva l’utopia di un uomo e di un mondo perfetto e ideale, in cui non c’è più dolore e male: non a caso in nome della realizzazione di paradisi in terra, sono stati commessi delitti atroci nella storia.

Per questo rifugge anche nei suoi scritti da un certo sentimentalismo?
Lei mostra non una generica attitudine alla tenerezza, ma un occhio profetico capace di vedere anche nel dramma la traccia di un destino. L’occhio deve vedere che il suo orizzonte finito non offre spiegazioni plausibili. Non cerca risposte dinanzi al male. Non fa neanche alcun rinvio alla responsabilità dell’uomo come alibi per “assolvere” Dio e per aiutare l’uomo ad essere più moralmente vigile. Parte dal fatto che il poeta è cieco per tradizione, ma il poeta cristiano è come il cieco toccato da Cristo, che guardò e vide uomini come fossero alberi. È una visione distorta, ma è quella che interessa a Flannery: descrivere gli uomini come alberi che camminano. Ciò che queste “strane visioni”, come lei le definisce, fanno saltare subito per aria è il “buon senso” vagamente laico, razionale e illuministico che tanto ammorba la vera ispirazione artistica.


L’omaggio di un freudiano a Paul Newman - Autore: Genga, Glauco Maria  Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 28 febbraio 2011

Con questo intervento su Paul Newman comincia la collaborazione del Dott. Glauco M. Genga, psicanalista, al sito di CulturaCattolica.it
Quando ho appreso la notizia della sua morte, ho capito meglio che cosa mi aveva spinto ad andare con mia moglie a Broadway, il 25 gennaio 2003. Con l’aiuto degli amici Luca Flabbi e Anna Fruttero, all’epoca residenti a New York, realizzai uno dei miei «sogni»: vedere recitare Paul Newman dal vivo. Era la vigilia del suo 78° compleanno, ed era in scena Our Town, Piccola Città, di Thornton Wilder. Fino ad ora non vi avevo fatto caso: solo pochi mesi prima del mio blitz newyorkese avevo perso mio padre. Non che gli assomigliasse: a mio padre era stata attribuita, con ragione, una qualche somiglianza con Clark Gable. Ma è vero che, quanto ai padri, uno li cerca e li trova dove e come può.
Un passo indietro. Poco più che sedicenne, vidi per la prima Paul Newman nel film Un uomo oggi (titolo originale WUSA, 1970, regia di Stuart Rosenberg). Era appena uscito nelle sale italiane. Pressoché sconosciuto, fu praticamente un flop ma, come appresi in seguito, era co-prodotto dallo stesso Newman, che amava moltissimo questo film.
Il protagonista di WUSA non si discosta dal «tipo» del «bastardo pronto a vendersi per il successo» (come ha scritto M. Porro su La Repubblica), che Newman ha portato sugli
schermi in moltissimi film più fortunati di WUSA. Qui è un anchorman al soldo di una radio statunitense di estrema destra, che si rende complice di un omicidio in uno stadio gremito di folla dove viene linciato, durante la sua trasmissione in diretta, un assistente sociale (Anthony Perkins) dedito alla causa dei più deboli. La malafede del protagonista spinge al suicidio la sua donna (Joanne Woodward), con cui si era appena legato. Alla fine, tornando dal cimitero, dice: «Sono stato là: sono un superstite». Il titolo del film doveva essere appunto The Survival. A due anni dal ’68, non era una piccola intuizione.
Negli stessi anni mi ero imbattuto in questi versi di un certo Michajlov, un autore del Samizdat russo, che ebbe una certa fama anche da noi: «Se non sei stato in campo di concentramento, se non t'hanno torturato, se il tuo miglior amico non ha scritto una lettera anonima contro di te, se non sei strisciato fuori da un mucchio di cadaveri, (…) se non hai ammazzato l'amata eseguendo l'ordine di un estraneo (…) e non giuochi nemmeno a basketball, allora non sei un uomo del XX secolo».
Ecco la cifra del personaggio creato da Newman e proposto in quasi tutti i suoi film: l’individuo in bilico tra cinismo e ri-inizio, un crinale che si dipana ben oltre i ristretti limiti della coscienza, meno ancora di quella rivoluzionaria, se mai questa è esistita. E’ un ritratto in cui non c’è più posto per l’ingenuità (il non sapevo o non volevo che Freud imputa alla nevrosi). Dietro la mimica inconfondibile di Newman, dietro la sua giacca gettata pigramente sulle spalle insieme ai delitti di cui si è macchiato - è la scena finale di WUSA - il pensiero si riapre alla via della ricerca dell’innocenza: possibilità appena intravista, ma reale e indelebile.
Oggigiorno, se un uomo non vuole mentire a se stesso, non può contare su nulla di più.
Questo è stato il suo modo di dirci che siamo tutti al day after, senza il minimo cedimento da parte sua al genere pulp. Caso quasi unico, per Newman l’uscita dall’inibizione psicologica non inaugura la catena delle perversioni (letteralmente: sangue e deiezioni), cui purtroppo ci ha abituati il cinema, non solo americano, negli ultimi trent’anni. Pochissime le eccezioni, tra cui Woody Allen e Dustin Hoffman.
Ora che conosco gran parte della sua produzione cinematografica, sono convinto che in WUSA Newman abbia espresso al meglio il cosiddetto «segreto» del suo fascino. Il vero segreto. Perché ce n’è anche uno falso, di cui egli era ben consapevole: i suoi occhi azzurri, di cui purtroppo hanno scritto in questi giorni la maggior parte dei critici. Il falso segreto è facile da svelare: Newman era daltonico! Viene da chiedersi come abbia fatto a guidare auto da corsa per decenni, fino a vincere almeno due competizioni, anche pochi anni orsono.
Attribuire il successo di un attore ai suoi occhi azzurri sarebbe come voler credere che il velocista Carl Lewis abbia conquistato il suo record perché era un… nero: i neri sono molti
milioni, ma pochissimi corrono i 100 metri in una manciata di secondi. E in effetti, con una buona battuta, una volta Newman disse: «Sulla mia tomba vorrei che scrivessero: qui riposa un uomo che divenne finalmente qualcuno quando i suoi occhi diventarono castani»!
Aveva capito tutto della vita, Paul Newman: ecco perché è stato un uomo raro, anzi rarissimo.
Sposando Joanne Woodward, nel ’58, le regalò una tazza d’argento che recava incisa la scritta: «Hai voluto a tutti i costi abbarbicarti ad Apollo; se ti capiterà di non riuscire a
digerirlo, questa ti servirà». E a chi gli chiedeva come mai si accontentasse di una sola donna potendo andare con tante, rispondeva: «(Joanne) ha sempre accettato incondizionatamente le mie scelte e i miei comportamenti, compresa la mia passione per le auto da corsa, che lei deplora. Questo è vero amore. Noi due non abbiamo niente in comune, se non il fatto che ci capita di fare film insieme; ognuno ha i suoi amici e i suoi interessi, non ci soffiamo sul collo, ci sentiamo liberi: sono le nostre distanze a unirci». E’ la migliore apologia del matrimonio che io conosca, scarsissimamente concepita e realizzata. Solitamente occorrono anni di cura psicoanalitica perché un individuo arrivi a pensare in questo modo il rapporto uomo-donna.
Alla domanda: «Le piacerebbe essere immortale?» Newman rispose: «Devo pensarci…io gioco a poker, ma mi piace giocare a carte scoperte. L’immortalità dell’uomo non sarebbe un valore universale: chi sta bene starebbe ancora meglio e quelli che stanno male starebbero ancora peggio. No, no… niente immortalità!». Il nesso tra l’individuo e l’universo faceva parte del suo bagaglio intellettuale, a prescindere dal suo essere credente o meno. La prima questione è sempre la facoltà di desiderare, anche quando si tratta della vita eterna.
Personalmente, l’ho imparato dallo psicoanalista Giacomo Contri (anch’io gioco a carte scoperte), e ho constatato che è una facoltà espunta o decaduta in tutta la patologia psichica.
Ha detto Robert Forrester, vicepresidente della Newman's Own Foundation, l’ente da lui realizzato a favore dei bambini gravemente malati: «Il dono di Paul Newman era la
recitazione. La sua passione le corse. Il suo amore la famiglia e gli amici. Il suo cuore e la sua anima erano dedicati a rendere il mondo un posto migliore». Ecco un pensiero paterno, impossibile a chi non si sia messo anzitutto nella posizione di figlio, cioè di ricevente un’eredità, di qualunque genere.
A suo modo, Newman ha riproposto tutto ciò fino alla fine. Nel suo penultimo film, Per amore… dei soldi (Where the Money is, 2000), è l’anziano partner e complice di una giovane e seducente Linda Fiorentino: il tono scanzonato di questa commedia, inneggiante al furto (!), gli serve in realtà per trattare un tema pressoché tabù: il rapporto padre-figlia. E nel successivo, Era mio padre (The Road to Perdition, 2002, con Tom Hanks), criminalità e tragedia fanno da sfondo all’esame acuto e severo del rapporto padre-figlio: lo stesso esame cui egli stesso non poté sottrarsi alla morte per overdose dell’unico figlio maschio, nel ’78.
Per accomiatarsi, Newman ha voluto che la notizia della sua morte fosse divulgata dapprima dal circuito delle opere di beneficenza a lui collegate, e solo diverse ore più tardi dal suo press-agent: un atto e un giudizio molto chiari.
Paul Newman era tutto questo. Ed è per questo che, ben oltre la via dell’identificazione (che di per sé è solo road to perdition) un po’… era mio padre.


Nottingham University: «pillola giorno dopo aumenta diffusione malattie sessuali» - 1 marzo, 2011 - http://www.uccronline.it

Offrire la pillola del giorno gratuitamente ha ridotto minimamente il numero di gravidanze in età adolescenziale e può essere associato ad un aumento delle malattie sessualmente trasmissibili (IST). Lo dichiarano alcuni esperti dell’Università di Nottingham e la notizia è ripresa dai più importanti siti di divulgazione scientifica, come Sciencedaily. David Paton e Sourafel Girma hanno utilizzato i dati delle autorità sanitarie per studiare l’impatto che l’introduzione dei regimi governativi per il controllo delle nascite come, -per l’appunto- la diffusione gratuita della “pillola del giorno dopo”, hanno avuto sui tassi di concepimento e la diagnosi delle malattie sessualmente trasmissibili tra i minori di 18 anni. Le loro scoperte mostrano che, in media, nelle aree operative in cui sono state fornite precauzioni anticoncezionali, si è verificato un aumento complessivo del 5% del tasso di malattie sessualmente trasmissibili tra le adolescenti (il 12% sotto i 16 anni).  La principale strategia del governo per invertire il fenomeno delle adolescenze adolescenziali, è stata quella di dare libero accesso alla contraccezione d’emergenza alle ragazze con un età inferiore ai 16 anni. Ma ora questa ricerca ha sentenziato il fallimento di questa politica. Già nel 2007 era emerso uno studio che dimostrava alcuna significativa diminuzione delle gravidanze indesiderate o dei tassi di aborto. I ricercatori della Nottingham University ipotizzano che la diffusione della contraccezione d’emergenza porti gli adolescenti ad aumentare il comportamento sessuale rischioso. Concludono quindi i ricercatori: «Il nostro studio mostra come gli interventi pubblici a volte possano portare a errate conseguenze non intenzionali. Il fatto che le gravidanze e la diffusione di malattie sessualmente trasmissibili aumentino nelle zone con regimi di controllo delle nascite, sollevano interrogativi sul fatto se questi sistemi rappresentino il miglior uso del denaro pubblico». Nuova prova quindi che il problema delle gravidanze tra gli adolescenti, come quello della diffusione delle malattie sessualmente trasmissibili, hanno bisogno essenzialmente di un’educazione morale e non prevalentemente tecnica, come da anni sta continuando a ripetere la Chiesa. In Italia la notizia è ripresa dall’AGI.


L'EQUILIBRIO DEL RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE SCONGIURA L'EUTANASIA - “Scienza & Vita” riflette su fine vita e autodeterminazione di Roberta Sciamplicotti - ROMA, martedì, 1° marzo 2011 (ZENIT.org)

ROMA, martedì, 1° marzo 2011 (ZENIT.org).- Un corretto rapporto tra medico e paziente scongiura l'eventualità e il rischio dell'eutanasia, sostiene il professor Luciano Eusebi, Ordinario di Diritto Penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Consigliere nazionale dell'Associazione Scienza & Vita.
Nell'ultima newsletter dell'Associazione, il professor Eusebi ricorda che “ciò che il medico offre al malato non è soltanto un insieme di abilità applicabili sul suo corpo, ma il rapporto con una disciplina, quella medica, che è portatrice di criteriologie complesse d'intervento, elaborate sia sul piano dell'appropriatezza clinica, sia sul piano della ponderazione tra rischi e benefici, sia sul piano etico”.
Una medicina intesa come “arsenale di strumenti dei quali il malato possa disporre a sua discrezione” avvalora il ruolo del malato “solo in apparenza”, sottolinea Eusebi, indicando che in realtà “lo priva della dimensione relazionale col medico (rendendo impossibile l'alleanza terapeutica) e, dunque, del bagaglio di esperienza, non solo tecnica, che la medicina costantemente matura”.
L'effetto è “un impoverimento”, perché “nessun malato potrà supplire alla ricchezza di elementi valutativi che la competenza medica può fornire”.
Eusebi ricorda quindi che “come il malato non è solo un corpo e, dunque, non è l'oggetto passivo degli atti di una figura professionale che sul corpo abbia potere”, “così il medico non è solo un esecutore di richieste provenienti da chi desideri certi effetti”.
Il medico, osserva, “non può attivare terapie sul corpo di un dato individuo senza interagire, di regola, con la persona che attraverso quel corpo si esprime”, e non gli si può “chiedere qualsiasi cosa, né con riguardo alle condotte attive, né con riguardo alle condotte omissive”.
In particolare, “non gli si può chiedere di agire per fini che siano diversi da quelli che gli assegna in via esclusiva il codice deontologico, cioè la tutela della vita e della salute e il lenimento della sofferenza”.
Non si può dunque chiedere al medico “di agire per la morte del paziente”, come accadrebbe nel caso in cui “si esigesse di interrompere o disattivare un presidio terapeutico in atto, privando il medico stesso di qualsiasi valutazione sul contesto in cui quel presidio risulti praticato”, o se – con una dichiarazione anticipata di trattamento relativa al caso in cui il malato venga a trovarsi in uno stato di incapacità – “si prescrivesse al medico di stabilire sì una relazione col dichiarante, ma rinunciando a priori a certi presidi terapeutici”.
In questi casi, conclude Eusebi, si tratterebbe di “eutanasia nella forma passiva”, che “non rappresenta per nulla qualcosa di meno dell'eutanasia tout court, in quanto nelle situazioni di precarietà esistenziale è sempre possibile far sì che la morte si produca privando il malato di qualcosa, piuttosto che intervenendo con atti idonei a cagionare il decesso”.
Dal canto suo Laura Palazzani, Ordinario di Filosofia del Diritto presso la Libera Università Maria SS.ma Assunta (LUMSA) di Roma, Vicepresidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, si sofferma sulla questione dell'“autodeterminazione”, termine che fa riferimento alla libertà quale “capacità di un soggetto di scegliere tra atti alternativi in una stessa situazione”.
Spesso, sottolinea, al giorno d'oggi la libertà viene intesa come elemento che “non solo sceglie i modi di vivere da accettare o da rifiutare ma considera la vita stessa oggetto di scelta, in quanto il soggetto è considerato l'unica fonte di senso delle proprie decisioni”.
Nell'ambito delle questioni relative alla vita e alla morte, alla salute e alla malattia, questa visione della libertà radicale “si appella al diritto della 'privatezza' delle scelte individuali ponendosi come assolutamente vincolante, considerando l'altro un mero esecutore passivo, acritico, meccanico”.
Per la Palazzani, è nell'ambito dell'antropologia relazionale che si comprende “il senso autentico della 'autonomia', che non va confusa superficialmente con la autodeterminazione: l'autonomia non è arbitrio della decisione, ma è scelta razionale, consapevole, competente nel riconoscimento del bene oggettivosoggettivo della vita e della salute”.
Riconoscere l'altro come limite alla propria libertà significa allora “non danneggiare l'altro”, ossia non interferire con l'altrui libertà, ma anche e soprattutto “rispettare, ontologicamente, anche chi non è in grado di esercitare la propria libertà, a causa della immaturità di sviluppo, del decadimento fisico, di patologie permanenti e transitorie”.
Nella newsletter si riporta anche un documento, condiviso e approvato dall’Associazione Scienza & Vita, curato dai Consiglieri nazionali Massimo Gandolfini, Direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Primario Neurochirurgo presso la Fondazione Poliambulanza di Brescia, e Gian Luigi Gigli, Direttore della Clinica Neurologica dell’Università di Udine.
Nel testo si ricorda che il 9 febbraio, ricorrenza della morte di Eluana Englaro, si è celebrata la prima Giornata Nazionale dedicata agli Stati Vegetativi, per sollecitare nell'opinione pubblica un'attenzione particolare per quanti versano in questa condizione clinica, in Italia circa 2.500.
Il documento ricorda la differenza tra il coma, “stato di abolizione della coscienza e delle funzioni somatiche (corporee)”, e lo stato vegetativo (SV), in cui sono presenti le due componenti essenziali della coscienza, ovvero vigilanza e consapevolezza.
C'è poi un quadro clinico intermedio, definito “Stato di Minima Coscienza” (SMC), in cui il paziente è in grado di esprimere una limitata consapevolezza di sé e dell'ambiente.
Nello stato di SV il versante comunicativo della percezione è bloccato, ma non si può dire nulla della “percezione interna” del paziente.
La mancanza di sicurezza assoluta circa la “non percezione” “fonda il dovere clinico e deontologico della somministrazione della terapia” contro il dolore, ricorda Scienza & Vita.
“Due sono le necessarie conseguenze cliniche”, conclude: “acquisire un atteggiamento di massima attenzione e rigore nella valutazione diagnostica al letto del paziente, che richiede una ricognizione ed un aggiornamento plurigiornaliero e continuo”, e “assumere sempre un atteggiamento di cura 'attivo' nei confronti di queste persone, rifuggendo derive di rassegnazione o, peggio, di abbandono, fino ad invocare azioni eutanasiche”.


Fini fa il furbetto con il Catechismo di Riccardo Cascioli, 02-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Uno dei sintomi tipici della dislessia è quello di saltare le parole mentre si legge, rendendo perciò impossibile la comprensione del testo. Così spiega un qualsiasi manuale familiare di medicina. Dislessia. E’ così che abbiamo scoperto il disturbo di cui probabilmente soffre il presidente della Camera Gianfranco Fini che, intervenendo alla trasmissione tv Otto e Mezzo (su La7) del 28 febbraio, ha citato il Catechismo della Chiesa cattolica a sostegno della sua posizione a favore del testamento biologico.

Rispondendo a una domanda di Lilli Gruber sulla legge che andrà in discussione alla Camera settimana prossima, Fini ha citato gongolante un punto del Catechismo per affermare che esso rispecchia la sua posizione. Si tratta dell’articolo 2278 (erroneamente definito “comma” 2278 da Fini).

Ecco come lo ha citato il presidente della Camera:

“L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacitò, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente”.

Qual è il problema? Che Fini ha saltato un’intera frase che dà un senso ben diverso da quello da lui voluto. Ecco infatti il testo integrale dell’articolo 2278 del Catechismo della Chiesa cattolica (in corsivo e grassetto la parte saltata nella citazione):

“L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'“accanimento terapeutico”. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacitò, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente”.

La Chiesa dunque specifica che è legittimo il rifiuto dell’accanimento terapeutico, il che non significa avallare il testamento biologico, tanto è vero che in riferimento all’intervento legislativo la Chiesa ha sempre parlato di “regolamentazione del fine vita” e non di “testamento biologico”.

Certo, nel caso si accerti la dislessia, non si può imputare la malafede al presidente della Camera, resta però il fatto che saltando quella riga Fini non ha potuto comprendere appieno il testo.
E’ anche bello che Fini desideri essere in sintonia con la posizione dei cattolici, ma per farlo dovrebbe dire esplicitamente che idratazione e alimentazione non sono terapie, ma attività di sostegno vitale. Cosa su cui al tempo del caso di Eluana Englaro si espresse – e fece - in modo ben diverso. E dovrebbe anche leggersi altri due articoli del Catechismo, che – rispettivamente – precedono e seguono quello da lui citato, così da rendere pienamente comprensibile quale sia l’insegnamento della Chiesa cattolica al riguardo. Li riportiamo integralmente per facilitare il compito:

2277. Qualunque ne siano i motivi e i mezzi, l'eutanasia diretta consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte. Essa è moralmente inaccettabile.
Così un'azione oppure un'omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un'uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore. L'errore di giudizio nel quale si può essere incorsi in buona fede, non muta la natura di quest'atto omicida, sempre da condannare e da escludere.

2279. Anche se la morte è considerata imminente, le cure che d'ordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte. L'uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile. Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate.


Caro Saviano, tutto qui? Di Davide Rondoni, mercoledì 2 marzo 2011, il sussidiario.net

L’egotismo è un male straordinario. Sottile come la depressione. Insidioso come una nebbia. Saviano ormai me ne pare afflitto irrimediabilmente. Nell’articolo su Repubblica racconta quasi lacrimando del suo enorme successo televisivo, come di una epopea di eroe timido e solitario. Un programma “fazioso” di nome e di fatto, supportato dalla gran cassa della maggior parte dei media, collocato nell’ora di massima audience televisiva sotto la patetica veglia censoria della rai azienda pubblica di stato: non mi paiono ingredienti per un successo inaspettato ed eroico.

Diciamo più semplicemente che si è aggiunto anche lui alla prospera aziendina di anchorman pagati con le nostre tasse liberi di dire quello che vogliono facendo la figura dei martiri. Ma non è questo il punto. Questo ormai è lampante. Il peggior sintomo di egotismo è nella lista che propone come le 10 cose per cui vale la pena vivere. Una cosa tra il serio e il faceto, ma appunto da come è serio e faceto un uomo che si rivolge a milioni di lettori si capisce il livello di egotismo raggiunto. E l’egotismo, sia detto chiaro, non è un problema di Saviano. Ma della intera nostra cultura e società, nei suoi schieramenti di potere spesso opposti ma tremendamente simili. E’ il male che insidia tutti noi, con la penna in mano o senza.

E’ il male dell’uomo monade. In quell’elenco, sufficientemente trendy e moderatamente snob, non compare mai nessun altro (eccetto che un parente e una persona amata). Insomma, un elenco da uomo senza relazioni. O con relazioni minime. Certo a Saviano non mancano le pubbliche relazioni. Ma in questo elenco appare come uno a cui il mondo fa da fondale. Un elenco piccolo borghese, si sarebbe detto un tempo. Gli altri, magari quelli che stanno male, che hanno bisogno, non compaiono mai. Tra le dieci cose che per l’Eroe danno senso al vivere non ce n’è una che non sia a suo proprio uso e consumo. Nobili consolazioni, gesti di raffinatezza, mozzarelle e Raffaello, conforto nel successo.
Ma gli altri, i “prossimi” no, non ci sono. Forse dire che val la pena vivere per combattere la morte di migliaia di innocenti o la malattia di tanti, o la solitudine di quanti vivono il deserto “pressato nel treno della metropolitana” come dice Eliot potrebbe sembrare altisonante, retorico. Ma forse è più retorico, altisonante nel suo snobismo dire che tra i dieci motivi c’è la mozzarella di bufala. In realtà non ci sono dieci cose per cui vale la pena vivere. Ce ne sono miliardi. Vale la pena vivere per ognuno degli altri. Per lo spettacolo (anche drammatico) che è ognuno degli altri –per i tuoi figli o per lo sconosciuto incontrato.

Vale la pena vivere per sé e per tutti. Solo un uomo “monade” sceglie con presunta finezza dieci cose per cui vivere. Un uomo che cerca la vita non sceglie dieci motivi, ne incontra ogni giorno migliaia. Lo dice il Vangelo, ma i nuovi profeti non lo conoscono: per vivere occorre amare Dio e il prossimo come se stessi. Uno può decidere di avere come Dio la mozzarella o Bob Marley (o il proprio successo), ed è il perenne vizio dell’idolatria, ognuno si elegga il dio che vuole. Ma che scompaia il prossimo, che non ci sia ombra degli altri, questo mette una grande tristezza.

Non a caso, Saviano riconosce che, ispirandosi ad Allen, fare questo elenco è un antidoto per lui che “è il malato cronico” (di egotismo appunto) per sottrarsi a problemi inutili in cui è imprigionato. Ma i problemi inutili sono quelli che riguardano il senso del limite, del dolore, del vivere. Un modo per sottarsi ai problemi della vita. E tutto questo fa del gioco simpatico un gioco triste. Snob, televisivo appunto.
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Ucciso il ministro cattolico per le minoranze - 02-03-2010, da http://www.labussolaquotidiana.it

Il ministro pakistano per le Minoranze Shahbaz Bhatti è stato ucciso oggi a colpi di arma da fuoco a Islamabad. Bhatti, unico ministro cristiano nell’esecutivo pakistano,  aveva invocato cambiamenti nella controversa legge nazionale sulla blasfemia e aveva difeso Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte proprio per questa discussa legge.

Secondo quanto riferito dalle forze dell’ordine stamane alcuni uomini armati avrebbero aperto il fuoco sull’auto del ministro, che non era blindata, mentre si trovava in un quartiere della capitale.
Gli attentatori hanno prima fermato l’auto, poi costretto a scendere il ministro e infine hanno aperto il fuoco contro di lui a brevissima distanza, prima di fuggire a bordo di un’automobile. I terroristi hanno continuato a sparare per circa due minuti nel corso della fuga. Secondo quanto riferito dalla polizia non c’era nessun agente della sicurezza con Bhatti al momento della sparatoria. Secondo Asia News, gli assassini avrebbero lasciato sul luogo del delitto un manifestino con una scritta: Tehrik-e-Taliban Pakistan rivendica l’assassinio di Bhatti per aver parlato contro la legge sulla blasfemia. Tehrik-e-Taliban Pakistan è un’organizzazione che raggruppa vari gruppi di militanti islamici.

Bhatti era da tempo nel mirino del terrorismo fondamentalista  per la sua difesa della libertà religiosa e della dignità delle minoranze, i cristiani in primis. Più volte minacciato, sotto scorta armata, in un’intervista rilasciata a Mondo e Missione prima di diventare parte dell’esecutivo, aveva spiegato il perché di un impegno di testimonianza civile e religiosa a fianco dei cristiani: «Sono stato minacciato di morte più volte – aveva detto -  ma io non ho paura, sento Cristo accanto a me. La sua passione mi illumina».


Avvenire.it, 2 marzo 2011 - Sì a una seria legge sul fine vita - Indispensabile buon senso di Francesco Ognibene

È ormai noto che a confrontarsi attorno al disegno di legge sul fine vita che la pros­sima settimana affronterà la prova dell’aula di Montecitorio sono due posizioni. Schema­tizzando, c’è chi esige che venga rispettata la volontà individuale anche se questa, dettata nella forma del 'testamento biologico', di­spone che la propria vita possa essere forzo­samente abbreviata per mano di un medico.

Alternativa a questa posizione è quella di chi invece antepone a ogni altro principio la tu­tela della vita in qualunque condizione di sa­lute e di efficienza fisica, fino al suo esauri­mento naturale, accompagnata da tutte le for­me opportune di sostegno e di cura, ma sen­za mai oltrepassare il confine dell’accani­mento terapeutico. Di qua la libertà di scelta assoluta (l’autodeterminazione); di là il pri­mato della dignità della vita, che ispira la re­dazione (facoltativa) delle proprie 'dichiara­zioni anticipate di trattamento'. A questa se­conda visione è ispirato il ddl varato ieri dal­la Commissione affari sociali della Camera, che non a caso vieta tassativamente ogni forma di eutanasia anche travestita, per evitare che si possa ripetere un’altra tragedia come quella di Eluana.

Da qualche giorno, però, va ritagliandosi un suo spazio mediatico e politico una terza, sor­prendente posizione: quella di chi si schiera con determinazione a difesa della vita, ma u­sando paradossalmente gli stessi argomenti di quanti la vorrebbero sottoposta all’arbitrio individuale. Sostengono i fautori di questa opzione che la legge – nessuna legge – mai dovrebbe intromettersi in una materia deli­catissima che va lasciata al rapporto tra il pa­ziente (o i suoi familiari) e il medico curante. Sarebbe dunque sbagliato affidare le decisio­ni sulla fase conclusiva della vita alla regola­mentazione disposta dal Parlamento, anche se questa intende fermare ogni possibile ten­tazione eutanasica.

Ma contro quello che vie­ne addirittura definito "dispotismo della leg­ge" si finisce per scagliare proprio l’argomento principe di chi vuole l’esatto contrario del­l’intangibilità della vita, che i sostenitori di questa 'terza via' agitano come un vessillo: la libertà di decidere caso per caso, senza scoc­ciature Nell’Italia ferita dalle sentenze che hanno ro­vesciato princìpi cardine e una giurispru­denza consolidata, spianando la strada al pri­mo caso di eutanasia disposta dai tribunali, si pensa ancora che una legge possa creare ri­gidità inutili e pericolose nel rapporto tra il paziente e il medico.

Ma costoro, nel loro in­discutibile zelo, sono sicuri che non presidiare con norme inequivoche un terreno mala­mente arato da provvedimenti giudiziari da­gli esiti drammatici – e che dunque non han­no incontrato un’efficace resistenza nelle leg­gi già vigenti – sia una posizione responsabi­le? Possibile che non si rendano conto che sa­rebbe una leggerezza imperdonabile lasciare che a dettare di fatto o di diritto le regole sia chi pone la vita umana nel cesto dei beni ma­teriali affidabili a un testamento – accanto al­la casa, all’auto, ai risparmi in banca, alla bi­cicletta... –, povera cosa tra le altre? Agli inge­nui dell’ultima ora va forse rammentato il fio­rire incontrollato in decine di Comuni italia­ni di biotestamenti che abbandonano la vita alla mercé di volontà spinte fino a delineare forme di autentico suicidio assistito. Le rego­le arriveranno, eccome. Anzi, sono già ab­bozzate – o forzate – nella direzione opposta a quella che è urgente, invece, ribadire. E il Parlamento dovrebbe tacere e limitarsi a pren­dere nota di questo progressivo municipali­smo normative. eutanasico?

Dopo oltre due anni di serra­to confronto fuori e dentro le Camere su un progetto che e­ra sotto gli occhi di tutti, ac­corgersi all’improvviso che quella legge è un di più è stu­pefacente. La legge – una legge di buon senso – oggi è più che mai indispensabile.


Avvenire.it, 27 febbraio 2011 - INTERVISTA ESCLUSIVA - Io, superstite dei monaci di Tibhirine di Di Jean-Marie Guénois (traduzione di Anna Maria Brogi)

Scampato alla strage del 1996, non aveva mai parlato dopo la morte dei monaci di Tibhirine. Abbiamo ritrovato frère Jean-Pierre in un monastero del Marocco, dove ha accettato di confidarsi in esclusiva per "Le Figaro Magazine". Parla dei confratelli scomparsi, dei tragici eventi che hanno vissuto, del film di Xavier Beauvois, "Uomini di Dio" ("Des hommes et des dieux"). Ma anche della sua fede e della sua speranza. Un colloquio luminoso.

Le è piaciuto il film "Uomini di Dio"?
Mi ha profondamente colpito. Mi ha commosso rivedere le cose che abbiamo vissuto insieme. Ma soprattutto ho provato una sorta di pienezza, non tristezza. Ho trovato il film bellissimo perché il suo messaggio è vero, anche se la regia non sempre corrisponde con esattezza a ciò che è avvenuto. Ma non importa, l’essenziale è il messaggio. E il film è un’icona. Un’icona dice molto di più di quanto si vede… È un po’ come un canto gregoriano. Quando è ben composto, l’autore vi ha messo un messaggio e chi lo canta vi trova ancora di più, perché lo Spirito lavora in lui. In questo senso il film è un’icona. È davvero riuscito, un capolavoro.

Non ha nessuna critica da fare?
Ho sentito che qualcuno ha criticato il ruolo del priore, Christian de Chergé. Alcuni lo trovano un po’ spento, ma secondo me va bene. Altri lo trovano austero, perché non si vede mai sorridere. Ma rientra perfettamente nel personaggio che si confà alla grave situazione che abbiamo attraversato. Ammiro, in quel ruolo, il suo modo di porsi in ascolto dei confratelli, in particolare nei momenti difficili. Non vuole imporre. Sta in ascolto. Lo si sente pieno di rispetto per i confratelli. Si vede il pastore e la sua attenzione nell’aprirsi a Dio, per lasciarsi lavorare da Dio e avere la giusta reazione davanti ai confratelli. In tutto il film si vede quest’apertura a Dio, lo si interroga, ci si lascia influenzare da Lui. È monastico!

C’è una lacuna rispetto alla storia reale?
Non l’ho avvertita.

Ma lei, da monaco, come vive il successo del film?
Siamo contenti e meravigliati di vedere un tale successo, ma noi non c’entriamo per nulla! Il fatto di essere conosciuto mi disturba un po’… Un monaco è fatto per stare nascosto.

Perché all’inizio della realizzazione del film era contrario?
Non abbiamo voluto accettare il film né che fosse girato in Marocco, per il rischio di essere sospettati di proselitismo. Allora alcuni non ricevevano più da tempo il permesso di soggiorno. Dovevamo essere molto prudenti, ma eravamo abbandonati alla volontà del Signore. Perciò non siamo stati consultati. La troupe sapeva della nostra contrarietà e conosceva i motivi della nostra prudenza. Sono stati molto rispettosi.

Quando è arrivato a Tibhirine?
Non dimenticherò mai quel 19 settembre 1964, quando siamo arrivati vicino al monastero sulla due cavalli. Vedrò sempre quel bambino in groppa a un asino venirci incontro ad accoglierci. Ero felicissimo. Dalla mia piccola cella vedevo il chiostro, il giardino e il villaggio in lontananza. Mi sono detto: ecco il paesaggio che vedrò fino alla fine della vita. Perché nel mio cuore era per la vita. Senza ritorno. Sono rimasto trentadue anni, dal 1964 al rapimento nel 1996.

Com’era la vita laggiù?
I primi tempi furono difficili. Alla comunità mancava stabilità e fu un periodo molto duro. Del resto, la nuova Algeria si stava assestando. I rapporti con la gente dei dintorni non erano scontati. C’erano ripercussioni del rifiuto dei francesi. Si avvertiva questo fossato in occasione delle feste, cristiane o musulmane. Non si aveva nulla da spartire gli uni con gli altri. Abbiamo lottato e cercato di ammansirci reciprocamente. In questo il dispensario, gestito da frère Luc, è stato molto importante. Accoglieva fino a ottanta persone al giorno! Poi Christian de Chergé è stato eletto priore, nel 1984. Avevamo bisogno di qualcuno come lui che parlasse arabo e conoscesse bene la cultura musulmana. Da allora siamo diventati una vera comunità, più stabile. Chi s’impegnava lo faceva sul serio. Eravamo quasi autonomi. Fu un vantaggio, perché ci permise di intraprendere molte iniziative nei rapporti islamo-cristiani.

Che ruolo ha svolto Christian de Chergé?
Con lui c’è stata un’evoluzione verso l’islamologia. Lui ha studiato molto il Corano. La mattina teneva la lectio divina con una Bibbia in arabo. Talvolta faceva la meditazione con il Corano. Cercava di farci crescere. Avevamo rapporti con l’islam, ma non a livello intellettuale. Lui conosceva molto bene l’ambiente musulmano e la spiritualità sufi. Alcuni monaci ritenevano che la comunità dovesse restare in equilibrio e che non tutto dovesse essere orientato dall’islam. Questo causò delle frizioni. Le tensioni finirono per essere superate grazie alla creazione di un gruppo di scambio e di condivisione con musulmani sufi, che avevamo chiamato "ribat", con termine arabo. Avevamo capito che la discussione sui dogmi divideva, poiché era impossibile. Allora si parlava del cammino verso Dio. Si pregava in silenzio, ciascuno secondo la propria preghiera. Quegli incontri biennali si sono interrotti nel 1993, quando cominciò a diventare pericoloso. Ma la conoscenza reciproca ha fatto di noi dei veri fratelli, nel profondo.

Che segno ha lasciato in lei père Christian de Chergé?
Quello che mi ha colpito in lui è la sua passione interiore per la scoperta dell’anima musulmana e per vivere questa comunione con loro e con Dio, sempre restando vero monaco e vero cristiano.

A chi si sentiva più vicino?
A frère Luc! Eravamo molto vicini. Non era sacerdote, era monaco. Ci si poteva confidare con lui. Era molto saggio. In una piccola comunità dove non ci sono molti sacerdoti non è facile trovare un direttore spirituale. Se uno aveva un problema o una difficoltà di relazione con un confratello andava subito da frère Luc, ben sapendo che ci sarebbe stata una risposta. Era un modello… Al capitolo, anche durante il periodo di tensione e di paura, riusciva sempre a strappare una risata. Era prezioso per la vita in comune. Anche se, come medico, aveva un regime speciale, perché stava tutto il giorno al dispensario e in più si occupava della cucina! Cominciava le sue giornate all’una del mattino per essere pronto alle sette nel dispensario. Soffriva d’asma e non riusciva a dormire. Dormiva in piedi! Ero molto vicino anche a frère Amédée, l’altro scampato, che è morto qui, a Midelt.

Prega con i confratelli scomparsi?
Cerco di avere un momento, ogni mattina. Non sono dimenticati. Restano presenti. Tutti. Si cerca di andare avanti. Il film, da questo punto di vista, ci stimola nella nostra vocazione.

I suoi confratelli le parlano nella preghiera?
No, non ancora… Ho la certezza che siano vicino al Signore. L’ho avuta sin dall’inizio in ragione del loro martirio. Questo dà gioia, non tristezza. È ciò che provo guardando il film: gioia, non nostalgia! (risa) Sperando che il Signore ci mandi altri monaci che vogliano vivere questo.

Non prova mai nostalgia per la vita a Tibhirine?
Un po’, sì… Abbiamo vissuto cose molto belle insieme. E poi, la vita in comune per rappresentare il Signore e la Chiesa. È una vocazione molto bella. Può andare lontano. Cristo è più grande della Chiesa. I sufi utilizzavano un’immagine per parlare del nostro rapporto con i musulmani. È una scala doppia. Poggia a terra e la parte alta tocca il cielo. Noi saliamo da un lato, loro dall’altro, con il loro metodo. Più si è vicini a Dio, più si è vicini gli uni agli altri. E viceversa, più si è vicini gli uni agli altri, più si è vicini a Dio. C’è tutta la teologia qui dentro!

Eppure l’appuntamento era con la morte…
Quello che abbiamo vissuto là, insieme e fin dall’inizio, è stata un’azione di grazia. Ci eravamo preparati insieme. Per fedeltà alla nostra vocazione avevamo scelto di resistere, sapendo benissimo cosa poteva succedere. Il Signore ci manda, non si danno le dimissioni anche se, attorno a noi, i violenti cercano di farci partire, e persino le autorità. Ma abbiamo il Nostro Maestro ed eravamo impegnati con Lui. Poi è sopraggiunta anche la volontà di essere fedeli alle persone che stavano attorno a noi e di non abbandonarle. Erano minacciate quanto noi. Erano prese tra due fuochi, l’esercito e i terroristi. La decisione di non separarsi era stata presa nel 1993. E anche se fossimo stati dispersi con la forza, dovevamo ritrovarci a Fez, in Marocco, per ripartire e stabilirsi in un altro Paese musulmano.

Come vive quello che è successo: come un fallimento o un compimento?
Dopo il rapimento, io e père Amédée siamo stati costretti ad andare ad Algeri con la polizia. Pregavamo per i confratelli. Perché Dio desse loro la forza e la grazia di andare fino in fondo. Ci si aspettava un intervento della Francia o un intervento ecclesiastico che ottenesse la liberazione. Abbiamo appreso la loro morte il 21 maggio 1996. Stavamo recitando i vespri. All’improvviso è arrivato in cappella un giovane confratello che si è gettato per terra davanti a tutti, gridando la sua disperazione: "I fratelli sono stati tutti uccisi!". La sera, mentre eravamo fianco a fianco a lavare i piatti, gli ho detto: "Bisogna viverlo come qualcosa di molto bello, di molto grande. Bisogna esserne degni. E la messa che celebreremo per loro non sarà in nero. Sarà in rosso". Li abbiamo visti subito come martiri, veramente. Il martirio era il compimento di tutto quello che avevamo preparato da molto tempo nella nostra vita. Quegli anni che avevamo vissuto insieme nel pericolo. Eravamo pronti, tutti. Ma questo non ha escluso la paura.

Quando è cominciata la paura?
A partire dal 1993, quando è venuto il Gia, la sera di Natale. La comunità da allora si è molto rafforzata in unione e profondità. Ormai il pericolo era ovunque, ogni istante, notte e giorno. Ci ha molto scossi. Abbiamo davvero visto l’abisso in quel momento.

Che cos’è avvenuto esattamente?
La sera di Natale del 1993 hanno scalato il muro. Eravamo in sagrestia con Célestin, che preparava i foglietti dei canti per la messa di Natale. Uomini armati fino ai denti ci hanno circondato. Erano appena stati uccisi i croati, abbiamo pensato che toccasse a noi. Ci hanno rassicurato. Poiché eravamo dei religiosi, non ci avrebbero fatto niente. Ma hanno cominciato a parlare male del governo. Poi il capo ha detto: "Voglio vedere il papa del posto". Siamo andati a cercare Christian, che ha detto subito: "No, qui non si entra armati. Se volete entrare, lasciate fuori le armi. Nessuno è mai venuto armato, questa è una casa di pace!". Alla fine hanno discusso e hanno chiesto tre cose: che il dottore andasse a curare i feriti in montagna, medicinali, soldi. Con tatto, Christian ha risposto di no a tutte le richieste. Tranne per i feriti, che potevano venire, come tutti, al dispensario. Poi ha detto in arabo che stavamo preparando "la festa della nascita del principe della pace". Non lo sapevano e si sono scusati, ma hanno detto: "Torneremo". Dando una parola d’ordine: avrebbero chiesto del "signor Christian". Quella sera la messa di mezzanotte aveva un sapore speciale. L’indomani, al capitolo, abbiamo cominciato a discutere del futuro.

Che cosa avete deciso?
Che se chiedevano soldi, gliene avremmo dati un po’ per evitare la violenza, ma pensavamo comunque di andarcene, perché non volevamo collaborare con loro. Poi il vescovo di Algeri è venuto a dirci che se decidevamo di partire, non dovevamo andare via tutti insieme, per non spaventare la Chiesa d’Algeria. Abbiamo deciso che sarebbero partiti due. Célestin, che era stato traumatizzato da quel Natale e che doveva subire l’intervento di sei bypass al cuore, e frère Paul, che aveva bisogno di riposo.

C’era unanimità tra voi?
Dopo quel Natale c’è stato un altro capitolo. Alcuni pensavano che si dovesse restare, altri che fosse meglio partire. Tanto più che a quel punto, per sicurezza, eravamo costretti a chiudere il monastero da fine pomeriggio sino al mattino. Avevamo anche detto a chi faceva da noi il ritiro spirituale di non venire più. Eravamo isolati. Questo ha cambiato l’economia del monastero, bisognava trovare altri modi per vivere.

Ci sono state divergenze?
Le cose sono maturate. Père Armand Veilleux, venuto a predicare uno degli ultimi ritiri, ci aveva detto che eravamo arrivati "al culmine" della nostra vita in comune. Infatti eravamo giunti all’unanimità alla decisione di restare. I rapporti fraterni si erano saldati ancora di più. Nel capitolo non si potevano prendere alla leggera decisioni tanto gravi. Sul Gia, su un’eventuale partenza, sul nostro comportamento nel caso che fossimo stati rapiti o dispersi… Eravamo tutti decisi a restare, ma la paura di quello che sarebbe successo era presente, più o meno, negli uni e negli altri. Eppure bisognava continuare a vivere. C’erano attentati a destra e a sinistra. Persone vicine al monastero erano state arrestate o minacciate. Ecco in che clima vivevamo.

Non c’era serenità, neanche dopo aver fatto la scelta di restare?
No, mai. La sera, quando si cantava la compieta, c’era come una cappa di pericolo, di piombo, che scendeva sul monastero. Di notte poteva succedere qualunque cosa. Ci dicevamo: che cosa succederà stanotte? Non ci si aspettava di essere uccisi, ma si sapeva che poteva capitare in qualsiasi momento. Avevamo la fortuna di essere una comunità. E la vita andava avanti: uno era cuoco, un altro giardiniere, un altro si occupava dell’amministrazione. Questo permetteva di dimenticare, ma la sera, la notte, ci si chiedeva cosa potesse succedere. Non lo dicevamo, ma ciascuno lo pensava.

E che cos’è successo la sera del rapimento?
La sera del rapimento ero nella stanza del custode. Mi sono svegliato intorno all’una, al rumore di voci davanti al portone. Erano già dentro, in giardino. Sicuramente volevano vedere il dottore. Aspettavo che bussassero alla porta prima di farmi vedere. Sono andato a guardare dalla finestra. Ho visto uno di loro andare direttamente verso la camera di frère Luc. Non era normale, perché quando si cerca il dottore si bussa al portone e il custode si presenta. E ho sentito una voce che diceva: "Chi è il capo?". E ho riconosciuto Christian. Mi sono detto: "Li ha sentiti prima di me, ha aperto e gli darà quello che vogliono". Nel giro di un quarto d’ora ho sentito chiudersi la porta che dà sulla strada e ho pensato che se ne fossero andati. Dopo un po’ père Amédée ha bussato e mi ha detto: "I fratelli sono stati rapiti!". Dovevano essere usciti dal retro, altrimenti li avrei sentiti.

Che cos’ha provato in quel momento?
La domanda che mi sono immediatamente posto era sapere: se li avessi sentiti e visti uscire, che cos’avrei fatto? Sarei rimasto o gli sarei corso dietro per andare con loro?

E la sua risposta?
Non ho ancora risposto. Se fosse successo, non sarebbe stato facile, ma ho la sensazione che gli sarei corso dietro. Amédée mi ha detto subito: "Non li uccideranno, perché se avessero voluto l’avrebbero fatto subito". Era difficilissimo muoversi di notte in montagna, perché c’era un posto di blocco non lontano, sulla collina. Inoltre frère Luc aveva 82 anni e un altro era appena uscito dall’ospedale, con sei bypass. Camminare con persone così non era facile. Pensavamo che si sarebbero serviti di loro per qualcosa. Nell’attesa ci sentivamo completamente soli, privi dei confratelli. La comunità era distrutta. Speravamo sopra ogni cosa che li avrebbero liberati presto, perché se non fossero tornati la vita al monastero era finita.

Perché i rapitori non sono entrati come le altre volte?
Quando venivano, scalavano il muro. Poi dall’interno aprivano la porta che dava sulla strada. C’era un semplice chiavistello. Quella porta non veniva mai chiusa a chiave. Volevamo che i nostri rapporti fossero fondati sulla reciproca fiducia.

I rapitori erano del Gia o no?
Il guardiano del monastero mi ha raccontato che erano prima andati da lui dicendo che volevano vedere il dottore, con la scusa che avevano due feriti gravi. Gli aveva risposto che i padri gli avevano proibito di proseguire di notte il servizio di guardia al monastero. Era vero, gliel’avevamo proibito perché non ci fossero problemi per la sua famiglia e per lui nel caso di una disgrazia, se ci fosse stata un’aggressione… Hanno insistito. Allora il guardiano è uscito di casa dal cortile anteriore per recarsi al monastero. Là si è imbattuto in un gruppo che era già in cortile. Condotto davanti al portone che dava sulla stanza del custode, si era trovato in mezzo a un altro gruppo che aveva già fermato père Christian. Questi allora chiese: "Chi è il capo?". Uno dei rapitori rispose indicando chi li guidava: "È lui il capo, bisogna obbedirgli". Poi uno, rivolgendosi al guardiano, chiese: "Sono sette, vero?". Il guardiano rispose: "Dici giusto". Ma eravamo nove… Probabilmente è per questo che io e père Amédée non siamo stati prelevati; perché quando ebbero preso sette monaci se ne andarono senza frugare in tutta la casa".

Ma lei cosa pensa: chi li rapì? Il Gia o l’esercito?
Sappiamo solo quello che è successo al monastero. Sul resto ci interroghiamo come tutti. L’indagine prosegue. Quanto al Gia, il guardiano mi ha raccontato che mentre scendevano uno di quelli che l’accompagnavano disse a un altro: "Vai a cercare una corda, vedrà chi è il Gia", perché lo volevano sgozzare, ma riuscì ad allontanarsi.

A distanza di parecchi anni, non riesce a vederci più chiaro sui motivi del rapimento?
Non ci si vede chiaro. In uno dei comunicati su radio Medi 1, il Gia dà un motivo della loro esecuzione: "La gente si convertiva a contatto con loro, perché avevano dei rapporti e uscivano dal monastero, cosa che i monaci non dovrebbero fare. Meritano la morte. Abbiamo il diritto di giustiziarli". Ecco dunque uno dei motivi. A darlo sono gli stessi estremisti islamici. In seguito altri motivi sono stati dati, più che altro ipotesi, aspettando il verdetto del giudice istruttorio che conduce un’indagine sulle circostanze del rapimento e dell’esecuzione.

Lei come vive questo enigma?
Ci piacerebbe sapere chi li ha uccisi e dove sono sepolti i loro corpi. Ci piacerebbe saperlo, ma tutto qua, non c’è inquietudine. Non cambia nulla alla morte dei confratelli. Sono morti per le ragioni per le quali avevano scelto di restare. È per questo che sono martiri. Hanno dato la vita. Erano pronti a dare la vita per questo.

Si può sperare nel martirio?
Alcuni l’hanno fatto, ma non era il nostro stato d’animo. Non lo auspicavamo, non eravamo lì per quello. Ma bisognava essere pronti. Eravamo nelle mani di Dio. Ed è per questo che, vivendo in quello stato d’animo, i miei confratelli sono morti. Devo riconoscere e dire che non siamo stati eccessivamente scioccati. Certo, ti segna, fa soffrire, dà pena… Ma si sapeva "perché", eravamo tutti pronti a questo! La vita è solo un passaggio, in un modo o nell’altro finisce. Dopo si raggiunge il Signore.

Il film di Xavier Beauvois, ispirato al loro sacrificio, può essere un lievito di riconciliazione tra cristiani e musulmani?
Certamente! L’esempio dei confratelli, nel loro rapporto con la gente, con i musulmani, mostra che si può diventare veri fratelli, nella comunione, insieme, in profondità e non solo in superficie. In profondità, davanti a Dio. Alcuni l’hanno vissuto. Non è raro. Quando i cristiani lo vedono, si rendono conto che i musulmani sono persone come le altre. Alcuni sono molto buoni: i valori di accoglienza, di gentilezza, di compiacenza, si vedono. Così come i valori di unione con Dio, di preghiera quotidiana. Hanno rapporti con Dio che sono talvolta estremamente sorprendenti e che sono veri esempi per noi cristiani. Un amico di Christian, che ha dato la vita per lui, gli diceva: i cristiani non sanno pregare… Sono molto caritatevoli, molto servizievoli, ma non li vedi mai pregare! Molti cristiani lo potrebbero capire.

Non ha mai provato odio durante e dopo il dramma?
È strano, ma non provo quel sentimento.

E amarezza?
Neanche.

Come interpreta l’attuale inasprimento di alcuni musulmani contro i cristiani, di cui i recenti attentati sono un segno?
Viene dagli estremisti. I veri musulmani dicono: questi non siamo noi. Si vergognano di quello che è successo ai confratelli. Non è la "religione". D’altra parte, non ci si conosce abbastanza. Ci si percepisce attraverso i violenti e questo crea una tendenza a raggrupparsi tra simili e ad avere paura dei contatti. La soluzione è coltivare l’amicizia, anche a rischio di farsi ingannare.

Farsi ingannare?
Sì, c’è chi parla di reciprocità, si vede poco o nulla: ai musulmani è permesso costruire moschee da noi, ma prima che si possa costruire chiese da loro…

Lo pensa davvero? In realtà i cristiani sono spesso accusati di ingenuità con l’islam…
Non è questo il punto. Per la fede, rischiamo! Sta scritto nel Vangelo: "Amate come io vi ho amato". Spesso si è perdenti, bisogna saperlo. Ma capita che ci sia una reazione. Allora ecco la reciprocità, e un riconoscimento reciproco può andare molto lontano.

Qual è la sua speranza per il 2011?
Bisogna sperare che l’amore sia sempre il più forte. Che l’amore di Dio avrà l’ultima parola. Fondata in Dio, la speranza deve dimorare. E non siamo noi a poter risolvere le cose. La speranza invincibile, come diceva Christian de Chergé. Non deve essere vinta, deve sempre restare viva, fondata su Dio, sulla Sua grazia. Anche quando si muore sotto i colpi. Come diceva, la speranza deve restare viva…


I contenuti del testo - Per la Dat platea “allargata” Ma sostegni vitali intoccabili, di Ilaria Nava, Avvenire, 2 marzo 2011

Si occupano di 'Disposizioni in materia di alleanza te­rapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento' sia il disegno di legge ap­provato al Senato nel marzo 2009 (testo Calabrò) sia quello attualmente in via di approvazione alla Camera. Eccone i contenuti e le diversità.

Cos’è la Dat. Si definisce 'Dichiarazione anticipata' un do­cumento in cui «il dichiarante esprime il proprio orienta­mento in merito ai trattamenti sanitari in previsione di un’e­ventuale futura perdita della propria capacità di intendere e di volere». Al comma 3 si specifica che nella Dat «può an­che essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto ad o­gni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale». Nel ddl Calabrò la parola 'anche' non era presente, essendo stata aggiunta alla Camera, lasciando sottintendere un amplia­mento del contenuto della Dat. Il testo Di Virgilio ha ag­giunto che «eventuali dichiarazioni di intenti o orientamenti espressi dal soggetto al di fuori delle forme e dei modi pre­visti dalla presente legge non hanno valore e non possono essere utilizzati ai fini della ricostruzione della volontà del soggetto».

Soggetti per cui vale la Dat. Il testo approvato al Senato af­fermava che «la dichiarazione anticipata di trattamento as­sume rilievo nel momento in cui è accertato che il soggetto in stato vegetativo non è più in grado di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conse­guenze », mentre nella versione della Camera la Dat «assu­me rilievo nel momento in cui è accertato che il soggetto si trovi nell’incapacità permanente di comprendere le infor­mazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguen­ze ». Nel passaggio alla Camera c’è stato, quindi, un amplia­mento della platea dei soggetti per cui la Dat assume rilie­vo, non riguardando solo i soggetti in stato vegetativo ma tut­ti coloro si trovino nell’incapacità permanente di intende­re e di volere.

Alimentazione e idratazione. In entrambi i testi è previsto che questi sostegni vitali non possano essere interrotti con una decisione anticipata. Il ddl Calabrò affermava che «nel­le diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono for­nirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologi­camente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita», mentre il testo della Camera prevede che «nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita, ad eccezione del caso in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali ne­cessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo».