Nella rassegna stampa di oggi:
1) La vera Donna e noi pellegrini di sr. Maria Gloria Riva, 08-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
2) LA PRIMA CONDIZIONE DELL’EVANGELIZZAZIONE È L’ADORAZIONE - Intervista a monsignor Dominique Rey, Vescovo di Fréjus-Toulon (Francia) di Gisèle Plantec
3) 07/03/2011 - EGITTO - Rivoluzione dei Gelsomini, cresce il potere dei Fratelli musulmani
4) Le ultime parole del ministro Bhatti ricordate dal cardinale Jean-Louis Tauran - Sapeva che l'avrebbero ucciso di JEAN-LOUIS TAURAN (©L'Osservatore Romano 7-8 marzo 2011)
5) Radio Vaticana - Scienza ed Etica, notizia del 07/03/2011 - Corte suprema dell’India: no all’eutanasia. Un verdetto storico
6) LO CHIAMANO "GRUMO" Di Lorenza Perfori - 07/03/2011 – da http://www.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?articolo=2356
7) Crepaldi: Legge sul fine vita sì ma attenti alle condizioni di Riccardo Cascioli, 08-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
8) Legge sul "fine-vita", le posizioni in campo di Marco Respinti, 08-03-2011, http://labussolaquotidiana.it
9) I giudici o la politica? Di Lorenza Violini, martedì 8 marzo 2011, il sussidiario.net
10) FINE VITA/ 1. Binetti: una legge laica con riferimenti di ispirazione cristiana di Paola Binetti, martedì 8 marzo 2011, il sussidiario.net
11) FINE VITA/ 2. Socci: non stravolgiamo questa legge o "perderò" mia figlia - INT. Antonio Socci, martedì 8 marzo 2011, il sussidiario.net
12) Avvenire.it, 8 marzo 2011, La legge sul fine vita alla Camera - Il partito delle famiglie chiede cittadinanza - Fulvio De Nigris, direttore Centro Studi per la ricerca sul coma Gli amici di Luca
13) Avvenire.it, 8 marzo 2011 - BIOETICA E POLITICA - Eutanasia, tentazione globale, di Lorenzo Schoepflin
14) Avvenire.it, 8 marzo 2011 - IL GIURISTA - Mangiameli: «Nella Costituzione non esiste alcun diritto all'autodeterminazione» di Enrico Negrotti
15) S.E. Card. Carlo Caffarra - Prolegomeni ad una riflessione sull'anima, Brescia, 5 marzo 2011
La vera Donna e noi pellegrini di sr. Maria Gloria Riva, 08-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Una festa, quella della donna, che più d’ogni altra ha il potere di mettere in luce la povertà di senso che ci circonda. Non tanto per l'origine della festa in sé quanto per il modo di celebrarla. Vien da chiedersi, infatti, a quale donna guardare, quali modelli offre oggi l'orizzonte quotidiano. Forse la donna efficientissima e di successo? O la donna sex symbol, la donna spregiudicata, la donna manager, la donna snob, la donna intellettuale, la donna politica? Quale donna?
Viene alla mente una donna poco gettonata, certo controcorrente, ma che, forse, davvero unica merita il titolo di Ma-donna, cioè donna per eccellenza; archetipo femmineo assoluto: donna, vergine e madre. Maria.
Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, un artista che con le donne ebbe un rapporto tormentato, un po' conflittuale, seppe dare della Madonna un'immagine bella, fresca, risoluta. Come doveva essere lei, Maria di Nazaret.
Un quadro, in particolare, mi sorprende ogni volta che lo guardo, per come riesce a render vere e nuove le straordinarie parole del poeta: Donna se' tanto grande e tanto vali che qual vuol grazia ed a te non ricorre sua disïanza vuol volar sanz'ali. Con tali versi Dante propone un modo per orientarsi verso mete più alte e più vere (la grazia cui si anela) attraverso di lei, la Donna che tanto grande e tanto vale.
L'opera del Caravaggio in questione è la cosiddetta Madonna dei Pellegrini situata nella chiesa di Sant'Agostino a Roma. Il Merisi la dipinge prendendo le mosse da una statua, vista probabilmente tra la ricca collezione di Ferdinando de Medici, quella di Thusnelda; una principessa germanica che, fatta prigioniera mentre era in attesa di un figlio, portò a termine la gravidanza e rimase fedele al marito il quale, a sua volta, mai la dimenticò rifiutando di risposarsi.
Anche Maria è immortalata così, statuaria e regale, tiene fra le braccia il Bimbo, come un trofeo. Così del resto aveva fatto l’eroina germanica ostendendo il figlio durante il trionfo del nemico.
Sì, Maria è regina, nobile nel portamento, ma è anche modesta, umile, compassionevole come il luogo dove appare. Lo stipite di una porta e un muro leggermente scrostato è, del resto, tutto quanto ci è consentito vedere della casa di Nazareth. Da qui Maria ostende il figlio spinta non da fierezza indomita, ma dalla sua misericordia.
Questa vergine regale non riceve i pellegrini dentro casa, seduta su un trono, mandando i servi ad aprire la porta. No, esce lei stessa, va incontro ai visitatori e li attende sull'uscio, pronta ad invitarli ad entrare. Questa donna non ha trono, lei stessa è trono del divin figlio che tiene in braccio. Lo sguardo, rivolto ai due poveri inginocchiati, è premuroso e attento.
Gesù è nudo: ha la nudità dell'innocenza, la nudità di quel corpo che Maria prenderà in braccio, ancora per l'ultima volta, sotto la croce per deporlo nel sepolcro. Un lenzuolo, infatti, in cui già s'adombra il telo sindonico, avvolge il corpo del Bimbo.
Quella che ci offre Caravaggio insomma è l’immagine controcorrente di una donna che vive pienamente quell’«essere-per» cui fu destinata fin dall’eternità. Essere per l’altro, essere per l’uomo, per ogni uomo, in una donazione gratuita che edifica la donna che la attua.
Così comprendiamo meglio l’abbandono sicuro del divino Bambino dentro l’abbraccio materno. Da quel trono, così saldo, Cristo solleva leggermente il capo e benedice i due fedeli. Li benedice e insieme li indica: siamo così costretti a guardarli bene e a considerare l’umiltà della loro foggia, ad osservare i loro piedi testimoni eloquenti della strada che han percorso, polverosa e aspra.
Su quei piedi si sono scritti intere pagine, alcuni critici vicini all'epoca dell'artista (Baglione nel 1642 e l'abate Bellori nel 1672) hanno lasciato note non del tutto benevole, facendo addirittura velatamente credere che per il sudiciume di quelle estremità il dipinto fu rifiutato e deriso. In realtà i due pellegrini sono stati identificati con due nobili: il marchese Ermete Cavalletti e sua Madre. Furono loro a volere l’opera: devoti alla Vergine lauretana, essi vollero identificarsi con i molti che, approdando all'umile casa di Nazareth, van cercando da secoli luce e conforto. Il Cavalletti e la madre erano seguaci di una corrente nota come il pauperismo borromaico ed oratoriano, la quale, pur comprendendo prelati e altolocati, si proponeva uno stile di vita umile e dimesso, tutto teso alle cose del Cielo.
Così in questi due cenciosi ci è possibile vedere l’umanità tutta e nella donna anziana un insegnamento per noi. Forse per aver perso molte delle preoccupazioni e delle baldanze giovanili è lei a guardare più decisamente verso la Vergine, Novella Thusnelda, e ad indicarci con lo sguardo, dove orientare il desiderio.
Thusnelda significa «a forma di stella»: nutrire desideri alti, puntare verso le stelle per avere quella forma che è la forma di Maria, la Stella Maris, è l’auspicio che ci viene da questa nobildonna del seicento.
Così superando ogni barriera di tempo e di cultura Caravaggio ci offre una straordinaria icona della donna, diversa dagli stereotipi cui siamo abituati. La Maria caravaggesca è una donna vera, regale, eppure umile, risoluta e insieme premurosa; accogliente ma nel contempo stimolante. Maria, sembra dirci Caravaggio, ti trova dove sei ma non ti lascia come sei: porta alto il tuo desiderio, ti conduce verso quella misura alta della vita che ti fa pienamente uomo e pienamente donna.
Davanti a questa donna, ci sentiamo allora davvero come i due nobili cenciosi e sale anche al nostro labbro la dantesca invocazione: Donna se' tanto grande e tanto vali che qual vuol grazia ed a te non ricorre sua disïanza vuol volar sanz'ali.
LA PRIMA CONDIZIONE DELL’EVANGELIZZAZIONE È L’ADORAZIONE - Intervista a monsignor Dominique Rey, Vescovo di Fréjus-Toulon (Francia) di Gisèle Plantec
ROMA, lunedì, 7 marzo 2011 (ZENIT.org).- Dal 20 al 24 giugno si terrà a Roma il Convegno internazionale sull’adorazione eucaristica, su iniziativa di monsignor Dominique Rey, Vescovo di Fréjus-Toulon, con la partecipazione, tra gli altri, di sei Cardinali.
In questa intervista rilasciata a ZENIT, monsignor Rey spiega l’importanza dell’adorazione eucaristia per la Chiesa di oggi e dei frutti che si attendono per la Chiesa da questo incontro senza precedenti nella Città eterna.
La Chiesa si sta mobilitando intensamente per preparare questo Convegno internazionale sull’adorazione eucaristica. Qual è la sua importanza e quali sono le aspettative per questo convegno?
Monsignor Rey: Questo convegno si inquadra perfettamente nell'opera portata avanti da Papa Benedetto XVI che, sulle orme di Giovanni Paolo II, intende promuovere una nuova presa di coscienza sull’urgenza missionaria con cui si confronta, oggi più che mai, la Chiesa. Il tema del convegno “Dall’adorazione all’evangelizzazione” sottolinea che questo nuovo impulso missionario si deve radicare nella vita ecclesiale ed eucaristica. La prima condizione dell’evangelizzazione è l’adorazione. Purtroppo alcune proposte missionarie di oggi si presentano più come marketing o promozione commerciale che come testimonianza di fede. Il rischio è quello di una distorsione del metodo di evangelizzazione.
È la prima volta che a Roma si svolge un incontro su questo tema. E la partecipazione di numerosi Cardinali, Vescovi e testimoni che operano nel campo come evangelizzatori e adoratori, evidenzia l’interesse suscitato dall’argomento. Questo congresso vuole dare un’anima e una spiritualità a questa nuova evangelizzazione così necessaria per il rinnovamento della Chiesa e per l’irradiazione del messaggio evangelico.
Perché è importante l’adorazione? Chi è chiamato, secondo lei, all’adorazione?
Monsignor Rey: L’adorazione eucaristica costituisce un prolungamento della celebrazione eucaristica. Il credente accoglie l’offerta di Cristo che si dà al Padre per la salvezza di tutti. Adorare il Santissimo Sacramento significa entrare in contemplazione di Gesù Eucaristia. Significa accettare, al contempo, come dirà l’apostolo Paolo, di offrire la nostra stessa vita in sacrificio per partecipare alla salvezza di Cristo.
L’adorazione è un gesto di riconoscimento, nel contemplare fino a che punto Cristo ci ama, facendosi alimento, ed è anche un gesto personale in cui anche noi possiamo entrare, in Lui e per Lui, in questa opera di salvezza.
Ogni cristiano è chiamato, in virtù della sua consacrazione battesimale, a diventare adoratore in spirito e verità. Ricordo la frase della filosofa Simone Weil che usava dire dopo la sua conversione: “Finalmente ho scoperto qualcuno davanti a cui mettermi in ginocchio”. Nell’Apocalisse scopriamo che la gloria celeste consisterà nel giubilo e nell’adorazione. Se inizio ad adorare oggi, mi preparo ad entrare nella pienezza della mia condizione filiale di quando contemplerò il volto di Dio. Ogni uomo è fatto per adorare, ovvero per riconoscere la signoria di Cristo e, in questo gesto di donazione di se stessi, che implica l’adorazione, donarsi totalmente e definitivamente a Lui.
Il convegno è organizzato dai Missionari della Santissima Eucaristia, una nuova comunità che lei ha fondato nella sua diocesi nel 2007. Qual è la missione di questa comunità nella Chiesa di oggi?
Monsignor Rey: Questa associazione di chierici di diritto diocesano è chiamata, sotto la mia vigilanza, a sviluppare nella Chiesa l’adorazione eucaristica nel cuore della vita parrocchiale. Questa associazione organizza missioni eucaristiche in collaborazione con le diocesi e i sacerdoti che ricorrono ai suoi servizi non solo per sviluppare un’autentica devozione eucaristica, ma anche per far entrare le comunità cristiane in uno spirito missionario, in un nuovo impulso pastorale. I parrocchiani sono chiamati ad avvicendarsi, giorno e notte, nell’adorazione del Santissimo Sacramento esposto. Per questo occorre fornire loro una catechesi eucaristica.
I Missionari del Santissimo Sacramento sono presenti negli Stati Uniti e in Italia, anche se la loro sede centrale si trova a Sanary (Var, Francia). Vanno di parrocchia in parrocchia, diffondendo e promuovendo l’insegnamento del Magistero e di autori spirituali, sul valore dell’adorazione eucaristica.
A chi si rivolge questo convegno? Cosa vuole proporre in concreto?
Monsignor Rey: Il convegno è rivolto a tutti coloro che nella Chiesa sono già sensibili all’importanza dell’adorazione eucaristica, ma più in generale a tutti i pastori, consacrati e laici che desiderino approfondire il senso dell’Eucaristia, nella sua dimensione liturgica, di sacrificio, sociale, e nel legame tra adorazione e celebrazione. Le giornate saranno costellate dalle celebrazioni eucaristiche, in forma ordinaria e straordinaria, nonché dalle altre funzioni liturgiche. Vi saranno momenti di adorazione del Santissimo Sacramento.
Gli insegnamenti principali saranno offerti al mattino. Si prevedono anche momenti di interscambio, in cui saranno affrontati temi più concreti. Il convegno si concluderà con la processione eucaristica della solennità del Corpus Domini, presieduta dal Santo Padre Benedetto XVI.
L’adorazione eucaristica ha avuto un ruolo nella sua vocazione personale o nel suo ministero di sacerdote e Vescovo?
Monsignor Rey: Ho scoperto con maggiore intensità l’adorazione eucaristica quando ero rettore del santuario di Paray le Monial. Essendo membro della Comunità Emmanuel e stando accanto al suo fondatore, Pierre Goursat, che era un fervente adoratore del Santissimo Sacramento, ho sperimentato fino a che punto questa preghiera dava forza alla mia vita spirituale e sacerdotale. Ogni fecondità cristiana è sacrificale. Trova la sua origine nel gesto che Cristo compie nella sua Pasqua e che l’Eucaristia attualizza in ogni celebrazione.
Nell’adorazione eucaristica fissiamo il nostro sguardo su questo gesto infinito di amore, che la Chiesa non manca di riprendere in ogni messa. Ho potuto constatare i molti frutti spirituali e missionari dell’adorazione eucaristica nel contesto delle diverse responsabilità ministeriali che ho assunto. Per questo motivo ho preso l’iniziativa di presentare al cardinale Antonio Cañizares Llovera, prefetto della Congregazione per il Culto divino, questo progetto ed ho chiesto ai Missionari della Santissima Eucaristia di occuparsi dell’organizzazione.
07/03/2011 - EGITTO - Rivoluzione dei Gelsomini, cresce il potere dei Fratelli musulmani
Fonti di AsiaNews vedono la mano degli estremisti islamici negli assalti lanciati in questi giorni contro caserme di polizia e uffici dei servizi segreti. Essi avrebbero bruciato documenti e fascicoli relativi alle loro attività e pilotato parte dell’informazione. Secondo altre fonti, gli estremisti restano una minoranza e fra la popolazione è alto l’interesse per il futuro del Paese. Preoccupa la totale mancanza di sicurezza.
Il Cairo (AsiaNews) – “I Fratelli musulmani stanno prendendo tutti i frutti della rivoluzione dei gelsomini, che invece era iniziata come una manifestazione genuina di tutti gli egiziani, cristiani e musulmani”. E’ quanto afferma una fonte di AsiaNews, anonima per motivi di sicurezza. La fonte sottolinea che gruppi estremisti legati ai Fratelli musulmani hanno assaltato e bruciato tutti i centri di polizia e gli uffici dei servizi segreti, per distruggere le cartelle informative sulle loro attività. Ciò contraddice la versione data in questi giorni dai media internazionali, secondo cui i manifestanti avrebbero assaltato caserme e uffici per fermare la distruzione di documenti relativi a torture e persecuzioni dei dissidenti avvenuti durante il regime di Mubarak.
Secondo la fonte, la totale assenza di forze di sicurezza mette a rischio la vita di molti cristiani, come dimostra il recente assalto contro la comunità copta del villaggio di Soul, dove i musulmani hanno bruciato una chiesa e costretto alla fuga migliaia di persone.
“L’occidente – afferma – deve mantenere l’attenzione sull’Egitto. L’intervento attivo di Europa e comunità internazionale, ad esempio nel riconoscere o meno un governo, potrà orientare in modo positivo i frutti della rivoluzione dei gelsomini”.
Anche altre fonti ammettono che il futuro della rivoluzione è incerto. “Il Paese – dicono – resta immerso nel caos”, ma la vita è ripresa al Cairo e nelle principali città egiziane; scuole e uffici hanno ripreso la loro attività. Il problema più cocente è che “non vi è sicurezza e non si sa dove andrà il Paese”. In questa situazione "i Fratelli musulmani, molto organizzati, potrebbero sfruttare il clima di incertezza per prendere il potere. Ma essi sono una minoranza e i giovani sono tuttora molto attivi nella società e desiderosi di trasformare il Paese in modo democratico". (S.C.)
Le ultime parole del ministro Bhatti ricordate dal cardinale Jean-Louis Tauran - Sapeva che l'avrebbero ucciso di JEAN-LOUIS TAURAN (©L'Osservatore Romano 7-8 marzo 2011)
Si è celebrata ieri, presso il Pontificio Collegio san Pietro Apostolo, la messa di suffragio del ministro pakistano delle Minoranze Shahbaz Bhatti, ucciso da estremisti islamici a Islamabad. Pubblichiamo l'omelia pronunciata dal cardinale presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso.
La Liturgia della Parola ci ha ricordato che essere cristiani è sempre fare una scelta: tra la luce e le tenebre, tra la fede e la legge, tra la vita e la morte, tra il Dio rivelato da Gesù e la sapienza umana, tra servire e dominare. Non si tratta però solo di ascoltare la Parola di Dio, di ricevere i sacramenti o di acquisire una buona conoscenza. Ma Gesù domanda pure un'altra cosa. Desidera che il "dire" sia accompagnato dal "fare". "Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio".
Se ci accontentassimo di essere cristiani solo sociologicamente, o peggio, cristiani la cui vita fosse in contraddizione con ciò che diciamo di Gesù, allora correremmo il rischio di sentirci dire un giorno: "Via da me, non vi conosco". Oggi abbiamo davanti a noi la vita luminosa di Shahbaz Bhatti. Aveva scelto Cristo, come salvatore, la Chiesa come madre, ogni essere umano come fratello. Fu coerente fino alla fine. La sua vita fu e rimarrà per sempre una vita immolata, un sacrificio offerto a Dio. Come desiderava, lo troviamo ai piedi della croce di Gesù: "Non voglio posizioni di potere, voglio solo un posto ai piedi di Gesù, voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo!".
Queste parole sono così forti che converrebbe tacere. Ma lasciamoci prendere per mano dal nostro amico Shahbaz Bhatti. Seguiamolo fino alla croce di Gesù. Da lì, dice ai suoi aguzzini: "Fino al mio ultimo respiro continuerò a servire Gesù in questa povera umanità sofferente: i cristiani, i bisognosi, i poveri". Poi, con lui, alziamo lo sguardo verso il Crocifisso. È là che comprendiamo la profondità della perdizione dell'uomo, il mistero di iniquità, di cui parlava Paolo, il potere del male. Ma in Gesù crocifisso, scopriamo anche un po' dell'immensità dell'amore divino che redime. La croce ci rivela il volto misericordioso di Cristo, che ci apre sempre il cammino della speranza. Sant'Agostino ha immaginato un dialogo tra Gesù e il Buon Ladrone.
Sant'Agostino gli chiede: "Come hai fatto per capire il dramma del Calvario? Hai studiato le Scritture tra i tuoi latrocini? Come hai fatto a capire le profezie e confessare la tua fede in Cristo in modo così luminoso, proprio quando i suoi discepoli lo stavano abbandonando?". E poi Agostino presta al Buon Ladrone questa risposta: "No, non ho studiato le Scritture, non ho meditato le profezie, ma Gesù mi ha guardato e nel suo sguardo ho capito tutto!".
Poiché, da bambino e da uomo, Shahbaz ha fatto sì che Gesù incrociasse il suo sguardo e aprisse il suo cuore, egli non ha più avuto alcuna paura, anzi ha avuto il coraggio di servire i suoi fratelli cristiani e non cristiani, il proprio Paese, di offrire i suoi servizi alla Chiesa, a rischio della propria vita. Dobbiamo rendere grazie a Dio per aver messo sulla nostra strada quest'autentico "martire", cioè "testimone" della fede cristiana, che ha saputo "dire" e "fare" e che ci ricorda che nella croce si trova l'autentica speranza: la Croce ci spinge a dare la nostra vita per i fratelli; la Croce ci ricorda che l'amore e più forte dell'odio; la Croce ci fa comprendere meglio che c'è più gioia nel dare che nel ricevere; la Croce significa che Dio e sempre più grande di noi uomini, e soprattutto che la vita e più forte della morte.
Se Gesù ha detto: "Nessuno mi toglie la mia vita, ma sono io che la offro" (Giovanni 10, 18), Shahbaz Bhatti ha potuto dire: "Non ho più parole da dire, dedico la mia vita a Gesù!". Non esiste un cristianesimo senza la croce. Il messaggio evangelico disturberà sempre. Ma l'amore dei cristiani per tutti sarà sempre luce, consolazione e solidarietà in mezzo alla violenza. Non mancheranno mai cristiani capaci di portare la luce del vangelo nell'umano senza distruggerlo, ma purificandolo, come ricordava il Santo Padre giorni fa, evocando san Francesco di Sales, il quale scrisse: "l'uomo e la perfezione dell'universo; lo spirito è la perfezione dell'uomo; l'amore è quella dello spirito, e la carità quella dell'amore". Il nostro Amico ha saputo condividere con molti in Pakistan quest'amore cristiano che non esclude nessuno. Se avrà esercitato un potere, sarà stato "il potere del cuore".
Mi vengono alla mente immagini commoventi delle due Eucaristie che ho celebrato in Islamabad e in Lahore, nel mese di novembre scorso. La domenica 28 novembre, il ministro Bhatti venne a salutarmi all'aeroporto di Lahore e mi disse: "So che mi uccideranno. Offro la mia vita per Cristo e per il dialogo interreligioso".
A tutti nostri fratelli e sorelle cattolici del Pakistan giunga il nostro messaggio di comunione nella fede, la speranza e la carità. Spesso si sentono soli, senza protezione. Aspettano molto dalla comunità internazionale. Stamane il Santo Padre li ha raccomandati alla preghiera di tutta la Chiesa.
A tale proposito, come non ricordare che il 1° gennaio, il Papa invitava "i leader delle grandi religioni del mondo e i responsabili delle nazioni a rinnovare il loro impegno per la promozione e la tutela della liberta religiosa, in particolare per la difesa delle minoranze religiose, le quali non costituiscono una minaccia contro l'identità della maggioranza, ma sono al contrario un'opportunità per il dialogo e per il reciproco arricchimento culturale. La loro difesa rappresenta la maniera ideale per consolidare lo spirito di benevolenza, di apertura e di reciprocità con cui tutelare i diritti e le libertà fondamentali in tutte le aree e le regioni del mondo".
Possa Dio farci capire meglio cosa vuol dire "dare la propria vita per i fratelli". In fondo, il peccato, il mistero del male che sembra dominare la scena del mondo, ha forse molto semplicemente la funzione di dare a Dio la gioia di perdonare, e ci sprona a essere, sulle strade della vita dove Gesù ci precede, araldi della sua presenza, convinti che da Lui "riceviamo adesso la riconciliazione" (cfr. Romani 5, 28), per essere a nostra volta riconciliatori degli uomini con Dio per mezzo della Croce.
Radio Vaticana - Scienza ed Etica, notizia del 07/03/2011 - Corte suprema dell’India: no all’eutanasia. Un verdetto storico
La Corte suprema ha respinto oggi la richiesta di eutanasia per Aruna Shanbaug, avanzata dallo scrittore Pinki Virani. La Corte - riferisce l'agenzia AsiaNews - ha osservato che “l’eutanasia passiva è ammissibile, sotto la supervisione della legge, in circostanze eccezionali, ma che l’eutanasia attiva non è accettabile”. I giudici hanno sottolineato che c’è la necessità di legiferare in tema di eutanasia, ma che fino a quando non vi sarà una nuova legge resterà in vigore il giudizio della Corte suprema. Aruna Ramachandra Shanbaug, infermiera del King Edward Memorial Hospital (Kem) fu aggredita e violentata il 27 novembre 1973 da Sohanlal Bhartha Walmiki, uno spazzino dell’ospedale, che cercò anche di strangolarla. L’uomo fu condannato a sette anni di prigione. Aruna soffrì di severi danni al cervello, e restò quasi completamente paralizzata. Pinki Virani in un suo libro sostiene che è “praticamente morta”, e quindi sarebbe giusto sospenderle nutrimento e idratazione. Le autorità dell’ospedale hanno dichiarato alla Corte che la donna “accetta il cibo in maniera normale e risponde con espressioni del viso”, e reagisce “ in maniera intermittente ai comandi, esprimendo suoni”. Il dott. Sanjay Oak, portavoce dell’ospedale, ha accolto con soddisfazione il verdetto. “Sono grato alla suprema Corte. Continueremo a occuparci in maniera speciale di Aruna. E’ bene che questo caso apra un dibattito sull’eutanasia. In un rapporto di quattro pagine lo staff del Kem - i dottori JV Divatia, Roop Gurshani e Nilesh Shah - ha dichiarato ai giudici: “A ogni nuova infornata di allievi infermieri, le infermiere sono condotte a vedere Aruna; viene detto loro che Aruna è una di noi e che continua a stare con noi..una bimba di cui hanno avuto cura e assistito con amore per 37 anni. La sola idea di privarla di cibo, o di addormentarla con un farmaci in maniera attiva è molto difficile da accettare per chiunque qui in ospedale. Aruna ha probabilmente passato i 60 anni, e un giorno giungerà alla sua fine naturale. I dottori, le infermiere e tutto lo staff del Kem sono decisi a prendersi cura di lei fino all’ultimo respiro”. Anche il dott. Pascal Carvalho, membro della Commissione diocesana sulla vita umana dell’arcidiocesi di Mumbai si è espresso favorevolmente verso il verdetto. “Accogliamo con favore il rigetto della petizione di eutanasia per Aruna Shanbaug. I nostri giudici hanno sentenziato in favore di una cultura della vita. L’India è radicata nella spiritualità in cui ogni vita viene considerata sacra. Solo Dio è padrone della vita umana, e nessuno ha il diritto di padronanza sulla vita. L’eutanasia, l’uccisione cosiddetta per pietà e il suicidio assistito sono sempre immorali e non devono essere accettati legalmente. Dire che l’eutanasia è una cosa buona è un’offesa alla dignità della persona umana”. Nell’ospedale, fra gli altri commenti, abbiamo registrato questo: “Ci è stato fatto un regalo per la Giornata della donna. Aruna è parte della nostra famiglia, continueremo a occuparci di lei con amore”. (R.P.)
LO CHIAMANO "GRUMO" Di Lorenza Perfori - 07/03/2011 – da http://www.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?articolo=2356
Una volta, quando l’uomo e la donna si univano in intimità potevano generare un bambino. Oggi non è più così, uomini e donne non ne sono più capaci. Da quarant’anni a questa parte, per bene che vada, al massimo producono un “grumo”.
Questa scoperta ha, fin da subito, avuto un forte impatto sulla salute delle donne, le quali hanno iniziato a soffrire di vari problemi fisici e psichici. Per scongiurare questo serio pericolo per la loro salute, nel maggio 1978, il Parlamento italiano ha approvato la legge 194, con la quale consentiva l’eliminazione dei pericolosi agglomerati cellulari. In questo modo si uniformava a quanto era già avvenuto in altri Paesi del mondo, che avevano già legiferato in materia allo scopo di scongiurare l’epidemia.
Da allora, in base ai dati in possesso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, si calcola che, nel mondo, siano stati estirpati oltre 1 miliardo di questi dannosissimi “cancri”, salvando così dalla malattia tantissime donne. Insomma, possiamo serenamente affermare, senza esagerare, che i provvedimenti emanati hanno avuto un successo formidabile!
In questa sede, è nostra intenzione scoprire qualcosa di più di questo terribile grumo, andando a vedere da vicino come si origina e poi si sviluppa. A tale proposito ricorreremo alle numerose scoperte scientifiche che la biologia ha compiuto in questo campo fino ad oggi.
Fecondazione e prima settimana di sviluppo
Per scoprire come si origina il “grumo” e come avviene il suo primo sviluppo, ci affidiamo alle parole della dottoressa Cristina Fiore (www.beneinsieme.it):
“… L'incontro tra uovo e spermatozoo è un gioco di seduzione, di messaggi, di corteggiamenti, di accettazione e di rifiuto. L'ovocita si prepara, prima dell'ovulazione, con il processo di meiosi (formazione del numero esatto di cromosomi ideale per un incontro fecondante, condizione per un incontro fruttuoso) e con la sintesi di molecole di mRNA, cosiddette di ‘lunga vita'. Il RNA messaggero è colui che porta le istruzioni affinché la cellula possa sintetizzare proteine, fondamentali per la sua vita; quindi, prima ancora dell'ovulazione, la madre fornisce al citoplasma che resta al figlio le informazioni perché egli possa avviare una sintesi proteica prima ancora di avere strutturato un proprio DNA e quindi di esserne capace da solo. L'RNA messaggero offre il modello per le primissime sintesi proteiche del nuovo essere ma non può essere usato se non è attivato da un fattore, portato dallo spermatozoo, che si chiama fattore attivante paterno.
Dopo l'ovulazione l'ovocita sfoggia tutto il suo sex appeal e si circonda da una nuvola di messaggi chimici che hanno il compito di richiamare l'attenzione dello spermatozoo (chemiotassi). Anche quest’ultimo si prepara, essenzialmente attraverso due meccanismi: la capacitazione e la reazione acrosomiale.
La capacitazione è un processo in cui persone o gruppi che si trovano in una situazione di impotenza apprendono modalità di pensiero ed azione che permettano loro di agire in maniera autonoma per soddisfare i propri bisogni fondamentali e incamminarsi lungo un processo di sviluppo: chi non aveva potere lo acquisisce, o meglio scopre di possederlo; in specifico il seme maschile in un periodo di condizionamento di circa 7 ore, che avviene nell’utero o nelle tube, libera il proprio acrosoma dal rivestimento di glicoproteine e liquido seminale (sperm coat) e diventa più attivo, si pone nelle condizioni di sviluppare la sua potenza.
La reazione acrosomiale consiste nella liberazione di enzimi proteolitici contenuti in un sacchetto che ricopre in parte la testa a mo' di cappuccio (acrosoma). È la reazione che permette l’ingresso nell’ovocita ed è indotta da proteine zonali quando lo spermatozoo ha preso contatto con la zona pellucida dell’ovocita.
In pratica l’ovocita si pone in condizioni psicofisiche ottimali (meiosi) e stima un budget per il viaggio (mRNA), poi sfoggia tutto il suo sex appeal (chemiotassi); lo spermatozoo dal canto suo, cerca le sue migliori condizioni fisiche (capacitazione) e trova la capacità di vincere le resistenze e penetrare le difese (reazione acrosomiale).
Un corteggiamento in piena regola.
Quando gli spermatozoi raggiungono l'ovocita gli imprimono una rotazione in senso antiorario e lo fanno avanzare nella tuba muovendosi in modo simile ad un corpo celeste. Lo spermatozoo-principe supera la zona pellucida e entra nel citoplasma; si è realizzato il progetto a lungo preparato, quello che l'ovocita aveva atteso per tutta la vita, considerando che i gameti femminili sono presenti nell'ovaio fin dalla nascita.
È quindi la volontà congiunta dei fattori materno e paterno che permette la sintesi delle proteine (modello materno – assenso paterno) che serviranno nelle prime due settimane di sviluppo, quando il bimbo si chiama zigote/morula/blastula.
Appena lo zigote si divide in due cellule viene attivato il DNA del neoconcepito e comincia la sintesi dell'RNA messaggero; quest'ultimo viene messo da parte e verrà utilizzato per sintetizzare le proteine specifiche del bimbo a partire dal suo stadio di gastrula (terza settimana).
In ogni donna, anche quando non è ancora consapevole della gravidanza, si attiva ‘un'energia materna', che sostiene e protegge la mamma e il suo cucciolo in modo silenzioso.
Dopo un giorno dalla fecondazione il bimbo pre-embrione chiama la sua mamma, inviandole numerosi segnali endocrini, e la mamma risponde e produce EPF (early pregnancy factor), ormone dalle proprietà immunosoppressive ma anche associato alla crescita. Alla pronta risposta materna il bimbo interagisce ancora e produce PAF (platelest activating factor) che favorisce la produzione di EPF.
Al terzo giorno il pupetto è in grado di produrre HCG (gonadotropina corionica) che stimola le ovaie della sua mamma a produrre progesterone e estrogeni; vuole la sua culla! E la vuole comoda e confortevole… il progesterone inibisce la contrattilità uterina e gli estrogeni fanno diventare la mamma ‘morbida, elastica, comoda'. Inoltre la mamma copre il suo cucciolo con i propri anticorpi rendendolo invisibile al suo sistema immunitario; lo accoglie e lo protegge.
Il piccolino percorre tutta la tuba e deve annidarsi in utero, deve radicarsi nell'endometrio altrimenti morirà; la sua mamma risponde vascolarizzando l'endometrio, ammorbidendolo e rendendolo ‘adesivo'; la piccola morula può annidarsi e non cadere. Siamo arrivati al consenso formale e amorevole della mamma all'esistenza del figlio e all'offerta di sé.
E poi? Che fa una mamma? Prepara la pappa! Gli offre il suo corpo-culla e prepara cibo buono e nutriente (aumenta il cortisolo e quindi si alza la glicemia). Il bimbetto quindi, al di là delle ambivalenze materne di inizio gravidanza, ha ricevuto cibo, accudimento, amore…”.
I progressi tecnologici sono, oggi, in grado di fornirci delle ottime immagini di questi primissimi istanti di vita. Vediamone alcune (Encarta 2006, Microsoft corporation):
Siamo al primo giorno di vita. Circa 6-10 ore dopo la fusione tra lo spermatozoo e l’ovocita, è possibile osservare la presenza, all’interno della cellula uovo fertilizzata, di due pronuclei [Nella foto (Phototake NYC/Dr. Nikas/Jason Burns) appaiono come due macchie giallastre di forma irregolare] che contengono il dna del padre e della madre. Nelle ore successive i due pronuclei si avvicinano, trainati dal sistema di “funi” che attraversa tutta la cellula finché, giunti a stretto contatto, le membrane si rompono ed il loro contenuto si fonde. Si costituisce così, all’interno della sua prima cellula, il patrimonio genetico completo del nuovo individuo, che verrà trasmesso a tutte le cellule del corpo umano, e che rimarrà tale per tutta la vita. La fecondazione è compiuta: una nuova persona, unica e irripetibile, è stata generata.
Lo zigote, la prima cellula del nuovo individuo derivante dalla fecondazione, inizia a dividersi per mitosi. Tale processo è detto segmentazione, e non comporta un aumento dimensionale dell'uovo. Di conseguenza, a ogni divisione si formano cellule geneticamente identiche ma sempre più piccole. La divisione avviene a partire dal terzo giorno e si verifica al ritmo di due volte al giorno, secondo una precisa geometria che l’embrione conosce molto bene. Qui l’embrione è chiamato “morula” perché dall’aspetto simile a una mora [nella foto (Phototake NYC/Jason Burns/Ace) una morula al terzo giorno di sviluppo embrionale]. Mentre continua nelle sue divisioni cellulari, la morula percorre le tube di Falloppio, finché, verso il quarto giorno entra nella cavità uterina.
A cinque giorni di vita, l’embrione si trova già nell’utero, dove assume l’aspetto di una sfera cava detta “blastula”. La cavità si espande progressivamente finché si conclude con la formazione della “blastocisti”, quando l’embrione ha circa 180 cellule. Alla fine del quinto giorno, la blastocisti rompe l’involucro protettivo che aveva sinora rivestito l’embrione, affinché – verso il sesto/settimo giorno - possa impiantarsi nella parete uterina.
Dopo una settimana dal concepimento la mucosa uterina e già ispessita e riccamente vascolarizzata, grazie all’aumento della produzione di progesterone, iniziato dal concepimento. A questo punto l’embrione può aderire facilmente all’endometrio, e ricevere il nutrimento che gli è necessario, finché non si è formata la placenta.
Il “Cross talk” (linguaggio incrociato)
Sin dai primissimi istanti di vita, quindi, si instaura – tra madre e figlio concepito – un silenzioso dialogo fatto di amorevole reciprocità. L’embrione e la mamma “si scambiano cellule, messaggi ormonali [e] fattori di crescita” (Prof. Giuseppe Noia, www.noiaprenatalis.it).
“Grazie al costante colloquio incrociato con la madre, l’embrione va a impiantarsi nella zona migliore. […] È sorprendente anche osservare l’adattarsi della donna al proprio bambino, visto che ‘il loro patrimonio genetico è diverso al 50%’. […] Innanzitutto, non c’è il rigetto dell’altro, che si verifica quando è presente in un organismo un diverso patrimonio genetico: pensiamo, ad esempio, ai trapianti d’organo. Nel caso della gravidanza, invece, l’embrione dialoga con la madre per gestire la sua collocazione. […] Si tratta della ‘tolleranza immunitaria’, spiega Noia: ‘avviene una sorta di mascheramento delle parti paterne dell’embrione che avrebbero indotto la madre a rigettarlo’ ”.
Un vero e proprio scambio reciproco dove non è solo il corpo della mamma a prendersi cura del bambino, ma è anche il nascituro a svolgere un benefico effetto nei confronti di lei. E’ sempre il prof. Noia a riferire dell’esperienza documentata, negli Stati Uniti, dalla ricercatrice Diana Bianchi, la quale ha notato come “le cellule staminali del figlio ancora in grembo avevano circondato un follicolo tiroideo della madre che aveva avuto una tendenza neoplastica, trasformandolo in cellule tiroidee”. In sostanza, le cellule staminali - passate nel corpo della madre attraverso la placenta -, sono state in grado, prima, di individuare il tumore e, poi, di circoscriverlo e curarlo differenziandosi in cellule tiroidee.
Le cellule staminali del figlio “hanno quindi la potenzialità di riparare danni ad organi della gestante, trasmettendo benefici alla sua salute”.
Ma c’è dell’altro. Si è anche scoperto che le cellule staminali fetali possono rimanere per moltissimi anni all’interno del corpo della madre, anche fino a “35 anni dopo la nascita” del figlio. Infatti – continua Noia – è possibile “rintracciare cellule fetali nel sangue periferico, nella cute e nel fegato. [...] In seguito all’impianto dell’embrione, dal dodicesimo giorno in poi, globuli bianchi del figlio si ritrovano nel midollo osseo e nel circolo sanguigno della donna, così gli eritroblasti (precursori dei globuli rossi)”.
Questo fenomeno potrebbe, anche, essere la spiegazione del perché le donne vivano più a lungo degli uomini.
È sempre il prof. Noia, a fornire una serie di dati relativi a ricerche effettuate sulla relazione madre-feto (www.noiaprenatalis.it/scienza-e-bioetica/33-aspetti-fisiologici-e-patologici-delle-interazioni-madre-feto.html) nei quali emergono “varie evidenze [che] dimostrano [come] nello sviluppo neuro-sensoriale del feto vi [sia] una intensa partecipazione materna e [come] i canali di comunicazione [siano] fortemente biunivoci”.
Un linguaggio incrociato, quello della madre con il feto, che non è solo di tipo “biologico-sensoriale”, ma anche “psicologico-spirituale”. Mentre nel primo caso la presenza del figlio ha un “incremento esponenziale”, nel senso che cresce con il crescere del bambino nel proprio ventre; nel secondo caso il figlio è percepito “indipendentemente dalle sue dimensioni” seguendo la legge del “tutto o nulla”: “la presenza del figlio viene avvertita come un tutt’uno di presenza, indipendentemente dalle sue dimensioni”.
È esperienza acquisita “come moltissime madri riescano a fare una corretta diagnosi di sesso del proprio bambino senza l’ausilio dell’ecografia o dell’amniocentesi”. È altresì esperienza comune come molte donne riescano a percepire di essere rimaste incinte prima che il test di gravidanza lo confermi. Infine – come riscontra il Prof. Noia in base alla sua esperienza personale – in più di 20 casi di gravidanza gemellare, le pazienti avevano riferito una “diversità percettiva” ancor prima che la gravidanza gemellare fosse confermata dall’esame ecografico o ormonale.
In ambito neonatale “sta galoppando la conoscenza del protagonismo biologico dell’embrione fin dalle prime ore della sua vita”. Infatti, appena poche ore dopo la fecondazione dell’ovulo da parte dello spermatozoo, sono attivati “ben 46 geni”. Ciò significa che l’embrione ha, da subito, “la direzione del proprio progetto di vita, la sua individualità”. È quello che ha dimostrato Helen Pearson con l’affermazione “Your destiny from day one” (Nature 2002-418:14,15), “Il tuo destino dal giorno uno”.
Ricorda Giuseppe Noia che è ormai disponibile una vasta letteratura volta ad evidenziare proprio questo “protagonismo biologico dell’embrione” (ibid). L’embrione, quindi, oltre a dialogare con la madre si pone anche come “un direttore d’orchestra non solo del suo impianto, ma anche del suo destino futuro”.
Alcune considerazioni prima di proseguire
Prima di proseguire con lo sviluppo del piccolo oltre la prima settimana di vita, dobbiamo fare tre considerazioni.
Come prima cosa, possiamo concludere che, sin dai primi sette giorni di vita, definire l’embrione come un insignificante “grumo di cellule, senza vita relazionale biologica e psicodinamica”, come fosse un parassita o un cancro della donna, è assolutamente riduttivo e consapevolmente falso. Una terminologia, questa, volutamente scorretta che depone contro una vasta letteratura scientifica verificata e ampiamente riconosciuta.
Le scoperte scientifiche che altrove servono ad evocare un’empirica onnipotenza, vengono qui consciamente ignorate o maldestramente falsificate negando ogni evidenza. C’è chi dice che non è possibile stabilire scientificamente il momento in cui il feto si possa considerare un essere umano. Qualcuno lo ritiene tale quando si presenta la prima attività cerebrale, altri parlano di capacità respiratoria. Qualcun altro, ben più ardito, fa partire il riconoscimento di persona solo con la nascita, cioè quando l’ “ammasso cellulare” sia uscito dal limbo in cui è stato relegato e abbia la capacità di vivere autonomamente al di fuori dell’utero della madre della quale, fino a quel momento, è stato solo un’appendice.
Quei geni onniscienti, con i quali gli scienziati materialisti riescono a spiegare tutto, persino – attraverso l'impiego di una buona dose di fantasia e creatività - la maggiore o minore tendenza al tradimento, o al senso religioso, qui sono omertosi e muti. Incapaci di riconoscere l’evidenza, veramente empirica, che un nuovo individuo unico e irripetibile è già presente, a livello genetico, sin dalla fusione dei gameti maschile e femminile.
Che l’embrione sia un figlio e non un “grumo cellulare” risulta, altresì, evidente quando la donna incorre in un aborto spontaneo, con tutto il carico di dolore psichico che ne consegue. Ci troviamo qui davanti a quel linguaggio psicologico-spirituale già visto, attraverso il quale il figlio viene percepito indipendentemente dal suo stadio di sviluppo. Nessuna donna che ha abortito spontaneamente dirà mai – come fa notare Noia –: “ho perso un embrione di 12 millimetri”, bensì: “ho perso il mio bambino”. Ci sono donne che ormai anziane, versano ancora lacrime al riaffiorare del ricordo di quel loro figlio abortito spontaneamente in gioventù.
Studi effettuati sulla vedovanza hanno dimostrato che: “il tempo di elaborazione e sedimentazione del lutto dopo un aborto spontaneo precoce (8-9 settimane) è temporalmente equiparabile alla elaborazione e sedimentazione del lutto di donne che hanno perso i propri mariti”.
La stessa cosa si verifica in caso di aborto volontario. Come la donna è in grado di percepire la presenza del figlio, prima di averne la conferma pratica, allo stesso modo riesce a percepirne l’assenza, anche se il figlio è stato abortito precocemente. Come dice il professore: “la perdita della presenza del figlio non è equiparabile alle dimensioni dell’embrione, poiché è indipendente dal peso in grammi e dalla lunghezza in centimetri”. Ne consegue che tutti quei tentativi, di certa classe medica, volti ad anticipare il prima possibile un eventuale aborto con lo scopo di risparmiare un maggiore dolore alle donne, sono destinati a fallire miseramente. Infatti, “il concetto di proporzionalità traumatica (piccolo embrione = piccolo trauma) è solo un fenomeno culturale proiettivo, utilizzando una proporzionalità matematica tra le dimensioni dell’embrione e l’entità del trauma psicologico, ma, nell’esperienza osservazionale e soprattutto nell’esperienza delle donne, non esiste”.
Si può interrompere, con un aborto, la percezione biologico-sensoriale, ma non si potrà eliminare quella psicologico-spirituale, che continuerà ad accompagnare la donna per tutta la vita.
Una seconda osservazione, che chiaramente si palesa, emerge quando si entra nel merito della fecondazione in vitro. È del tutto evidente come, in questo ambito, saltino completamente quell’iniziale corteggiamento e cross-talk di cui abbiamo parlato.
Con la Fiv, infatti, la fecondazione avviene al di fuori del corpo femminile. Qui un ovulo maturo viene prelevato aspirandolo dalle tube di Falloppio, oppure direttamente dall’ovaio, mediante una piccola incisione addominale. In questo secondo caso, non essendo le cellule uovo ancora completamente mature, verranno stimolate alla crescita in provetta, mediante iniezioni di ormoni.
Quando gli ovuli sono pronti, vengono immersi in uno speciale liquido ricco di nutrienti, dopodiché viene unito, per circa 18 ore, dello sperma lavato e incubato. Il preparato così ottenuto viene posto in un apposito mezzo di coltura ed esaminato dopo circa 40 ore. Se gli ovuli sono stati fecondati, si formano gli embrioni che, allo stadio di 2-4 cellule, vengono trasferiti nell’utero della madre. Per aumentare le probabilità di gravidanza, si preferisce trasferire in utero più embrioni, ciò può, tuttavia, esporre la donna al rischio di gravidanza multipla. Ecco che allora interviene la legge, consentendo di congelare gli embrioni in esubero.
Dopo oltre trent’anni di fivet centinaia di migliaia di embrioni sono ancora lì, immersi nell’azoto liquido. Centinaia di migliaia di vite abbandonate o dimenticate da quei genitori che, nel frattempo, hanno fatto nascere i loro fratelli. Molti altri sono morti, visto che la percentuale di gravidanza per ogni ciclo di Pma si aggira intorno al 25%. Altri sono stati distrutti. Altri ancora usati per le sperimentazioni, anche le più aberranti, come la produzione di embrioni chimera, quelli, cioè, che contengono sia materiale genetico umano che animale.
Se consideriamo poi che i gameti femminile o maschile possano provenire anche da donatori esterni alla coppia, quella fase di corteggiamento - così ben descritta dalla dottoressa Fiore -, assume molto più i tratti di un appuntamento al buio o di un matrimonio forzato e combinato.
Quel dialogo incrociato che inizia con la fecondazione, continua durante il viaggio nella tuba fino all’impianto nell’endometrio è, qui, totalmente assente. Tant’è vero che, dopo il trasferimento in utero degli embrioni prodotti in laboratorio, alla donna devono essere praticate iniezioni quotidiane di progesterone. Quell’ormone che il cross-talk avrebbe stimolato naturalmente.
Il fatto stesso che la percentuale di successo della Fiv non vada oltre il 25%, può essere un segnale di quanto sia importante, in questi primissimi giorni di vita, quel dialogo silenzioso tra la madre e il bambino concepito, al fine di ottenere un ottimo impianto nell’endometrio e il buon proseguimento della gravidanza.
Ci rimane da considerare ora il terzo argomento. Vedere cioè quel che succede quando una donna assume la pillola del giorno dopo.
La pillola del giorno dopo è un preparato a base di ormoni che va preso entro e non oltre 72 ore dopo un rapporto sessuale, che possa aver dato origine a una gravidanza indesiderata. La sua azione è di tipo “antinidatorio”, ovvero è in grado di alterare la parete uterina, impedendo che l’eventuale ovulo fecondato si impianti.
Come abbiamo visto, l’impianto del feto nell’endometrio avviene verso il settimo giorno dalla fecondazione, ovvero quando si trova allo stadio di blastocisti. In questo periodo la comunicazione non verbale madre-feto, intercorsa a partire dal concepimento, ha contribuito a preparare opportunamente l’endometrio, ispessendolo e vascolarizzandolo, al fine di favorire l’impianto.
Ebbene, quella bomba ormonale che è la pillola del giorno dopo, può interferire sia direttamente nella formazione propria dell’embrione, sia sulla parete dell’utero rendendola inadatta alla fissazione del feto che, conseguentemente, andrà perso come si fosse trattato di un precocissimo aborto spontaneo.
Scendendo a livello tecnico, è sempre il prof. Noia – nell’articolo già citato – a mostrarne le modalità. I dati confermano “come sia importante la relazionalità dei primi otto giorni ai fini di produrre il ‘cervello placentare’ in cui coesistono le produzioni di neuroromoni, neuro peptidi, neuro steroidi e neurotrasmettitori”. Da questo punto di vista risulta “molto difficile non ipotizzare che dei fattori ambientali nella fase endotubarica di tipo farmacologico-ormonale (vedi pillola del giorno dopo) non possano influenzare la preparazione dell’impianto e quindi nei fatti intercettarlo e provocare l’aborto precoce”.
Giuseppe Noia cita anche altre fonti: “L’azione del levonorgestrel sulle integrine comporta modificazioni biochimiche dell’endometrio che ostacolano l’impianto” (JD Wang e coll, Proceeding of the International conference on reproductive health, 1998). “I cambiamenti dell’espressione citochinica nella tuba di Fallopio influenzano lo sviluppo embrionale attraverso una alterazione del milieu peri-impianto” (HZ Li e coll, Molecular Human Reproduction 2004, 10; 7, 489; A Christow e coll, Molecular Human Reproduction 2002, 8; 4, 333-340). “Non possiamo concludere che la pillola per la contraccezione d’emergenza non impedisca mai la gravidanza dopo la fecondazione” (Trussel J e coll, Contracenption 2006, 72 (2), 87-89).
Questo è maggiormente vero, quando si prende in esame la pillola EllaONe, quella che ha efficacia “antinidatoria” fino a “cinque giorni dopo” un rapporto sessuale fecondante. Il principio farmacologico di questa pillola è l’Ulipristal acetato, che è lo stesso del gruppo farmaceutico della pillola abortiva Ru486. “Un antiprogestinico sintetico di seconda generazione, che tecnicamente svolge un’azione selettiva e antagonista per i recettori del progesterone e impedisce l’annidamento dell’embrione svolgendo quindi un’azione abortiva” (Prof.sa Maria Luisa Di Pietro).
È trascorsa appena una settimana, da quando l’ovulo e lo spermatozoo si sono fusi insieme dando origine a un nuovo essere umano e, per una moltitudine di questi piccoli d’uomo, la vita si è già interrotta.
Piccolissimi orfani di genitori viventi si trovano in un limbo congelato fuori dal tempo. Moltissimi altri sono periti durante i cicli di fecondazione in provetta, sia in quanto soprannumerari, sia perché selezionati, ovvero scartati a favore di altri considerati migliori. Tanti altri sono stati trasformati in cavie per la sperimentazione, comprese le più snaturate e di nessuna utilità, come la creazione dei mostruosi “embrioni chimera”.
Infine, moltissimi altri, sono stati abortiti precocemente, a seguito dell'azione antinidatoria dei “contraccettivi di emergenza”. Una quantità indefinita, difficile da quantificare poiché l'assunzione di tali pillole avviene propriamente in un contesto di incertezza.
Ebbene, proprio perché sfuggevoli a qualsiasi computo matematico, tutte queste perdite non sono state conteggiate tra quel miliardo e più di “grumi soppressi”, di cui dicevamo all'inizio. Una possibile stima approssimativa la possiamo, tuttavia, trovare nel libro di Antonio Socci “Il genocidio censurato, Aborto: un miliardo di vittime innocenti” (Piemme, I ed. 2006, pp. 21-23).
Riguardo agli embrioni perduti con la Fiv – si legge nel libro -: “si calcola che solo per far nascere 20 bambini occorra 'produrre' circa 1.800 embrioni di cui dunque 1.780 destinati alla morte. Se è vero che oggi i nati con Pma nel mondo sono ormai circa 1 milione, per calcolare la moltitudine di 'fratelli' che sono stati 'sacrificati' dovremmo orientarci circa sui 90 milioni di embrioni”. Dobbiamo ora aggiungere quelli dei “contraccettivi di emergenza” e quelli dei sistemi di contraccezione come, ad esempio, la spirale. Anche se molte donne non lo sanno, la spirale è, infatti, un vero e proprio “contraccettivo” abortivo, visto che la sua azione consiste nell'impedire l'annidamento in utero dell'embrione già formato. A questo proposito, la dottoressa Thèrèse Gillaizeau Amiot stima gli aborti farmaceutici intorno “ai 4 milioni”; mentre quelli derivati dall'uso della spirale a “460 milioni” (si pensi che solo in Francia sono 2 milioni e mezzo le donne che la usano).
Come si vede le cifre sono immani. Le stime (sebbene valutate al ribasso) sono talmente grandi e la scia di morte così estesa e così direttamente proporzionale all'algida indifferenza globale che l'avvolge, da lasciare ammutoliti.
E allora non aggiungiamo altro. Chiamiamo a raccolta le nostre forze e proseguiamo nel cammino, perché il miliardo di “grumi” eliminati - dei quali stiamo seguendo il percorso - è riuscito, nonostante tutto, a superare la durissima selezione dei primi sette giorni di vita, continuando a crescere e svilupparsi anche nelle settimane successive.
La fissazione delle blastocisti
Il nostro “miliardo” è stato quindi generato dopo un “appassionato” corteggiamento e poi ha amorevolmente dialogato con la propria mamma. Non sono intervenute interferenze esterne, così tutto è proseguito per il meglio. Le blastocisti si sono ben impiantate nell’endometrio liberando quegli enzimi che, penetrati nella mucosa dell’utero attraverso i tessuti, hanno consentito ai piccolini di alimentarsi col sangue e con le cellule della madre, prima del formarsi della placenta. Qui si è prodotto una specie di brodo nutriente di ottima qualità che ha permesso il proseguimento della gravidanza. Se la mucosa uterina non fosse stata sufficientemente ricca, sarebbe sopravvenuto un aborto spontaneo, ma non è questo il nostro caso.
Seconda settimana di vita
Le cellule iniziano a differenziarsi. Un grappolo diventa il sacco amniotico, cioè l’involucro pieno d’acqua salata dove crescerà il bambino. Un secondo grappolo si svilupperà tramutandosi in sacco vitellino dal quale ha origine la parte corpuscolare del sangue e la costituzione dell’intestino primitivo. Un terzo, infine, diventa la placenta.
Nell’ambito di queste strutture vi sono anche altre cellule che sviluppandosi rapidamente formeranno il bambino. Questi foglietti embrionali, o germinativi, sono di tre tipi: ectoderma, mesoderma e endoderma. Dal mesoderma si origina poi il mesenchima, o tessuto connettivo embrionale, formato da cellule disperse in un’abbondante sostanza intercellulare. La terna di tipi cellulari, più il mesenchima, rappresentano il tessuto originario da cui inizieranno a differenziarsi alcuni gruppi di tessuti che saranno presenti nell’organismo completo.
In particolare, dall’ectoderma si formeranno l’epidermide, il tessuto nervoso e le ghiandole endocrine, i capelli, le unghie, lo smalto dentario, il cristallino dell’occhio e le strutture dell’orecchio interno. Dal mesoderma deriveranno il derma, i muscoli, il sistema circolatorio, le ovaie e i testicoli, gli epiteli che rivestono le cavità corporee (peritoneo, pleure, pericardio). Dall’endoderma si formeranno il fegato, il pancreas, l’apparato digerente; le vie respiratorie; la vescica, uretra e prostata; la tiroide, paratiroide e timo e le cellule delle linee germinali di ovociti e spermatozoi. Dal mesenchima si formeranno invece tutti i tessuti di tipo connettivale.
Piano piano l’embrione inizia a rendersi evidente assumendo la forma di un corpicino cilindrico.
Terza settimana di vita
All’inizio della terza settimana (verso il 15° giorno) inizia il processo di gastrulazione che porterà, verso il 18° giorno, allo sviluppo di un asse di direzione caudo-craniale (coda-testa) dell’embrione. L'ectoderma si ispessisce e si introflette. Da questa struttura, in continua trasformazione, migrano delle cellule che si differenziano da quelle dell’ectoderma e si posizionano tra quest’ultimo e l’endoderma, dando origine al terzo foglietto: il mesoderma.
La parte centrale del mesoderma si distacca dalle porzioni laterali e forma un cordone, chiamato corda dorsale. Intorno a questa, per migrazione di cellule del mesoderma laterale, si formeranno i corpi vertebrali che andranno ad accogliere il canale neurale originatosi dall’ectoderma.
La corda dorsale, dopo aver svolto questa preziosa funzione di richiamo delle cellule del mesoderma, regredisce e non darà origine a nessuna struttura del nostro corpo adulto. Dal mesoderma laterale, invece, si formeranno lo scheletro, la muscolatura, il tessuto connettivo, l’apparato cardiocircolatorio ed il rene.
L’abbozzo nervoso deriva dal foglietto ectodermico e compare attorno al 17° giorno, sotto forma di un ispessimento chiamato “placca neurale”. Successivamente la placca si approfonda fino a formare un avvallamento, la “doccia neurale”, che si chiuderà la settimana successiva (21°-28° giorno) dando origine al canale neurale. Da quel momento i neuroni inizieranno a moltiplicarsi al ritmo di 4.000 al secondo finché, al termine della 16° settimana saranno già più di 20 miliardi. Oltre a moltiplicarsi, le cellule nervose si differenziano e si dispongono a formare una fitta rete di comunicazioni.
È proprio durante questo processo di generazione dei neuroni (neurogenesi) che si origina quel particolare assetto morfo-funzionale che permetterà al nuovo individuo di svolgere le funzioni cerebrali più evolute tipiche dell'essere umano, come la percezione delle forme, il riconoscimento visivo, il coordinamento dei movimenti volontari, il linguaggio, l'apprendimento, la memoria, ecc.
Oltre al sistema nervoso, durante questo periodo si forma un altro importantissimo organo: il cuore. Al 22° giorno è piccolo quanto un seme di papavero e possiede solo due cavità, ma ha già il suo battito, grazie alla presenza di cellule specializzate, i miocardiociti, che sono in grado di contrarsi. La vera e propria circolazione embrionale inizierà tra il 27° e il 29° giorno. Le vene sono sottili come un capello, ma già in grado di permettere lo scorrere delle prime cellule di sangue, che devono portare ossigeno e nutrimento, indispensabili per il proseguimento della crescita.
Ora l’embrione assomiglia a un piccolissimo cavalluccio marino. Misura circa 3 mm. ed ha le dimensioni di un chicco di caffè. Nonostante ciò, dopo solo tre settimane, ha già un suo sistema nervoso e il cuore che batte. Da questo momento non smetterà più, continuando a battere per tutta la vita, a meno che...
Quarta settimana di vita
Siamo alla fine del primo mese di vita, il cuore funziona e il corpicino presenta già gli abbozzi di tutti i principali organi. Grazie ai foglietti embrionali inizia da qui l'organogenesi, quel processo che porterà alla formazione completa di ogni organo, tessuto e apparato.
L'embrione cresce di 1 mm. al giorno. A quattro settimane non è più grande di un fagiolo e il suo cuore batte 80 volte al minuto ma, ogni dì che passa, va sempre più veloce. Le piccole gemme che si sono formate lungo il corpicino si svilupperanno in braccia e gambe, mentre strati di tessuto si aggregano su quattro lati per formare il viso. La parte superiore diventerà la fronte e il naso, e le guance si ripiegano dai lati per riunirsi a formare il labbro superiore. Il segno di questa unione (la linea verticale incavata che dal naso arriva alla bocca) rimarrà tra i tratti somatici del nostro volto per tutta la vita.
Si può distinguere l'estremità cefalica, contenente le tre vescicole da cui avrà origine l’encefalo, e il cristallino degli occhi che si presenta come un puntino nero (Photo Researchers, Inc./Professors P.M. Motta and S. Makabe/Science Photo Library, Encarta 2006).
A partire dal sacco vitellino, durante questa settimana iniziano a formarsi le cellule germinali primordiali, i precursori degli oogoni (nella femmina) e degli spermatogoni (nel maschio). A meno di un mese di vita l’embrione prepara le linee cellulari dalle quali si origineranno i gameti: pensa già ai propri figli!
Siamo al termine della quarta settimana, l’embrione è ormai lungo circa 5-6 mm. In appena un mese, a partire dallo stadio di zigote, ha aumentato la sua massa di ben settemila volte.
Quinta settimana di vita
Alla quinta settimana, la futura mamma ha già constatato un ritardo del ciclo e, probabilmente, le è sorto il sospetto di essere rimasta incinta. Mentre si appresta a trovarne la conferma con il test di gravidanza, il suo piccolino continua silenziosamente a crescere. La “doccia neurale” si è chiusa qualche giorno fa e i neuroni hanno già iniziato a formare la corteccia cerebrale, moltiplicandosi e differenziandosi. Intanto è iniziata anche la vera e propria circolazione embrionale: ossigeno e nutrimento vengono trasportati in tutto il corpicino, attraverso le piccolissime vene.
Ora l’embrione misura circa 1 cm., iniziano a comparire gli abbozzi di pancreas e reni, mentre quelli degli arti superiori e inferiori si sono allungati. Il cordone ombelicale è ormai perfettamente formato.
Sesta settimana di vita
A sei settimane il piccolino ha appena le dimensioni di un fagiolo, è lungo circa 16 mm. e pesa in media 1 grammo. Si formano gli abbozzi delle mani e dei piedi e compaiono le dita. I genitali iniziano a differenziarsi in maschile o femminile. Le pulsazioni cardiache sono diventate ritmiche. Il cuore ha ancora solo due camere ma pulsa già a circa 150 battiti al minuto.
Settima e ottava settimana di vita
Durante queste due settimane Iniziano a svilupparsi le ossa, i muscoli, i nervi ed i grossi vasi. L'estremità cefalica dell'embrione comincia a separarsi dal torace ed in essa è possibile distinguere gli abbozzi di naso, orecchie e mandibole. Si formano anche le prime gemme dentali, quelle strutture dalle quali più avanti si svilupperanno i denti. La testa è ancora molto grande rispetto al corpo, in una proporzione rispetto a questo di un terzo. In essa compare il “corpo calloso” cioè quella struttura nervosa che collega gli emisferi destro e sinistro del cervello. Quest’ultimo appare lucido sotto la pelle sottilissima, rivelando l’intreccio dei vasi capillari.
Gli occhi sono coperti da una pelle intatta, che finirà con l’aprirsi e formare le palpebre. Gli arti si allungano e appaiono gomiti e ginocchia, mentre si sviluppano anche le dita. Il piccolino tenta sin da ora di scalciare debolmente, per quanto la madre non possa ancora percepire alcun movimento dato che, alla fine dell’ottava settimana, quando è in posizione raggomitolata, ha giusto le dimensioni di una noce, è lungo circa 4,5 cm. e pesa sui 6 grammi. La parete addominale non è ancora completa, tuttavia gli organi interni sono già tutti nella giusta posizione, eccetto quelli riproduttivi.
Al termine del secondo mese, il cuore ha cominciato a pompare vigorosamente il sangue dato che, finalmente, ha sviluppato le quattro cavità. Ora è come un cuore adulto, con due atri e due ventricoli, anche se di dimensioni piccolissime.
A questo punto il sacco vitellino – che per otto settimane ha nutrito il piccolino – diventa inutile e superfluo. La funzione nutritiva da qui, fino alla nascita, verrà assolta dalla placenta. Oltre a permettere il passaggio del sangue ricco di nutrimento, dalla madre al cordone ombelicale, la placenta funge anche da filtro. Tutto ciò di cui il feto non ha bisogno viene fatto defluire nel sangue della madre, come vengono filtrate le sostanze dannose presenti nel sangue di lei prima che arrivino al piccolo. Tuttavia la placenta non è in grado di filtrare farmaci, alcol e nicotina. Questi, se presenti, entrano nella circolazione sanguigna anche del bimbo che si sta formando, interferendo negativamente nel suo sviluppo.
Nel frattempo i test di gravidanza delle mamme di quel miliardo di piccoli d'uomo, hanno dato tutti esito positivo e tutte hanno - chi prima chi poi; chi combattuta e chi invece convinta; chi pensando ad un grumo senza vita e chi invece consapevole trattasi di un figlio -, deciso per l'aborto, attivandosi di conseguenza.
Nona settimana di vita
All'inizio del terzo mese il piccolino non è più chiamato embrione, ma feto. Nulla di improvviso o di straordinario è accaduto tra l’ottava e la nona settimana, il nuovo nome vuole solo indicare che a questo punto egli presenta sembianze umane, con un aspetto nettamente definito ed il possesso di tutti gli abbozzi degli organi fondamentali.
Tutti gli organi e i tratti del feto si completeranno nel corso di questo terzo mese. La testa cresce dall’alto e la parte inferiore si allunga per formare il collo, mentre si sviluppa il mento. Il naso e l’orecchio esterno sono completamente formati e le dita delle mani e dei piedi diventano visibili, per quanto collegate tra di loro da una specie di membrana.
Tra la nona e la decima settimana nei genitali maschili si sviluppa il glande e in quelli femminili si presenta l'abbozzo dell'utero. Le gemme dentali si tramutano nei primi abbozzi di denti. Nel pancreas si formano le strutture preposte alla produzione di insulina. Le anse intestinali sono ormai rientrate nella cavità addominale ed è scomparsa l'ernia ombelicale fisiologica. Si formano anche il fegato, i reni e lo stomaco (grande quanto un chicco di riso). Il feto è lungo dai 5 ai 7 cm. e pesa in media 14 grammi.
Il bimbo continua a crescere e mentre si avvia alla sua dodicesima settimana di sviluppo inizia anche a fare le smorfie e a muovere tutte le parti del corpo, al fine di sviluppare i muscoli e irrobustire le articolazioni. La frequenza cardiaca aumenta ancora un po', fino ad un massimo di 157 battiti al minuto. Questo sarà anche il valore più alto in assoluto raggiungibile. Dopo questo picco il battito inizierà a rallentare ed il cuore passerà sotto il controllo del cervello che inizierà a controllare anche il resto del corpo.
Dodicesima settimana di vita (84 giorni)
I genitali esterni si differenziano definitivamente. La vescica e l'uretra sono ben sviluppati ed inizia a funzionare la tiroide. Alla fine del primo trimestre iniziano a crescere anche le unghie.
A dodici settimane è già possibile registrare la presenza di una modesta attività elettrica cerebrale, sintomo della progressiva maturazione del cervello che aveva avuto inizio, dopo la chiusura della “doccia neurale”, verso la quinta settimana di vita.
In questo periodo il bimbo inizia anche a mettersi il pollice in bocca e a sviluppare la preferenza per la mano destra o sinistra. È lungo circa 8 cm. e pesa in media 60 grammi ma, da adesso in poi, crescerà molto velocemente...
Stop, fine… buio … …
E invece no. Per la maggior parte di quel miliardo di nostri figli e non grumi - ora ne abbiamo una limpida ed esaustiva certezza – la vita si è interrotta qui. Non possiamo, allora, proseguire con le immagini che ci mostrino lo sviluppo nei mesi successivi, poiché questo non c'è stato, non è mai avvenuto, fermato, interrotto per sempre, da quei genitori che, prima li hanno generati e, poi, hanno voltato loro le spalle. Ed allora è proprio meglio non mostrarle queste fotografie orribili ma drammaticamente reali. Chi vuole, del resto, le può trovare senza problemi in internet. Basta digitare “aborto” in un qualsiasi motore di ricerca per trovarsi di fronte a centinaia di immagini crude e crudeli, nonché di qualche filmato molto eloquente.
Immagini vere di pezzi di bambino insanguinati, altro che grumi! Qua un piccolo braccio con la sua manina. Più in là, tra la mescolanza di fluidi e tessuti, spunta un piedino. Poco distante ecco la testa... anzi no, pezzi di testa, giacché questa deve essere prima spezzettata per essere estratta più agevolmente... un orrore senza fine.
A questo stadio dello sviluppo, al centro della scena, c'è una asettica sala operatoria o ambulatorio, e poi cannule aspiranti, pompe, cucchiai e pinze. In tempi recenti la sala operatoria è stata sostituita da una semplice pillola abbinata al bagno di casa propria, o a quello dell'ufficio, o a qualsiasi altro luogo in solitaria.
Più di un miliardo di piccoli d'uomo sono stati cancellati usando una buona dose di cinismo seriale, nonché di crudele fantasia. Molti sono stati aspirati fuori dall'utero della madre con apposite cannule connesse a una pompa aspirante, introdotte attraverso il canale cervicale, mediante una tecnica detta “isterosuzione”. Molti altri sono stati raschiati via a pezzi “svuotando” la cavità uterina mediante l'utilizzo di un particolare cucchiaio metallico, chiamato curette a cui, all'occorrenza, può essere abbinato l'utilizzo del forcipe, in un procedimento detto “dilatazione ed evacuazione”.
I progressi “farmacologici” permettono oggi di evitare attrezzi chirurgici e lettino d'ospedale, ingurgitando una “pilloletta” efficace entro la 7°settimana di gravidanza (49° giorno dall'ultimo ciclo mestruale), accedendo all'aborto chimico mediante assunzione della fantasmagorica ru486. Un preparato velenoso che, entrando in competizione con l'ormone chiave della gravidanza, il progesterone, lo blocca e ne prende il posto sostituendosi ad esso. Il risultato è la morte lenta del figlio in pancia per mancanza di nutrimento, finché non si distacca dall'utero ed è espulso fuori. E così le donne moderne, e pienamente emancipate, attive protagoniste del proprio aborto, possono verificarne il buon esito controllando nell'assorbente, in assoluta riservatezza e libertà, l'espulsione del feto morto.
Altri appartenenti a quel nostro miliardo di figli mancanti all'appello, sono stati abortiti anche in periodi successivi ai tre mesi di vita. Del resto ciò è consentito dalla legge e, quindi, perché non coglierne l'opportunità? In Italia, ad esempio, la legge 194 consente l'aborto anche oltre i 90 giorni quando siano accertate “anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” (art. 6). In questo caso si parla di “aborto tardivo”.
Un metodo che si utilizza alla 16° settimana è quello che causa l'avvelenamento del bimbo, mediante una “infusione salina”. Attraverso un ago introdotto nel sacco amniotico, passando attraverso l'addome della madre, viene estratta una piccola quantità di liquido amniotico ed immesso, al suo posto, una soluzione salina molto concentrata, che il feto respira e inghiotte. L'effetto corrosivo dei sali può anche bruciare e asportare il delicato strato esterno della pelle del bambino. Durante le 24 ore successive, mentre il figlio lentamente si avvelena, si dibatte e ha le convulsioni; poi la madre entra in travaglio ed espelle il bambino morto.
Un'altra forma di aborto tardivo è l'isterotomia, consistente in un intervento chirurgico come si trattasse di un taglio cesareo, con l'unica differenza che – visto che il bimbo non è ancora giunto a completa maturazione -, l'incisione dell'addome sarà molto più piccola. Feto e placenta possono quindi essere agilmente estratti.
E per finire, tra tutti quei bambini “scomparsi” ci sono anche quelli che sono stati uccisi con un aborto molto tardivo, cioè verso l'ottavo o nono mese di gravidanza, anche se in questo caso più che a un'interruzione di gravidanza sembra di trovarsi di fronte a un infanticidio.
Per aborti molto tardivi, fino al 2003, è stata applicata in America una pratica veramente crudele. Qui l'uomo ha veramente superato se stesso in quanto a fantasia creativa cinica e luciferina. Ecco di che cosa si tratta.
In un primo tempo il ginecologo si premura di porre il feto in posizione podalica poi, con una pinza, gli afferra i piedi e li porta fuori dall'utero, provocando così il parto. Successivamente tutto il bimbo viene estratto, ad eccezione della testa, che rimane dentro la madre. A questo punto, con delle forbici, procede ad eseguire un'incisione sulla base del cranio attraverso la quale verrà introdotto un catetere. Dal tubicino verrà quindi aspirato tutto il cervello del bimbo, nonché il restante contenuto della scatola cranica. La testa, così svuotata, sarà infine estratta.
In America questa tecnica è stata abolita il 2 novembre 2003 tuttavia in altri Stati, come ad esempio in Cina, pratiche abortive di analoga cruenza, sono tuttora regolarmente utilizzate.
Il fatto stesso di considerare l’embrione un “grumo di cellule” senza vita, lascia fuori tutta quella che è la tematica della sofferenza del feto, per cui gli aborti sono praticati senza alcuna analgesia, nonostante sia ampiamente dimostrato come il feto sia in grado di provare dolore.
È sempre il prof. Noia ad evidenziare questo aspetto nel suo articolo (ibid): “Si può dimostrare che il feto, una volta acquisiti i recettori cutanei per la sensibilità nocicettiva (dolorifica) e possedendo già da 8 settimane le terminazioni nervose […] che portano la percezione del dolore sino al talamo, senta il dolore fisico come ampiamente dimostrato dal prof. Hanand e dagli studi nei feti prematuri”. Quindi, già “dopo la 15° settimana di vita il feto possiede tutti gli elementi anatomici-fisiologici e centrali non solo per sentire il dolore, ma anche per sentirlo in maniera fortemente amplificata, non possedendo fino a 27 settimane pain modification system (sistema di modificazione del dolore), che permette di modulare la sensazione nocicettiva”.
Ne consegue che, durante tutti quegli aborti tardivi effettuati oltre la 16° settimana il feto muore, non solo provando dolore, ma percependolo “con una sensibilità dolorosa dieci volte superiore”. Analisi cliniche hanno mostrato come “un insulto invasivo che oltrepassi la cute fetale, crei nel feto una brusca immissione di ormoni (endorfine, catecolammine, cortisolo) nel torrente circolatorio come risposta allo stress doloroso e sul piano vascolare una vasodilatazione a livello cerebrale”.
A seguito di queste evidenze, quando è stato suggerito, a quei medici che praticano aborti tardivi, di effettuare analgesie ai feti, alcuni di essi hanno immediatamente protestato contestando la proposta. Eppure - ci ricorda Giuseppe Noia - agli animali usati per le sperimentazioni “che poi vengono sacrificati, si effettua una analgesia per evitare il dolore. Perché allora il cucciolo dell’uomo dovrebbe essere trattato diversamente dagli animali?”... Chissà perché, la risposta è fin troppo ovvia. Dopotutto un topolino da laboratorio è pur sempre qualcosa: è un topo; l'embrione invece è un grumo senza vita, è un niente, e il niente è certamente molto meno di un sorcio qualsiasi.
Che il bambino si renda conto che qualcosa gli stia accadendo quando l’aborto inizia, è stato documentato nel 1984 da Bernard Nathanson, medico abortista americano e poi convinto pro-life, in quello che è diventato il noto documentario The Silent Scream (“L’urlo silenzioso”):
prima parte in italiano: (www.youtube.com/watch?v=UMLp-H49aHI)
seconda parte in italiano: (www.youtube.com/watch?v=EBxYjylZtpI&NR=1)
versione completa in italiano: (dailymotion.virgilio.it/video/x1g8sn_il-grido-silenzioso_people)
in cui viene mostrato un aborto in diretta di un feto di 12 settimane, ripreso durante l’ecografia. Nel filmato si vede chiaramente come, dal momento in cui la cannula aspirante fa il suo ingresso in utero, il bambino inizi ad agitarsi, a contrarsi, a ritrarsi. Mentre la cannula si muove freneticamente per individuarlo, lui sente di essere aggredito e si muove in modo spasmodico, vorrebbe fuggire e spalanca la bocca, come ad emettere un grido, di qui il titolo del documentario. Poi l’aspiratore rompe il sacco amniotico e, dopo aver fatto presa sul piccolino, lo risucchia verso il basso e gli strappa il corpo dalla testa… in quello che è un normale aborto di routine, consentito dalla legge, entro i primi 90 giorni di gravidanza.
Eppure, neanche un documento così evidente e reale, nonché le centinaia di immagini visibili in internet, dove è possibile constatare con i propri occhi ciò che accade durante un’interruzione volontaria di gravidanza, possono essere in grado di togliere quella cataratta di ideologia a chi si ostini a non voler vedere. A chi ritiene che l’aborto sia un diritto da difendere e lo spezzettare i propri figli nel grembo materno, una conquista della modernità. A chi pensa che il figlio in utero sia un aggregato insignificante di cellule, o un’appendice della madre e quindi, come tale, che spetti a lei decidere cosa farne, come fosse sua proprietà esclusiva. Semplicemente un niente, qualcosa che non esiste, giusto un po’ di materia amorfa, un amalgama indefinita di cellule, liquidi e sangue da gettare nella spazzatura… o da smaltire tra i “rifiuti speciali” ospedalieri. In appena trent’anni sono stati prodotti più di un miliardo di questi “rifiuti speciali”: un genocidio che non ha eguali nella Storia, da lasciare atterriti!
… e stelle
Siamo giunti alla fine di questo viaggio che ci ha mostrato fino a quali profondità di male uomini e donne siano capaci di precipitare. Ora, dal fondo di questo abisso, di questo pozzo buio, volgiamo lo sguardo in alto, su al cielo, con la certezza che il Dio al quale persino il numero dei nostri capelli è noto, li ha ora tutti con sé, quel miliardo e più di piccoli angioletti, che nemmeno uno di essi è andato perduto.
Alziamo gli occhi lassù, tra le stelle, sicuri che la silenziosa strage non resterà impunita perché ad ognuno di quegli innocenti sarà resa giustizia. E qui saranno molti quelli chiamati a rispondere perché, come ricorda Giovanni Paolo II (Evangelium Vitae, n. 59) la colpa non ricade solo sulla madre che ha detto no. Colpevoli saranno anche i padri che hanno spinto all’aborto, o se ne sono infischiati lasciando sola la donna. Grave responsabilità morale ricadrà anche su familiari e amici che direttamente o indirettamente hanno spinto all’aborto con pressioni psicologiche o negando il proprio sostegno all’accoglienza quando avrebbero potuto darlo. Colpevoli saranno considerati pure i medici e il personale sanitario che ha materialmente eseguito, rinnegando così la propria vocazione e missione di curare e promuovere la vita.
La responsabilità coinvolgerà anche i legislatori “che hanno promosso e approvato leggi abortive e, nella misura in cui la cosa dipende da loro, [anche] gli amministratori delle strutture sanitarie utilizzate per praticare gli aborti”. Una responsabilità altrettanto grave riguarderà “quanti hanno favorito il diffondersi di una mentalità di permissivismo sessuale e disistima della maternità, sia coloro che avrebbero dovuto assicurare – e non l’anno fatto – valide politiche familiari e sociali a sostengo delle famiglie”. Infine, anche le grandi reti complici saranno chiamate a rispondere, ovvero quelle “istituzioni internazionali, fondazioni e associazioni che si battono sistematicamente per la legalizzazione e la diffusione dell’aborto nel mondo”.
Come si vede, la responsabilità va ben oltre la personale autodeterminazione femminile. Quando tutti quanti ci troveremo di fronte a Dio per il giudizio personale (subito dopo la morte) e poi per quello universale e definitivo (al tempo escatologico), ci saranno parecchie sorprese.
Anzi, a proposito di colpa, è proprio alle donne che hanno abortito che il Papa rivolge uno speciale pensiero e un’esortazione a non perdere la speranza, perché il Dio che è perfettamente giusto è anche perfettamente misericordioso, come mostra il padre della parabola del figliol prodigo. Dio Padre non rifiuta il perdono a chi è sinceramente pentito. Un perdono, il Suo, che cura e risana la ferita nel cuore provocata dall’aborto e che restituisce veramente la pace.
Così scrive Giovanni Paolo II (n. 99): “Un pensiero speciale vorrei riservare a voi, donne che avete fatto ricorso all'aborto. La Chiesa sa quanti condizionamenti possono aver influito sulla vostra decisione, e non dubita che in molti casi s'è trattato d'una decisione sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel vostro animo non s'è ancor rimarginata. In realtà, quanto è avvenuto è stato e rimane profondamente ingiusto. Non lasciatevi prendere, però, dallo scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere, piuttosto, ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua verità. Se ancora non l'avete fatto, apritevi con umiltà e fiducia al pentimento: il Padre di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdono e la sua pace nel sacramento della Riconciliazione. Allo stesso Padre e alla sua misericordia potete affidare con speranza il vostro bambino. Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita. Attraverso il vostro impegno per la vita, coronato eventualmente dalla nascita di nuove creature ed esercitato con l'accoglienza e l'attenzione verso chi è più bisognoso di vicinanza, sarete artefici di un nuovo modo di guardare alla vita dell'uomo”.
Con queste parole di speranza concludiamo il nostro viaggio. Un cammino che ci ha precipitato giù a terra, lì dove gli uomini e le donne del nostro secolo hanno decisamente toccato il fondo, laggiù in fondo all'abisso dove il male ha vinto e il bene è stato sconfitto. Tuttavia la speranza non è vinta, quella speranza e consapevolezza che anche dal peggiore dei mali il bene possa risorgere più forte che mai, così che – come scrive il Papa -, dal dolore e dalla “sofferta testimonianza” per l'aborto volontario, possa rinascere la più eloquente difesa della vita.
Perché ciò accada è necessario che si ricominci a chiamare le cose con il loro nome. La strage degli innocenti (o il genocidio, come dice Socci) è avvenuta perché a quei piccoli d'uomo è stata tolta la dignità di figli, perché la menzogna ha prevalso sulla ragione. E allora con lo sguardo rivolto al cielo e al Dio, che sa scrivere dritto anche sulle righe storte, chiediamo di darci passione e amore per la verità, chiediamo aiuto e forza per affermare la verità, affinché il vero possa tornare e risplendere.
Un ultimo pensiero riserviamo a quei figli, a quel miliardo di piccoli angioletti affinché - come le stelle rendono luminosa la notte più buia – anch'essi, con il loro sacrificio, possano illuminare di nuova consapevolezza gli uomini e le donne di questo tempo. Di modo che l'immane strage possa essere fermata e la scia di dolore che si porta appresso, quel dolore che dal cuore delle donne si è riversato e sparpagliato nel mondo, si tramuti da adesso in poi in un grande “sì”: sì al bene, sì alla verità, sì alla vita.
Bibliografia e sitografia:
Cristina Fiore (www.beneinsieme.it).
Giuseppe Noia (www.noiaprenatalis.it).
Encarta 2006, Microsoft corporation.
Antonio Socci, Il genocidio censurato, Aborto: un miliardo di vittime innocenti, Piemme, Casale Monferrato (Al), I ed. 2006.
(www.curvedicrescita.com)
(www.cavmelzo.it)
(embryology.med.unsw.edu.au/embryo.html)
(www.alessandrofeo-it/sviluppo_del_feto.html)
(www.gravidanzaonline.it/gravidanza/viaggio_meraviglioso.html)
Il grido silenzioso, prima parte (www.youtube.com/watch?v=UMLp-H49aHI)
Il grido silenzioso, seconda parte: (www.youtube.com/watch?v=EBxYjylZtpI&NR=1)
Il grido silenzioso, versione integrale (dailymotion.virgilio.it/video/x1g8sn_il-grido-silenzioso_people)
Giovanni Paolo II, Evangelium Vitae, marzo 1995
Crepaldi: Legge sul fine vita sì ma attenti alle condizioni di Riccardo Cascioli, 08-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Il 7 marzo è iniziata alla Camera la discussione sul progetto di legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) fra notevoli polemiche che attraversano i diversi schieramenti politici. E anche fra coloro che sono per la difesa della vita dal concepimento fino alla morte naturale, vi sono contrastanti prese di posizione. Per fare un po' di chiarezza ci siamo rivolti a monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste e profondo conoscitore della Dottrina Sociale della Chiesa.
Monsignor Crepaldi, intanto chiariamoci sui termini. C'è chi definisce questa legge "sul fine vita" e chi parla di "testamento biologico". Qual è l'espressione corretta?
Non è corretto parlare di testamento biologico. Anche in passato i cambiamenti nei comportamenti e nei costumi sono stati fatti passare da cambiamenti del linguaggio, basti pensare all’”interruzione volontaria della gravidanza” o alla “salute riproduttiva”. Il testamento biologico indica una assoluta disponibilità del soggetto a se stesso, vale a dire la completa assenza di doveri verso di sé. Indica anche una espressione di volontà – come si fa appunto in un testamento – cui nessuno può opporsi e quindi che vincola i medici. Il progetto di legge in discussione non prevede nessuna di queste due accezioni. Bisogna parlare appunto di dichiarazioni anticipate di trattamento o di legge sul fine vita.
Dopo il caso Englaro, dal fronte pro-life si è alzata la richiesta di una legge, ma non tutti sono d’accordo, c’è chi sostiene che la vita sarebbe maggiormente tutelata nella situazione attuale. Lei cosa ne dice?
Purtroppo è stata una sentenza della Cassazione a dare il via alla sospensione della idratazione e dell’alimentazione ad Eluana Englaro, nonostante il sondino non sia una terapia e quindi non si possa considerare accanimento terapeutico. Anche il medico che ha ucciso tramite eutanasia il signor Welby è stato alla fine prosciolto. Questo ci dice che sarà ancora possibile in futuro una “eutanasia giudiziaria”. E’ vero che la si può combattere sul piano giudiziario e non necessariamente su quello legislativo, ma la recente esperienza mette in evidenza le difficoltà di una simile impresa, anche a causa della “interpretabilità” delle leggi attualmente in vigore. Il passaggio alla legge, quindi, anche se pericoloso, era ed è obbligato.
I critici, però, meritano di essere ascoltati. Essi mettono giustamente in evidenza che la legge per la prima volta fissa la possibilità di scrivere e firmare una dichiarazione anticipata di trattamento. Questo è un fatto nuovo che, in futuro, potrebbe permettere interpretazioni estensive e iniziative volte ad allargare la possibilità della autodeterminazione. Bisognerebbe fare una sorveglianza molto attenta e garantire una mobilitazione continua: tutte cose difficili da realizzare.
I critici mettono anche l’accento sul pericolo che questa legge venga battezzata come “cattolica”. E’ vero che a sostenerla sono in tanti, ma è anche certo che i cattolici sono in prima linea. Se così fosse, eventuali deroghe future, applicazioni improprie o suoi successivi allargamenti applicativi potrebbero essere considerati come “cattolici”. Non possiamo negare che qualcosa del genere sia successo per la legge 40 sulla fecondazione assistita. Non é una legge cattolica, ma per l’opinione pubblica, che non esamina le cose nel dettaglio, lo è in quanto non ammette la fecondazione eterologa. Anche molti cattolici oggi credono che la fecondazione omologa sia moralmente lecita e che solo quella eterologa non lo sia.
Il pericolo di aprire una porta per poi mettersi a correre per limitare i danni c’è e bisogna tenerne conto anche se, come ho detto sopra, mi sembra un rischio inevitabile. Mirare a limitare i danni di una legge ingiusta piuttosto che eliminarla eroderebbe la sorveglianza etica delle coscienze. Anche per la legge 194 sull’aborto il programma massimo sembra essere stato abbandonato dai più, a favore di un programma minimo volto almeno a “far funzionare” la legge. Accanto alla approvazione della legge c’è un immenso lavoro da fare di tipo culturale e di mentalità. Pensare che la legge da sola possa risolvere qualcosa è infantile. Perciò credo che anche le riflessioni critiche sulla legge siano utili.
Il progetto di legge attualmente in discussione alla Camera risponde alle esigenze da lei poste?
Mi sembra di sì. Anche se permangono i timori che ho espresso sopra.
Se l’attuale progetto andasse incontro a emendamenti peggiorativi, che strade rimarrebbero per coloro che difendono la vita?
Davanti ad emendamenti peggiorativi durante l’iter in aula, penso che coloro che difendono la vita debbano contrastarli e, se il principio non negoziabile alla vita fosse messo in causa con forme velate di suicidio assistito o se si considerasse opinabili l’idratazione e l’alimentazione, sia da parte del soggetto che fa la dichiarazione anticipata sia da parte del medico, credo che il governo dovrebbe ritirare il disegno di legge. Sarebbe grave se il governo si nascondesse dietro il rinvio della decisione alla coscienza dei singoli deputati. Si tratterebbe di una abdicazione delle proprie responsabilità morali e politiche. In ogni caso nessun deputato che si ritenga cattolico potrebbe votare una legge sul fine vita che non rispettasse integralmente il diritto alla vita come qualcosa di indisponibile a chicchessia.
Legge sul "fine-vita", le posizioni in campo di Marco Respinti, 08-03-2011, http://labussolaquotidiana.it
Il 7 marzo ha preso avvio alla Camera dei deputati il dibattito sul disegno di legge (ddl) relativo al cosiddetto "fine-vita", cioè le "Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento" (Dat).
Il 1° marzo la Commissione Affari Sociali della Camera aveva dato mandato al relatore Domenico Di Virgilio di portare il provvedimento in aula con i voti favorevoli di Popolo della Libertà (Pdl), Lega Nord e Unione di Centro (Udc), contrati Partito Democratico (Pd) e Italia dei Valori (Idv). Alleanza per l’Italia (Api) si era astenuta e Futuro e Libertà (Fli) non era presente al voto.
Alla “camera bassa” il ddl sul “testamento biologico” approda dunque dopo oltre due anni dall’inizio dell’iter parlamentare, avviato il 9 febbraio 2009 con la morte, dopo l’interruzione di idratazione e di nutrizione assistita, di Eluana Englaro.
Nel marzo 2009 la proposta di legge, relatore il senatore Raffaele Calabrò, era stata approvata al Senato per poi rallentare però vistosamente il proprio cammino a Montecitorio.
Se passasse il vaglio della Camera, il testo dovrà peraltro tornare all’esame del Senato giacché il suo testo (Di Vigilio) è stato modificato rispetto a quello (Calabrò) a suo tempo approvato dalla “camera alta”.
Il voto al testo in discussione alla Camera è subito slittato ad aprile, forse anche per l’evidenziarsi di qualche differenza di posizioni dentro la maggioranza di governo che sostiene il ddl.
I PUNTI NODALI
Ricordando che comunque l’ordinamento giuridico italiano prevede e punisce i reati di suicidio assistito e di omicidio del consenziente, il ddl Di Virgilio evidenzia:
che alimentazione e idratazione non sono considerate terapie, come previsto nel ddl Calabrò, ma potranno essere sospese se dovessero risultare non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari o addirittura dovessero danneggiarlo.
che la legge non è rivolta solo ai pazienti in stato vegetativo, ma anche a chi si trova «nell’incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze».
che sono valide solo le Dat espresse nelle forme previste dalla legge: cioè in forma scritta o dattiloscritta con la firma autografata del paziente. Vengono pertanto esclusi video o ricostruzioni postume.
che le Dat non sono vincolanti lasciando la decisione finale al medico: se infatti dalla sottoscrizione della Dat al momento della malattia fossero intervenuti progressi scientifici, il dottore non potrebbe utilizzarli. Non vi sarà del resto ufficio dedicato alla raccolta delle Dat.
che ai pazienti in stato vegetativo sarà garantita l’assistenza ospedaliera, residenziale o domiciliare, prevista nei livelli essenziali di assistenza.
che se un paziente non dovesse nominare un fiduciario incaricato di tenere i rapporti con il medico, i suoi compiti saranno adempiuti dai familiari nell’ordine previsto dal Codice Civile.
Il fronte del “sì” vede nel ddl un modo concreto per arginare le derive eutanasiche possibili e probabili nel Paese. in assenza di una chiara legislazione in materia.
Il fronte del “no”, composto di cattolici e di non-cattolici, si presenta invece eterogeneo, e comprende:
chi - in un ventaglio di posizioni che va dal principio dell’autoderminazione del paziente alla promozione positiva di una cultura favorevole all’eutanasia - avversa il ddl poiché vi riconosce l’intenzione antieutanasista dei fautori e la giudica negativamente;
chi avversa il ddl poiché non vi vede sufficientemente rispecchiate e garantite posizioni antieutanasistiche, ivi comprese le intenzioni di chi lo propone.
I “sì” desiderano dunque una legislazione positiva che regolamenti il fine-vita, mentre i “no” - per motivi speculari e opposti, quindi irriducibili in via di principio ma non al lato pratico - auspicano un “vuoto legislativo” che lasci invar iato lo status quo.
Dentro il fronte del “no”, infatti, chi sostiene posizioni di apertura o addirittura filoeutanasiste, ritiene che il “vuoto legislativo” possa garantire, nei contenziosi, soluzioni di fatto impossibili nel caso di approvazione della legge, mentre chi sostiene posizioni antieutanasiste ritiene in linea di principio inammissibile l’azione positiva del legislatore in questioni così delicate come il fine-vita e di fatto peggiore, sul tema, ogni intervento concreto rispetto alla vacanza di regole generali.
Il fronte cattolico e non cattolico contrario all’eutanasia in ogni sua forma è quindi unito da una ispirazione comune a difendere il diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale ma diviso sui mezzi più idonei a raggiungere quello scopo, segnatamente il ddl in discussione alla Camera.
LA CHIESA ITALIANA
Intervistato da Andrea Tornielli su il Giornale del 27 febbraio, il cardinal Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha affermato: «La legge che sta per essere discussa alla Camera non è una legge “cattolica”. Semplicemente rappresenta un modo concreto per governare la realtà e non lasciarla in balia di sentenze che possono a propria discrezione emettere un verdetto di vita o di morte. I malati terminali rischierebbero di essere preda di decisioni altrui». Secondo il capo dei vescovi italiani, «precisare che l’alimentazione e l’idratazione non sono delle terapie, ma funzioni vitali per tutti, sani e malati, corrisponde al buon senso dell’accudimento umano e pongono un limite invalicabile, superato il quale tutto è possibile».
I FRONTI CONTRAPPOSTI
A favore della legge è l’eurodeputato Carlo Casini, presidente del Movimento per la Vita (Mpv), poiché ritiene un errore ritenere l’ordinamento giuridico attuale un presidio contro l’eutanasia grazie alle norme del Codice penale. Intervenendo su Il Foglio del 25 febbraio e su Avvenire del 3 marzo Casini spiega che dopo la sentenza della Cassazione (Sez. I civile, n. 21748 del 16 ottobre 2007) le norme degli articoli 579 e 580 del Codice penale non affermano più che è vietata l’uccisione di una persona anche con il suo consenso; dunque che questa regola vale a eccezione del caso in cui la morte è causata mediante l’omessa cura della persona qualora essa si trovi in stato di incapacità di intendere e di volere e sia immaginabile una sua volontà di morire dedotta dal suo “stile di vita”, sebbene risalente a molti anni prima.
A chi sostiene l’irrilevanza di questa decisione della Cassazione in sede penale, Casini ricorda l’archiviazione, l’11 gennaio 2010, della denuncia presentata sul caso Eluana al giudice penale. E che anche Mario Riccio, il medico che ha fatto morire Piergiorgio Welby nel 2006, è stato prosciolto in sede penale.
È inoltre errato - aggiunge il presidente di Mpv - definire il ddl Di Virgilio “testamento biologico” (Tb) giacché l’espressione “Dichiarazioni anticipate di trattamento” (Dat) è il frutto (giunto il 18 dicembre 2003) di una lunga battaglia all’interno del Comitato nazionale per la Bioetica combattuta per indicare uno strumento idoneo a continuare l’alleanza terapeutica tra medico e paziente, qualora il secondo cada in uno stato di incapacità. La differenza, spiega Casini, è profonda. L’essenza del Tb è la vincolatività della volontà del paziente, mentre l’essenza delle Dat è il suo contrario: l’orientamento manifestato dal paziente deve essere preso in considerazione senza che sia vincolante per il medico. Presupposto del Tb è cioè la disponibilità della vita; presupposto delle DAT la sua indisponibilità.
Contrario al ddl è l’argomento eutanasico sostenuto in modo esemplare da Stefano Rodotà, presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali dal 1997al 2005e presidente del Gruppo di coordinamento dei Garanti per il diritto alla riservatezza dell’Unione Europa dal 1998 al 2002. Secondo Rodotà la vincolatività di ciò che ha scritto la persona capace di intendere e di volere anche quando diviene incapace è un modo di garantire l’uguaglianza tra le persone.
Altrettanto contrari, ma per ragioni diametralmente opposte, sono Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro che, in un articolo comparso su Il Foglio il 23 febbraio 20111 (causa prossima, del resto, dell’intervento di casini sul medesimo quotidiano), definiscono la legge un «clamoroso autogol, un classico esempio di eterogenesi dei fini. La vogliono i nemici dell’eutanasia e dell’abbandono terapeutico, ma approvandola faranno il gioco proprio della trasversale “compagnia della buona morte” cui si oppongono. Questo colossale paralogismo ha due radici fondamentali: un errore di ordine tecnico giuridico, e un difetto di dialogo interno al mondo cattolico stesso. Dopo la vicenda Englaro, con il suo contorno di decisioni della magistratura, molti sostengono che non vi sarebbero più dubbi: ci vuole una legge sul cosiddetto “fine vita”». Gnocchi e Palmaro affermano che «il nostro ordinamento continua ad avere un presidio molto solido contro l’eutanasia e l’abbandono terapeutico nelle norme del codice penale regolarmente in vigore, soprattutto gli articoli sull’omicidio del consenziente e sull’istigazione al suicidio. Alcuni giudici, per altro civili e non penali, hanno assunto provvedimenti che ignorano questo profilo. Ma allora era precisamente sul terreno giudiziario e dei poteri della magistratura che si doveva condurre la battaglia, contrastando le “sentenze creative” e censurando le forzature togate».
Del resto, proseguono, «Anche ammettendo che il testo sulle Dat in discussione non venga stravolto, esso comporta il riconoscimento solenne da parte della legge della efficacia e validità del testamento biologico. E contiene ulteriori “zone grigie” che andranno ben oltre il principio di autonomia del paziente. Se una legge proprio si voleva votare, ne bastava una fatta di un unico articolo, che vietasse la sospensione di alimentazione e idratazione ai soggetti incapaci».
favorevole alle cure.
Pure contrario al ddl, che giudica pasticciato, è Giuliano Ferrara, direttore de Il Foglio che il 4 marzo che ha ospitato anche un intervento solidale, anche se per motivi diversi, di Walter Veltroni.
I CATTOLICI PER IL “SÌ”
Avvenire, il quotidiano della CEI, si schiera a favore del ddl. In un editoriale pubblicato sulla prima pagina dell’edizione del 4 marzo, Antonio Gambino ricorda che quelli di Welby e della Englaro sono stati casi di “eutanasia passiva” che sono «ammessi nel nostro ordinamento». Ciò dimostra che «la legittimità dei comportamenti individuali al dunque la decidono i giudici e non i teorici del sistema» e di fatti «il punto più debole sul caso Englaro si sta quotidianamente colmando attraverso due vie, una giudiziaria, l’altra amministrativa». Dunque «è purtroppo facile pronosticare che di qui a poco avremo altre sentenze che legittimeranno “testamenti biologici” e conseguenti vicende di eutanasia passiva, forti del fatto che anche il punto debole della ricostruzione della volontà del paziente incosciente è sanato dalle dichiarazioni anticipate espresse all’amministratore di sostegno o nell’albo comunale». Del resto, afferma il quotidiano dei vescovi, «è altrettanto facile pensare che se ciò oggi non sia ancora avvenuto è proprio perché, essendo pendente una legge al riguardo, essa abbia agito da deterrente. Ma è evidente che se si decidesse di archiviare questa legge, il sistema giuridico italiano offrirebbe nel suo complesso gli elementi ricordati per consentire alla giurisprudenza di accogliere altri casi di richieste eutanasiche». Da ciò si comprende, afferma Avvenire, «perché i paladini dell’autodeterminazione, in gran parte giuristi e avvocati, abbiano colto nella proposta di legge pendente alla Camera un bel passo indietro rispetto a quanto già oggi può ottenersi nelle aule dei tribunali. E si capisce perché critichino la proposta di legge con tutta la forza possibile e puntino a farla arenare».
Lo scrittore e giornalista cattolico Antonio Socci, su Libero del 5 marzo, si è pure schierato a favore del ddl domandandone l’approvazione del testo così come esso è oggi, ovvero comprensivo del comma 6 dell’articolo 4 dove si afferma che in caso di urgenza e di pericolo di vita immediato la Dat non si applica. I soccorritori che prestano pronto intervento debbono infatti pensare a prestare cure immediate per rianimare il paziente, non a consultare il suo “testamento biologico” perdendo tempo prezioso che può addirittura essere fatale. Del resto, senza una legge in tale senso, afferma Socci, un paziente che venisse salvato restando però disabile potrebbe chiedere il risarcimento dei danni a chi gli ha evitato la morte portando pericolosamente i soccorritori a domandarsi se, in caso di necessità, non sia meglio lasciar morire il paziente invece che intervenire.
LE POSIZIONI DEI PARTITI
Il Pdl è favorevole al ddl.
Il Pd è contrario. Il suo segretario, Perluigi Bersani, definisce quella in discussione alla camera una «legge che non è matura». Dello stesso avviso è la componente cattolica dei Democratici, guidata da Giuseppe Fioroni, attestata sul principio “meglio nessuna legge” di quella proposta dal Pdl.
L’Udc ha già dichiarato il proprio sostegno, ma presenterà alcuni emendamenti “migliorativi” del testo. Il Sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella, favorevole al ddl, non esclude che la maggioranza di governo potrebbe convergere su di essi.
Anche l’Api vincola il sostegno del ddl all’approvazione di alcuni correttivi.
L’Idv è risolutamente contraria e presenterà una mozione di minoranza nonché la pregiudiziale di costituzionalità. Quest’ultima è annunciata anche dai Radicali che, assieme all’Associazione Luca Coscioni e alla Lista Bonino-Pannella, intendono portare il dissenso in piazza.
Fli proverà la strada della presentazione di un emendamento unico che riscrive completamente il provvedimento, cercando d’intervenire nei punti nodali relativi alle terapie e al fatto che le Dat non sono vincolanti.
I giudici o la politica? Di Lorenza Violini, martedì 8 marzo 2011, il sussidiario.net
I giudici sono sottomessi solo alla legge, recita l’art. 101 Cost., enunciando ad un tempo le caratteristiche strutturali della funzione giurisdizionale (sottoposta alla legge) e la natura dell’ordinamento italiano, che non riconosce alle sentenze valore di fonte del diritto. In un ordinamento di civil law, come è il nostro, dunque, il giudice dovrebbe essere un semplice esecutore di decisioni prese dal Parlamento e non un creatore di norme. Come diceva Montesquieu, il potere giudiziario sarebbe un potere per così dire nullo.
Questo impianto logico sta vivendo da tempo una crisi di amplissima portata, di cui il conflitto tra giudici e politica non è che l’emergenza più clamorosa. Le origini della crisi, connotata da un forte incremento del potere dei giudici, sono risalenti. Basti pensare, ad esempio, ai cd. pretori d’assalto, che con la loro giurisprudenza hanno profondamente innovato il diritto del lavoro. E, ancora: è stata la Corte Costituzionale che, supplendo all’inerzia del legislatore, ha “regolato” con le sue sentenze il passaggio dal monopolio televisivo alla nuova (pur non interamente soddisfacente) forma del mercato delle trasmissioni.
Dirompente è stato poi il processo di integrazione europea: oggi le norme europee sono parte integrante del nostro ordinamento e le leggi che non vi si conformano sono disapplicate direttamente dal giudice, senza che il legislatore le abroghi o la Corte le dichiari incostituzionali.
E, infine, proprio su impulso della Corte costituzionale, i giudici sono incoraggiati ad applicare la legge solo dopo averne data una interpretazione costituzionalmente conforme: in tal modo di confini semantici della norma sono stati sovente messi sotto pressione per potervi inserire scelte interpretative anche innovative, che integrano e talora anche contrastano con la lettera della legge.
Ora, è certamente vero che l’attività del giudice non ha nulla di meccanico. Essa alberga in sé, inevitabilmente, dei margini di decisione; l’idea di un giudice asettico, mera bocca della legge, non è che una pura astrazione, una visione caricaturale, semplicistica, di un ruolo complesso; anche il giudice decide e non è la legge che può condizionare al cento per centro le sue scelte. Egli non fa la legge ma ne è l’interprete privilegiato.
Molto si discute oggi dei confini tra potere politico, inteso come potere esecutivo, e potere giuridziario. Ma chi riflette oggi sul confine tra il potere legislativo, cioè il potere politico per eccellenza, e il potere giudiziario? Questo confine è di determinazione assai più incerta ma non meno rilevante per il tema dei rapporti tra politica e giustizia. E’ la legge infatti che dovrebbe compiere le scelte politiche, determinare i valori e gli interessi di fondo, mentre oggi il legislatore pare spesso incapace - per la pluralità degli interessi e delle scelte etiche presenti nella società - di svolgere il suo ruolo.
Oggi sembrano essere i grandi casi giurisprudenziali, anche di tipo etico, che introducono nell’ordinamento le scelte di valore più importanti e spingono il legislatore a intervenire, cosa che avviene sovente quando l’opinione pubblica ha già determinato, sulla scorta di clamorose controversie, i suoi orientamenti. Il caso Englaro e il dibattito sulle DAT sono un esempio di questo fenomeno.
Si assiste, insomma, ad una torsione della funzione giurisdizionale, che da applicazione della legge si fa interprete della stessa secondo proprie logiche e propri valori e i giudici, da meri tecnici, diventano – secondo l’acuta definizione di Mary Ann Glendon - giudici romantici, il cui personale afflato verso determinati valori anche alternativi rispetto a quelli incorporati nella legge prevale sulla volontà,purtroppo raramente chiara, del legislatore.
Da sottoposto solo alla legge, anche per carenza di una precisa volontà legislativa, il giudice sottopone se stesso al proprio senso di giustizia, con ciò denunciando ad un tempo la crisi della funzione giurisdizionale e di quella legislativa, impotente a porre argini solidi alla deriva soggettivistica. Non può allora stupire che, nutriti da un simile clima culturale, alcuni giudici finiscano poi per far propri compiti di giustizia politica che esulano interamente dalla loro competenza.
Potrà la riforma della giustizia, che tutti attendiamo, porre rimedio a questo squilibrio, che non è solo contingente – come i conflitti sui processi a Berlusconi sembrano suggerire – ma strutturale? Certamente essa potrà dare un sostanziale contributo ma, attenzione, le radici del problema sono assai più profonde e, forse, non sradicabili, almeno fino a che tutti i poteri dello Stato non ne prendano coscienza e si muovano compatti per identificare e attuare rimedi efficaci e radicali.
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FINE VITA/ 1. Binetti: una legge laica con riferimenti di ispirazione cristiana di Paola Binetti, martedì 8 marzo 2011, il sussidiario.net
Non accadeva da tempo che una legge riuscisse ad interpellare la coscienza di tutto il Paese, coinvolgendo persone diversissime tra di loro, a volte unite da uno stesso amore alla vita, ma altre volte inguaribilmente separate da una diversa concezione della libertà che segna un crinale drammaticamente conflittuale ed inconciliabile. Non è semplice comprendere cosa realmente unisca e cosa separi gruppi e persone nel disegno di legge sulle disposizioni in materia di alleanza terapeutica, consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento. Un ddl che tecnicamente è indicato con il N. 2350, ma che tutti conoscono come la legge sul testamento biologico. Un nome sbagliato, dal momento che con il testamento si danno disposizioni sulla destinazione di beni che ci appartengono, dopo la nostra morte e non prima. Un nome che la morte di Eluana Englaro ha fortemente impresso nella immaginazione di tutto il Paese.
La Legge
La legge raccoglie le dichiarazioni che una persona fa al suo medico di fiducia, dopo aver parlato con lui di vita e di morte, della possibilità di ammalarsi gravemente, fino al punto di andare incontro ad una disabilità, in cui il suo stato di coscienza può apparire del tutto assente. Medico e paziente, -forse nella stragrande maggioranza dei casi non si tratta neppure di pazienti-, immaginano delle situazioni che potrebbero verificarsi in un domani. Su uno scenario del tutto virtuale fanno delle ipotesi e prendono in considerazione le eventualità peggiori che si potrebbero verificare. Il clima della conversazione non può che essere amicale, la legge stessa parla di alleanza. Un’alleanza che ha un obiettivo ben preciso: la relazione di cura. Non a caso si parla di alleanza terapeutica; tra di loro non c’è alcuna contrapposizione, non c’è ombra di conflitto di interessi. Percorrono insieme un itinerario fatto di domande e di risposte, di interrogativi scientifici e di quesiti che hanno un forte impatto esistenziale.
A) Il colloquio medico-paziente. E’ un colloquio aperto che può richiedere tempi più o meno lunghi, perché le domande poste al medico richiedono la capacità di immaginare le emozioni che nascono davanti alla prospettiva della grave, e della gravissima disabilità cronica. Il medico sa di avere davanti una persona che sta immaginando come potrebbe vivere una possibile condizione di totale dipendenza dagli altri, in uno stato di non-coscienza o di minima coscienza, dove potrebbe sentire tutto senza essere capace di comunicare in modo chiaro con gli altri. Il medico nella sua lunga esperienza sa e comprende che quest’uomo pur facendo delle scelte in apparente totale autonomia, in realtà deve elaborare una serie di condizionamenti emotivi, di paure, di mostri interiori che attentano alla sua libertà, la irretiscono spingendola verso soluzioni solo che sembrano più facili ed accattivanti. L’uomo si trova ad un bivio in cui deve immaginare cosa vorrebbe fare in circostanze, che inevitabilmente gli appaiono ostili. Deve immaginare cosa farebbero i suoi familiari, di cui non ignora né la forza né la debolezza; ma deve anche provare ad immaginare cosa sarà in grado di fare la scienza in quel preciso momento. E’ un colloquio tutt’altro che formale quello che imbastisce con il suo medico di fiducia, una condizione che mette a nudo la sua anima, i suoi valori e le sue convinzioni, i suoi affetti e i suoi sentimenti. Probabilmente si chiede se i suoi vorranno prendersi cura di lui, nonostante sia diventato un peso o se invece lo abbandoneranno in qualche struttura, consegnandolo a mani estranee, forse altamente professionali, ma comunque prive di quel calore affettivo di cui nessuno può fare a meno.
Le informazioni che ci si scambia in quel momento non sono i dati asettici del linguaggio della scienza, quando parla con l’asciutta astrattezza dei numeri e delle statistiche. Sono dati che richiedono una interpretazione in cui il medico si mette in gioco per aiutare il paziente a immaginare nuove ragioni per vivere in modo diverso rispetto a quello vissuto fino ad allora. La loro alleanza non si gioca solo sul piano del dire, ma anche sul piano di un possibile fare insieme. Il medico può raccontare esperienze, sollecitare ad andare a vedere, a misurarsi con orizzonti di vita imprevisti fino a quel momento, sapendo che possono offrire nuove modalità per comunicare, per comprendere e farsi comprendere, per amare e farsi amare.
B) Una buona legge per umanizzare la medicina. La legge sul fine vita tiene conto di tutto ciò e coglie il senso e la complessità di questa alleanza, che rilancia a tutto campo: in famiglia e con il fiduciario, oltre che con il medico. Parla di solidarietà umana e di capacità di cura in contesti che non sono solo quelli professionali. Mette in evidenza una dimensione particolare dell’esistenza, quando ci appare più fragile, valorizza la ricchezza dei rapporti umani e la loro forza. Una proposta di legge che cerca di archiviare una volta per tutta le false soluzioni che una cultura individualistica e auto-referenziale si ostina a mostrare come le uniche plausibili. E’ una legge che dice un no chiaro e determinato all’eutanasia in tutte le sue forme, attive e passive, perché dice contestualmente un si forte ed appassionato alla relazione di cura, alla solidarietà umana che accetta di prendere su di sé la debolezza dell’altro per accompagnarlo per il tempo necessario fino al termine della sua vita. Senza anticipare la morte, ma senza neppure accanirsi ostinatamente per prolungare una vita che sembra giunta al suo capolinea.
Due culture a confronto
Nella legge in questione, al di là dell’articolato tecnico, si confrontano due culture, che stentano a trovare un punto di convergenza, nonostante le numerose occasioni di incontro e di confronto che si sono svolte nel lavoro delle commissioni, in occasione di convegni e seminari o più semplicemente nei tanti incontri, formali e informali, che ci sono stati in questi anni.
- Nella posizione laica di ispirazione cristiana, il valore della vita si affianca al valore della libertà, considerata come una delle qualità principali dell’uomo, strettamente collegata al senso della responsabilità, dal momento che non c’è vera libertà senza responsabilità. E’ una posizione che riconosce alla vita umana valore in sé stessa, la considera degna di essere vissuta proprio in quanto vita umana, non per le sue capacità e le sue competenze. E chiede a tutti gli uomini di riconoscere questo valore e di sentirsi coinvolti nel tutelarla e nel proteggerla. In questa impostazione etica della responsabilità e etica della cura si intrecciano profondamente, come due facce di una unica medaglia che nella sua unità esprime il senso della nostra umanità. In questa concezione il valore della persona implica nello stesso tempo autonomia e relazionalità, interdipendenza e capacità di comunicazione, solidarietà e spirito di servizio.
- Nella posizione laico-laicista, al centro c’è quel principio di autodeterminazione, che fa della libertà un valore assoluto, subordinando il valore della vita ad una serie di condizioni quali la percezione del benessere, la possibilità di agire in piena autonomia, definendo soggettivamente i parametri che rendono una vita più o meno degna di essere vissuta. E’ un approccio culturale in cui il bene viene filtrato attraverso un’ottica di tipo relativista, dal momento che ognuno deve poter dire cosa è buono e cosa non lo è; cosa reputa vero e cosa non lo sia. Al soggetto tutto deve essere consentito, anche il negare il valore della vita, se e quando questa perde qualcuna delle prerogative che lui reputa essenziali. Una posizione che si spinge fino al punto di considerare un diritto la possibilità di fissare i termini per la propria morte e quindi pretende dalle istituzioni l’aiuto necessario a tradurre in pratica questa volontà di morire, sia depenalizzando l’eutanasia, che arrivando addirittura a proporla come un bene, con dignità di cura.
Giovanni Paolo II, testimone del coraggio con cui si può affrontare una malattia cronica grave e progressiva, è stato citato tante volte a proposito di questa legge, spesso a sproposito, stravolgendo il suo pensiero e la sua stessa storia personale. Nel 1995 nell’enciclica Evangelium vitae, al paragrafo 64 afferma: “Oggi, in seguito ai progressi della medicina e in un contesto culturale spesso chiuso alla trascendenza, l'esperienza del morire si presenta con alcune caratteristiche nuove…. la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo. La morte…. diventa una «liberazione rivendicata» quando l'esistenza è ritenuta ormai priva di senso, perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un'ulteriore più acuta sofferenza….. In un tale contesto si fa sempre più forte la tentazione dell'eutanasia, cioè di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine «dolcemente» alla vita propria o altrui. In realtà, ciò che potrebbe sembrare logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e disumano....”.
Mentre condanna l’eutanasia Giovanni Paolo II ne dà anche una corretta definizione, proprio come chiede la Commissione Giustizia nella formulazione del suo parere: “Per un corretto giudizio morale sull'eutanasia, occorre innanzitutto chiaramente definirla. Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un'azione o un'omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. «L'eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati». E’ la volontà di procurare la morte che connota esattamente cosa sia l’eutanasia e per questo Giovanni Paolo II definisce con chiarezza anche cosa debba intendersi per accanimento terapeutico: ”Da essa va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto «accanimento terapeutico», ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia…. “
E’ l’intenzione con cui si persegue un determinato fine che prima di tutto lo connota sotto il profilo morale e per questo Giovanni Paolo II continua dicendo: “Fatte queste distinzioni, in conformità con il Magistero dei miei Predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale”… La condanna dell’eutanasia si estende ovviamente a quanti la rendono possibile con la loro collaborazione: “Condividere l'intenzione suicida di un altro e aiutarlo a realizzarla mediante il cosiddetto «suicidio assistito» significa farsi collaboratori, e qualche volta attori in prima persona, di un'ingiustizia, che non può mai essere giustificata, neppure quando fosse richiesta. ….. l'eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante «perversione» di essa: la vera «compassione», infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza.”.
Il dialogo con i moderati che la legge non la vogliono, ma non vogliono neppure l’eutanasia. In queste ultime settimane tra il fronte di quanti sostengono che occorre una legge per dire un no chiaro e fermo all’eutanasia e quanti invece sostengono che una legge che non depenalizzasse l’eutanasia è una legge inutile, sta nascendo un altro gruppo numeroso di soggetti la cui posizione è sintetizzabile in due semplici proposizioni: No all’eutanasia, ma no anche ad una legge che inevitabilmente pone dei paletti che sembrano irrigidire il rapporto medico-paziente, il rapporto malato-familiari, ecc… Su questo fronte si stanno collocando autorevoli personaggi del mondo politico, in particolare nel Partito democratico, dove appare evidente la volontà di non rimanere schiacciati sulle posizioni radicali che chiedono la depenalizzazione dell’eutanasia. Non vogliono la legge e invocano uno stop all’attuale dibattito politico-parlamentare. Nessun passaporto per l’eutanasia, nessuna giustificazione per l’accanimento terapeutico; profonda la convinzione che la relazione del malato con il medico possa e debba costituire l’alveo naturale in cui si prendono insieme decisioni serene ed equilibrate.
La loro posizione, dopo l’intervento della magistratura nel caso Englaro e il pressing dei radicali, che si sono spinti a considerare incostituzionale una legge che dice un No chiaro e tondo all’eutanasia, corre il rischio però di rimanere un semplice auspicio, già scavalcato dalla volontà aggressiva di chi ha già spinto il paese verso una china rischiosa. Una china che inizia in modo accattivante con un inno ad una libertà senza confini, prosegue con la richiesta di depenalizzazione dell’eutanasia, per formulare la teoria che l’eutanasia possa essere considerata al pari di una terapia. A questo punto si può diffondere la convinzione che se la legge lo consente, allora è cosa buona e giusta, fino a condizionare in modo strisciante e pervasivo i malati spingendoli a chiedere la morte anticipata, per non essere e non sentirsi di peso alla famiglia e alla società.
Il no alla legge che molti di loro chiedono era lo stesso no alla legge che qualche anno fa caratterizzava il dibattito tra la gente comune, in particolare in casa cattolica, dove non sembrava proprio che ci fosse bisogno di una legge. Da sempre le decisioni quando il malato non era più in grado di intendere le avevano prese insieme i familiari e il medico di famiglia, tenendo conto dei desideri del malato e di quanto lo sviluppo della medicina consentiva in quel momento. In linea con quanto chiedono oggi i fautori della non-legge. Ma tra ora ed allora si è posta con una virulenza straordinaria non solo la vicenda di Eluana Englaro, ma la campagna sollevata da Piergiorgio Welby, da Luca Coscioni e da altri pazienti che fino a qualche mese fa premevano per ottenere subito la legge e poter staccare il famoso e spesso surreale sondino.. Tutte persone che hanno chiesto e preteso che questa legge fosse capace di sdoganare il diritto all’eutanasia. E’ a questa pretesa che l’attuale ddl dice un no chiaro e deciso.
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FINE VITA/ 2. Socci: non stravolgiamo questa legge o "perderò" mia figlia - INT. Antonio Socci, martedì 8 marzo 2011, il sussidiario.net
Lo ha detto di recente il card. Angelo Bagnasco: «la legge che sta per essere messa in discussione alla camera non è una legge “cattolica”. Semplicemente rappresenta un modo concreto per governare la realtà e non lasciarla in balia di sentenze che possono a propria discrezione emettere un verdetto di vita o di morte». Il presidente della Cei si è richiamato al “buon senso dell’accudimento umano”; non è una battaglia teologica, ma una questione di buon senso e ragione.
Ha parlato di buon senso anche Antonio Socci, e lo ha fatto in un recente articolo apparso su Libero in cui ha difeso le Dat prendendo le mosse dalla vicenda personale di sua figlia Caterina, colpita nel 2009, a 24 anni, da un arresto cardiaco. Caterina si salva, nel gennaio del 2010 esce dal coma e intraprende un percorso di riabilitazione. Ma quel che importa ora è dire cosa sarebbe potuto accadere oggi, dopo la vicenda Englaro, se la legge sul testamento biologico nella sua attuale formulazione, da ieri in discussione alla Camera, venisse stravolta, o - nella peggiore delle ipotesi, non venisse approvata affatto. «È quello che molti si auspicano, e lavorano per questo» dice Socci al sussidiario.
Lei ha rivolto un appello ad approvare la legge sulle Dat e a farlo in fretta.
È una cosa che va fatta il più presto possibile, perché c’è una tattica dilatoria usata da alcuni gruppi politici che cercano di rinviare il voto per poi rimandare la legge alle calende greche e infine farla naufragare. In modo da impedire che si manifestino le divisioni che hanno all’interno.
Chi sta giocando al rinvio?
Il Pd, che ha gravi divisioni interne. Mi auguro che non valga anche per l’Udc, che si è detta favorevole alla legge (e basti vedere quello che ha detto Buttiglione nel dibattito parlamentare).
Nel testo in discussione c’è un punto molto importante, dettato da «ragioni di puro buon senso e di salute pubblica» come lei ha scritto su Libero. Di che si tratta?
Al comma 6 dell’articolo 4 si dice che le dichiarazioni anticipate di trattamento sono comunque da ignorare “in condizioni di urgenza o quando il soggetto versa in pericolo di vita immediato”. Esiste una casistica di massa che vede in pericolo di vita migliaia di persone ogni giorno: pensiamo alle patologie cardiocircolatorie (infarto, arresto cardiaco, ictus), ma anche agli incidenti stradali. In questi casi occorre fare presto, il soccorso d’emergenza del servizio sanitario è organizzato per poter intervenire nel giro di pochi minuti perché la vita stessa si gioca in pochi minuti. Se si consolidasse il vuoto legislativo, e continuassero a proliferare i testamenti biologici già circolanti e fatti senza alcun riconoscimento giuridico, o ancora peggio se se si arrivasse ad una legge che riconosce un valore vincolante e assoluto ai testamenti biologici, potremmo arrivare al punto in cui il soccorso di emergenza dovrebbe essere sottoposto all’accertamento delle volontà espresse in ipotesi dai pazienti in precedenza.
Occorrerebbe verificare, in altre parole, se il paziente non ha fatto un testamento in cui lascia la volontà di non essere rianimato...
Esatto. Se il personale medico contravvenisse alla volontà del malato e la rianimazione non restituisse al paziente la perfetta integrità, ma questi riportasse un handicap, potrebbe far causa al rianimatore. E di questo passo sui medici potrebbero fioccare una quantità di cause civili. Per evitarlo, prima di soccorrere dovrebbero accertarsi se il soggetto ha manifestato o no in precedenza la sua volontà di trattamento e quale essa sia. Ma così si ingolferebbe il soccorso d’emergenza. Un sistema sanitario e soprattutto il soccorso d’emergenza può reggersi solo sul principio che occorre fare tutto il possibile per salvare la vita delle persone, senza pensare ad altro. Se si dovesse fare solo dopo aver verificato la volontà dell’interessato, salterebbe tutto. E il problema riguarderebbe non più solo il singolo o coloro che volevano il testamento biologico, ma tutti quanti noi.
Lei può citare il suo caso personale. Vuole parlarne?
Mia figlia, nel settembre 2009, colpita da arresto cardiaco, è stata letteralmente salvata da tre amici che le hanno prestato subito soccorso seguendo le indicazioni del 118, in attesa dell’arrivo del primo soccorso. Se si fossero dovute accertare prima le volontà espresse da mia figlia in un testamento biologico, Caterina sarebbe certamente morta. Un sistema sanitario non può non essere votato alla salvezza della vite. Il mio è un ragionamento assolutamente laico, non ideologico, e potrebbe sottoscriverlo anche chi fosse favorevole all’eutanasia.
Cosa risponde agli oppositori di questa legge?
Che a far le leggi non possono essere le sentenze della magistratura. La magistratura deve far osservare le leggi. È il Parlamento però che fa le leggi. Soprattutto su materie così complesse e gravi, che concernono la vita e la morte. Dopo il caso Englaro si è evidenziata l’esistenza di un vuoto legislativo soprattutto sul problema dell’alimentazione e dell’idratazione e sul tema delle volontà soggettive. Occorre che questo vuoto sia colmato al più presto dal parlamento. Non c’è una terza possibilità: o il parlamento si riappropria delle sue prerogative, oppure a decidere saranno le sentenze. Non discutono - i politici - continuamente dello strapotere della magistratura? Allora cominci il Parlamento a fare il suo mestiere e automaticamente la magistratura si troverà a fare il suo.
Deve ammettere però che la posizione dei cattolici è cambiata. Basta andare a rileggersi i giornali di tre anni fa per vedere che gli stessi che ora sono favorevoli alla legge, allora non lo erano. Come lo spiega?
La sua domanda ha il semplice, grave torto di non guardare l’accaduto. Fa il ragionamento che facevamo tutti due anni fa, prima che certe sentenze evidenziassero il vuoto legislativo. So bene anch’io che si diceva: su questo è meglio non intervenire con una legge che di fronte a casi estremamente complessi si rivelerebbe lacunosa e inadeguata. Anch’io la pensavo così. Ma dopo le sentenze dei giudici questo ragionamento non vale più. Ecco perché il parlamento deve agire e subito.
Ma una legge è sempre espressione della società che l’ha prodotta. Lei pensa davvero che una legge, per quanto ben fatta, possa contrastare una cultura dominante improntata alla libertà completa di autodeterminazione?
Una legge non è fatta per mettere fine alle derive culturali - quale legge è mai stata capace di farlo? - , ma serve a scongiurare certi effetti tragici. Il resto spetta alla nostra responsabilità. O meglio: come ci è stato insegnato la cultura nichilista è vinta non da un’altra cultura, ma dalla commozione per Gesù Cristo. Da questa commozione nasce uno sguardo diverso e un’intelligenza che esprimono una cultura. Infatti è necessario che la fede diventi cultura, altrimenti non incide nella storia. Quando l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà sa cercare e trovare soluzioni utili per tutti e magari elaborare leggi migliori. Non perfette (perché le leggi perfette non esistono), ma migliori.
Il dibattito sul testamento biologico è entrato nella fase cruciale. Lei cosa si attende?
Auspico che il dibattito sulle tecnicalità non resti una discussione accademica e ideologica, ma faccia ricordare, soprattutto a chi ha responsabilità pubbliche, che nel nostro paese ci sono moltissime famiglie che si trovano ad accudire persone in stato vegetativo persistente. Lo fanno spesso nel silenzio, in stato di abbandono ma compiendo sacrifici eroici. Non si può discutere tanto del fine vita senza far nulla per aiutare una vita dignitosa.
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Avvenire.it, 8 marzo 2011, La legge sul fine vita alla Camera - Il partito delle famiglie chiede cittadinanza - Fulvio De Nigris, direttore Centro Studi per la ricerca sul coma Gli amici di Luca
La vicenda di Eluana è stata come un crinale. Dalla cima si vedono bene i diversi aspetti di un problema che ha diviso le coscienze, lacerato gli animi. Mano a mano che si scende giù, però, è tutto più confuso. Io credo che noi non possiamo affrontare il tema delle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) – quello che da alcuni è definito testamento biologico – se non guardiamo alla tematica nel suo complesso, e alle problematiche in campo, senza lasciarci deviare da approcci ideologici. In campo ci sono persone molto diverse tra loro.
Ci sono i sani e i cosiddetti malati, e tra questi coloro che hanno possibilità di autodeterminazione e altri che non l’hanno. Ognuna di queste persone, coinvolta nel suo essere e nel suo pensiero, ha attorno a sé una famiglia e tante relazioni che ne fanno un 'animale sociale'. Tutto il contesto è coinvolto in questo percorso, specialmente quando parliamo di persone in stato vegetativo e di minima coscienza. In questo ambito si inserisce il caso di Eluana e di suo padre. Prima di essere una richiesta di fine vita è un fatto umano, uno specchio che riflette una condizione – lo stato vegetativo – minoritaria ma diffusa tra migliaia di persone che la vivono in Italia e tra le famiglie che ne sono coinvolte.
Non si può non pensare come, ogni volta che queste persone sono state rappresentate come attaccate a macchine, in fin di vita, cose inanimate che non sentono, non vedono, non hanno emozioni e non possono percepire dolore, qualcuno dei loro familiari sia stato indotto a chiedersi: «Ma stanno parlando di noi?». Ci sono molte associazioni che si occupano di queste problematiche e cercano di riaffermare la condizione e i diritti di queste persone gravemente disabili. Non è facile. La negazione della disabilità è ancora troppo forte, e sui media questi argomenti sono scarsamente rappresentati.
La legge che riguarda le Dat, di cui ieri l’aula della Camera ha avviato l’esame, è un buon punto di partenza e può essere sicuramente migliorata. Ma il problema oggi, nell’affrontare queste tematiche, è liberarsi della contrapposizione tra 'diritto di cura' e 'libertà di scelta', uscire dalla curva degli ultrà per dimostrare che una squadra è migliore di un’altra. Non siamo allenatori, e neanche tifosi. Siamo operatori, testimoni, interpreti. È difficile far capire che esiste una possibile terza via tra posizioni che si propongono come antagoniste: quella del 'partito delle famiglie' che vogliono uscire dall’ombra per rivendicare la dignità di cura, il diritto a essere composte da cittadini come gli altri, in ogni area geografica di riferimento. Non va dunque confuso lo stato vegetativo con il cosiddetto testamento biologico, e non bisogna farne un campo di battaglia pensando che queste persone siano già senza vita. Non è così. Lo sanno molto bene i familiari, lo sanno i clinici che vogliono capire dove stia andando la ricerca e se ci sia qualche concreta speranza, qualche nuova terapia per il loro futuro.
Sarebbe utile fare una buona comunicazione, senza pregiudizi, per riconquistare quella sana alleanza terapeutica tra medici e famiglie. Che non si guardi il particolare, quel tubo che entra nella pancia e alimenta la persona, per chiedersi in una forma sterile, distante e quasi filosofica: è una terapia? Guardiamo invece nel suo complesso quella persona, chiediamoci in assenza di coscienza che cosa pensano i loro familiari, cosa sperano, cosa gli manca, cosa chiedono, con quale animo si rivolgono ai medici non per vedere in loro un professionista che costringe ma un amico che capisce, aiuta e condivide un percorso di cura. Non confondiamo le persone con le cose.
Fulvio De Nigris, direttore Centro Studi per la ricerca sul coma Gli amici di Luca
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Avvenire.it, 8 marzo 2011 - BIOETICA E POLITICA - Eutanasia, tentazione globale, di Lorenzo Schoepflin
Mentre in Italia la legge sulle scelte di fine vita muove i primi passi nell’aula di Montecitorio – dopo l’approvazione di due anni fa al Senato –, in alcuni Paesi torna d’attualità l’eutanasia attraverso episodi di cronaca che riaccendono il confronto nell’opinione pubblica. Come nel nostro Paese, sono fatti drammatici a segnare la discussione sulla libertà e i suoi limiti, sulla disponibilità o meno della vita umana, sulla sua dignità a fronte di situazioni estreme. È la conferma che, lo si voglia o no, la questione dei limiti da porre per legge a ogni possibile deriva eutanasica o – viceversa – del via libera a pratiche che la assecondano si pone in tutto il mondo e richiede chiarezza di idee sui princìpi come sugli strumenti. Sapere cosa accade in India o in Australia non è un modo per soddisfare una curiosità, ma per essere consapevoli che il principio dell’inviolabilità della vita umana nella sua fase terminale viene messo in questione ovunque. E che ovunque – come anche in Italia – c’è chi si batte per custodirlo.
INDIA: LA CORTE SUPREMA «SALVA» ARUNA DALLA MORTE
Corte Suprema indiana – massima autorità giudiziaria del Paese – con un storica sentenza ieri ha deciso di respingere la richiesta di eutanasia per un’infermiera che da 37 anni vive in stato vegetativo. La decisione del massimo tribunale è stata presa a seguito di una richiesta formulata per Aruna Shanbaug, 63 anni, che dal 1973 è ricoverata al Kem Hospital di Mumbai per lo stato vegetativo nel quale è caduta dopo che un minorenne, nel tentativo di violentarla all’interno dello stesso ospedale, aveva stretto attorno al suo collo una catena di acciaio che le interruppe l’afflusso di ossigeno al cervello. Emanando la sentenza, la Corte si è congratulata con l’ospedale e i suoi operatori per «l’affettuosa attenzione» dedicata alla donna. «La Chiesa è soddisfatta e sollevata dal fatto che la Corte abbia respinto la richiesta di eutanasia» ha dichiarato ad Avvenire il cardinale Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai e presidente della Conferenza episcopale indiana.
Il caso ha avuto grande rilievo sulla stampa indiana dopo che il governo federale aveva categoricamente respinto la possibilità di eutanasia, opponendosi alle raccomandazioni emanate dal Consiglio legislativo nazionale dirette ad autorizzare i malati terminali alla scelta di poter porre volontariamente fine alle proprie sofferenze. Il procuratore generale dello Stato, G. E. Vahanvati, ha chiarito che i criteri occidentali sull’eutanasia non possono essere accettati dalla cultura e dal comune sentire dell’India, specificando nella sua arringa di opposizione alla richiesta che «noi non spingiamo verso la morte i nostri genitori o i nostri figli, anche se malati terminali. Chi può decidere se qualcuno deve vivere o morire? Chi può sapere se domani potrà esserci una cura per qualcosa ritenuto oggi clinicamente incurabile? E inoltre, una decisione in senso contrario non frustrerebbe la ricerca medica a favore della vita?».
Non appena giunta la notizia del no alla "dolce morte" – proposta da alcuni amici dell’infermiera che desideravano per lei «la fine delle sofferenze e il diritto a una morte dignitosa» – le colleghe e il personale del Kem Hospital hanno festeggiato davanti a fotografi e telecamere la «vittoria». Anche il rappresentante legale del Kem Hospital, che per 37 anni ha curato Shanbaug nonostante il totale disinteresse della famiglia, si era opposto alla domanda di eutanasia.
Il rigetto della richiesta ha però anche avuto qualche ombra. Dichiarando che «l’eutanasia attiva è illegale», la Corte Suprema infatti ha affermato di non essere contraria a una «eutanasia passiva» che potesse permettere ai malati terminali una morte controllata, nei modi da essa stessa stabiliti. Questa nota del tribunale al suo verdetto ha «deluso» il cardinale Gracias, che ha spiegato come «autorizzare qualcuno a morire equivalga ad accondiscendere al suo volersi togliere la vita». Il distinguo della Corte si è infatti concretizzato in una raccomandazione al governo affinché emani una regolamentazione legislativa che ponga rigide regole all’«eutanasia passiva» controllata dai tribunali.
Veerappa Moily, ministro della Giustizia indiano, si è mostrato molto cauto sulle raccomandazioni della Corte, affermando che «il diritto alla vita è intrinseco alla persona umana, e dunque è indispensabile un approfondito dibattito in materia». Pur prendendo atto dell’esistenza di «considerazioni umanitarie» a supporto delle richieste di eutanasia, ha poi ribadito che «essa non deve diventare strumento di morte». Anto Akkara
SPAGNA: MADRID LAVORA ALLA «FINE DEGNA»
Spagna si prepara ad approvare una nuova legge sulle cure palliative, ma ci sono vari ingredienti che contribuiscono a un clima di confusione. Qual è la finalità della legge? L’obiettivo annunciato dal governo di José Luis Rodriguez Zapatero pare nobile e urgente: garantire le giuste cure palliative ai malati terminali, assistere le loro famiglie, appoggiare infermi e parenti durante una fase difficilissima riconoscendo loro il diritto all’informazione e al rifiuto di ogni accanimento terapeutico. Ma alla ricetta spagnola vanno aggiunti altri elementi. In primis molta ambiguità linguistica: nel Paese quando ci si riferisce alla norma in cantiere si parla di «morte degna» (eufemismo che sottintende l’eutanasia). L’esecutivo di Zapatero ha detto esplicitamente che non ha intenzione di legalizzare l’eutanasia, ma al termine dell’ultima legislatura i socialisti hanno inserito questo tema nella loro campagna elettorale. Il timore sollevato da numerose organizzazioni per la vita è proprio questo: la legge sulle cure palliative non sarà un primo spiraglio per aprire le porte – in futuro – a una vera e propria normativa che legalizzi l’eutanasia?
Gli ultimi a fare riferimento a questo spinoso argomento sono stati i vescovi iberici. Al termine della 97esima assemblea plenaria, la settimana scorsa, il portavoce della Conferenza episcopale monsignor Antonio Martinez Camino ha ricordato che la legge deve «rispettare il diritto fondamentale alla vita di tutte le persone»: una nuova condanna dell’eutanasia e un appello alla difesa dei più deboli, malati o non nati. Secondo Gador Joya, portavoce della piattaforma associativa «Diritto di Vivere», è tutta una questione di strategia: dopo la valanga di critiche che hanno travolto la riforma dell’aborto (come hanno dimostrato le grandi manifestazioni di piazza), il governo di Zapatero non avrebbe osato presentare «direttamente una legge per depenalizzare l’eutanasia. Ma bisogna restare vigili, perché stanno cominciando a introdurla». L’esecutivo di Zapatero, secondo Joya, sta facendo «un pericoloso gioco linguistico per mascherare i primi passi verso l’introduzione dell’eutanasia in Spagna». In Parlamento i socialisti hanno assicurato che «non verrà legalizzata né l’eutanasia né il suicidio assistito» (come invece reclama la sinistra radicale). Ma una fetta della società spagnola si chiede preoccupata: fino a quando? Michela Coricelli
STATI UNITI: RACHEL NON PUO' PERMETTERSI IL SONDINO, IL GIUDICE LO STACCA
Per quanto assai controversa, negli Usa la sospensione di idratazione e nutrizione ai pazienti in stato vegetativo viene purtroppo praticata anche quando questi non hanno lasciato dichiarazioni anticipate di trattamento. Terri Schiavo divenne un caso solo perché le decisioni prese dal marito, legale rappresentante, trovarono l’opposizione dei genitori nei tribunali. Ma in questi giorni un altro caso sta mostrando i pericoli che può porre l’identificazione del "miglior interesse" del paziente da parte del legale rappresentante.
Rachel Nyirahabiyambere è una maestra di 59 anni, sopravvissuta al genocidio del Ruanda e a una lunga fuga nella giungla del Congo. Dal 2008 la donna vive negli Usa grazie a un permesso di soggiorno fattole ottenere dai figli, già residenti in America come rifugiati. Per assistere i nipotini Rachel ha rinunciato a un lavoro e all’assicurazione sanitaria e, risiedendo negli Usa da meno di cinque anni, è esclusa anche dal programma «Medicaid». Tutto è andato bene fino ad aprile 2010, quando un’emorragia cerebrale l’ha fatta precipitare nel coma e poi in stato vegetativo. Terminata la fase acuta, l’ospedale della Georgetown University di Washington ha cercato di dimetterla ma i figli non erano in grado di garantirle assistenza a casa e nemmeno di pagarle il ricovero in una residenza sanitaria. Quando anche la proposta di rispedirla in Ruanda è stata rigettata, il giudice ha nominato in dicembre una legale rappresentante, Andrea Sloan. Malgrado le proteste dei figli, la Sloan ha disposto il trasferimento di Rachel nella sezione per malati terminali di una residenza sanitaria, mentre l’ospedale (d’ispirazione cristiana) ha accettato di farsi carico delle spese per la degenza. Ma il 19 febbraio la residenza sanitaria ha sospeso la nutrizione della paziente e da due settimane Rachel aspetta la morte. Il New York Times, che ha scoperto il caso, ha criticato la mancanza di cuore del sistema sanitario americano riaprendo la discussione sulle controverse clausole per l’assistenza ai malati terminali previste nella riforma sanitaria di Obama, costretto a promettere a suo tempo che «alla nonna non sarà stata staccata la spina».
La Sloan ha risposto che, in assenza di dichiarazioni anticipate, toccava ai familiari dimostrare che Rachel avrebbe preferito continuare a vivere in quelle condizioni. Il figlio ha ribattuto che «nella nostra cultura noi non condanneremmo una persona a morire di fame», ma la Sloan gli ha rinfacciato che la nutrizione assistita non fa parte della cultura africana.
Per difendere il profitto delle strutture sanitarie non si è esitato a ribaltare la presunzione dell’esistenza di un istinto a vivere, salvo dimostrazione del contrario: una presunzione che, in assenza di chiare manifestazioni di volontà, suggerisce di optare per la vita, visto che l’altra soluzione è irreversibile. Si dirà che una simile vicenda in Italia non sarebbe possibile, perché l’assistenza non le sarebbe stata negata. È vero: l’anelito solidaristico da noi è molto più forte. Tuttavia, proprio mentre alla Camera inizia la discussione sulle Dat, forse è lecito interrogarsi sui poteri del «fiduciario»: infatti se non passasse la clausola per la quale le decisioni debbono avere «come scopo esclusivo la salvaguardia della salute e della vita dell’incapace», potremmo presto accorgerci che, invece del «migliore interesse» (definito da altri), rischiano di entrare nel processo decisionale valutazioni che nulla hanno a che fare con la clinica, e ancor meno con il rispetto della vita. Gian Luigi Gigli
AUSTRALIA: IL DOTTOR MORTE NITSCHKE CI RIPROVA
Nonostante in Australia la legalizzazione dell’eutanasia non compia passi avanti – in Australia del Sud e in Tasmania sono state recentemente bocciate leggi in materia – Philip Nitschke (detto «dottor morte») non si arrende. Il direttore di Exit International, l’organizzazione che si batte a livello mondiale per la "dolce morte", ha reso nota l’intenzione di realizzare una clinica dove trovare l’opportuna assistenza per poter morire. Secondo Nitschke la legalizzazione dell’eutanasia in Australia è solo questione di tempo: dunque presto ci sarà bisogno di una struttura ad hoc. La clinica dovrebbe sorgere ad Adelaide o a Hobart e non si propone di procurare la morte del paziente all’interno dei propri locali: «I pazienti riceveranno le informazioni e le sostanze necessarie per porre fine ai propri giorni a casa propria», ha dichiarato Nitschke.
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Avvenire.it, 8 marzo 2011 - IL GIURISTA - Mangiameli: «Nella Costituzione non esiste alcun diritto all'autodeterminazione» di Enrico Negrotti
«Non c’è un diritto all’autodeterminazione nella Costituzione che discenda, in particolare, dall’articolo 32, la norma che riguarda la tutela della salute». Stelio Mangiameli, docente di Diritto costituzionale all’Università di Teramo, non ha dubbi nel ritenere infondate le critiche di costituzionalità che vengono mosse al disegno di legge sulle direttive anticipate di trattamento che la Camera ha iniziato ieri a esaminare.
La pregiudiziale di costituzionalità fa riferimento soprattutto all’articolo 32. È fondata?
In realtà la Costituzione, prevedendo le libertà, disciplina gli spazi in cui il soggetto si può determinare, ma che ci sia un diritto all’autodeterminazione sul fine vita è del tutto discutibile. Il secondo comma dell’articolo 32 non determina la libertà, né un diritto dell’individuo, ma fonda un limite al legislatore. L’articolo non può voler dire che c’è un diritto alla non cura. Ma c’è un altro aspetto importante.
Quale?
Il primo comma dell’articolo stabilisce che la salute è «fondamentale diritto dell’individuo», ma anche «interesse della collettività». Solo in questo punto in tutta la Costituzione c’è questo riferimento: esiste quindi una proiezione collettiva permanente sul diritto alla salute. Altrimenti perché ci dovrebbe essere l’obbligo di curare i malati? C’è l’interesse della collettività verso la salute di ogni individuo e non ci può essere il diritto alla non salute.
L’autodeterminazione non vale nel diritto alla salute?
Il diritto costituzionale è alla tutela della salute e non giunge sino ad ammettere la scelta della non cura. Altrimenti, non solo si ignora il contenuto essenziale del diritto costituzionale, ma anche la proiezione di carattere collettivo su questo diritto. E trasformare il limite a prevedere trattamenti obbligatori solo in base a una legge in un diritto all’autodeterminazione è un errore di interpretazione costituzionale, in quanto l’autodeterminazione, come diritto a rifiutare le cure, non è compresa nell’articolo 32. Rifiutare le cure, ripeto, è una situazione di fatto, non un diritto sancito dalla Costituzione.
Allora quale limite è previsto all’azione del medico?
Il fine dell’azione del medico, frutto della relazione con il paziente, è il recupero dello stato di salute, all’interno della relazione di fiducia con il paziente. Quando secondo le sue conoscenze, questo non è più possibile, non deve infliggere terapie che non abbiano l’obiettivo di recupero del benessere fisico e diventano abnormi. Deve cioè astenersi dall’accanimento terapeutico e puntare ad altro, per esempio alle cure palliative. Ma la rinuncia ad alimentare e a idratare il paziente, di per sé, sarebbe un’agevolazione all’eutanasia.
S.E. Card. Carlo Caffarra - Prolegomeni ad una riflessione sull'anima, Brescia, 5 marzo 2011
In quale condizione si trovi oggi il discorso sull’anima è detto molto bene da R. Spaemann quando scrive: "Parlare di persone è abituale. È caduto in discredito invece parlare di anime. Il materialismo… tenta di sopprimere l’anima, senza sostituirla, e di mostrare come le condizioni e le attività attribuite ad essa siano fisiologiche. A sua volta, la teologia cristiana rinuncia più o meno a prendere le difese dell’anima" [Persone, Laterza, Bari-Roma 2005 (orig. 1998), 142].
Possiamo rassegnarci a questa liquidazione del problema dell’anima? La mia riflessione non affronterà dunque direttamente la domanda, ma essa cercherà di mostrare di che cosa si parla quando parliamo di anima, e quale è la "posta in gioco" in tutta questa problematica.
1. Parto da una pagina dei Fratelli Karamazov, assai illuminante per il nostro tema.
"- Ma Ivan, esiste allora l’immortalità? qualcosa di piccolo, di piccolissimo?
No, non esiste nemmeno una piccola immortalità.
Per niente?
Per niente.
Vale a dire lo zero assoluto o c’è qualcosa d’altro? Forse esiste qualcosa di diverso? sarebbe pure qualcosa!
Lo zero assoluto.
Alèska, esiste l’immortalità?
Esiste.
Dio e l’immortalità?
Sia Dio sia l’immortalità"
Il vecchio padre ha posto il problema dell’anima dal punto di vista esistenziale più profondo. La domanda: esiste l’anima? coincide esistenzialmente colla domanda: noi, io e voi, dopo la morte vivremo una vita cosciente ed eterna nella insostituibile incomunicabilità di ciascuno e nella reale comunione con gli altri? oppure la nostra sorte finale, di me e di voi, è il nulla eterno?
Si noti bene che immortalità su cui ci si interroga quando ci si interroga sull’anima, significa non il permanere di una vita cosciente neutrale, ma di una vita cosciente positiva, beata cioè. La domanda dunque circa l’anima significa: posso essere eternamente felice? o la partita della felicità finisce per sempre con la morte? Agostino dice giustamente che questa è la domanda più importante di tutte, sapere se siamo immortali [cfr. Soliloqui II, 1].
Esiste cioè una coappartenenza concettuale fra l’idea di anima e l’idea di immortalità. È questo anche l’insegnamento del Concilio Vaticano II. Il timore più profondo dell’uomo di fronte alla morte, dice il Concilio, è in realtà il timore della "perpetua extinctio" di se stesso, della "totalis ruina et definitivus exitus suae personae". Ma nello stesso tempo, l’uomo istintivamente rifugge da questa prospettiva, e con verità. L’irriducibilità della persona alla sola materia è precisamente quel germe di immortalità che l’uomo ha in sé [cfr. Cost. Past. Gaudium et spes, 18, 1; EV 1/1371].
L’affermazione della irriducibilità della persona umana alla sola materia coincide con l’affermazione dell’esistenza dell’anima. Ora – come scrive Tommaso – l’eternità appartiene allo spirito come la rotondità al cerchio.
Concludo dunque questo avvio alla mia riflessione, dicendo, in sintesi, che il discorso sull’anima è il discorso sul destino finale dell’uomo. Discorrendo dell’anima non discorriamo di "qualcosa". Discorriamo di "qualcuno": io, ciascuno di voi.
2. Prima di procedere nella mia riflessione, devo ora fermarmi a considerare un’altra implicazione del problema dell’anima. Potrei, per chiarezza, enunciarla nel modo seguente: se non esiste l’anima [= riducibilità alla materia di tutto l’uomo], l’urphenomenon dell’io cosciente diventa inspiegabile. È questa una riflessione molto suggestiva, anche se difficile.
Ciascuno di noi vive quotidianamente l’esperienza del proprio amore, del proprio pensiero, delle proprie decisioni. Più precisamente [e questo è d’importanza decisiva], viviamo quotidianamente l’esperienza che "io amo", "io penso", "io decido". Non sperimentiamo solo la sequela di varie operazioni isolate le une dalle altre, prive di un soggetto che le compie: abbiamo l’esperienza del soggetto che le compie, le mette in atto. Chi nega questo chiude gli occhi ai più elementari dati del nostro vissuto.
Si faccia bene attenzione. Non si tratta di un "passaggio logico" dall’operazione che si sta compiendo all’io che la compie, come si passa da un effetto alla causa. Il soggetto [che ama, che pensa, che decide] ci è dato immediatamente. Non solo. "Dobbiamo aggiungere che il nostro stesso essere ci è accessibile in un modo interamente interiore, perché lo viviamo coscientemente dall’interno. Non vi è nessuna datità di un essere che sia più immediata ed interiore di questa auto-consapevolezza della persona" [J. Seifert, Essere e persona. Vita e Pensiero, Milano 1989, 157]. Agostino ha scritto pagine mirabili su questo tema. Riporto solo un testo.
"Non c’è nulla che lo spirito conosca altrettanto bene come ciò che gli è presente e nulla è più presente allo spirito che lo spirito a se stesso.
…………
Tuttavia così grande è la forza del pensiero che lo spirito stesso, in qualche modo, non si pone sotto il proprio sguardo che quando pensa se stesso
…………
è un qualcosa che appartiene alla natura dello spirito il vedere se stesso e, quando pensa se stesso, il ritornare su di sé non mediante un movimento spaziale, ma con una conversione immateriale"
[De Trinitate XIV, 5, 7; 6, 8 – NBA IV ,573. 577].
L’occhio vede sempre un oggetto, ma l’occhio non vede se stesso. Il soggetto invece è dato a se stesso, in un modo assolutamente interiore, e viene sperimentato come fondamento unico e permanente di una miriade di azioni.
"L’uomo non solo agisce coscientemente, ma è anche consapevole della sua azione nonché del fatto che è lui che agisce; è quindi consapevole dell’atto e della persona nella loro correlazione dinamica" [K. Wojtyla, Persona e atto, Rusconi, Milano 1999, 97].
Dunque una prima conclusione. La persona sperimenta se stessa immediatamente ed interiormente come soggetto che esiste in sé e per sé, cioè non inerente e come appoggiato su qualcosa di altro, una sorta di escrescenza di qualcosa d’altro.
Quando noi diciamo "persona" denotiamo precisamente questa realtà, questo soggetto di cui abbiamo esperienza immediata non come un "oggetto che mi sta di fronte", ma dall’interno.
Ora chiediamoci: è possibile che la persona si esperimenti immediatamente e dall’interno e al tempo stesso che essa sia totalmente riducibile alla materia [ai processi cerebrali ovvero al cervello]? La risposta è negativa: la materia non si dà a conoscere in questo modo. "L’oggetto materiale sta sempre davanti al tuo intelletto riflettente come un oggetto e non può mai esserti dato dall’intimo come avviene con te stesso" [J. Seifert, op. cit., 330]. Accade questo perfino col proprio corpo – cioè che ti sia dato come un oggetto - in un qualche modo.
Da questa riflessione possiamo ora avere una comprensione più profonda della "posta in gioco" quando si discute dell’anima.
La discussione sull’anima è la discussione sull’originalità propria dell’humanum, originalità che il pensiero cristiano ha denotato col nome di persona. Quando nell’universo compare l’uomo, compare qualcosa di unico, non totalmente riducibile a ciò che lo ha preceduto. Mantenere teoricamente l’originalità propria dell’humanum e negare che il "nocciolo" della persona sia una sostanza spirituale, è impossibile. Simul stant, simul cadunt, originalità dell’humanum ed esistenza dell’anima.
Con ciò non si vuole dire che l’anima come soggetto spirituale della persona non sia intimamente legata al corpo, e che le attività spirituali non siano condizionate dalla nostra attività cerebrale. Al contrario. La corporeità umana diventa propriamente comprensibile solo in forza della sua unione con una soggettività spirituale. Uno dei momenti più rivelativi di questo è la capacità della genitalità umana di essere segno efficace di un atto eminentemente spirituale come l’amore coniugale.
Da questo deduciamo, en passant, un corollario assai importante. La negazione della soggettività semplice e spirituale della persona mette in atto una progressiva reificazione, oggettivazione del composto umano. Non posso su questo fermarmi ulteriormente.
Non solo l’originalità assoluta dell’humanum è incompatibile colla totale riducibilità del medesimo alla materia. È il fatto che ogni persona umana è un individuo nel senso di qualcosa di originariamente realmente irripetibile. "La persona è un essere potenzialmente universale, ma immancabilmente distinto, irripetibile, insostituibile … La persona è l’eccezione, non la norma. Il mistero dell’esistenza della persona è nella sua assoluta insostituibilità, indivisibilità e unicità, è nella sua incomparabilità" [N. Berdiaev, Schiavitù e libertà dell’uomo, Bompiani, Milano 2010, 101]. Di questa irripetibilità, insostituibilità abbiamo non solo una conoscenza metafisicamente fondata, ma ne abbiamo soprattutto un’esperienza vissuta nell’amore, e nel dolore che proviamo per la morte della persona amata.
Potremmo continuare la nostra riflessione sulla relazione fra l’esistenza della persona come soggetto spirituale e quello che ho chiamato l’urphenomenon dell’io cosciente. Mi fermo. Siamo peraltro giunti al guadagno più importante: il concetto di persona come sostanza-soggetto spirituale, irripetibile ed insostituibile. In sintesi: il concetto di persona e di anima stanno o cadono assieme.
3. In questo punto della mia riflessione vorrei mostrare come da una parte la libertà è il "luogo" dove l’io che è la persona si dà a vedere immediatamente; e dall’altra come non è pensabile la libertà se non radicata nella soggettività spirituale.
Partiamo da alcune esperienze elementari e quotidiane. La prima. Ciascuno di noi ha dei desideri che potremmo chiamare di base, sia riguardanti la sua costituzione biologica [la fame, la sete …] sia riguardanti la sua natura spirituale [desiderio di conoscere, di amare …]. È un dato che abbiamo in comune con ogni vivente, essere dotati di inclinazioni. Ma, la persona può volere o non volere di attuarle. Posso volere piuttosto l’ignoranza che la conoscenza, perché non voglio sobbarcarmi la fatica dello studio, per esempio.
Tutta questa esperienza ci fa conoscere, ci mostra che non solo – come abbiamo visto – il modo con cui la natura, le cose che si danno a conoscere è essenzialmente diverso dal modo con cui l’io è presente a se stesso. Ci mostra che è anche possibile stabilire una distanza interna alla persona fra l’essere-se stesso e l’essere-tale [cioè dotato di natura umana]. Il "se stesso" non è semplicemente la sua natura, ma possiede la sua natura; la possiede in modo che ne può disporre.
La seconda e più profonda esperienza, che S. Tommaso ama spesso richiamare. Non basta avere orecchi per udire, bisogna voler ascoltare. Si dice infatti che non c’è nessun sordo peggiore di chi non vuole sentire. Dunque: odo perché voglio udire. Capire un teorema di matematica è un atto dell’intelligenza, ma esige attenzione, applicazione. Dunque: capisco perché voglio capire. E così via. In una parola: ogni facoltà è messa in moto dalla volontà. E la volontà da chi è mossa? odo perché voglio udire; capisco perché voglio capire; voglio perché … voglio. Cioè: la volontà muove se stessa, e non è mossa da niente e da nessuno. Il che non esclude che abbia delle ragioni per mettere in moto se stessa; ma di questo ora non parlo.
Le due esperienze sommariamente descritte ci conducono ad una sola conclusione. Esiste un "nocciolo" della persona che si dà a vedere come dotato di un auto-possesso che esclude la dipendenza causale del suo determinarsi dalle leggi e dai fatti del mondo materiale. Un "nocciolo" della persona che si dà a vedere come dotato di un auto-governo che contraddice il fatto che esso [il nocciolo della persona] sia necessariamente regolamentato da processi cerebrali. Un "nocciolo" della persona che si dà a vedere come dotato di una capacità di auto-determinazione - risposta "si" o "no" alle ragioni per cui agire - che esclude un rapporto causale dei meccanismi e funzioni cerebrali.
Auto-possesso, auto-governo, auto-determinazione: sono le tre dimensioni costitutive di ciò che chiamiamo libertà. L’io che è la persona, nel suo nocciolo sostanziale, non è costituito dal suo cervello e dalle funzioni cerebrali. È un "qualcosa" che è altro [aliud] dalla materia [cfr. già Platone, Fedone, 98 C - 99 B: Platone distingue ormai chiaramente la vera causa ed il mezzo senza il quale la vera causa non potrebbe essere mai causa]. Le sostanze puramente materiali non si possiedono, non possiedono le loro azioni che sono causate da cause ad esse esterne. "La libertà come capacità di essere origine non ulteriormente indagabile di atti che prendono principio spontaneamente dallo stesso nocciolo personale, ci è conoscibile con immediata evidenza" [J. Seifert, op. cit., pag. 349]. L’esercizio, gli atti della libertà sono inderivabili, cioè la libertà "produce" qualcosa di originario, è qualcosa di originario.
Alla fine dunque delle due l’una. O si nega l’esistenza di un "nocciolo spirituale" della persona – dell’anima – ed allora non ha senso parlare della libertà della persona. O si accetta l’immediata evidenza della libertà ed allora non si può negare l’esistenza dell’anima. In breve: non c’è libertà senza l’io; non c’è io senza libertà. Questa è la posta in gioco quando discutiamo dell’anima.
Ora vorrei fare alcune considerazioni per far capire ancora più profondamente questa "posta in gioco".
La prima. La libertà è la possibilità dell’amore. Se l’io non è capace di auto-possedersi, come può auto-donarsi? Non si dona ciò che non si possiede. Se l’io non è capace di auto-governarsi, ma è etero-governato, come può auto-determinarsi al dono di sé? Non per caso D. Hume, che negò l’esistenza dell’anima, scrisse che noi non siamo capaci di fare un passo oltre se stessi.
Forse non c’è espressione, rivelazione più splendida dell’io dell’amore, perché l’amore è semplicemente impossibile senza l’io che ama e la realtà dell’io amato. La più perfetta realizzazione, attuazione del proprio io è l’auto-donazione propria dell’amore.
Quando noi discutiamo dell’anima, la posta in gioco dunque è la possibilità dell’amore.
La seconda. Poniamoci davanti a due modi di realizzare la propria vita: quello di p. Kolbe che dà la vita e quello di Hitler che ha progettato la distruzione del popolo ebreo. Nessuno si sente di dire che e l’una e l’altra esistenza hanno in sé lo stesso valore, che non sono assiologicamente diverse: è un evidenza immediata.
Ma se si nega la libertà di p. Kolbe e la libertà di Hitler – la libertà della vittima e la libertà dell’assassino – quell’evidenza originaria è negata, semplicemente perché non ha senso parlare di diversità assiologica. La progettazione della vita dell’uno e dell’altro sarebbe il risultato di forze impersonali. O l’uomo è ciò che è mediante la sua libertà, o il parlare di divaricazioni assiologiche è privo di senso. Ci troveremo di fronte ad un vero e proprio "collasso ontologico", essendo l’intera realtà neutralizzata nei confronti di ogni distinzione di valore.
Quando si discute dell’anima la posta in gioco della discussione è, per così dire, la stoffa di cui è intessuta la realtà. Il resto sono chiacchiere.
La terza. Se il "nocciolo spirituale" della persona è inderivabile dall’universo creato dove pure affonda le sue radici; se – come l’esperienza ci attesta – abbiamo avuto un’origine, dobbiamo concludere che, se si ammette l’esistenza di Dio, ogni persona umana giunge all’esistenza perché immediatamente creata da Dio stesso. "L’anima spirituale, l’autentico soggetto della mia esistenza, viene suscitata direttamente dalla chiamata di Dio. Ogni concepimento ha un fondamento metafisico: Dio crea ogni volta l’anima rivolgendovisi in modo personale … in tal modo io rimango in rapporto immediato con Dio" [R. Guardini, Etica, Morcelliana, Brescia 2001, 512]. E quindi, data la mia origine, ultimamente io sono responsabile di me stesso solamente davanti a Dio.
Ne consegue che nessuno di noi viene all’essere per caso o per necessità: ogni uomo che viene concepito è portatore di un progetto. Non è la ripetizione di uno "stampo biologico".
Quando si discute sull’anima, la posta in gioco della discussione è la sostituibilità/insostituibilità della novità del concepito colla causalità e casualità biologica dell’origine.
Concludo. Ci sono due libri che pure scritti a tre secoli di distanza per contrarium si richiamano a vicenda anche nel titolo: il Castello interiore di S. Teresa d’Avila e Il Castello di F. Kafka [Trovo questo confronto in A.M. Sicari, Nel Castello interiore di S. Teresa d’Avila, Jaca Book, Milano 2006].
È suggestivo confrontare i due incipit. "Era tarda sera quando K. arrivò. Il paese era affondato nella neve. La collina non si vedeva, nebbia e tenebre lo nascondevano, e non il più fioco raggio di luce indicava il Castello". E Teresa: "possiamo considerare la nostra anima come un castello fatto di un solo diamante o di un tersissimo cristallo … Io non vedo nulla a cui paragonare la grande bellezza di un’anima".
Ambedue, dopo questo incipit, descrivono l’itinerario della persona verso se stessa dove si ha l’incontro con Dio medesimo: Teresa sa indicare questo cammino; Kafka vive la condizione di chi sta fuori e non trova più la via per entrare, perché trova solo burocrati o sofisti che lo distolgono dall’impresa convincendolo che forse persino è un itinerario privo di senso.
La questione antropologica e la questione dell’anima coincidono: Teresa e Kafka ne presentano le due soluzioni alternative.