giovedì 17 marzo 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    LA CORTE SUPREMA DELL’INDIA DICE NO ALL'EUTANASIA - Sul caso di una infermiera in stato semi-vegetativo dal 1973 di Paul De Maeyer
2)    Avvenire.it, 17 marzo 2011 - Fine vita: perché dire sì al disegno di legge - Solo Dat non vincolanti rafforzano l'alleanza di cura - Lucio Romano, copresidente nazionale Associazione Scienza & Vita
3)    Convenzione di Oviedo, un testo per la vita - L’articolo 9 dice che «saranno tenuti in considerazione» i «desideri» del paziente. Nessun vincolo per il medico, di Tommaso Scandroglio, Avvenire 17 marzo 2011
4)    Nel magistero l’abbraccio alla sofferenza - appunti - Nei documenti della Chiesa e nelle parole dei Papi il richiamo costante alla dignità della persona e alla difesa della vita Ecco i punti di riferimento essenziali di Giacomo Samek Lodovici, Avvenire, 17 marzo 2011
5)    Il libro di Benedetto XVI dono per chi è in ricerca - A Milano la presentazione del «Gesù di Nazaret» - Il teologo protestante Riesner: ci ha dato di avvicinarci alla figura di Nostro Signore in un modo che possa essere utile a tutti i lettori che vogliono incontrare Gesù e credergli Don Alberto: il Papa ci ricorda che l’essere cristiano nasce dall’incontro dell’avvenimento - DA MILANO ANNALISA GUGLIELMINO, Avvenire, 17 marzo 2011

LA CORTE SUPREMA DELL’INDIA DICE NO ALL'EUTANASIA - Sul caso di una infermiera in stato semi-vegetativo dal 1973 di Paul De Maeyer

ROMA, mercoledì, 16 marzo 2011 (ZENIT.org).- Mentre il Parlamento italiano dovrebbe votare prossimamente la proposta di legge sulle cosiddette DAT o "dichiarazioni anticipate di trattamento", che mira a impedire l'eutanasia passiva e l'interruzione dell'alimentazione e dell'idratazione artificiali, la Corte Suprema dell'India si è espressa lunedì 7 marzo sul caso di una donna da quasi quarant'anni in stato di minima coscienza.
La più alta corte della Federazione indiana ha respinto infatti una richiesta avanzata dalla giornalista e scrittrice Pinki Virani, classe 1959, di sospendere l'alimentazione all'infermiera sessantaduenne Aruna Ramachandra Shanbaug per lasciarla morire. La Shanbaug è entrata in uno stato semi-vegetativo nel lontano 1973, dopo essere stata vittima di una brutale aggressione a sfondo sessuale nell'ospedale dove lavorava, il King Edward Memorial Hospital (KEM) di Bombay (o Mumbai).
Era la sera del 27 novembre del 1973, quando un addetto alle pulizie dell'ospedale, Sohanlal Bhartha Walmiki, aggredì e violentò la giovane infermiera e cercò inoltre di soffocarla. La Shanbaug fu ritrovata solo la mattina successiva, con danni cerebrali irreversibili. Mentre il suo aggressore fu condannato a sette anni di prigione e assunse una nuova identità dopo la sua uscita dal carcere, la Shanbaug è da ormai 37 anni ricoverata nel KEM Hospital, dove viene accudita con grande dedizione dal personale della struttura.
Secondo la Virani, che nel 1998 ha dedicato al caso un libro intitolato "Aruna's Story", quella della Shanbaug è una vita "non vita", anzi è criminale mantenere in vita il corpo ridotto ad uno "scheletro" di una persona "virtualmente morta". "Questa prolungata esistenza vegetativa priva di ogni dignità umana non è per nulla vita e infilare pappe in bocca equivale solo a una violazione della dignità umana", sosteneva la giornalista nella sua richiesta presentata nel 2009 davanti al tribunale supremo (BBC, 17 dicembre 2009). Per la scrittrice, la Shanbaug "ha diritto a non essere ridotta a questa specie di condizione subumana".
Diversa è la situazione che descrive il KEM Hospital. Secondo il personale curante, la Shanbaug sente, reagisce al tatto, interagisce con espressioni del viso e suoni, ed esprime gradimento o rabbia. Per il suo 50° compleanno, l'ospedale ha organizzato persino una festa – musica dal vivo inclusa -, che "sembra essere piaciuta" alla donna (The Hindu, 7 marzo). "Lei è un essere umano, non è un vegetale. Rifiuta il cibo quando è sazia, apre la bocca quando viene imboccata", racconta un'infermiera della struttura.
"Ogni nuova allieva infermiera viene presentata ad Aruna; le diciamo che lei è stata una di noi e continua ad esserlo oggi. L'idea di sospendere l'alimentazione o di farle un'iniezione letale è inaccettabile per chiunque lavori in questo ospedale", così si legge in una dichiarazione del corpo medico del KEM, citata da Églises d'Asie il 10 marzo. L'ospedale è del resto molto orgoglioso del fatto che dopo tanti anni la donna non presenti piaghe da decubito. Nella sua sentenza del 7 marzo, la Corte Suprema di Nuova Delhi ha d'altronde espresso parole di lode per la straordinaria dedizione del personale del KEM Hospital nei confronti della loro ex collega.
Nella loro sentenza, i giudici Markandeya Katju e Gyan Sudha Mishra si sono espressi sulla legittimità o meno di accogliere la richiesta avanzata dalla Virani. Secondo i giudici, la giornalista ed attivista per una "morte dignitosa" non ha nessun diritto a presentare la domanda per conto della Shanbaug, anche se la donna è stata abbandonata dai suoi parenti (ha ancora una sorella maggiore, ma non può prendersi cura di lei). Tale decisione - ribadiscono i giudici – deve essere presa dai genitori o dal coniuge oppure da altri parenti stretti, o in assenza di uno di loro da una persona o un organismo che funge da amico più stretto o anche dal medico curante. Per questo motivo, solo il personale del KEM Hospital, che ha "espresso chiaramente il desiderio che ad Aruna Shanbaug sia concesso di vivere", può avanzare tale domanda. "Sono loro in realtà i suoi amici più intimi, e non la signora Pinki Virani, che l'ha visitata solo in alcune occasioni ed ha scritto un libro su di lei".
Il verdetto dei due giudici, definito "storico" dai media, rappresenta dunque un "nì". Da un lato conferma l'illegalità dell'eutanasia attiva, che viene dichiarata "inaccettabile", ma dall'altro lato apre la porta a quella detta "passiva", la quale "dovrebbe essere autorizzata nel nostro Paese in certe situazioni". Confrontati con l'attuale vuoto legislativo, i due giudici dichiarano di sentirsi "come una nave in mari inesplorati" e ribadiscono la necessità di una norma di legge ad hoc. Il verdetto emesso il 7 marzo rimarrà valido fino all'approvazione da parte del Parlamento di una legge specifica in materia.
Il verdetto è stato, invece, accolto con una certa delusione dalla Virani, ritenuta dai giudici una persona che ha agito "in buona fede". "Dopo più di 35 anni, non ha ancora ricevuto giustizia", così osserva la giornalista in un comunicato. Comunque, continua, "grazie al caso Aruna Shanbaug, la Corte Suprema ha autorizzato l'eutanasia passiva". "Aiuterà altri che si trovano in una situazione simile", ha confermato il dottor Surendra Dhelia, della Society for the Right to Die With Dignity, un movimento con sede a Mumbai (The Los Angeles Times, 8 marzo).
Molto soddisfatto invece è il personale del KEM Hospital, che ha organizzato una piccola festa e ha parlato del "più bel regalo" che la Corte Suprema potesse fare per la Giornata Internazionale della Donna. "Non vogliamo che Aruna muoia. Siamo la sua famiglia. Vogliamo che lei viva", ha detto un'infermiera al quotidiano The Hindu (7 marzo). "Chi è lei [Pinki Virani] per parlare al posto di Aruna? Si è mai presa cura di lei anche per un giorno?", ha chiesto una collega. "Siamo molto grati alla Suprema Corte, che ci permette di continuare a prenderci cura di lei", ha dichiarato a sua volta il portavoce dell'ospedale, il dottor Sanjay Oak.
Anche il dottor Pascoal Carvalho, membro della Commissione diocesana sulla vita umana dell’arcidiocesi di Mumbai, ha accolto la sentenza con soddisfazione. "Accogliamo con favore il rigetto della petizione di eutanasia per Aruna Shanbaug. I nostri giudici hanno sentenziato in favore di una cultura della vita. L'India è radicata nella spiritualità in cui ogni vita viene considerata sacra. Solo Dio è padrone della vita umana, e nessuno ha il diritto di padronanza sulla vita. L’eutanasia, l’uccisione cosiddetta per pietà e il suicidio assistito sono sempre immorali e non devono essere accettati legalmente. Dire che l’eutanasia è una cosa buona è un’offesa alla dignità della persona umana", così ha detto ad AsiaNews (8 marzo).
Sul verdetto si è pronunciato anche il vescovo cattolico della diocesi di Poona, monsignor Thomas Dabre. "L'intera questione legata al diritto di vivere e morire con dignità va vista nella prospettiva di qual è il bene più alto (esistente) nell'universo", scrive il presule (Daily News & Analysis, 14 marzo) . "Nessuna persona retta negherà che è la vita umana", continua. "In questa prospettiva diventa chiaro che l'eutanasia è disumana e per questo immorale", aggiunge Dabre, che a sua volta elogia il personale del King Edward Memorial Hospital e ricorda che la sofferenza fa parte della vita. "La vita umana è sia un dono che una responsabilità. Prendiamocene cura e promuoviamola al posto della cultura della morte".


Avvenire.it, 17 marzo 2011 - Fine vita: perché dire sì al disegno di legge - Solo Dat non vincolanti rafforzano l'alleanza di cura - Lucio Romano, copresidente nazionale Associazione Scienza & Vita

Il dibattito in corso sul disegno di legge «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento» (Dat) impone riflessioni ponderate. Il ddl, spesso impropriamente definito come legge sul testamento biologico, ci interpella per quella responsabilità partecipativa che rappresenta uno dei principali fondamenti del vivere civile e democratico.

È necessaria una legge di buon senso sulle Dat. Non è invece necessaria una legge sul testamento biologico, come alcuni auspicherebbero. La differenza non è formale, ma sostanziale. Con il termine Dat, secondo la puntuale definizione del Comitato nazionale per la bioetica, si intende un documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato. Il testamento biologico, invece, è un documento che esprime una volontà vincolante "ora per allora", che presuppone la disponibilità della vita e riduce la dimensione della persona a cosa di cui disporre. Per le ragioni che giustificano la necessità di legiferare, basti ricordare la necessità di tutelare il paziente o grave disabile da possibili ingerenze o volontà ricostruite, da accanimenti o abbandoni eutanasici. In sintesi le Dat, non vincolanti e attualizzate nella specifica e concreta condizione, devono rappresentare uno strumento a garanzia dell’alleanza terapeutica e di cura. Altresì devono tutelare il paziente da eventuali comportamenti arbitrari da parte dei medici in caso di grave dipendenza da malattia o disabilità, ampliando la relazione in cui svolge un ruolo centrale il consenso informato e promuovendo l’esercizio dell’autonomia del paziente.

Il fondamento antropologico e valoriale – laico e non di sola pertinenza cattolica – è che la vita umana non può essere considerata come un bene disponibile fino a riconoscimento, come si vuole da alcuni, del diritto a morire. C’è un diritto, questo sì, a morire con dignità, che non significa certo ricorrere a procedure eutanasiche, che si situano al livello delle intenzioni e dei metodi usati. È necessario, piuttosto, assicurare terapie e cure proporzionate e non futili finalizzate alla guarigione, se possibile, dalla malattia. Ove, invece, la malattia è inguaribile è doveroso assicurare quei supporti vitali di cura, quali a esempio alimentazione e nutrizione assistite, efficaci nel fornire fattori nutrizionali indispensabili alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo.

Con le Dat, opportunamente normate, si offre una protezione al paziente o al grave disabile, assicurando quanto possibile e proporzionato in riferimento alla situazione clinica, attualizzata. Secondo scienza e coscienza del medico, in un incontro virtuoso tra fiducia e coscienza. Esautorare, con la vincolatività, il medico dal suo fondamentale diritto-dovere di assistenza e di sollievo dalla sofferenza significa ridurlo a mero esecutore di volontà altrui. Prospettiva, quest’ultima, del tutto disastrosa. A fondamento della non vincolatività delle Dat, è sufficiente sottolineare che proprio la vincolatività distruggerebbe la relazione di cura medico-paziente. Contrattualizzazione del rapporto, medicina difensiva, abbandoni di terapia e cura, prevarrebbero soltanto a danno del paziente. Ciò non significa, evidentemente, che il rapporto medico-paziente non si basi sul consenso. Tutt’altro. È proprio attraverso il prosieguo della relazione di cura che si tutela e si rispetta la dignità di ogni persona, per quanto in stato di grave fragilità.

La tutela della vita umana è tutela del bene più prezioso, cifra della costitutiva relazionalità umana. Essere con gli altri, essere per gli altri.


Convenzione di Oviedo, un testo per la vita - L’articolo 9 dice che «saranno tenuti in considerazione» i «desideri» del paziente. Nessun vincolo per il medico, di Tommaso Scandroglio, Avvenire 17 marzo 2011

L’ideo­logia ne­crofora che am­micca alla 'dolce morte' vorrebbe che le Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) fossero vincolanti. Pretende cioè che il contenuto delle Dat sia legge per il medico, il quale supinamente dovrebbe obbedire alle prescrizioni redatte dal paziente. Al fine di puntellare questa tesi sempre più spesso si richiama la «Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina», più nota come «Convenzione di Oviedo».

Questo documento firmato nel 1997 è stato ratificato dal nostro Parlamento con la legge 145 del 2001, e quindi da noi la Convenzione è già esecutiva, come il testo di legge esplicitamente afferma: «Piena e intera esecuzione è data alla Convenzione» (art. 2).


Vero è che mancano i decreti attuativi ma questi, come annota la stessa legge 145, sono previsti al fine di aggiungere «ulteriori disposizioni occorrenti per l’adattamento dell’ordinamento giuridico italiano ai principi e alle norme della Convenzione» (art. 3). Operazione quindi sicuramente auspicabile perché utile, ma non necessaria per assegnare efficacia nel nostro Paese ai principi della Convenzione. Perché si tira in ballo così spesso questa Convenzione? Ciò che interessa in merito al dibattito sulle Dat è quello che la Convenzione esplicita in tema di consenso informato. Da una parte si afferma che nessuno può essere sottoposto a un intervento se non dopo aver ricevuto il suo consenso (art. 5), ma dall’altra si specifica che in merito alle persone che non possono prestare un consenso valido – minori, handicappati, malati di Alzheimer, persone in stato vegetativo – occorre sempre agire in vista di «un diretto beneficio delle stesse» (art 6). Ad esempio per i soggetti affetti da disturbi mentali, occorre fermarsi di fronte alla mancanza del consenso dello stesso in merito a un particolare trattamento «se non quando l’assenza di un tale trattamento rischia di essere gravemente pregiudizievole alla sua salute» (art.7).
Lo spirito che innerva questo documento assegna più valore alla salute e alla vita dei pazienti che al loro consenso. Ma l’articolo più citato della Convenzione è sicuramente il 9: «I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione». Questo articolo non prescrive l’obbligo da parte del medico di adeguarsi alle volontà scritte nelle Dat per i seguenti motivi. Primo: nei lavori preparatori alla stesura di quest’articolo fu scartata la bozza nella quale era previsto che le volontà scritte dovevano trovare applicazione da parte del medico. L’espressione 'saranno tenute in considerazione' (' shall be taken into account' nel testo inglese) indica non dovere di adempimento delle volontà espresse ma semmai dovere di considerare queste stesse volontà, obbligo di ponderare sulle stesse, ma non obbligo di seguirle. Secondo: il Rapporto esplicativo specifica al punto 62 in relazione all’art. 9 che 'questo articolo afferma che quando le persone hanno previamente espresso i loro desideri, tali desideri dovranno essere tenuti in considerazione.

Tuttavia, tenere in considerazione i desideri precedentemente espressi non significa che essi debbano necessariamente essere eseguiti.

Per esempio, se i desideri sono stati espressi molto tempo prima dell’intervento e la scienza ha da allora fatto progressi, potrebbero esserci le basi per non tener in conto l’opinione del paziente'. Terzo: il testo ufficiale inglese usa il termine ' wishes' cioè desideri e non volontà. Il desiderio di per se stesso non può essere vincolante perché è un’aspirazione, non ha il peso obbligante di una precisa determinazione o proposito.

Dunque possiamo concludere che è certamente importante tenere in considerazione le volontà del paziente anche se scritte in un documento assai risalente nel tempo, anzi è doveroso farlo.


Le Dat allora devono essere interpretate come documento orientativo, consultivo e non vincolante, proprio perché non esprimente una volontà attuale, così come indicato tra l’altro dal Codice di deontologia medica (art.38) e dal Comitato nazionale per la Bioetica nel documento del 18 dicembre 2003 (lettera B).

Il medico, i parenti e l’eventuale fiduciario partiranno da ciò che è contenuto in questa memoria scritta, intesa come aggiuntivo e non esclusivo strumento di anamnesi, ma non si fermeranno a essa (così come del resto accade già oggi). Il loro limite d’azione è dato solo dall’oggettivo bene del paziente, non dalle volontà dello stesso.

Al centro del confronto tra visioni alternative sulle Dat c’è anche il documento del Consiglio d’Europa «per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina» elaborata nel 1997 e ratificata dal nostro Parlamento nel 2001.


Nel magistero l’abbraccio alla sofferenza - appunti - Nei documenti della Chiesa e nelle parole dei Papi il richiamo costante alla dignità della persona e alla difesa della vita Ecco i punti di riferimento essenziali di Giacomo Samek Lodovici, Avvenire, 17 marzo 2011

Gli interventi della Chiesa su eutanasia, suicidio assistito e accanimento terapeutico sono numerosissimi. Ecco di seguito alcuni dei più recenti, tutti reperibili su www.vatican.va : in essi si trovano sia argomenti rivolti solo ai credenti, sia argomenti laici.

Dichiarazione Iura et bona sull’eutanasia (1980). Varie volte ripresa in seguito, afferma, ad esempio, che «la vita umana è il fondamento di tutti i beni», perciò «niente e nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile o agonizzante» e che «nessuno può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro».

Catechismo della Chiesa Cattolica (1992). Definisce eutanasia «un’azione oppure un’omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore» e spiega che «l’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’'accanimento terapeutico'.

Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire».

Ribadisce un insegnamento di Pio XII: «L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile».

Evangelium vitae (1995). L’enciclica capitale di Giovanni Paolo II andrebbe citata ampiamente. Amplia la considerazione al piano giuridico-politico. Quando le leggi permettono l’eutanasia «l’ideale democratico, che è davvero tale quando riconosce e tutela la dignità di ogni persona umana, è tradito nelle sue stesse basi». Argomenta che è «intrinsecamente ingiusta» una legge che ammette l’aborto o l’eutanasia, perciò «non è mai lecito […] partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né dare ad essa il suffragio del proprio voto».

Il rispetto della dignità del morente (2000). Il documento della Pontificia Accademia per la vita si domanda se, almeno a volte, «sotto la giustificazione della insopportabilità del dolore del paziente, non si nasconda invece l’incapacità dei 'sani' di accompagnare il morente nel suo difficile travaglio di sofferenza, di dare senso al dolore umano – che comunque non è mai del tutto eliminabile dall’esperienza della vita umana quaggiù – e una sorta di rifiuto dell’idea stessa della sofferenza, sempre più diffuso nella nostra società del benessere e dell’edonismo». Aggiunge che «quando la società arriva a legittimare la soppressione dell’individuo – non importa in quale stadio di vita si trovi, o quale sia il grado di compromissione della sua salute – essa rinnega la sua finalità e il fondamento stesso del suo esistere, aprendo la strada a sempre più gravi iniquità».

Discorso di Giovanni Paolo II al Congresso su «I trattamenti di sostegno vitale e lo stato vegetativo» (2004). Papa Wojtyla sottolinea come «siano ben documentati casi di recupero almeno parziale [dallo stato 'vegetativo'], anche a distanza di molti anni». Afferma che «il valore intrinseco e la personale dignità di ogni essere umano non mutano, qualunque siano le circostanze concrete della sua vita». Sottolinea poi come «la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenti sempre un mezzo naturale di conservazione della vita […] da considerarsi, in linea di principio, ordinario e proporzionato, e come tale moralmente obbligatorio, nella misura in cui e fino a quando esso dimostra di […] procurare nutrimento al paziente». E richiama il principio di precauzione: «Il semplice dubbio di essere in presenza di una persona viva già pone l’obbligo del suo pieno rispetto e dell’astensione da qualunque azione mirante ad anticipare la sua morte».

Risposte ai quesiti circa l’alimentazione e l’idratazione artificiali (2007). Predisposte dalla Congregazione per la dottrina della fede e approvate da Benedetto XVI, ribadiscono che «la somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente. In tal modo si evitano le sofferenze e la morte dovute all’inanizione e alla disidratazione».

Angelus di Benedetto XVI (1 febbraio 2009). Il Papa spiega che «la vera risposta [alla sofferenza] non può essere […] dare la morte […] ma testimoniare l’amore che aiuta ad affrontare il dolore e l’agonia in modo umano. Siamone certi: nessuna lacrima, né di chi soffre, né di chi gli sta vicino, va perduta davanti a Dio».


Il libro di Benedetto XVI dono per chi è in ricerca - A Milano la presentazione del «Gesù di Nazaret» - Il teologo protestante Riesner: ci ha dato di avvicinarci alla figura di Nostro Signore in un modo che possa essere utile a tutti i lettori che vogliono incontrare Gesù e credergli Don Alberto: il Papa ci ricorda che l’essere cristiano nasce dall’incontro dell’avvenimento - DA MILANO ANNALISA GUGLIELMINO, Avvenire, 17 marzo 2011

Ha riempito fino all’ultimo posto dell’Auditorium di Milano la prima presentazione in città e in Italia del nuovo libro di Benedetto XVI, or­ganizzata dal Centro culturale di Milano (Cmc).

Sul palco, Rainer Riesner, esegeta protestante della Scuola di Tubinga, amico del Papa. A lui, in quaranta intensi minuti di intervento, seguiti dal pubblico con il più concentrato silenzio, il compito di mo­strare come il secondo volume di Gesù di Nazaret - Dall’ingresso a Gerusalemme al­la risurrezione di Joseph Ratzinger (Li­breria Editrice Vaticana, 2011, 348 pagi­ne, 20 euro) sia «un dono per tutti coloro che sono alla ricerca della verità», a par­tire dalla trattazione della risurrezione.

In dialogo con Stefano Alberto, docente di Introduzione alla teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Riesner ha illustrato al pubblico di tutte le età raccolto nel polo culturale milanese, le peculiarità del pensiero del Pontefice, alla luce dell’attuale «situazione post- moderna e in parte anche post-cristiana ». Il non essere una pubblicazione «teologica». Il fatto che il Papa, come emerge nella sua trattazione dell’Ultima Cena, «prenda seriamente l’esegesi sto­rico- critica, pur indicando nel contem­po i limiti ideologici rappresentati da de­terminati studiosi appartenenti a tale cor­rente ». E, soprattutto, la «grande stima per l’ebraismo»: un punto di forza del li­bro del Papa, è per lo studioso prote­stante, «la dimostrazione che proprio le affermazioni del Nuovo Testamento sul­la morte di Gesù come espiazione del peccato dell’uomo diventano compren­sibili solo con l’aiuto del Vecchio Testa­mento e della sua traduzione in ebraico antico». Della risurrezione di Gesù (du­rante la serata è stato fatto notare come nel libro la parola compaia con l’iniziale minuscola, in omaggio proprio all’esege­si storico critica), il Papa «si pone – per Riesner – la questione sia storica sia filo­sofica ». Benedetto XVI scrive che «la ri­surrezione di Gesù va al di là della storia, ma ha lasciato una sua impronta nella storia. Per questo può essere attestata da testimoni come un evento di una qualità tutta nuova. Solo un avvenimento vero di qualità radicalmente nuova poteva ren­dere possibile la predicazione apostoli­ca, non spiegabile con speculazioni o e­sperienze interiori mistiche. Essa vive nella sua audacia e novità dell’impeto di un accadimento che nessuno aveva in­ventato e che faceva saltare ogni imma­ginazione ». Le copie del libro disponibili, alla fine del­la presentazione sono andate esaurite, in mano a centinaia di lettori, tra cui mol­tissimi giovani. È soprattutto a questi ultimi che è stata indirizzata la provocazione di don Stefa­no Alberto, voce dal grande seguito nel movimento di Comunione e liberazione. «Fate un test. Andate nelle chiese e chie­dete: Dio è risorto?», ha esordito ieri se­ra il sacerdote, a partire da alcuni testi del fondatore di Cl, don Luigi Giussani. «Il Papa ci ricorda – ha aggiunto don Alber­to – che all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica bensì l’incontro con un avvenimento che dà alla vita un nuovo orizzonte».

A un non cattolico, la possibilità di testi­moniare l’effetto dell’«indicazione della fede personale» di Benedetto XVI: «Sono convinto che con il secondo volume – ha concluso Riesner – il Papa sia riuscito a realizzare quello che nella premessa in­dica come suo desiderio. A lui è stato ef­fettivamente “dato di avvicinarsi alla fi­gura di Nostro Signore in un modo che possa essere utile a tutti i lettori che vo­gliono incontrare Gesù e crederGli”».