Nella rassegna stampa di oggi:
1) MEDICINA/ La plastica senza bisturi che migliora la pelle - INT. Antonino Di Pietro - venerdì 4 marzo 2011 – il sussidiario.net
2) «Quando non c'è più nulla da fare, noi rendiamo la vita più intensa» di Raffaella Frullone, 07-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
3) Il Papa ricorda il sacrificio del ministro pakistano di Andrea Tornielli, 07-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
4) Pastorale omosex? Senza tacere la verità di Marco Invernizzi, 04-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
5) Le lesbiche accusano un'insegnante cattolica di Guido Villa, 04-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
6) «Catechesi permanente su famiglia e vita» di Massimo Introvigne, 04-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
7) FINEVITA/ Nathanson: io, "padre" dell'aborto Usa, oggi dico che va contro la nostra libertà – Redazione - lunedì 7 marzo 2011, il sussidiario.net
8) Oltre il decadimento di Pigi Colognesi, lunedì 7 marzo 2011, il sussidiario.net
9) Avvenire.it, 4 marzo 2011, L'INTERVISTA - Credenti e no, un'unica legge di Andrea Galli
MEDICINA/ La plastica senza bisturi che migliora la pelle - INT. Antonino Di Pietro - venerdì 4 marzo 2011 – il sussidiario.net
Quando sentiamo parlare di dermatologia plastica pensiamo subito a un intervento chirurgico, a un’incisione, al lifting. “Ma plastica in medicina vuol dire plasmare, migliorare il corpo; in questo caso, la cute”, dice Antonino Di Pietro, Professore in Dermatologia Plastica all’Università di Pavia, fondatore e Presidente dell’Isplad (International Society of Plastic-Regenerative and Oncologic Dermatology).
Certo, fino a poco tempo fa la possibilità di plasmare il corpo era legata unicamente al bisturi: ecco perché negli anni Sessanta è nata la “chirurgia plastica”. Le cose però sono cambiate nel 1999 quando un gruppo di dermatologi italiani, capeggiati da Di Pietro, ha inaugurato una nuova disciplina: la dermatologia plastica, che utilizza metodi alternativi per migliorare la pelle senza ricorrere alla chirurgia, senza incidere o tagliare. Sulle potenzialità e gli avanzamenti in questo campo si confronteranno a Roma da oggi al 6 marzo esperti di tutto il mondo nel 2° Meeting Internazionale dell’Isplad dal titolo “High Technology in Dermatology”. Ilsussidiario.net ne ha parlato con Antonino Di Pietro.
Nella lotta all’invecchiamento cutaneo la vostra prospettiva è diversa da quella che punta agli aspetti puramente estetici e agli interventi invasivi sulla pelle?
È totalmente diversa. Noi non riteniamo importante riempire le rughe, ma piuttosto curare la pelle per farla restare giovane. L’approccio della dermatologia plastica ha come obiettivo quello di rigenerare i tessuti, senza riempire o trasformare un volto: siamo per una bellezza sana, autentica. Una pelle sana è più distesa, più elastica, più tonica e dà quindi quell’aspetto piacevole, come al ritorno da una bella vacanza. Non siamo per le facce rifatte, ma per la vitalità dei tessuti. E per questo mettiamo in atto tutte quelle terapie che possono contribuire alla rigenerazione tissutale.
Quali sono queste terapie?
Anzitutto quelle nutrizionali. Riteniamo importante l’alimentazione e anche gli integratori, che vanno molto rivalutati. Dare all’organismo vitamine, aminoacidi, enzimi, sali minerali contribuisce a mantenere vitali le cellule, a migliorarne il metabolismo e quindi a produrre più collagene, più elastina e di conseguenza ad avere una pelle più giovane. Tra le sostanze su cui puntiamo c’è il licopene, un derivato dai semi di pomodoro che appartiene al gruppo della vitamina A e migliora il ricambio cellulare. Ci sono i flavonoidi, derivati dai frutti di bosco, che migliorano la microcircolazione e quindi fanno arrivare più ossigeno alle cellule e frenano l’avanzata dei capillari. Ci sono poi tutte le altre vitamine: E, F, C.
Qual è allora il compito del dermatologo plastico?
È quello di capire quali sono i bisogni specifici della pelle e indicare al paziente la corretta alimentazione per frenare l’invecchiamento, consigliando gli integratori più adatti. C’è poi anche il supporto della dermocosmesi, che non è più solo uno strumento di bellezza, ma offre delle vere e proprie cure della pelle. Tra le più recenti applicazioni posso citare quelle che sfruttano i fosfolipidi, che ristrutturano le membrane cellulari riparandone i danni causati da vari agenti esterni (Sole, ultravioletti, ecc.). Importante è anche la glocosamina, precursore dell’acido ialuronico e del collagene: farla arrivare in profondità significa poter produrre nuovo acido ialuronico e nuovo collagene proprio, endogeno, senza apporti esterni. Si parla anche del delta-lattone: i lattoni sono sostanze vegetali (quelle tra l’altro che danno lo specifico odore a molti vegetali) importanti nel ricompattare le cellule superficiali, migliorando lo strato corneo superficiale della cute e quindi prevenendo la disidratazione.
Anche in dermatologia si può quindi parlare di “medicina personalizzata”?
È proprio uno dei temi che affronteremo nel congresso che inizia oggi. C’è ormai la possibilità di fare una diagnosi più precisa circa i fabbisogni della pelle. Ciò si ottiene sia sfruttando la genomica, cioè lo studio dei nostri geni che adesso si può eseguire semplicemente prelevando un po’ di mucosa orale con un batuffolo di cotone e cercando, con adeguata strumentazione, le predisposizioni della pelle a invecchiare precocemente. Una seconda promettente metodologia è la lipidomica, che parte dal prelievo di una goccia di sangue per studiare le parete dei globuli rossi e valutare eventuali alterazioni delle membrane cellulari; si può così capire se c’è una carenza di determinate sostanze, come ad esempio gli omega 3 o gli omega 6. Quindi il dermatologo plastico può abbinare alla sua esperienza tutta una serie di indagini diagnostiche molto accurate.
Sembra di capire che il vostro è un approccio più medico e meno estetico…
Sì. Noi ci differenziamo dalla chirurgia plastica, ma anche dalla medicina estetica. Consideriamo riduttivo e fuorviante parlare di estetica, anche perché riteniamo che il medico non debba pensare all’estetica, bensì alla salute. Se poi riesce anche a ottenere un buon risultato estetico, questo po’ essere solo una conseguenza, ma non l’obiettivo. Tante facce rovinate che si vedono in giro, piene di silicone e di metacrilati che non si riassorbono più, sono l’esito di una preoccupazione per l’estetica e non per la salute; si pensa solo a riempire quelle rughe senza considerare che quelle sostanze possono essere tossiche per l’organismo.
Cosa si aspetta da questo Meeting?
Questo Meeting è un appuntamento biennale con lo scopo di fare il punto sulla dermatologia plastica a partire da ciò che la ricerca, ai massimi livelli, sta producendo; anche dal punto di vista degli strumenti messi a disposizione del dermatologo. Parleremo quindi di sostanze come l’acido ialuronico, una sostanza naturale particolarmente stimolante e nutriente per le cellule; dei nuovi dermocosmetici, degli integratori e dei nuovi strumenti diagnostici. Approfondiremo anche le ultime novità nel campo dei laser, della radiofrequenza, della luce pulsata: tutti strumenti che noi utilizziamo, sempre nell’ottica essenzialmente curativa di cui si è detto.
(a cura di Mario Gargantini)
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«Quando non c'è più nulla da fare, noi rendiamo la vita più intensa» di Raffaella Frullone, 07-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
«Inguaribile non significa incurabile. Un paziente che non può guarire ancora di più ha bisogno di essere curato, anzi, quando non rimane più nulla da fare è lì che bisogna fare il lavoro più grosso, che non solo allevi il dolore del paziente, ma che prenda per mano e accompagni la persona nel cammino più difficile della propria vita». Sono le parole del dottor Marco Maltoni. Forlivese, 53 anni, sposato con tre figli, è specializzato in oncologia ma oggi dirige l'Unità Cure Palliative del Dipartimento Oncologico dell'AUSL di Forlì.
Dottore quale è il Suo lavoro di ogni giorno?
Dirigo la rete delle cure palliative dell’azienda di Forlì quindi lavoro in due Hospice che sono di fatto due strutture dedicate alla cura dei pazienti, oncologici e non solo, che sono in una fase avanzata della malattia e si trovano in una condizione di inguaribilità. Noi pratichiamo le cosiddette cure palliative ossia tutte quelle terapie che non concorrono di fatto alla guarigione ma alleviano dolori e sofferenza agendo sui sintomi ma soprattutto ci prendiamo cura in modo completo del paziente. Quando non rimane più nulla da fare dal punto di vista medico, ecco che per noi inizia un grande lavoro…
Come ci si prende cura di chi sta attraversando l’ultimo scorcio di vita, per giunta nel dolore?
Accogliendo la persona. Non si tratta solo di intervenire sui sintomi e alleviare il dolore, ma prendersi cura dell’organismo, sostenere la persona anche all’interno delle relazioni familiari. Noi ci prendiamo cura dell’intero mondo che gravita attorno ai pazienti, per questo sono convinto che le cure palliative dovrebbero essere parte integrante di diversi settori della medicina, non solo parte della fase terminale delle malattie gravi.
Quando si sente la parola Hospice ci si immagina spesso un luogo silenzioso, magari nella penombra, dove il protagonista è indiscusso è il dolore che precede la morte…
L’Hospice moderno nasce dall’intuizione dell'infermiera britannica Dame Cicely Saunders che descrive l’Hospice come “luogo di vita”. Certo che il dolore c’è, ma proprio perché noi lo affrontiamo il nostro reparto diventa un luogo dove la vita anzi, viene vissuta nella sua forma più intensa. Mi vengono in mente le vicende di due coppie. La prima è quella di Matteo e Maura. Maura è arrivata da noi in coma, il marito era distrutto. Una volta sistemata nella stanza sono arrivate le infermiere che, come sempre, hanno salutato Maura sorridendo, le hanno parlato e mentre la cambiavano e la accudivano spiegavano cosa facevano, si scusavano per i movimenti bruschi, Matteo è rimasto stupefatto, lui non aveva più parlato alla moglie da quando era in coma, da allora ha ricominciato a farlo con la naturalezza che aveva sempre avuto. Poi c’è la storia di Manuel e Daniela, che si sono sposati nel nostro reparto, prima che lei morisse, una storia che abbiamo vissuto tutti quanti e che ci ha commosso tantissimo. Manuel prima di andarsene mi disse “Dottore, lei non ci crederà ma qui dentro abbiamo passato i nostri giorni più belli”. Ecco, accompagnare i pazienti e i loro familiari significa anche questo, lavorare sulle loro relazioni, la sofferenza spesso lascia emergere un’incredibile capacità di accogliere.
Che cosa risponde a chi dice che non ha senso curare, se non si può guarire…
Be’ innanzitutto dico che allora dovremmo lasciar perdere tutte le malattie moderne, specie quelle croniche. Poi dico che l’essenza della medicina è proprio il prendersi cura, dimenticarlo, o addirittura censurarlo significa snaturare la figura del medico e privare la terapia della parte di relazione, che invece è una componente fondamentale. Io lo vedo nel lavoro di ogni giorno, ma ci sono studi scientifici che raccontano di come spesso la qualità delle relazioni dei pazienti nella fase finale della vita sia notevolmente più intensa di come fosse prima della malattia.
Questo però non cancella la paura di fronte alla morte…
Certo che no. Tutto si gioca all’interno di due estremi: c’è il paziente che comunque vorrebbe posticipare il momento della morte il più a lungo possibile, c’è chi invece vorrebbe che quel momento giungesse velocemente. Sta a noi rispondere nel modo giusto a questi desideri. In ogni caso noi li aiutiamo a non scappare dalla paura e dal dolore.
Quando ha deciso di fare il medico avrebbe mai immaginato di trovarsi a lavorare con questi pazienti?
No, io ero un semplice oncologo, lottavo contro i tumori, lavoravo con i farmaci. La vita mi ha colto di sorpresa con un percorso diverso, che è stato la mia fortuna e la mia salvezza perché mi ha arricchito come medico e come persona. Essere in contatto con situazioni estreme e insieme così intensamente vive mi ha portato ad una presa di coscienza della vita e della professione che altrimenti non avrei avuto.
Se dovesse dire quale è la terapia essenziale per i suoi pazienti?
Nel “Quaderno delle Testimonianze” collocato nel salotto dell’Hospice, alcune frasi di pazienti e familiari rispondono a questa domanda: “di fronte al dolore altrui, qui nessuno è fuggito”; “siamo stati aiutati ad avere meno paura”; “sono state curate le ferite visibili e quelle invisibili”; “questo è stato difendere la vita e generare speranza”; “Giovanna mi ha lavato i capelli, Rubens mi ha fatto la barba”; “si può dimenticare il degrado del proprio corpo se lo sguardo altrui è carico di tenerezza”. Tornano alla mente le parole di Benedetto XVI “Lo sguardo che liberamente accetto di volgere all’altro decide della mia stessa dignità”.
Il Papa ricorda il sacrificio del ministro pakistano di Andrea Tornielli, 07-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Il Papa ha ricordato all’Angelus di domenica il sacrificio del ministro pakistano Shahbaz Bhatti, ucciso lo scorso mercoledì dai fondamentalisti islamici. Benedetto XVI, che aveva ricevuto Bhatti in udienza nei mesi scorsi, ha auspicato che la sua morte risvegli nelle coscienze l’impegno a tutelare la libertà religiosa. E ha parlato anche della Libia sconvolta dagli scontri armati, assicurando la sua vicinanza alla popolazione.
«Chiedo al Signore Gesù che il commovente sacrificio della vita del ministro pakistano Shahbaz Bhatti svegli nelle coscienze il coraggio e l’impegno a tutelare la libertà religiosa di tutti gli uomini e, in tal modo, a promuovere la loro uguale dignità», ha detto il Pontefice. «Il mio accorato pensiero – ha aggiunto Benedetto XVI - si dirige poi alla Libia, dove i recenti scontri hanno provocato numerose morti e una crescente crisi umanitaria. A tutte le vittime e a coloro che si trovano in situazioni angosciose assicuro la mia preghiera e la mia vicinanza, mentre invoco assistenza e soccorso per le popolazioni colpite».
Prima del ricorso del ministro pakistano assassinato e della situazione libica, Ratzinger aveva commentato il Vangelo della domenica, nel quale è narrata la parabola delle due case, una costruita sulla roccia e l’altra sulla sabbia: «In ogni epoca e in ogni luogo, chi ha la grazia di conoscere Gesù, specialmente attraverso la lettura del santo Vangelo, ne rimane affascinato, riconoscendo che nella sua predicazione, nei suoi gesti, nella sua persona Egli ci rivela il vero volto di Dio, e al tempo stesso rivela noi a noi stessi, ci fa sentire la gioia di essere figli del Padre che è nei cieli, indicandoci la base solida su cui edificare la nostra vita».
Spesso però, ha osservato il Papa, «l’uomo non costruisce il suo agire, la sua esistenza, su questa identità, e preferisce le sabbie delle ideologie, del potere, del successo e del denaro». Lo fa, ha spiegato, «pensando di trovarvi stabilità e la risposta alla insopprimibile domanda di felicità e di pienezza che porta nella propria anima». «E noi – ha chiesto Benedetto XVI - su che cosa vogliamo costruire la nostra vita? Chi può rispondere veramente all’inquietudine del cuore umano? Cristo è la roccia della nostra vita! Egli è la Parola eterna e definitiva che non fa temere ogni sorta di avversità, ogni difficoltà, ogni disagio».
Pastorale omosex? Senza tacere la verità di Marco Invernizzi, 04-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Sul Corriere della Sera del 26 febbraio si annuncia che l’esperienza del gruppo Alle querce di Mamre è stata fatta propria anche dalla diocesi di Crema, dopo quella di Cremona. Questo gruppo viene riconosciuto ad experimentum nella diocesi di Cremona nel 2007 ed è costituito da omosessuali credenti. Osservando il sito del gruppo si legge questa autopresentazione: «Nostra convinzione è che anche tra due persone dello stesso sesso sia possibile costruire un rapporto basato sul dono di sé e su una reciprocità responsabile che permetta di vivere in maniera pienamente cristiana la propria affettività».
Il linguaggio è un po’ criptico ma esprime un’idea che si sta diffondendo, purtroppo anche all’interno del mondo cattolico, e che mette in discussione l’unicità del progetto di Dio sull’amore umano attraverso l’unione di un uomo e di una donna. Sono veramente convinti, nel gruppo Alle querce di Mamre, che due uomini o due donne possano egualmente costruire una relazione affettiva pienamente cristiana, come quella che fonda il matrimonio?
E ancora: quale deve essere il corretto rapporto fra l’aiuto e l’accompagnamento che si deve comunque a una persona con un orientamento omosessuale e il fatto che ogni uomo abbia una natura sessuale definita, espressa nella frase della Scrittura “maschio e femmina li creò”?
Sarebbe normale chiedere una risposta al Magistero della Chiesa, trattandosi di un gruppo riconosciuto dal vescovo, anche se ad experimentum, e nel sito del gruppo il Magistero viene riconosciuto come fondamentale, tanto che «il gruppo si impegna a conoscerlo ed approfondirlo, sebbene non si limiti ad esso».
Tuttavia sorge il dubbio se il Magistero sia stato effettivamente tenuto in considerazione, oppure se si è andati un po’ troppo in là nel “non limitarsi ad esso”.
Infatti, nella Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali del 1° ottobre 1986, ripresa ancora il 23 luglio 1992 in un altro documento, la Congregazione per la dottrina della fede scrive che «la tendenza omosessuale è un disordine oggettivo (cfr. Lettera, n. 3)». Proprio per questo gli omosessuali, e in generale le persone che hanno problemi di identità sessuale, vanno seguiti con una attenzione maggiore. Ma senza dimenticare quanto denuncia la stessa Lettera della Congregazione, quando invita a riflettere sul fatto che è in corso, da decenni ormai, il tentativo di coinvolgere gli uomini di Chiesa nel cambiamento delle legislazioni civili, per affermare che l’«omosessualità è almeno una realtà perfettamente innocua, se non totalmente buona. Benché la pratica dell’omosessualità stia minacciando seriamente la vita e il benessere di un gran numero di persone».
Non solo, ma la stessa Lettera della Congregazione indica ai responsabili delle diocesi quali atteggiamenti pastorali tenere di fronte al problema: la citazione è lunga, ma merita di essere letta completamente perché sostiene il contrario di quanto si sta praticando in molte diocesi. «Questa Congregazione incoraggia pertanto i Vescovi a promuovere, nella loro diocesi, una pastorale verso le persone omosessuali in pieno accordo con l'insegnamento della Chiesa. Nessun programma pastorale autentico potrà includere organizzazioni, nelle quali persone omosessuali si associno tra loro, senza che sia chiaramente stabilito che l'attività omosessuale è immorale. Un atteggiamento veramente pastorale comprenderà la necessità di evitare alle persone omosessuali le occasioni prossime di peccato».
«Vanno incoraggiati quei programmi in cui questi pericoli sono evitati. Ma occorre chiarire bene che ogni allontanamento dall'insegnamento della Chiesa, o il silenzio su di esso, nella preoccupazione di offrire una cura pastorale, non è forma né di autentica attenzione né di valida pastorale. Solo ciò che è vero può ultimamente essere anche pastorale. Quando non si tiene presente la posizione della Chiesa si impedisce che uomini e donne omosessuali ricevano quella cura, di cui hanno bisogno e diritto».
«Un programma pastorale autentico aiuterà le persone omosessuali a tutti i livelli della loro vita spirituale, mediante i sacramenti e in particolare la frequente e sincera confessione sacramentale, mediante la preghiera, la testimonianza, il consiglio e l'aiuto individuale. In tal modo, l'intera comunità cristiana può giungere a riconoscere la sua vocazione ad assistere questi suoi fratelli e queste sue sorelle, evitando loro sia la delusione sia l'isolamento».
Naturalmente l’insegnamento della Chiesa serve a impostare la risposta, ma il problema rimane. Vi sono persone, giovani soprattutto, con tendenze omosessuali indesiderate, vittime dello sfascio della famiglia, dell’assenza del padre soprattutto, come attestano diversi studiosi. Il numero di queste persone aumenta e aumenta anche il numero di chi, fra loro, si rivolge ad ambienti cattolici per ottenere aiuto, spesso ottenendo risposte evasive o peggio false, come se la loro condizione non presentasse dei problemi. Queste persone non potranno essere veramente aiutate tacendo loro la verità sull’uomo: andranno aiutate a ricordare l’amore di Dio nei loro confronti e bisognerà mostrare loro la massima solidarietà. Ma non a prezzo della verità. Sarebbe la peggior cosa che si potrebbe fare.
Le lesbiche accusano un'insegnante cattolica di Guido Villa, 04-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Accade nella “cattolica” Croazia, a tre mesi esatti dalla visita pastorale di papa Benedetto XVI, che per la prima volta nella storia del sistema giudiziario di questo Paese un’associazione di lesbiche, chiamata “Kontra”, ha presentato una denuncia per una presunta violazione della cosiddetta “Legge contro la discriminazione”.
L’imputata si chiama Jelena Mudrovcic, insegnante di catechismo cattolico presso la scuola elementare “Bartol Kaši?” di Zagabria (va ricordato che in Croazia la materia di insegnamento religioso, curata e organizzata dalle varie confessioni religiose, si chiama appunto “Catechismo”, e per i cattolici la mancata frequenza di tali lezioni determina automaticamente l’esclusione dai sacramenti dell'iniziazione cristiana). La denuncia contro l'insegnante è motivata dal fatto che essa nel 2009 avrebbe affermato, durante una lezione di Catechismo, che “l'omosessualità è una malattia“. In seguito un alunno, che del resto non frequentava le lezioni di catechismo, e che quindi non era presente in aula al momento del fatto, ha riferito il tutto a sua madre, la quale a sua volta si è rivolta all'associazione “Kontra” che con una denuncia contro l'insegnante ha avviato il procedimento sulla base della Legge contro la discriminazione.
La situazione è assai delicata, in quando le associazioni omosessuali in Croazia, seppur rappresentanti di una tendenza fortemente minoritaria, sono molto rumorose nella difesa dei loro “diritti”, e a quanto pare, ci riescono molto bene. Su loro iniziativa il Parlamento croato ha approvato questa legge, nella quale tra l’altro è presente, al posto del principio giuridico che l'imputato è innocente fino a prova contraria, l’affermazione che esso deve dimostrare la propria innocenza, così che il peso della dimostrazione della prova non ricade sull'accusa, ma sulla difesa. Assurda è la situazione che l'insegnante debba dimostrare la propria innocenza di fronte ad accuse avanzate da un testimone non presente in aula al momento del fatto che le viene contestato, e ancor di più che l'associazione di lesbiche abbia diritto ad addurre la deposizione di propri testimoni.
L'insegnante si difende negando di avere pronunciato l'affermazione oggetto della denuncia, e sottolinea di avere svolto la propria esposizione sulla questione dell'omosessualità sulla base dei contenuti del programma per insegnanti di catechismo approvato dal Ministero della scienza e dell'istruzione. Il fatto più grave tuttavia è che essa è stata lasciata sola nell'affrontare questa lotta, poiché le istituzioni ecclesiali preposte all'organizzazione della lezione di religione sono rimaste in silenzio e non hanno mosso un dito in sua difesa.
«Catechesi permanente su famiglia e vita» di Massimo Introvigne, 04-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Benedetto XVI ha ricevuto il 3 marzo il terzo gruppo di vescovi della Conferenza Episcopale delle Filippine (Settore centrale e sud) che vengono quest'anno a Roma per la visita «ad limina Apostolorum». Il Settore centrale e sud delle Filippine comprende la provincia di Mindanao, caratterizzata dalla forte presenza del fondamentalismo islamico, con gravi episodi anche di terrorismo.
Ai vescovi di questo difficile territorio il Papa ha ricordato l'importanza della catechesi, rivolta sia ai cristiani sia ai non cristiani. Nel suo discorso Benedetto XVI ha sottolineato in particolare tre punti: la necessità che la catechesi comprenda i principi della morale familiare; il fatto che anche i sacerdoti sono destinatari della catechesi; e la dimensione di catechesi che dev'essere presente anche nel dialogo con i musulmani.
Ai cattolici, ha detto il Papa, dev'essere proposta una «formazione catechetica permanente». «La profonda pietà personale del vostro popolo deve essere alimentata e sostenuta da una comprensione profonda e dall’apprezzamento per gli insegnamenti della Chiesa in materia di fede e di morale».
Questa catechesi, ha detto il Papa, deve comprendere obbligatoriamente un'insistenza sul ruolo della famiglia, «con particolare attenzione ai genitori nel loro ruolo di primi educatori dei figli nella fede». «Quest’opera - ha detto il Papa ai vescovi filippini - è già evidente nel sostegno che offrite alla famiglia di fronte a influenze che potrebbero diminuirne o distruggerne i diritti e l’integrità». La catechesi non può limitarsi ai principi della fede, pure essenziali, ma deve estenderei alla morale e in particolare ai principi non negoziabili in materia di vita e di famiglia.
Destinatari della catechesi sono anche i sacerdoti. I vescovi, ha affermato il Pontefice, hanno «il dovere particolare» di conoscerli bene e di «guidarli con sincera premura, mentre i sacerdoti devono essere sempre preparati a svolgere con umiltà e fedeltà i compiti loro affidati». I nuovi sacerdoti, quelli anziani, quelli in difficoltà sono destinatari speciali di questa catechesi, che i vescovi hanno il dovere di proporre tramite incontri periodici regolari.
Anche il dialogo con i fedeli di altre religioni, «in particolare nelle aree meridionali del vostro Paese», cioè a Mindanao - ha detto il Papa -, è a suo modo una forma di catechesi, in cui è necessario anzitutto che «la Chiesa proclami senza posa che Cristo è la via, la verità e la vita». Nello stesso tempo la Chiesa Cattolica «rispetta tutto ciò che è vero e buono nelle altre religioni, e cerca, con prudenza e carità, di instaurare un dialogo onesto e amichevole, con i seguaci di quelle religioni, laddove è possibile».
Come in altre occasioni, Benedetto XVI ha indicato come obiettivo realistico del dialogo interreligioso con i musulmani non un impossibile consenso teologico ma la convivenza pacifica sulla base dei principi della ragione e del diritto naturale. Scopo del dialogo, ha detto il Papa ai vescovi di una regione dove i cristiani sono spesso vittima di violenze, è avviare un non facile «cammino verso la pace autentica e duratura con il vostro prossimo».
INEVITA/ Nathanson: io, "padre" dell'aborto Usa, oggi dico che va contro la nostra libertà
Redazione
lunedì 7 marzo 2011
Il dottor Bernard Nathanson, famoso ginecologo di New York, può essere considerato tra i padri della legge che liberalizzò l’aborto negli Stati Uniti. Nel 1968 partecipò alla fondazione del National Abortion Rights Action League, in sostegno del diritto alla “libertà e privacy”. Diresse il Centro di Igiene Riproduttiva e Sessuale di New York, una delle cliniche più grandi nel mondo per la pratica dell’aborto, e contribuì al perfezionamento delle tecniche di aborto e alla diffusione di questa conoscenza in campo medico.
Nel 1979, applicando le tecniche ecografiche durante un intervento, rimase profondamente sconvolto dall’orrenda realtà dell’aborto. Da allora, Nathanson non praticò più aborti e divenne un testimone della battaglia per la vita, partecipando a conferenze in tutto il mondo, e attraverso la pubblicazione di libri su questo soggetto. Il grande pubblico lo conosce per un film, crudo e sconvolgente, dal titolo The Silent Scream, la registrazione dell’aborto di un feto di 11 settimane dopo il concepimento. Il dottor Nathanson era un ebreo non praticante, ma si convertì al cattolicesimo e ricevette il battesimo nel 1996 dalle mani del Cardinale John O’Connor. La sua autobiografia, La Mano di Dio, racconta il suo viaggio dalla morte alla vita.
In questa intervista, realizzata qualche tempo prima della sua morte avvenuta il 21 febbraio scorso, ci ha spiegato perché, dopo aver effettuato più di 75mila aborti, decise di difendere la vita dal concepimento. Lo incontrammo nel suo appartamento a Manhattan, nell’Upper West Side. Aveva l’aspetto di un uomo anziano, in pace, con gli occhi pieni di meraviglia e curiosità. Mentre parlava dolcemente, quasi sussurando, noi potevamo sentire il peso delle sue parole, e apprezzare il suo sforzo di comunicare con noi.
Abbiamo letto nel suo libro (The Hand of God, Regnery Publishing, Inc., 1996) del suo radicale cambiamento e ne siamo rimasti affascinati. Ci può dire qualcosa di come è avvenuto questo cambiamento?
Non è stata un’epifania. È stato un processo molto lento. È successo nel giro di diversi anni e mi ha richiesto uno sforzo significativo in termini di pensiero e di sentimento e tale processo non si è ancora concluso. Devo ancora lavorarci su. Questo processo è infinito, non ha fine. L’inizio è diverso per ciascuno di noi, ma alla fine tutte le strade ci portano all’unica meta - almeno noi ci tentiamo.
Cos’è la verità per lei?
Non sempre ho cercato la verità. L’ho fatto solo nell’ultima parte della mia vita. Ho vissuto la prima metà di essa sotto l’influsso di motivi edonistici. Poi ho cambiato. La filosofia è la ricerca della verità, ma la verità giace al fondo di un abisso senza fondo. Sembrerebbe che la verità non è assoluta, come se ci fosse “la mia verità e la tua verità”. Ma c’è tuttavia una verità profonda ed eterna: la vita stessa.
Lei direbbe che il fatto che ogni essere umano è destinato ad amare e ad essere amato è una verità universale?
Sì, questo è certamente universale. Noi siamo mancanti come esseri umani, il nostro modo di sentire e pensare la realtà è difettoso. E potrebbe anche succedere che arriviamo al punto di annientarci prima di riuscire ad amarci gli uni gli altri.
Lei pensa che la discussione sull’aborto o su altre questioni relative al rispetto per la vita possano essere affrontate adeguatamente con un giudizio che viene esclusivamente dal punto di vista della ragione, senza tirare in ballo la religione?
Dobbiamo stare attenti a questo riguardo. Fino a cinque anni fa riuscivo a viaggiare e ho viaggiato tanto - Australia, Nuova Zelanda, Francia, Inghilterra e tanti altri posti. Dovunque sono andato ho voluto sottolineare che parlare dell’aborto è un argomento limitato per chi è interessato veramente alla vita in tutti i suoi aspetti. L’aborto è sbagliato, ovviamente, ma dobbiamo anche concentrarci su altri campi che sono nella penombra dell’aborto, come la clonazione, l’eutanasia, la fertilizzazione in vitro o il trapianto di tessuti. Tutte queste cose devono trovare delle risposte nel contesto del rispetto della vita. Ho realizzato due filmati. Il primo si chiamava The silent scream. Era scioccante. Se cerchi di dimostrare che l’aborto è una cosa sbagliata, questo filmato è perfetto. Vedi il feto strappato pezzo a pezzo dall’aspiratore. Quando l’ho fatto non avevo bisogno di convincermi che l’aborto era una cosa sbagliata, ma riconosco che era scioccante. Ho chiesto alla persona che ha inventato la metodica degli ultrasuoni di validare questo filmato perché un gruppo chiamato “Planned Parenthood” sosteneva che avevo manipolato le immagini. Ho anche risposto loro che potevano girare un filmato loro stessi per conferma, se avessero voluto. Ma non l’hanno mai fatto perché sapevano quello che si sarebbe visto. Il secondo filmato fu The eclipse of reason. Era un filmato di un aborto, ma questa volta ripreso col fetoscopio. Era un aborto fatto a 19 settimane di età gestazionale. Era terribile, ma le immagini erano molto potenti. L’aborto ha così tanto a che fare con la moralità e con la persona di Cristo che è difficile parlarne senza tirare in ballo la religione.
Molta gente dice che la Chiesa, in quanto entità religiosa che afferma l’esistenza di Dio, sarebbe contraria alla ragione, alla scienza e al progresso. Cosa dice lei al riguardo?
La Chiesa Cattolica ostacolerebbe un progresso che non è affatto un progresso! Progresso è la capacità degli esseri umani di amarsi l’un l’altro. La libertà è l’ambiente in cui noi possiamo imparare ad amarci gli uni gli altri. Senza libertà non c’è amore. Poi il progresso non è necessariamente misurato in dollari o in qualche altra unità di misura. Il progresso morale è un fenomeno statico. Se vogliamo aderire a una verità centrale e costruire intorno a essa, tale costruzione sarà più eterna di quella che potremmo ottenere spingendo una chiave di volta in qualsiasi direzione vogliamo. Il divorzio facile non è progresso, come del resto l’aborto o la contraccezione. Questo non è progresso. La parola “progresso” deve essere utilizzata con attenzione e parsimonia. Philip Wylie scrisse un libro (The Answer, 1963) dove racconta di una bomba ad idrogeno fatta esplodere senza preavviso in una isoletta del Pacifico. Gli abitanti dell’isola morirono tutti. Quando l’isola fu visitata dopo l’accaduto, trovarono una tavoletta d’oro che portava questa iscrizione “amatevi gli uni gli altri”. La dignità non è una cosa che si può perdere o guadagnare. Non puoi perderla.
Dottor Nathanson, cos’è la professione medica per lei?
Bisogna praticare la medicina con amore. I soldi sono importanti. Le assicurazioni per “malpractice”, soprattutto per certe categorie di medici come gli ostetrici-ginecologi, possono costare fino a 150 mila dollari all’anno. Io credo che il modo migliore per imparare a praticare la medicina con amore sia andare per un certo periodo in un Paese del Terzo mondo, per cercare di alleviare le sofferenze della popolazione locale, perché la medicina è fatta di questo, alleviare le sofferenze. A dire la verità soffrire non è una cosa brutta. La sofferenza permette di scolpire il proprio carattere, come uno scultore scolpisce la statua dal blocco di pietra. Non possiamo eliminare la sofferenza coi soldi, le medicine o l’eutanasia. Dobbiamo fare sì che la sofferenza sia sopportabile. Ma non dobbiamo cercare di eliminarla totalmente, perché questo ci porterebbe a ucciderci gli uni con gli altri. Mi ricordo mio padre, era un ostetrico-ginecologo. Da un certo punto di vista era un uomo amabile, da un altro non lo era per niente. Lui era come ognuno di noi: complesso e incompleto. La condizione umana è troppo complessa per una soluzione finale delle nostre difficoltà.
(Elvira Parravicini, Veronica Bushman)
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FINEVITA/ Nathanson: io, "padre" dell'aborto Usa, oggi dico che va contro la nostra libertà – Redazione - lunedì 7 marzo 2011, il sussidiario.net
Il dottor Bernard Nathanson, famoso ginecologo di New York, può essere considerato tra i padri della legge che liberalizzò l’aborto negli Stati Uniti. Nel 1968 partecipò alla fondazione del National Abortion Rights Action League, in sostegno del diritto alla “libertà e privacy”. Diresse il Centro di Igiene Riproduttiva e Sessuale di New York, una delle cliniche più grandi nel mondo per la pratica dell’aborto, e contribuì al perfezionamento delle tecniche di aborto e alla diffusione di questa conoscenza in campo medico.
Nel 1979, applicando le tecniche ecografiche durante un intervento, rimase profondamente sconvolto dall’orrenda realtà dell’aborto. Da allora, Nathanson non praticò più aborti e divenne un testimone della battaglia per la vita, partecipando a conferenze in tutto il mondo, e attraverso la pubblicazione di libri su questo soggetto. Il grande pubblico lo conosce per un film, crudo e sconvolgente, dal titolo The Silent Scream, la registrazione dell’aborto di un feto di 11 settimane dopo il concepimento. Il dottor Nathanson era un ebreo non praticante, ma si convertì al cattolicesimo e ricevette il battesimo nel 1996 dalle mani del Cardinale John O’Connor. La sua autobiografia, La Mano di Dio, racconta il suo viaggio dalla morte alla vita.
In questa intervista, realizzata qualche tempo prima della sua morte avvenuta il 21 febbraio scorso, ci ha spiegato perché, dopo aver effettuato più di 75mila aborti, decise di difendere la vita dal concepimento. Lo incontrammo nel suo appartamento a Manhattan, nell’Upper West Side. Aveva l’aspetto di un uomo anziano, in pace, con gli occhi pieni di meraviglia e curiosità. Mentre parlava dolcemente, quasi sussurando, noi potevamo sentire il peso delle sue parole, e apprezzare il suo sforzo di comunicare con noi.
Abbiamo letto nel suo libro (The Hand of God, Regnery Publishing, Inc., 1996) del suo radicale cambiamento e ne siamo rimasti affascinati. Ci può dire qualcosa di come è avvenuto questo cambiamento?
Non è stata un’epifania. È stato un processo molto lento. È successo nel giro di diversi anni e mi ha richiesto uno sforzo significativo in termini di pensiero e di sentimento e tale processo non si è ancora concluso. Devo ancora lavorarci su. Questo processo è infinito, non ha fine. L’inizio è diverso per ciascuno di noi, ma alla fine tutte le strade ci portano all’unica meta - almeno noi ci tentiamo.
Cos’è la verità per lei?
Non sempre ho cercato la verità. L’ho fatto solo nell’ultima parte della mia vita. Ho vissuto la prima metà di essa sotto l’influsso di motivi edonistici. Poi ho cambiato. La filosofia è la ricerca della verità, ma la verità giace al fondo di un abisso senza fondo. Sembrerebbe che la verità non è assoluta, come se ci fosse “la mia verità e la tua verità”. Ma c’è tuttavia una verità profonda ed eterna: la vita stessa.
Lei direbbe che il fatto che ogni essere umano è destinato ad amare e ad essere amato è una verità universale?
Sì, questo è certamente universale. Noi siamo mancanti come esseri umani, il nostro modo di sentire e pensare la realtà è difettoso. E potrebbe anche succedere che arriviamo al punto di annientarci prima di riuscire ad amarci gli uni gli altri.
Lei pensa che la discussione sull’aborto o su altre questioni relative al rispetto per la vita possano essere affrontate adeguatamente con un giudizio che viene esclusivamente dal punto di vista della ragione, senza tirare in ballo la religione?
Dobbiamo stare attenti a questo riguardo. Fino a cinque anni fa riuscivo a viaggiare e ho viaggiato tanto - Australia, Nuova Zelanda, Francia, Inghilterra e tanti altri posti. Dovunque sono andato ho voluto sottolineare che parlare dell’aborto è un argomento limitato per chi è interessato veramente alla vita in tutti i suoi aspetti. L’aborto è sbagliato, ovviamente, ma dobbiamo anche concentrarci su altri campi che sono nella penombra dell’aborto, come la clonazione, l’eutanasia, la fertilizzazione in vitro o il trapianto di tessuti. Tutte queste cose devono trovare delle risposte nel contesto del rispetto della vita. Ho realizzato due filmati. Il primo si chiamava The silent scream. Era scioccante. Se cerchi di dimostrare che l’aborto è una cosa sbagliata, questo filmato è perfetto. Vedi il feto strappato pezzo a pezzo dall’aspiratore. Quando l’ho fatto non avevo bisogno di convincermi che l’aborto era una cosa sbagliata, ma riconosco che era scioccante. Ho chiesto alla persona che ha inventato la metodica degli ultrasuoni di validare questo filmato perché un gruppo chiamato “Planned Parenthood” sosteneva che avevo manipolato le immagini. Ho anche risposto loro che potevano girare un filmato loro stessi per conferma, se avessero voluto. Ma non l’hanno mai fatto perché sapevano quello che si sarebbe visto. Il secondo filmato fu The eclipse of reason. Era un filmato di un aborto, ma questa volta ripreso col fetoscopio. Era un aborto fatto a 19 settimane di età gestazionale. Era terribile, ma le immagini erano molto potenti. L’aborto ha così tanto a che fare con la moralità e con la persona di Cristo che è difficile parlarne senza tirare in ballo la religione.
Molta gente dice che la Chiesa, in quanto entità religiosa che afferma l’esistenza di Dio, sarebbe contraria alla ragione, alla scienza e al progresso. Cosa dice lei al riguardo?
La Chiesa Cattolica ostacolerebbe un progresso che non è affatto un progresso! Progresso è la capacità degli esseri umani di amarsi l’un l’altro. La libertà è l’ambiente in cui noi possiamo imparare ad amarci gli uni gli altri. Senza libertà non c’è amore. Poi il progresso non è necessariamente misurato in dollari o in qualche altra unità di misura. Il progresso morale è un fenomeno statico. Se vogliamo aderire a una verità centrale e costruire intorno a essa, tale costruzione sarà più eterna di quella che potremmo ottenere spingendo una chiave di volta in qualsiasi direzione vogliamo. Il divorzio facile non è progresso, come del resto l’aborto o la contraccezione. Questo non è progresso. La parola “progresso” deve essere utilizzata con attenzione e parsimonia. Philip Wylie scrisse un libro (The Answer, 1963) dove racconta di una bomba ad idrogeno fatta esplodere senza preavviso in una isoletta del Pacifico. Gli abitanti dell’isola morirono tutti. Quando l’isola fu visitata dopo l’accaduto, trovarono una tavoletta d’oro che portava questa iscrizione “amatevi gli uni gli altri”. La dignità non è una cosa che si può perdere o guadagnare. Non puoi perderla.
Dottor Nathanson, cos’è la professione medica per lei?
Bisogna praticare la medicina con amore. I soldi sono importanti. Le assicurazioni per “malpractice”, soprattutto per certe categorie di medici come gli ostetrici-ginecologi, possono costare fino a 150 mila dollari all’anno. Io credo che il modo migliore per imparare a praticare la medicina con amore sia andare per un certo periodo in un Paese del Terzo mondo, per cercare di alleviare le sofferenze della popolazione locale, perché la medicina è fatta di questo, alleviare le sofferenze. A dire la verità soffrire non è una cosa brutta. La sofferenza permette di scolpire il proprio carattere, come uno scultore scolpisce la statua dal blocco di pietra. Non possiamo eliminare la sofferenza coi soldi, le medicine o l’eutanasia. Dobbiamo fare sì che la sofferenza sia sopportabile. Ma non dobbiamo cercare di eliminarla totalmente, perché questo ci porterebbe a ucciderci gli uni con gli altri. Mi ricordo mio padre, era un ostetrico-ginecologo. Da un certo punto di vista era un uomo amabile, da un altro non lo era per niente. Lui era come ognuno di noi: complesso e incompleto. La condizione umana è troppo complessa per una soluzione finale delle nostre difficoltà.
(Elvira Parravicini, Veronica Bushman)
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Oltre il decadimento di Pigi Colognesi, lunedì 7 marzo 2011, il sussidiario.net
Ol’ga Sedakova è una grande poetessa russa. Recentemente è stata invitata all’importante convegno teologico che il Patriarcato di Mosca organizza ogni due anni. Il tema era il rapporto tra la fede cristiana e “le sfide della contemporaneità”. La Sedakova vi ha svolto una relazione breve e intensissima, che si può trovare per intero sull’ultimo numero della rivista di Russia Cristiana La nuova Europa.
La poetessa pone in esergo la citazione del salmo: «Cos’è mai l’uomo, perché Tu te ne ricordi?». Poi afferma che, se volessimo sintetizzare in un’immagine unitaria la «musica di fondo» con cui l’umanità odierna definisce se stessa, dovremmo usare parole come disfacimento, naufragio, decadenza.
L’arte contemporanea, dice, cerca spasmodicamente di colpire violentemente l’interlocutore, di «traumatizzare». Spiega: «Sembra che l’artista e il suo pubblico in questo mondo non abbiano visto altro che traumi; il trauma si pone, secondo il parere degli psicologi, alle origini stesse del vivere umano: i “trami infantili” determinano tutta la vita successiva».
Si può agevolmente confermare questa lettura pensando ai nostri mezzi di comunicazione. L’esposizione del traumatico, del torbido, del voyeuristico è all’ordine del giorno; le lamentele sulla fine, la decadenza, la barbarie che avanza sono una tiritera stabile. Persino nell’uso della lingua l’approccio traumatico è vincente: pensate a quante volte nei titoli dei giornali si usa la parola “shock”.
La Sedakova dice che questo può essere interpretato come segno della fine della presunzione illuministica, dell’uomo che s’immagina perfetto e padrone indiscusso della natura e della storia. Ma aggiunge che bisogna stare attenti a non livellare tutto verso il basso. Si dice, infatti, che «dobbiamo abbandonare le grandi idee e progetti perché producono grandi carneficine, le religioni perché generano il fanatismo, rinunciare a tutto ciò che ha in sé una forza, perché forza e violenza non si distinguono più».
Dopo l’abbuffata delle ideologie del Ventesimo secolo, l’unica saggezza sarebbe quella di limitare le aspettative. In fondo l’uomo «è un essere traumatizzato», l’unica cosa da fare è «proteggerlo» (ecco tutta l’enfasi sui “diritti”) e «possibilmente non chiedergli niente di straordinario».
Ma, obietta la Sedakva, questa visione «non è affatto realistica». Infatti, se si parla di decadimento, bisogna presupporre che prima «doveva esserci qualcosa che poi è decaduto. Così come ai traumi infantili doveva pur precedere un soggetto non ancora traumatizzato, poiché non si può traumatizzare qualcosa che non esiste. Prima di decadere bisognava pur essere in una qualche posizione, da cui si è caduti in basso».
Cos’è, dunque, l’uomo? Da poetessa, Ol’ga Sedakova, lo spiega citando un antico poema siriaco. Narra di un giovane che si era perduto in terra straniera e degradato fino a dimenticare lo scopo stesso per cui ci era andato. Come il figliol prodigo, il cambiamento avviene quando al ragazzo torna in mente cos’era prima di ogni trauma subito: «Mi ricordai che ero figlio di re». Un re che non smette di ricordarsi di lui: «Cos’è mai l’uomo, perché Tu te ne ricordi?».
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J’ACCUSE/ E ora l'Italia "imita" la Cina con la politica del figlio unico di Carlo Bellieni, lunedì 7 marzo 2011, il sussidiario.net
Leggiamo su La Repubblica del 19 febbraio 2011, un articolo del prof. Umberto Veronesi, intitolato “Una pillola sconosciuta”, in cui si parla delle doti dell’anticoncezionale orale, anche ai fini di prevenzione del cancro dell’ovaio: “Le ragazze che si affacciano alla sessualità e le adulte che hanno vissuto la cosiddetta rivoluzione sessuale non sanno che la pillola non ha nessuna controindicazione per la loro salute, che non aumenta il rischio di tumore del seno, e ignorano che le protegge dall’altro temibile tumore femminile, quello dell’ovaio”.
E spiega che “in Italia la pillola è stata ostracizzata. L’hanno fatto i misogini, perché la pillola è uno strumento offerto dalla scienza alla donna per sottrarsi a un asservimento millenario al maschio. […] La pillola va favorita, le sue proprietà anticancro vanno ben spiegate e il preservativo […] deve essere considerato un elemento integrante del rituale del rapporto sessuale”. Ciò detto, ci lascia un po’ perplessi leggere addirittura sul sito del Feminist Women Health Center - certo non ostile agli anticoncezionali- che tra gli svantaggi della pillola c’è un “aumentato rischio di attacco cardiaco e di ictus” e sul sito del National Cancer Institute che, certo, la pillola diminuisce il rischio di cancro dell’ovaio e dell’endometrio, ma aumenterebbe il rischio di cancro della cervice uterina e in particolare di cancro del fegato. Dunque, qualche problema c’è e non solo di ordine morale.
Ci sembra allora opportuno consigliare prudenza: d’altronde si tratta di autosomministrarsi ormoni per anni e anni, e questo è un livello di medicalizzazione estremamente forte. È possibile che l’unica via per vivere una vita sessuale armonica sia quella medica? E non sarà eccessivo pensare il preservativo come parte integrante del rapporto sessuale, che - magari- spesso avviene in coppie stabili, rispettose della parola datasi, e magari (perché no?) aperte alla vita? Quello che non ci va giù degli anticoncezionali, mettendo un momento da parte i criteri morali che ognuno (ateo, ebreo, musulmano, cristiano, buddista) può avere, è che quando si parla di sesso si parla solo di loro. Come se parlare di sesso fosse parlare di come non aver figli.
Insomma, viviamo in una società in cui i tabù si sono invertiti: tutto il sesso che volete, ma per carità, niente bambini; a meno che non abbiate già un lavoro stabile, una casa, un reddito alto, e la certezza di farne solo uno, massimo due (“che carini! Avete fatto la coppia”, come se si parlasse di cagnolini), altrimenti vi prendono per matti. E non venite a dire che questo dipende dalla società dura e cattiva, perché se vi guardate davvero intorno, anche chi è ricco, potente, con ville e auto lussuose, più di uno-due figli non ne fa; allora il problema non è economico (che andrebbe comunque risolto), ma culturale: è una politica del figlio unico di stato come in Cina, solo che lì la impongono le leggi, qui gli sguardi dei vicini.
Oggi lo sappiamo tutti, il problema non è fare troppi figli, ma che non se ne fanno più e si assiste a un decremento demografico angosciante: niente più bambini nelle strade, niente più giovani al lavoro, ma tanti anziani che non hanno più chi li assiste e adulti che dovranno lavorare all’infinito per pagarsi una pensione.
Non si tratta certo di far figli per motivi economici, ma riprendiamo a leggere nel cuore della gente, che secondo l’Istat a 15 anni vorrebbe una famiglia numerosa e a 30 a stento ha il coraggio e il modo di fare un figlio! L’educazione sessuale che vorremmo dovrebbe essere più che un deterrente verso l’idea di avere un figlio, come ha ben spiegato di recente il Papa, e per questo dobbiamo impegnarci.
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Avvenire.it, 4 marzo 2011, L'INTERVISTA - Credenti e no, un'unica legge di Andrea Galli
Curiosità della storia del pensiero e del diritto. Il giusnaturalismo, che tanti e micidiali colpi ha ricevuto in epoca moderna dal Commonwealth britannico, proprio lì ha trovato nella seconda metà del ’900 alcuni suoi geniali riformulatori. Uno dei maggiori è unanimemente considerato John Finnis, nato in Australia 70 anni fa in una famiglia anglicana, trasferitosi presto a Oxford con una Rhodes scolarship, e ivi rimasto. Membro dal 1990 dell’Accademia britannica, oggi occupa la cattedra di Filosofia del diritto.
Professor Finnis, a Oxford lei fece un dottorato con Herbert L.A. Hart, che la spronò a scrivere quello che sarebbe diventato uno dei suoi libri più celebri, Legge naturale e diritti naturali. Come mai uno dei numi del positivismo giuridico del secolo scorso la incoraggiò su una via così distante dalla sua?
«Il mio dottorato non riguardava la legge naturale ma Hart sapeva del mio interesse dalle nostre conversazioni e da alcuni miei scritti. La sua opera si opponeva all’idea di una legge naturale, ma ne riconosceva l’importanza storica e in un certo modo percepiva la sua possibile rilevanza per il presente. Era disposto, con spirito liberale, a permettere a un giovane studioso di fare il possibile per mostrare la plausibilità della sua teoria. Hart non pensava che il risultato avrebbe seriamente messo in discussione la sua di teorie. Era un uomo generoso e un filosofo aperto alla discussione. Il suo liberalismo politico, che ha prodotto risultati disastrosi – ne ho scritto in un saggio recente, Hart come filosofo politico del XX secolo – era improntato a un’apertura intellettuale o almeno a una buona fede».
Lei è nato in una famiglia anglicana, è stato ateo negli anni della prima giovinezza, quindi è passato a una visione teistica e si è convertito al cattolicesimo dopo il primo anno di permanenza a Oxford. Cosa l’ha guidata in questo percorso?
«Avevo due amici all’Università di Adelaide che fecero un viaggio simile al mio e nei medesimi anni, tuttavia seguendo autori e riferimenti diversi. Arrivammo alla consapevolezza, attraverso lo studio e la riflessione, che Dio esisteva, che era intervenuto nella storia e che la fede cattolica era la sola, seria possibile espressione di tale divina rivelazione. E la Chiesa cattolica era l’unica seria candidata a essere la comunità fondata per trasmettere tale rivelazione e la grazia di Dio fino alla fine dei tempi. A me furono di grande aiuto per superare David Hume e Bertrand Russell alcuni libri sull’empirismo inglese scritti da un sacerdote e filosofo inglese scomparso prematuramente durante il Concilio, D.J.B. Hawkins. Ma importanti furono anche le letture di Newman, specialmente l’Apologia pro vita sua, e la critica dell’empirismo fatta del gesuita Bernard Lonergan, la cui opera, per altri aspetti, ho poi criticato duramente, soprattutto i suoi lavori dopo il Concilio e la sua teoria morale».
Lei ha elaborato una filosofia della legge naturale che verte su una serie di "basic goods" che hanno un’evidenza antropologica. E che non necessitano di per sé la fede in un Bene supremo. Pensa sia una via in grado di essere realmente condivisa da credenti e non credenti?
«Come è chiaro in tutti i miei libri, penso che tutta la realtà poggi ontologicamente o "presupponga" un’esistenza divina, una Creazione e una Provvidenza. Ma uno può occuparsi di fisica anche senza occuparsi del suo presupposto ontologico definito filosoficamente. Allo stesso modo, uno può arrivare molto lontano nella ragion pratica senza doversi confrontare con le primissime precondizioni ontologiche (metafisiche) dei beni verso i quali si orienta. Come mostra assai chiaramente san Tommaso – benché molti dei suoi discepoli lo trascurino – l’ordine epistemologico della scoperta e l’ordine metafisico della dipendenza seguono direzioni opposte. Focalizzandosi sull’ordine epistemologico o sulla sequenza della riflessione, è possibile trovare un punto di incontro con tutti coloro che non siano nichilisti dogmatici».
Lei riceve domani un premio intitolato proprio a san Tommaso. Qual è il suo debito nei confronti dell’Aquinate?
«Tutta la mia filosofia della ragione pratica, della legge naturale, della giustizia, della legge positiva, dell’intenzione e dell’azione, i miei lavori sulla teologia naturale (senza parlare di quelli di teologia cattolica strictu sensu) seguono profondamente la linea, per quanto posso giudicare, di san Tommaso. In particolare, la sua teoria della legge positiva è di un tale livello che non è stata veramente mai superata. Il mio lavoro a riguardo è poco più che una sua elaborazione».
Il suo impegno in ambito teologico è noto: lei è stato tra i primi due laici chiamati a far parte della Commissione teologica internazionale. Ma lei si fece notare già agli inizi degli anni 70, insieme al suo collega americano Germain Grisez, per una difesa coraggiosa della «Humanae Vitae». 40 anni dopo, qual è il suo giudizio su quell’atto magisteriale di Paolo VI? Lo considera più "profetico" o più "datato"?
«Per quanto riguarda il mio "coraggio" non saprei dire. Certamente Grisez – della cui opera sono debitore – fu energico come assistente del padre gesuita John Ford nell’interpretare per Paolo VI i gravi risultati della commissione di studio, la cosiddetta "commissione per il controllo della nascite", il cui parere Paolo VI giustamente rifiutò. Si può trovare un resoconto molto dettagliato sul sito di Grisez (www.twotlj.org), una fonte storica di grande importanza. Un mio recente lavoro sulla Humanae Vitae è stato una sua nuova traduzione dal latino per la Catholic Truth Society in Inghilterra, nel 2008. Ho poi scritto un saggio sulla validità del suo insegnamento che sarà pubblicato il 14 marzo nei Collected essays of John Finnis dalla Oxford University Press. Penso che gran parte dell’enciclica sia semplicemente una riaffermazione corretta del giudizio cristiano, costante fin dagli inizi, in merito agli atti sessuali che sono resi non-coniugali dal modo in cui sono compiuti dagli sposi. Per quanto riguarda le parti dell’enciclica che dovevano "profetizzare" – nel senso di predire – gli effetti negativi derivanti dal giudicare tali atti come moralmente accettabili, a mio parere esse hanno colto, anche se forse sottostimato, la portata dei cambiamenti culturali inaugurati dalla contraccezione. In questi decenni, ad esempio, è emersa l’auto-distruzione demografica delle culture che li hanno abbracciati. L’insegnamento dell’enciclica, che può essere riassunto in poche frasi, non è certo superato come non è superato il matrimonio, per quanto possa essere incompreso o abbandonato».