Nella rassegna stampa di oggi:
1) Radio Vaticana - Udienze ed Angelus, notizia del 06/03/2011 - L'Angelus di Benedetto XVI - Testo integrale
2) Popieluszko, il prete che sbugiardò il regime di Antonio Giuliano, 05-03-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it/
3) 05/03/2011- PAKISTAN - Pakistan: assolto per blasfemia, ucciso per strada. La “legge nera” fa ancora vittime
4) LETTURE/ Il fenomeno Houellebecq, profeta di un mondo disperato orfano della vita eterna – Redazione - sabato 5 marzo 2011, ilsussidiario.net
5) La Libia vacilla. Ma intanto il Libano è già perduto - Lì ha vinto Hezbollah, con l'appoggio dell'Iran e della Siria. Ecco l'ideologia e i programmi del "partito di Dio", spiegati su "Oasis", la rivista del patriarcato di Venezia di Sandro Magister
6) Avvenire.it, 5 marzo 2011 - Quel «desiderio» di morte - Tornare alla legge di Davide Rondoni
7) La storia - «Mio marito è bloccato ma la sua vita ha senso» - DA PIACENZA FRANCESCA LOZITO - Parla la moglie di Gianpiero, da 12 anni chiuso nella sindrome locked-in: «Prima di ammalarsi non avrebbe voluto restare invalido. Dopo, ci ha chiesto sempre di aiutarlo» - Avvenire, 5 marzo 2011
8) FERTILITÀ NATURALE, NEL SEGNO DI UN NUOVO FEMMINISMO “ECOLOGICO" di Angela Maria Cosentino*
9) Benedetto XVI, nuovo libro su Gesù. Ecco le anticipazioni di (Fonte: ASCA)
Radio Vaticana - Udienze ed Angelus, notizia del 06/03/2011 - L'Angelus di Benedetto XVI - Testo integrale
Il Vangelo di questa domenica presenta la conclusione del “Discorso della montagna”, dove il Signore Gesù, attraverso la parabola delle due case costruite una sulla roccia e l’altra sulla sabbia, invita i discepoli ad ascoltare le sue parole e a metterle in pratica (cfr Mt 7,24). In questo modo Egli colloca il discepolo e il suo cammino di fede nell’orizzonte dell’Alleanza, costituita dalla relazione che Dio intesse con l’uomo, attraverso il dono della sua Parola, entrando in comunicazione con lui. Afferma il Concilio Vaticano II: “Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé”. (Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 2). “In questa visione ogni uomo appare come il destinatario della Parola, interpellato e chiamato ad entrare in tale dialogo d’amore con una risposta libera” (Esort. Ap. postsin. Verbum Domini, 22). Gesù è la Parola vivente di Dio. Quando insegnava, la gente riconosceva nelle sue parole la stessa autorità divina, sentiva la vicinanza del Signore, il suo amore misericordioso, e rendeva lode a Dio. In ogni epoca e in ogni luogo, chi ha la grazia di conoscere Gesù, specialmente attraverso la lettura del santo Vangelo, ne rimane affascinato, riconoscendo che nella sua predicazione, nei suoi gesti, nella sua Persona Egli ci rivela il vero volto di Dio, e al tempo stesso rivela noi a noi stessi, ci fa sentire la gioia di essere figli del Padre che è nei cieli, indicandoci la base solida su cui edificare la nostra vita.
Ma spesso l’uomo non costruisce il suo agire, la sua esistenza, su questa identità, e preferisce le sabbie delle ideologie, del potere, del successo e del denaro, pensando di trovarvi stabilità e la risposta alla insopprimibile domanda di felicità e di pienezza che porta nella propria anima. E noi, su che cosa vogliamo costruire la nostra vita? Chi può rispondere veramente all’inquietudine del cuore umano? Cristo è la roccia della nostra vita! Egli è la Parola eterna e definitiva che non fa temere ogni sorta di avversità, ogni difficoltà, ogni disagio (cfr Verbum Domini, 10). Possa la Parola di Dio permeare tutta la nostra vita, pensiero e azione, così come proclama la prima lettura della Liturgia odierna tratta dal Libro del Deuteronomio: “Porrete dunque nel cuore e nell’anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi” (11,18). Cari fratelli, vi esorto a fare spazio, ogni giorno, alla Parola di Dio, a nutrirvi di essa, a meditarla continuamente. È un prezioso aiuto anche per mettersi al riparo da un attivismo superficiale, che può soddisfare per un momento l’orgoglio, ma che, alla fine, lascia vuoti e insoddisfatti.
Invochiamo l’aiuto della Vergine Maria la cui esistenza è stata segnata dalla fedeltà alla Parola di Dio. La contempliamo nell’Annunciazione, ai piedi della Croce e, ora, partecipe della gloria del Cristo Risorto. Come Lei, vogliamo rinnovare il nostro “sì” e affidare con fiducia a Dio il nostro cammino.
A P P E L L OSeguo continuamente e con grande apprensione le tensioni che, in questi giorni, si registrano in diversi Paesi dell’Africa e dell’Asia.
Chiedo al Signore Gesù che il commovente sacrificio della vita del Ministro pakistano Shahbaz Bhatti svegli nelle coscienze il coraggio e l’impegno a tutelare la libertà religiosa di tutti gli uomini e, in tal modo, a promuovere la loro uguale dignità.
Il mio accorato pensiero si dirige poi alla Libia, dove i recenti scontri hanno provocato numerose morti e una crescente crisi umanitaria. A tutte le vittime e a coloro che si trovano in situazioni angosciose assicuro la mia preghiera e la mia vicinanza, mentre invoco assistenza e soccorso per le popolazioni colpite.
Popieluszko, il prete che sbugiardò il regime di Antonio Giuliano, 05-03-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it/
«Ero in Polonia il 30 ottobre 1984 quando fu ritrovato il corpo senza vita di padre Popieluszko. Alla veglia di preghiera c’erano migliaia di polacchi commossi, un clima surreale, tutt’intorno c’erano i carrarmati del governo. Da allora continua il flusso di pellegrini sulla sua tomba: l’hanno già visitata 18 milioni di persone. E per la prima volta nella storia dei regimi comunisti ci fu un processo contro i suoi assassini». Annalia Guglielmi, specialista nella conoscenza dei Paesi dell’Est Europa, collaboratrice della casa editrice Centro studi Europa Orientale, è autrice di un libro prezioso Popieluszko. Non si può uccidere la speranza (Itaca, pp. 174, euro 12) che fa rivivere il coraggio di un martire della Polonia comunista: padre Jerzy Popieluszko (1947-1984), beatificato da Benedetto XVI il 6 giugno scorso. Il volume raccoglie le audaci omelie di Popieluszko, pronunciate nelle “Messe per la patria”, le celebrazioni che tanto infastidirono il regime.
Lei ha avuto la fortuna di conoscerlo personalmente, che ricordo ha di padre Popieluszko?
«L’ho incontrato la prima volta alla chiesa di sant’Anna, la chiesa della pastorale universitaria a Varsavia. Ho vissuto diversi anni in Polonia. Dal 1978 al 1982, ho insegnato italiano all’Università Cattolica di Lublino e ho avuto modo di conoscere i protagonisti del dissenso, tra cui padre Uszynski e altri sacerdoti combattivi. Padre Popieluszko era un tipo riservato, gracile e di salute cagionevole. Ma era un uomo di grande disponibilità e lasciava trasparire una forza d’animo spaventosa».
Che cos’erano le Messe per la patria?
Furono una sua iniziativa, del tutto inedita nella storia dei dissensi. Con la proclamazione dello stato di guerra del 13 dicembre 1981 il regime polacco di Jaruzelski, pressato da Mosca, si fece sempre più autoritario. Solidarnosc, primo sindacato libero e indipendente in un paese socialista, un’organizzazione che si batteva anche per le libertà civili e politiche e in soli 15 mesi aveva calamitato circa 10 milioni di iscritti, fu costretto ad agire in clandestinità. Popieluszko, che di Solidarnosc era stato cappellano, non si rassegnò: «La speranza – diceva - è penetrata profondamente nei cuori e nelle menti degli uomini. Ciò che è nel cuore, ciò che è profondamente radicato nell’uomo, non può essere estirpato con questa o quella legge, con questo o quel divieto». Pensò allora di sfidare il regime istituendo nella chiesa di san Stanislao Kostka a Varsavia, una Messa per la patria, che si teneva l’ultima domenica del mese. Era una celebrazione in cui solitamente all’inizio della liturgia e dopo la comunione gli attori polacchi che per protesta non andavano in tv e non recitavano nei film, proclamavano in chiesa poesie e inni patriottici.
Ma perché erano così temute dal regime?
Attaccavano la menzogna e il terrore suscitato dal potere. «Bisogna aver paura solo di tradire Cristo per i trenta denari di una meschina tranquillità», ripeteva padre Popieluszko in omelie meditate che risvegliavano la coscienza dell’identità polacca, il senso di appartenenza alla Chiesa e alla nazione. Un’iniziativa del genere non poteva che nascere in Polonia la cui storia è inscindibile dal cattolicesimo. Pensiamo solo alla devozione per la Madonna di Czestochowa: anche negli anni bui dello stalinismo, centinaia di migliaia di persone da tutta la Polonia si recavano al santuario, camminando a piedi per 15 giorni e percorrendo anche 300 km. Alla Madonna i polacchi attribuivano la salvezza nei momenti difficili della nazione: a Grunwald nel 1410, durante l’invasione svedese, a Vienne del 1683, sulla Vistola nel 1920 e durante la seconda guerra mondiale. Lo stesso Popieluszko nel 1983, organizzò, con l’appoggio di Lech Walesa, il primo pellegrinaggio di operai a Czestochowa. E le sue Messe per la patria erano il segno che la fede non è un fatto puramente dello spirito: la Chiesa era vicina alle istanze di libertà e dignità della gente. E non è un caso se le celebrazioni richiamavano migliaia di persone, non solo credenti, che venivano da tutte le città polacche.
Ma Popieluszko finì per pagarle a caro prezzo…
Per il regime era diventato un pericoloso avversario. Le messe venivano sorvegliate da blindati della polizia e spesso fecero irruzione gruppi di provocatori. Ma non riuscirono mai nel loro scopo. Per quanto lui si scagliasse nelle omelie contro le restrizioni della stampa o la mancanza di libertà di educazione, le messe erano liturgicamente impeccabili. Non erano affatto "manifestazioni politiche" come denunciavano le spie del regime esibendo i nastri delle registrazioni e le fotografie. Gli incitamenti di Popieluszko erano estranei alla violenza: «Chiediamo di essere liberi dalla paura, dal terrore, ma soprattutto dal desiderio di vendetta. Dobbiamo vincere il male con il bene e mantenere intatta la nostra dignità di uomini, per questo non possiamo fare uso della violenza». Il 14 dicembre del 1982 ignoti gettarono nella sua stanza un mattone con una carica esplosiva. Da allora un gruppo di operai si offrì di fargli da scorta giorno e notte. Ma non bastò. La notte del 19 ottobre del 1984, mentre rientrava da Varsavia, venne rapito e ucciso da tre ufficiali dei servizi segreti che già avevano tentato di farlo fuori provocando un incidente automobilistico. Aveva 37 anni.
Però ci fu per la prima volta nella storia socialista un processo contro un “nemico del popolo”…
Sì, nell’agguato il suo autista riuscì fortunosamente a salvarsi e testimoniò contro gli assassini. Il grande clamore suscitato dalla morte di Popieluszko, amatissimo dalla gente, costrinse il regime ad arrestare i responsabili dell’omicidio e a imbastire un processo che fu commentato dalla stampa di tutto il mondo. Nessuno degli imputati scontò per intero la pena, furono rilasciati dopo pochi anni, ma per la prima volta un regime socialista accettava di aprire un’inchiesta sui suoi funzionari per un crimine commesso contro un sacerdote cattolico.
Lei ha vissuto ancora in Polonia dal 1990 al 2004. Che ricordo rimane di padre Popieluszko?
«La memoria di padre Popieluszko è ancora viva. Dalla sua morte ad oggi, gli operai che ne sorvegliano la tomba (che si trova accanto alla chiesa di san Stanislao Kostka a Varsavia) hanno contato più di 18 milioni di visitatori. E nei pressi è nato nel 2004 anche un museo che ne tramanda il ricordo. Oltre alla beatificazione, ha poi contribuito molto il film visto da 3 milioni di polacchi Popieluszko. Non si può uccidere la speranza del regista Rafal Wieczynski che ho intervistato nel libro. Lui stesso dice però che è stato un atto doveroso verso i suoi figli: i manuali di storia polacchi dedicano appena 2-3 righe al sacerdote. Ma anche in Occidente se ne sa ancora pochissimo. Consideriamo che fino all’elezione di Giovanni Paolo II quasi nessuno sapeva quel che avveniva in Polonia e nei Paesi dell’Est. L’elezione al soglio pontificio di Karol Wojtyla nel 1978 e la visita nella sua terra l’anno successivo incoraggiarono le proteste degli operai di Danzica nel 1980 e la nascita di Solidarnosc. E Giovanni Paolo II era al corrente delle battaglie del sacerdote polacco: un vescovo di Varsavia consegnò a Popieluszko un rosario personale che il Papa gli aveva dato dopo aver letto le omelie delle Messe per la patria. Anche il giorno della morte di Popieluszko, Giovanni Paolo II raccomandò di non dimenticare il sacrificio di quell’uomo che fino all’ultimo aveva non solo denunciato il male, ma esortato alla testimonianza personale: «Ogni giorno ci deve accompagnare la coscienza che, se esigiamo la verità negli altri, noi stessi dobbiamo vivere nella verità; se esigiamo la giustizia, noi stessi dobbiamo essere più giusti nei confronti del nostro prossimo; se esigiamo il coraggio, noi stessi dobbiamo essere coraggiosi».
05/03/2011- PAKISTAN - Pakistan: assolto per blasfemia, ucciso per strada. La “legge nera” fa ancora vittime
Un nuovo assassinio per motivi religiosi vicino a Rawalpindi. Ieri sepolto a Khush Pur, villaggio natale, Shahbaz Bhatti. “Continueremo la sua lotta”, promette l’Assemblea delle minoranze.
Islamabad (AsiaNews) - Mohammad Imran, un uomo accusato nell’aprile 2009 di blasfemia e successivamente rilasciato per mancanza di prove, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco nel villaggio di Danada, presso Rawalpindi. Imran era stato accusato di aver fatto osservazioni insultanti sul profeta Maometto durante una conversazione in un caffè. Ma successivamente un tribunale aveva disposto la sua scarcerazione e quella di un altro imputato perché la procura non era riuscita a produrre elementi di prova. L’uomo è stato avvicinato da un commando di tre uomini, uno dei quali è rimasto all’esterno del negozio mentre gli altri due sono entrati e lo hanno ucciso a colpi di arma da fuoco. Secondo il fratello della vittima, ad uccidere Imran sarebbe stato un uomo proveniente da un villaggio vicino, lo stesso che lo aveva originariamente accusato di blasfemia.
L’assassinio, avvenuto due giorni dopo quello di Shahbaz Bhatti, mette in luce ancora un volta il grado di destabilizzazione del Paese. Ieri intanto il ministro per le Minoranze ucciso a Islamabad è stato sepolto, vicino alla tomba di suo padre, nel villaggio di Khush Pur, in una cerimonia che ha visto la presenza di oltre 15mila persone. Un leader dell’All Pakistan Minority Assembly (Apma) Pervaiz Rafique ha dichiarato durante la cerimonia: “Continueremo la battaglia di Shahbaz Bhatti per la difesa delle minoranze. Gli estremisti possono uccidere una persona, non il suo pensiero. Shahbaz Bhatti voleva che il Pakistan diventasse il Pakistan sognato dal suo fondatore, Quaid-e-Azam (Ali Jinnah, n.d.r), e noi continueremo la sua missione”. Quindici persone sono state arrestate in collegamento con l’assassinio di Bhatti. La polizia ha deciso di interrogare anche Mumtaz Qadri, l’assassino del governatore del Punjab, Salaman Taseer. L’ispettore generale Wajid Durrani ha detto: “Stiamo investigando su ogni possibile aspetto. Fra l’altro, le dichiarazioni dei testimoni e quelle dell’autista di Bhatti presentano aspetti diversi”.
Anche la Chiesa russo ortodossa si è unita al coro di condoglianze inviate al premier pakistano Yusuf Raza Gilani per l’assassino del ministro per le minoranze, Shahbaz Bhatti. “Molte Chiese cristiane hanno gioito alla nomina di Bhatti come ministro di gabinetto. Come politico ha fatto molto per cercare di ridurre le tensioni religiose nella società pakistana e non ha avuto paura di parlare apertamente contro le iniziative degli estremisti”, ha scritto nel suo messaggio il capo delle Relazioni esterne del Patriarcato di Mosca, metropolita Ilarion. Il metropolita ha poi ricordato che l’omicidio purtroppo “non è l’unico atto di violenza contro i cristiani nel Paese”. “Oggi né i fedeli comuni né le alte cariche di Stato sono protette dalle aggressioni di chi camuffa i suoi crimini con convinzioni religiose”.
(hanno collaborato Jibran Khan e Nina Achmatova)
LETTURE/ Il fenomeno Houellebecq, profeta di un mondo disperato orfano della vita eterna – Redazione - sabato 5 marzo 2011, ilsussidiario.net
C’è ancora qualcuno che non sia choccato dai libri di Houellebecq? Esattamente come il bimbo che grida “il re è nudo”, Houellebecq sconvolge attraverso il suo talento profetico, denunciando un mondo depressivo che non si vuol vedere. Con un umorismo travolgente, parla del male che divora l’uomo moderno. Cerca il senso della vita partendo dalla realtà che osserva, seziona, smembra, stritola. Sottolinea, con un’ironia autobiografica, il vuoto esistenziale dell’uomo, perso in una ricerca che risulta impossibile perché la società gli rimanda solo sofferenza, solitudine e acidità.
Questa società spinge l’uomo al peccato della disperazione, che per Houellebecq consiste nel tagliarsi fuori da ogni contatto umano, affettuoso e vivo. Tutti i suoi personaggi soffrono di questo peccato, tipicamente “houellebecqiano”, e che li rendi insopportabili. Lui parla del mondo come gli appare, facendo un’analisi terribile di questa società contemporanea che manca di amore e spinge l’uomo a diventare un semplice ingranaggio in una società meccanizzata. Trova che “non si piange più abbastanza oggi giorno, mentre piangere fa bene alla salute”.
Nel suo percorso letterario, i temi e il tono non cambiano: con insolenza, ironia, umorismo e ambiguità, descrive la disperazione urbana e abbraccia tutti i grandi problemi dei nostri tempi, come la scienza e le conseguenze sociali della deriva della sessualità, dell’invecchiamento e della riproduzione, ma anche la sterilità del sesso occasionale e del divertimento, il vuoto della vita post-industriale. La potenza della sua scrittura sta in uno stile particolare, basato sulla descrizione fredda, scientifica, intransigente e radicale dell’uomo mediocre, l’anti-eroe, l’uomo vittima di questo mondo depressivo, il tutto sostenuto dal suo caratteristico umorismo. “Un poeta morto non scrive più. Da qui l’importanza di restare vivi”).
Nei suoi primi libri Houellebecq ha stupito per il suo approccio al tema del sesso, affrontato in modo diretto e crudo. In realtà una rilettura più meditata fa capire che per lui è un modo per de-sacralizzare la sessualità moderna, concepita come oggetto di banale consumazione, vissuta come un diritto democratico e quindi messa a disposizione sul mercato. Umorismo immediato tipicamente suo, perché per Houellebecq, invece, nel sesso avviene una ricerca del riconoscimento umano, la ricerca di una vita comunitaria, di un’appartenenza, il desiderio della ricerca del senso della vita attraverso l’atto massimo di tutte le emozioni affettive.
Houllebecq afferma di aver superato, nell’ultimo libro, la questione del sesso. Però dice non aver finito di interrogarsi sulla questione riguardante la religione. “La caduta del cattolicesimo mi ossessiona. L’avevo già constatato in Irlanda ma era spettacolare anche in Spagna. E mi domando, senza trovare risposta: cos’è diventata la speranza della vita eterna? Sono sorpreso che nessuno ci pensi più. E poi c’è anche l’idea più basilare del cambiamento dei costumi nello spazio di qualche anno, senza che nessuno abbia mai niente da ridire e senza nessuna resistenza”.
Nel libro La carta e il territorio, il suo quinto, Houellebecq attacca l’arte, l’amore, i soldi, i peoples, ironizza sulla campagna francese e mette in scena con sadismo il suo proprio assassinio in modo particolarmente cruento. Grande osservatore e ricercatore, non pretende mai di trovare una soluzione. Ed è qui che si situa la sua sofferenza esistenzialistica. Parte perdente, come se in tutti i casi non ci fosse nessuna possibilità di risposta. Ne La carta e il territorio ci parla attraverso il suo stesso personaggio: come creare il legame tra la realtà esterna (la carriera artistica di un fotografo e pittore) e la realtà interna, con le sue paure e i suoi desideri, che non riesce a conciliare? L’anti-eroe di quest’ultimo libro ha paura di confrontarsi con la realtà e per affrontarla riduce la ragione con un’overdose di categorie. Poi esclude e distrugge tutto quello che non entra in queste categorie. Peggio, si lascia invadere dal vuoto e dalla morte.
A questo punto non c’è più niente che tiene di fronte all’assenza d’amore che si crea e l’esistenza diventa destinata al vuoto e alla morte. Houellebecq ci avverte (Rester Vivant) “Tenendo conte delle caratteristiche dei tempi moderni, l’amore non può più manifestarsi; ma l’ideale dell’amore non è diminuito. Essendo, come ogni ideale, fondamentalmente situato fuori dal tempo, non potrebbe né diminuire né sparire. Da qui c’è una sproporzione ideale-realtà particolarmente evidente, sorgente di sofferenze particolarmente ricche. Gli anni dell’adolescenza sono importanti. Una volta che avete sviluppato una concezione dell’amore sufficientemente ideale, sufficientemente nobile e perfetta, siete fottuti. Non potrete mai più, ormai, accontentarvi di niente”.
Ed è così che il protagonista lascia partire la persona amata, senza reagire, senza esprime niente. Muto e fastidioso, il personaggio commuove malgrado tutto perché gli avvenimenti della sua vita si susseguono in esperienze fatalistiche che lui guarda come farebbe un semplice spettatore. Anche la sua sofferenza diventa vuota di emozioni. Ma attraverso la straordinaria arte che descrive freddamente questa disperazione, rimaniamo sedotti e provocati a cercare il senso di tutto ciò, il senso della vita, della nostra stessa vita, in un equilibrio pericoloso tra il controllo e l’imprevisto. La realtà è veramente cosi definitivamente cattiva? E la realtà non corrisponderà mai al cuore dell’uomo? Qual è la forza che potrà far cambiare la realtà e il cuore dell’uomo?
Da un libro all’altro, Houllebecq sta descrivendo un mondo specifico, unico, dove è riuscito a trasformare il suo dolore, il suo odio brutale e il suo inferno personale nel parafulmine delle frustrazioni nazionali. Il premio Goncourt ha dato un sigillo formale all’intuizione narrativa dello scrittore Houellebecq. Forse la vita confermerà le domande fondamentali e istintive dell’uomo Michel.
(Alessandra Guerra)
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La Libia vacilla. Ma intanto il Libano è già perduto - Lì ha vinto Hezbollah, con l'appoggio dell'Iran e della Siria. Ecco l'ideologia e i programmi del "partito di Dio", spiegati su "Oasis", la rivista del patriarcato di Venezia di Sandro Magister
ROMA, 3 marzo 2011 – Mentre il mondo segue con il fiato sospeso le vicende dell'Egitto, della Tunisia e più ancora della Libia, in un'altra nazione del Medio Oriente sta già accadendo, senza rumore, proprio ciò che si teme di più: la vittoria delle correnti islamiche più radicali.
Questa nazione è il Libano musulmano e cristiano. Dove si assiste all'irresistibile ascesa al potere di Hezbollah, il "partito di Dio" dei musulmani sciiti, armato e finanziato dall'Iran e sempre più sostenuto anche dalla Siria.
L'ultimo numero della "Civiltà Cattolica" – la rivista dei gesuiti di Roma stampata con il previo controllo e l'autorizzazione della segreteria di stato vaticana – ha dedicato a Hezbollah l'articolo di apertura, firmato dal suo storico di punta, padre Giovanni Sale.
L'articolo descrive le mosse di Hezbollah dalla prima guerra israelo-libanese del 1982 alla seconda del 2006, fino ai nostri giorni. Le descrive con il distacco impassibile dell'analista. Ne registra gli attuali successi senza alcun accento critico. Anzi, conclude dicendo che in Hezbollah "l'elemento nazionalista sta prendendo il sopravvento su quello fondamentalista e religioso, cambiamento che va incoraggiato e sostenuto dalla comunità internazionale".
Ma è proprio così? Negli stessi giorni, uno studioso di politica internazionale del valore di Vittorio Emanuele Parsi, professore all'Università Cattolica di Milano ed editorialista per "La Stampa" e per il quotidiano dei vescovi italiani "Avvenire", ha scritto del successo di Hezbollah in termini molto più pessimisti.
È ormai un ricordo la "rivoluzione dei cedri" del 2005, quando folle di giovani riempirono le piazze di Beirut per difendere l'indipendenza del Libano da Siria e Iran. Oggi per l'Occidente il Libano può essere considerato perduto, perché le leve del potere sono sempre più in mano a Hezbollah, perché Siria e Iran sono sempre più imperanti nell'area e per i contraccolpi negativi di mosse compiute dagli Stati Uniti che Parsi non esita a definire "suicide". Con tutto ciò che ne consegue per Israele, di nuovo tentato da operazioni di guerra.
Se questo è lo scenario, la svolta "nazionalista" di Hezbollah apprezzata dalla "Civiltà Cattolica" non basta per tranquillizzare. Fu Hezbollah, ad esempio, a inaugurare la pratica del "martirio" suicida come mezzo di combattimento, poi ripresa da Hamas contro Israele. E se oggi questa pratica è meno usata, l'ideologia che la ispira continua a valere.
Sull'ultimo numero di "Oasis", la rivista plurilingue edita dal patriarcato di Venezia e dedicata all'Oriente, fondata dal cardinale Angelo Scola, è uscita la prima puntata di un'analisi dei principi fondanti del "partito di Dio" libanese.
Ne è autore Dominique Avon, arabista, professore a Parigi e autore nel 2010 di un saggio su Hezbollah scritto assieme a A.-T. Khatchadourian.
Eccone qui di seguito un estratto. Le parole e le frasi tra virgolette sono riprese da discorsi di dirigenti di Hezbollah e da libri da loro fatti pubblicare.
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IL CREDO DEL "PARTITO DI DIO"
di Dominique Avon
La formazione dei militanti di Hezbollah, in maniera analoga a quella del resto degli sciiti, si fonda su una visione dualista che distingue un esoterico nascosto, bâtin, da un essoterico visibile, zâhir. Da una parte, la trascendenza fa di Dio l’inconoscibile assoluto, colui davanti al quale il mistero rimane totale. Dall’altra, egli è colui che può farsi conoscere, colui che può manifestarsi [...] tramite gli “amici di Dio”: gli imâm che guidano i credenti musulmani nelle diverse epoche di una storia sacralizzata. [...]
Secondo questa lettura teologica e teleologica del tempo, ogni profeta è affiancato da uno o più imâm: Seth per Adamo; Sem per Noè; Aronne o Giosuè per Mosè, Simon Pietro o gli apostoli per Gesù; Alî per Maometto. Il profeta esprime la parola nel suo senso palese, mentre l'imâm ha il compito di esprimerne il senso nascosto.
Alî ha una funzione centrale. È “nominato da Dio”. È imâm di Maometto, di cui è cugino e genero. È compilatore della sola versione del Corano integrale, trasmessa in segreto per timore che venisse distrutta. È vittima d’un assassinio. È padre degli imâm Hassan e Husayn e, a questo titolo, fondatore di una catena di sette o dodici imâm che sono i soli a poter interpretare correttamente il Corano. L’ultimo imâm, il Mahdî, dodicesimo della linea, è considerato “occultato” dall'anno 941. La ghayba designa il periodo storico che si estende dal momento di questo occultamento fino alla sua riapparizione alla fine dei tempi. [...]
Per un millennio, salvo eccezioni – l’Egitto dei fatimidi, ad esempio – tra gli sciiti la tensione tra sharîa e interiorità religiosa si è espressa a favore della seconda. Ma, nel 1979 la rivoluzione khomeinista ha invertito l’equilibrio tra i due elementi.
I dirigenti di Hezbollah ritengono che la posizione quietista adottata in passato dagli sciiti sia sbagliata e reclamano una preparazione attiva all’avvento dell’imâm, che passa per l’istituzione di un regime islamico fondato sull’autorità del “giurista teologo”. Insistono sullo sforzo che i fedeli devono compiere nell’attesa della venuta del Mahdî e del compimento del suo progetto divino: "presentare al mondo un’immagine luminosa e pura dell’islam attraverso il nostro comportamento, le nostre posizioni e il nostro jihâd".
Il jihâd al-nafs, lo “sforzo interiore”, primo per importanza, è presentato come il fondamento della riuscita dell’uomo, sia in situazione di pace che in guerra. Negli scritti di Hezbollah questo sforzo interiore è sistematicamente associato al jihâd al-askarî, “l’atto guerriero” che permette ai combattenti, una volta liberatisi di tutte le debolezze, di essere vincitori.
Questo atto guerriero si declina in due modi: “iniziale” e “difensivo”. Il jihâd iniziale ha lo scopo di diffondere l’islam secondo il modello delle conquiste effettuate da Maometto. Il jihâd difensivo è compiuto dai musulmani per difendersi e difendere le proprie patrie quando sono attaccati dai nemici dell’islam. [...]. Entrambi hanno carattere “obbligatorio”. Richiamandosi ad essi, in continuità con il discorso khomeinista, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ha di mira Israele, il “Grande Satana” americano, i "governi tirannici e corrotti che oltraggiano i musulmani e che sono in contraddizione con l’interesse dell’islam e dei musulmani". [...]
La lotta contro il nemico è al centro della dottrina di Hezbollah ed è uno degli scopi del governo islamico ideale. È stato così – spiegano i membri del “partito di Dio” – dalle origini dell’islam fino ai giorni nostri. In questo senso gli ebrei sono presentati come "coloro che più hanno odiato i musulmani" dal momento della comparsa dell'islam, [...] appena ebbero "la sensazione che avrebbero perso la loro supremazia sulla regione e sui pagani".
La radice dell’antagonismo degli ebrei è fatta risiedere nella "gelosia verso gli arabi" in seguito ai loro successi iniziali. Se la presero allora con Maometto che proponeva loro di "entrare nell’islam" e, nutriti di "risentimento", non hanno più smesso di opporsi a lui con tutti i mezzi. [...]. Non potendo tollerare un "nemico interno", Maometto eliminò dunque le tre tribù ebraiche di Banû Qaynuqâ, Banû Nadîr e Banû Qurayza, la cui "perfidia" è raccontata in dettaglio fino alla sconfitta finale, così come la loro sottomissione, ottenuta grazie "all’intervento divino". [...]
La lotta contemporanea contro Israele, "con le armi, con i media, con la politica, con la sicurezza, con l’economia" deve essere vista in questa prospettiva. Identificato come "entità sionista razzista" che pratica il terrorismo, e mai definito come stato, Israele è presentato come la fonte della gran parte dei mali, avanguardia delle "potenze imperialiste" che hanno impiantato "un’entità estranea alla regione, un cancro che si propaga nel corpo della umma araba e islamica per ridurla in pezzi, dividerla e controllarne le risorse".
Ma c’è un altro “nemico”, interno al mondo musulmano, che, nella rappresentazione dei membri di Hezbollah, ha le sue origini negli Umayyadi che posero sotto scacco Alî e i suoi successori e che ha una filiazione contemporanea nei wahhabiti dell’Arabia Saudita, i quali "hanno violato il califfato e non rappresentano in nessun modo l’Islam". Gengis Khan, Harun al-Rashid e i "califfi traditori" sono inseriti in questa stessa sequenza e sono presentati, fuori da qualsiasi contesto cronologico, come "corrotti, ingiusti, e […] molto spesso collaboratori dell’Est e dell’Ovest, disposti a mettere in pratica le loro arroganti politiche". Una tale rappresentazione partecipa dello schiacciamento della storia alla quale i redattori dei manuali sono ricorsi a più riprese per giustificare la lotta portata avanti, dall’inizio dello sciismo, contro gli ingiusti “usurpatori” di un potere che sarebbe dovuto ritornare ai dodici imâm.
Quanti troveranno la morte durante l’adempimento del jihâd sono “martiri”. Il martirio è concepito, con tanto di citazioni coraniche alla mano, come una testimonianza sacrificale, una trasfigurazione della sofferenza terrena in felicità eterna, una fonte purificatrice e sacra che esprime l’amore per Dio professato col dono della propria vita. [...]
Le spoglie dei “martiri” non sono lavate prima della sepoltura perché sono state purificate col sacrificio e chiunque tocchi il corpo di un “martire” non è obbligato a ripetere le abluzioni. La convinzione è quella di un loro accesso diretto al paradiso. Le vittime dei bombardamenti sono incluse in questa salvezza. Tale concezione si iscrive nella storia sciita, che inizia con la morte di Husayn, figlio di Alî e nipote di Muhammad, nella battaglia di Karbala. [...] La celebrazione pubblica della Ashurâ, commemorativa di quell’avvenimento, assume sempre più importanza da un quarto di secolo a questa parte. Per Hezbollah, Karbala costituisce "il grido della coscienza della umma islamica, che fa tremare il trono dei tiranni lungo i secoli". Il sangue versato da Husayn prevale sulla spada di Yazîd che l’ha ucciso.
Il tema dello shahîd, del "martire", secondo i dirigenti di Hezbollah [...] è ciò che fa la differenza essenziale tra i loro combattenti e i soldati nemici. [...] Lo slancio verso il martirio non deve tuttavia essere cieco e non deve costituire un fine in sé: è l’extrema ratio, è l’arma di chi non possiede i mezzi tecnici per combattere alla pari con il nemico. In questo senso, si ritiene che quest’arma del “diseredato” ristabilisca parzialmente lo squilibrio delle forze militari e valorizzi il coraggio eroico di quanti si sacrificano di fronte a quelli che invece contano i propri morti. I giovani sui quali il “partito di Dio” ha un progetto vengono sottoposti a uno studio comportamentale, a una pre-selezione e inviati in Iran per la preparazione al combattimento.
Questi argomenti giustificativi mirano a contrastare le critiche dei dotti musulmani per i quali questo tipo di “martirio” è assimilabile a un “suicidio”, e può quindi essere considerato illegale dal punto di vista della sharîa. [...] Il successo della rubrica “Biografie dei martiri, memoria della resistenza” sul giornale libanese "al-Ahd", così come il successo dei testamenti e di altri elogi funebri trasmessi alla televisione o su internet dimostrano che i simpatizzanti di Hezbollah sono sensibili a questo discorso.
Quanto all’“Organizzazione del Martirio”, essa non ricompensa tutte le famiglie allo stesso modo: le vedove e i figli dei “martiri” ottengono l’alloggio e un sussidio mensile, i genitori una grossa somma di denaro, mentre le vedove e i figli dei civili vittime involontarie ricevono anch’essi dei soldi. È forse un modo di anticipare, nel mondo terreno, la gerarchia dei sette cieli.
Avvenire.it, 5 marzo 2011 - Quel «desiderio» di morte - Tornare alla legge di Davide Rondoni
Ci tocca vivere in una epoca strana. Esaltante e inquietante. Di rovesciamenti. Di nebbie. Di ricapitolazioni. Un’epoca in cui le parole elementari dell’esistenza umana sono diventate terreno di diatriba. Un’epoca in cui con le leggi non si deve solo arginare le malefatte, le delinquenze: ma con la legge si devono mettere i sacchi sabbia, rinforzare gli argini, mettere paglia e terrapieni perché non dilaghi una strano desiderio di morte. Ormai si tratta di dover riscoprire, anche attraverso il dibattito giuridico, e poi parlamentare e quindi politico, il significato di parole elementari. Ci è dato di vivere questo tempo. Può essere vissuto come una grande occasione per rimettere a fuoco le parole principali della esperienza umana.
Sono in "crisi" (cioè in verifica, in messa alla prova) non solo le parole che indicano le più alte questioni – come Dio o destino – ma anche quelle elementari, che sono la pelle, la materia, il sangue normale della esistenza umana: la parola figlio, la parola nascita. E la parola morte. Parole intorno a cui nei millenni l’arte e il pensiero si sono incendiati di bellezza e di forza. E che sono state visitate e lette secondo infinite prospettive. Ma mai rovesciate nel loro significato essenziale. Per un ebreo, un greco o un romano, la morte – gloriosa o infame, eroica o banale – era sempre un vincere dell’ombra sulla luce, un venir meno. Una cosa indesiderabile in sé. E la cura, il prendersi carico del penare e del soffrire fino agli estremi passi è sempre stato un nobile ufficio. La morte – lungi dall’essere un atto vergognoso, nascosto, da vivere in una solitudine definitiva – era vissuta come momento dell’appartenenza a una comunità, a una civis, a una rete di relazioni piene e significative. E molto spesso è ancora vissuta così.
Ma altrettanto spesso invece ci troviamo a discutere di una morte che viene scambiata per quel che non è, invocata come liberazione in nome della legge. Ci ragiono su, come tanti. E mi rendo conto di non essere stato capito da più di qualcuno e persino da qualche titolista. Ma ciò che penso, e dico, è che oggi "dobbiamo fare" una legge: la più equa, semplice e avveduta possibile. Dobbiamo tornare ad averla perché sul fine vita si sono mosse le azioni – forzando la legge – di chi ha voluto render la morte procurata una liberazione dell’individuo, una specie di prevalere della luce su un’ombra (la vita quando anche sofferente).
Si è mosso un plotone di opinionisti. Un manipolo di magistrati. Una carovana di nuovi santoni. Per far passare la morte per quel che non è. E la persona per quel che non è: una monade, un essere irrelato, uno che non è nelle mani di nessuno, neanche nelle mani di chi lo ama, di chi lo cura, di chi ne può sostenere fatiche e attraversamenti dolorosi.
Si dice all’uomo che ha preteso di gestire l’economia, di gestire il pianeta, di gestire il corpo, il nascere: ora gestisci anche la morte. E per andare contro ogni evidenza si è sollevato un polverone. Come se in Italia ci fosse qualcuno – noi, i cattolici – che vuole obbligare qualcun altro a vivere in condizioni infernali, non si capisce poi perché. Come se ci fosse qualcuno che vuole togliere un diritto. Mentre è esattamente il contrario: si vuole proteggere chi non è in condizione di esercitare un diritto nel momento della sua massima debolezza. Nella legge in discussione, improntata al buon senso, si intende salvaguardare un diritto alla vita e alla cura per l’uomo nel momento in cui è nella reale situazione di bisogno e di affidamento. Non quando la ha immaginata.
Ma nel momento in cui può diventare – come successo con il placet di certa magistratura – preda della ideologia o della incapacità o della debolezza di un altro. Per avversare l’evidenza che la morte è un ombra contro cui lottare, si è cominciato a blaterare di diritti negati. Come se dar da bere a un malato, idratarlo, sia conculcare un diritto, invece che un dovere non solo della medicina ma dell’esser uomini. Una forzatura della legge che in passato ha consentito una eutanasia e che ha innalzato come esempio un gesto che, grazie a Dio, sinora nessuno in Italia ha più seguito. A questa e ad altre possibili forzature può ora rispondere una buona legge. Una legge che non intende obbligare nessuno a una certa visione della vita, poiché non sono le leggi a toccare i cuori degli uomini. Ma intende far pensare a tutti che l’uomo debole va onorato e accudito. A qualunque costo. Se no il prezzo della vita lo finirà per fissare chi ha il potere.
La storia - «Mio marito è bloccato ma la sua vita ha senso» - DA PIACENZA FRANCESCA LOZITO - Parla la moglie di Gianpiero, da 12 anni chiuso nella sindrome locked-in: «Prima di ammalarsi non avrebbe voluto restare invalido. Dopo, ci ha chiesto sempre di aiutarlo» - Avvenire, 5 marzo 2011
«Sorride e vuole vivere. È una vita che ha senso». Ad affermarlo è nella sua casa di Piacenza Lucia Steccato, moglie di Gianpiero, da dodici anni rinchiuso nella sindrome «locked-in», a causa di un’ischemia. Lucia afferma che «non essere in salute non vuol dire non essere felice». E spiega così la posizione di questa famiglia sulle direttive anticipate: «Sa che Gianpiero prima di ammalarsi diceva sempre che piuttosto che una tracheostomia e un’invalidità permanente avrebbe preferito morire?
Beh, quando si è ammalato ci ha chiesto continuamente di aiutarlo a vivere.
Anche quando era dolorante, anche quando la sofferenza prevaleva su tutto». Perché Gianpiero è cieco, non mangia non fa nulla. Ma sorride. E i nostri vicini, che all’inizio non venivano neanche a trovarci per paura di disturbare ora vengono in casa anche se io non ci sono e c’è solo Gianpiero. Perché Gianpiero ha qualcosa da dire». Lucia afferma che «per le persone malate ci vuole rispetto, anche se non possono comunicare.
Occorre rivolgersi direttamente a loro perché comprendono, e hanno piacere che li si faccia sentire coinvolti direttamente, senza chiedere ai familiari di mediare». E poi ancora: «Le famiglie non vanno mai abbandonate, ma sorrette, perché devono fare un’assistenza che dura 24 ore. E non ci devono essere discriminazioni tra malati. Siamo stanchi dei progetti rivolti in modo personale e individuale a ciascun malato. Ci vuole un approccio globale su scala nazionale». Per questo ci deve essere spazio per un «ritorno ai valori, quelli umani, quelli dell’amicizia.
Sono importantissimi, perché un debole non può farsi un amico con una rete di relazioni come una persona qualunque. Non può vivere nella società, ma è la società che deve andare a casa sua. Come dicevo, ci sono persone, amici, volontari che gli fanno visita, passano un po’ di tempo con lui. Spero che sia così per tanti»: Gianpiero cerca il contatto tattile con chi gli sta accanto: «Prendergli la mano, tenerla nella propria è una cosa che gli fa piacere e gli dà gioia». Questa coppia nonostante le difficoltà cerca di vivere una vita il più possibile normale: «Dopo 7 anni di ricovero – racconta Lucia – siamo tornati a casa e assieme ai miei figli abbiamo fatto in modo che qui Gianpiero ricevesse tutte le attenzioni e le cure necessarie: usciamo, facciamo le vacanze al mare». Però ci sono quattro gradini per uscire da casa che sono un bel problema: «Sì certo, tutte le volte occorre mettere la pedana, ma ci siamo attrezzati, ne abbiamo fatte di battaglie sa? All’inizio per l’assistenza abbiamo dovuto combattere, ma poi siamo riusciti a raggiungere un buon punto di equilibrio, e c’è tanta gente che ci aiuta con molto amore». Ma anche il riconoscimento di quanto c’è bisogno per una famiglia che fa una scelta così forte di vita: «La formazione di chi fa assistenza a Gianpiero, gli infermieri, è fondamentale. Ma molte delle promesse che ci hanno fatto in questi anni non sono state ancora mantenute». Di qui l’appello: «Non ci possono essere malati di serie A e di serie B».
Pensate a questo semplice comma… di Antonio Socci, Da “Libero”, 5 marzo 2011
Vorrei lanciare un appello da queste colonne, non come giornalista o intellettuale cattolico, ma come padre di Caterina che tanti hanno conosciuto per la dolorosa vicenda che si trova a vivere.
Il mio è un appello a tutti i parlamentari, di tutti gli schieramenti, al di là delle divisioni ideologiche, politiche o culturali. Chiedo di approvare subito la legge sulla (cosiddetta) “Dichiarazione anticipata di trattamento” e approvarla così com’è.
Ci sono molti motivi per i quali personalmente giudico questa legge necessaria. Non si tratta solo di evitare che si verifichino casi analoghi a quello di Eluana Englaro. Ci sono molte altre ragioni.
Io però voglio qui spiegarne una sola, di puro buon senso e di salute pubblica, tale che può essere condivisa perfino dai più accesi fautori dell’eutanasia.
La materia in questione è trattata al comma 6 dell’articolo 4. Che recita testualmente: “In condizioni di urgenza o quando il soggetto versa in pericolo di vita immediato, la dichiarazione anticipata di trattamento non si applica”.
E’ un aspetto che è passato finora inosservato. Ma per me è essenziale perché mi sono trovato a vivere la circostanza terribile dell’emergenza e del “pericolo di vita” imminente di una figlia.
E’ una situazione vissuta ogni giorno da tanti nostri concittadini.
Basterebbe questo semplice comma per fare di questa legge una preziosa barriera (a difesa della vita) da erigere al più presto.
Mi spiego.
Come si sa il più diffuso problema sanitario della nostra popolazione concerne le malattie cardiocircolatorie: infarto, ictus ischemico, arresto cardiaco (che da solo provoca 60 mila morti all’anno in Italia).
A questo tipo di eventi, che si manifestano come drammi improvvisi, dobbiamo aggiungere altre situazioni analoghe come l’ictus cerebrale, o il caso delle vittime di incidenti stradali. Sono tanti.
Il sistema sanitario cerca di organizzarsi sempre meglio per correre tempestivamente in soccorso di ognuno e salvargli la vita: nei centri urbani più efficienti sono riusciti a far sì che il 118 raggiunga in meno 8 minuti qualunque punto della città.
Infatti è sempre una lotta drammatica contro il tempo, perché in una manciata di minuti si gioca il destino di figli, di padri, madri, amici. Basta poco tempo e la persona che più ami al mondo è spacciata, è morta.
Ebbene, quel comma 6, dell’articolo 4 della legge, è preziosissimo. Anzitutto perché mette al riparo tutti i soccorritori. Dice loro: fate di tutto per salvare questa vita in pericolo, questo è il vostro dovere e non pensate ad altro.
E dice al sistema sanitario di organizzarsi sempre meglio, attrezzandosi con le tecniche di rianimazione più avanzate, per salvare vite umane.
Qualora non venisse approvata questa legge con questo articolo, qualora cioè si restasse nell’attuale vuoto legislativo, che sembra preferibile anche a persone sicuramente “pro life”, come il mio amico Giuliano Ferrara, cosa accadrebbe?
Secondo me lo scenario è questo. Senza una legge la sola cosa che resta sulla scena sono i cosiddetti albi di biotestamenti istituiti da diversi Comuni italiani che al momento non hanno alcun valore giuridico, ma che – si può facilmente prevedere – qualora saltasse la legge fornirebbero materia alla giurisprudenza per accogliere altre richieste analoghe al caso Englaro o al caso Welby.
Così la legge finirebbe per essere scritta dalle sentenze della magistratura anziché dal Parlamento.
E’ facilmente prevedibile che qualcuno – per paura di riportare danni permanenti e invalidanti – possa scrivere nel suo biotestamento “non rianimatemi”, secondo la formula che oggi è diventata uno slogan negli Stati Uniti.
E si può prevedere che prima o poi qualcuno potrà fare causa a un medico soccorritore perché ha rianimato un malcapitato che – pur salvandosi – così ha riportato danni più o meno gravi, conseguenti – per esempio – a un arresto cardiaco. Qualcuno che aveva scritto nel biotestamento “non rianimatemi”.
E’ noto che i medici oggi sono terrorizzati dalle cause civili intentate da pazienti o dai loro familiari.
Alla prima sentenza che dovesse riconoscere il diritto al risarcimento di questa persona, rianimata malgrado il dettato del biotestamento, si creerebbe una situazione drammatica, perché qualunque ambulanza del 118 e qualunque medico davanti a uno che versa in pericolo di vita – prima di soccorrerlo e rianimarlo – dovrebbe cercare di sapere se costui ha fatto un testamento biologico e cosa precisamente ha scritto.
Un’operazione difficilissima da espletare e che ovviamente finirebbe per far saltare tutti i tempi delle cure di emergenza. Di fatto diventerebbe impossibile prestare soccorso urgente e salvare vite.
Faccio un esempio concreto e personale. Mia figlia, al momento dell’arresto cardiaco, è stata letteralmente salvata da tre amici che le hanno dato un soccorso immediato su indicazioni telefoniche del 118 e poi dall’arrivo tempestivo del 118 stesso.
Era una questione di secondi. Ma se avessero dovuto prima informarsi sul suo testamento biologico sarebbe trascorso il tempo della possibile salvezza. E tutto sarebbe stato perduto.
Qualcuno obietterà: “ma no, è uno scenario assurdo, in casi di emergenza il soccorso resterebbe comunque obbligatorio”.
Ne siete sicuri? Chi lo dice?
Una volta che la legge saltasse, nel vuoto normativo, riconosciuto il diritto assoluto all’autodeterminazione (che è la strada già intrapresa dalla giurisprudenza), tramite testamento biologico chiunque potrà scrivere “non rianimatemi” e aver diritto a veder riconosciuta questa sua richiesta quando dovesse aver bisogno di rianimazione.
A quel punto la frittata è fatta. E il problema riguarderebbe tutti, non solo l’interessato: anche me e voi, anche coloro che non hanno fatto testamento biologico o che hanno espresso la volontà di essere rianimati e curati. Perché tutta la catena del soccorso d’emergenza, allestita dal sistema sanitario, andrebbe a ingolfarsi lì, sull’accertamento delle volontà.
Finora i sostenitori del “Testamento biologico” hanno accusato gli avversari di non essere liberali e di voler imporre a tutti le convinzioni loro proprie. Ma in realtà, riflettendo sulla situazione, mi pare che si rischi l’opposto.
Non è forse vero che se non verrà approvata questa legge con quell’articolo 4 (e presto, perché c’è chi gioca al rinvio per farla pian piano decadere), tutti, anche coloro che non fanno il testamento biologico, potrebbero incappare nei problemi (e nel collasso) del soccorso d’emergenza provocati dai “testamenti biologici”?
A me pare di sì. Questa è una delle tante ragioni per cui chiedo accoratamente l’approvazione della legge. Ed è – come si vede – una ragione pratica, non certo ideologica.
Una ragione su cui tutti possono convenire, qualunque cosa pensino. Persino i sostenitori dell’eutanasia. Perché salvaguarda il diritto di tutti ad avere il soccorso d’emergenza più efficiente.
FERTILITÀ NATURALE, NEL SEGNO DI UN NUOVO FEMMINISMO “ECOLOGICO" di Angela Maria Cosentino*
ROMA, domenica, 6 marzo 2011 (ZENIT.org).- L’inquinamento rappresenta uno dei problemi da affrontare perché influisce sull’ambiente, come pure sulla salute dell’uomo e della donna. Le iniziative annunciate (riduzione delle emissioni da parte di industrie, mezzi di trasporto, abitazioni…) comportano l’assunzione di nuovi stili di vita orientati ad una “conversione ecologica”, in risposta al mandato che ha ricevuto l’uomo di essere custode responsabile del creato. A cominciare da se stesso.
Eppure, in riferimento alla responsabilità procreativa, è poco visibile la riflessione sull’effetto ecologico devastante degli ormoni contraccettivi rilasciati nell’ambiente, ormai da 50 anni, che contribuiscono, tra l’altro, all’infertilità maschile in Occidente per la diminuzione di spermatozoi, come riportato da un documento della federazione internazionale delle associazioni dei medici cattolici[1]. Anche sulla donna, probabilmente per interessi economici e ideologici, alcuni effetti della pillola contraccettiva sono oscurati, come pure corrette informazioni sulle moderne alternative naturali[2].
Nonostante siano state disattese le promesse di felicità annunciate dalla liberazione sessuale[3], non emerge il coraggio di ammetterlo e di riconoscere, dopo oltre 40 anni, l’urgente attualità dell’enciclica Humanae vitae di Paolo VI, nel suo richiamo a non separare l’aspetto unitivo della sessualità da quello procreativo. Eppure, prima la contraccezione e poi la fecondazione extracorporea hanno manipolato non solo la fertilità ma anche il modo più adeguato di concepire l’essere umano e di rispettarlo nella sua preziosa ontologica dignità. Quell’invito, poi ripreso dal prossimo beato Giovanni Paolo II, anche oggi richiama a riflettere sulla fertilità, non come malattia da cui liberarsi o diritto da pretendere ad ogni costo, ma come dono e responsabilità, che libera proprio perché di essa si è responsabili.
La fertilità, valore umano e sociale, da conoscere e tutelare fin da giovani, con i metodi naturali, non si contrappone all’amore e alla vita, ma è segno biologico di una irriducibile differenza sessuale e di una necessaria complementarietà per una ricchezza reciproca. Il Nuovo Femminismo a cui richiama Giovanni Paolo II guarda alla donna con speranza e stupore, perché ella è capace di “accogliere” l’umanità e di contribuire a ricomporre quelle separazioni artificiali tra sessualità e amore, tra amore e vita, che una cultura insofferente del Creatore, ha creduto di “conquistare”, ignorando così l’ecologia ambientale e l’ecologia umana. Anche Benedetto XVI esorta ad impegnarsi per un’ecologia dell’uomo che rispetti il diritto alla vita, dal concepimento alla morte naturale, per evitare che la coscienza comune, perdendo il concetto di ecologia umana perda con esso, anche quello di ecologia ambientale. “Ẻ una contraddizione chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell’ambiente naturale, quando l’educazione e le leggi non le aiutano a rispettare se stesse. Il libro della natura è uno e indivisibile, sul versante dell’ambiente come sul versante della vita, della sessualità, del matrimonio, della famiglia, delle relazioni sociali, in una parola dello sviluppo umano integrale (…) Questa antinomia della mentalità e della prassi odierna avvilisce la persona, sconvolge l’ambiente e danneggia la società”[4].
Cinquanta testimonianze di donne (coppie) e della loro fecondità, espressa anche oltre la fertilità biologica, affrancate da vecchie e nuove schiavitù (pillola, fecondazione artificiale, maternità surrogata o utero in affitto…) lo documentano con ottimismo per la vita[5].
1) P. J. M. S. Castellvì, L’Humanae vitae. Una profezia scientifica, L’Osservatore Romano, 4 gennaio 2009 ( sintesi).
2) I Metodi Naturali sono metodi diagnostici per individuare i giorni fertili e non fertili del ciclo, in base all’andamento di indicatori biologici direttamente correlati all’andamento ormonale. Ẻ importante apprendere i moderni Metodi Naturali ( Metodo dell’Ovulazione Billings e Metodi Sintotermici) da operatori qualificati, vedi www.confederazionemetodinaturali.it
3) L. Scaraffia, presentazione del volume Custodi e interpreti della vita ( Lateran University Press, 2010), PUL, 18 febbraio 2011.
4) Benedetto XVI, Enciclica Caritas in veritate, 51.
5) Angela Maria Cosentino, Testimoni di speranza. Fertilità e infertilità: dai segni ai significati, Cantagalli, Siena 2008.
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*Angela Maria Cosentino è bioeticista e delegata della Confederazione Italiana Centri Regolazione Naturale Fertilità al Forum delle Associazioni Familiari.
Benedetto XVI, nuovo libro su Gesù. Ecco le anticipazioni di (Fonte: ASCA)
La Libreria Editrice Vaticana ha distribuito oggi tre brani del prossimo libro di papa Benedetto XVI sulla vita di Gesù, intitolato «Gesù di Nazareth. Dall'ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione», che verrà presentato ufficialmente il 10 marzo.
I tre brani anticipati sono «Il mistero del traditore», tratto dal capitolo sulla «Lavanda dei piedi» e dedicato al tradimento di Giuda e al suo «pentimento»; «La data dell'ultima cena», tratto dal capitolo «L'Ultima Cena», in cui il pontefice riflette sulle discrepanze della cronologia delle ultime ore della vita di Gesù tra il Vangelo di Giovanni e quelli di Marco, Luca e Matteo; e «Gesù davanti a Pilato», trattato dal capitolo «Il processo a Gesù», in cui papa Ratzinger si sofferma sull'interrogatorio condotto su Gesù da Pilato e sulla decisione di quest'ultimo di condannarlo. La decisione di pubblicare i tre brani è stata presa d'intesa con l'editore Herder di Friburgo che ha curato l'edizione principe del volume. Il libro uscirà in contemporanea inizialmente in sette lingue: tedesco, italiano, inglese, spagnolo, francese, portoghese e polacco. Ecco una sintesi delle tre anticipazioni.
SOLA POTENZA MILITARE NON PUÒ MAI STABILIRE PACE
"Con la potenza militare, da sola, non si può stabilire nessuna pace", afferma papa Benedetto XVI nel brano dedicato ad un'ampia analisi del processo e della condanna di Gesù. Quando Gesù, nell'interrogatorio subito da Ponzio Pilato di cui riferisce il Vangelo di Giovanni afferma di essere «re», egli rivendica una «regalità e un regno» totalmente diversi da quelli a cui erano abituati i governanti dell'epoca, «con l'annotazione concreta che per il giudice romano deve essere decisiva: nessuno combatte per questa regalità. Se il potere, e precisamente il potere militare, è caratteristico per la regalità e il regno - niente di ciò si trova in Gesù. Per questo non esiste neanche una minaccia per gli ordinamenti romani. Questo regno è non violento. Non dispo ne di alcuna legione».
Il regno di Gesù è fondato sulla "verità". Ma in che modo la verità può essere fondamento di un "potere"?, si chiede papa Ratzinger. "Verità ed opinione errata, verità e menzogna - scrive il pontefice - nel mondo sono continuamente mescolate in modo quasi inestricabile. La verità in tutta la sua grandezza e purezza non appare. Il mondo è 'vero' nella misura in cui rispecchia Dio, il senso della creazione, la Ragione eterna da cui è scaturito... In questo senso, la verità è il vero 're' che a tutte le cose dà la loro luce e la loro grandezza... Diciamolo pure: la non-redenzione del mondo consiste, appunto, nella non-decifrabilità della creazione, nella non-riconoscibilità della verità, una situazione che poi conduce inevitabilmente al dominio del pragmatismo, e in questo modo fa sì che il potere dei forti diventi il dio di questo mondo". E se oggi la scienza sembra aver reso il mondo intellegibile e quindi aver rivelato la 'verita" su di esso, Benedetto XVI ribatte che è solo la "verità funzionale sull'uomo" a essere "diventata visibile. Ma la verità su lui stesso - su chi egli sia, di dove venga, per quale scopo esista, che cosa sia il be- ne o il male - quella, purtroppo, non si può leggere in tal modo. Con la crescente conoscenza della verità funzionale sembra piuttosto andare di pari passo una crescente cecità per 'la verita" stessa - per la domanda su ciò che è la nostra vera realtà e ciò che è il nostro vero scopo".
"Anche oggi - nota papa Ratzinger -, nella disputa politica come nella discussione circa la formazione del diritto, per lo più si prova fastidio per essa. Ma senza la verità l'uomo non coglie il senso della sua vita, lascia, in fin dei conti, il campo ai più forti. 'Redenzioné nel senso pieno della parola può consistere solo nel fatto che la verità diventi riconoscibile. Ed essa diventa riconoscibile, se Dio diventa riconoscibile". Di qui, la riflessione del pontefice su Pilato: "la grande verità, di cui aveva parlato Gesù, gli è rimasta inaccessibile; la verità concreta di questo caso, però, Pilato la conosceva bene. Sapeva che questo Gesù non era un delinquente politico e che la regalità rivendicata da Lui non costituiva alcun pericolo politico - sapeva quindi che era da prosciogliere. Come prefetto egli rappresentava il diritto romano su cui si basava la pax romana - la pace dell'impero che abbracciava il mondo. Questa pace, da una parte, era assicurata mediante la potenza militare di Roma. Ma con la potenza militare, da sola, non si può stabilire nessuna pace". Infatti, scive il papa, "la pace si fonda sulla giustizia. La forza di Roma era il suo sistema giuridico, l'ordine giuridico, sul quale gli uomini potevano contare. Pilato - lo ripetiamo - conosceva la verità di cui si trattava in questo caso e sapeva quindi che cosa la giustizia richiedeva da lui".
TRAGEDIA DI GIUDA E' NON CREDERE A PERDONO DOPO TRADIMENTO
La tragedia di Giuda Iscariota non consiste solo nel suo aver tradito Gesù ma anche nel fatto che, pur essendosi pentito del suo gesto, "non riesce più a credere ad un perdono", scrive il papa in un brano del suo nuovo libro. "La seconda sua tragedia, dopo il tradimento, è che non riesce più a credere ad un perdono. Il suo pentimento diventa disperazione - scrive il pontefice nel volume che verrà presentato il prossimo 10 marzo -. Egli vede ormai solo se stesso e le sue tenebre, non vede più la luce di Gesù - quella luce che può illuminare e superare anche le tenebre. Ci fa così vedere il modo errato del pentimento: un pentimento che non riesce più a sperare, ma vede ormai solo il proprio buio, è distruttivo e non è un vero pentimento. Fa parte del giusto pentimento la certezza della speranza - una certezza che nasce dalla fede nella potenza maggiore della Luce fattasi carne in Gesù".
Papa Ratzinger sottolinea anche che, con il tradimento di Giuda, "la rottura dell'amicizia giunge fin nella comunità sacramentale della Chiesa, dove sempre di nuovo ci sono persone che prendono 'il suo pané e lo tradiscono". "La sofferenza di Gesù - nota il pontefice -, la sua agonia, perdura sino alla fine del mondo, ha scritto Pascal in base a tali considerazioni (cfr Pensées, VII 553). Possiamo esprimerlo anche dal punto di vista opposto: Gesù in quell'ora si è caricato del tradimento di tutti i tempi, della sofferenza che viene in ogni tempo dall'essere traditi, sopportando così fino in fondo le miserie della storia". Benedetto XVI mette anche il risalto che il Vangelo di Giovanni non cerchi di dare "alcuna interpretazione psicologica dell'agire di Giuda". Questo significa che "ciò che a Giuda è accaduto per Giovanni non è più psicologicamente spiegabile. è finito sotto il dominio di qualcun altro: chi rompe l'amicizia con Gesù, chi si scrolla di dosso il suo 'dolce giogo', non giunge alla libertà, non diventa libero, ma diventa invece schiavo di altre potenze - o piuttosto: il fatto che egli tradisce questa amicizia deriva ormai dall'intervento di un altro potere, al quale si è aperto".
ULTIMA CENA NON è PASQUA EBRAICA MA PASQUA DI GESÙ
Nel suo ultimo libro papa Benedetto XVI affronta anche il tema della discrepanza tra la cronologia delle ultime ore della vita di Gesù offerta dal Vangelo di Giovanni e quella dei Vangeli di Marco, Luca e Matteo, e propende per dare ragione al primo. La questione può essere riassunta in questi termini: l'ultima cena è una celebrazione della Pasqua ebraica, portando il processo e la crocifissione di Gesù proprio nel giorno di Pasqua, come sembra essere nei Vangeli sinottici, o precede quella festività, portando la morte di Gesù in croce a corrispondere significativamente con l'immolamento degli agnelli nel Tempio prima della Pasqua, come suggersice Giovanni?
Per papa Ratzinger, oggi "si vede sempre più chiaramente che la cronologia giovannea è storicamente più probabile di quella sinottica" perché "processo ed esecuzione capitale nel giorno di festa sembrano poco immaginabili". Questa risposta lascia però aperta una questione: "L'ultima cena di Gesù appare così strettamente legata alla tradizione della Pasqua che la negazione del suo carattere pasquale risulta problematica". Il pontefice risolve la questione richiamandosi allo studio di John P. Meier. Scrive papa Ratzinger: "Gesù era consapevole della sua morte imminente. Egli sapeva che non avrebbe più potuto mangiare la Pasqua. In questa chiara consapevolezza invitò i suoi ad un'ultima cena di carattere molto particolare, una cena che non apparteneva a nessun determinato rito giudaico, ma era il suo congedo, in cui Egli dava qualcosa di nuovo, donava se stesso come il vero Agnello, istituendo così la sua Pasqua". "Una cosa è evidente nell'intera tradizione - prosegue il papa -: l'essenziale di questa cena di congedo non è stata l'antica Pasqua, ma la novità che Gesù ha realizzato in questo contesto. Anche se questo convivio di Gesù con i Dodici non è stata una cena pasquale secondo le prescrizioni rituali del giudaismo, in retrospettiva si è resa evidente la connessione interiore dell'insieme con la morte e risurrezione di Gesù: era la Pasqua di Gesù". "In questo senso - aggiunge - Egli ha celebrato la Pasqua e non l'ha celebrata... l'antico non era stato negato, ma solo così portato al suo senso pieno". "In base a ciò - conclude papa Ratzinger - si può capire come l'ultima cena di Gesù, che non era solo un preannuncio, ma nei Doni eucaristici comprendeva anche un'anticipazione di croce e risurrezione, ben presto venisse considerata come Pasqua - come la sua Pasqua. E lo era veramente".
NON TUTTI EBREI A ACCUSARE GESÙ MA ARISTOCRAZIA TEMPIO
Quando i Vangeli dicono che furono i "Giudei" ad accusare Gesù e a chiederne la condanna a morte, questo non significa che si tratti di tutto il "popolo di Israele", afferma Benedetto XVI. "Domandiamoci anzitutto - si chiede il papa -: chi erano precisamente gli accusatori? Chi ha insistito per la condanna di Gesù a morte? Nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze su cui dobbiamo riflettere. Secondo Giovanni, essi sono semplicemente i 'Giudei'. Ma questa espressione - sottolinea papa Ratzinger -, in Giovanni, non indica affatto - come il lettore moderno forse tende ad interpretare - il popolo d'Israele come tale, ancor meno essa ha un carattere 'razzista'". Nel Vangelo di Marco, invece, si parla di "una quantità di gente, la 'massa'", da identificare con i sostenitori di Barabba. "In ogni caso - precisa il papa - con ciò non è indicato 'il popolo' degli Ebrei come tale". Quando Matteo fa riferimento a "tutto il popolo", per il pontefice, "sicuramente non esprime un fatto storico" mentre "il vero gruppo degli accusatori sono i circoli contemporanei del tempio e, nel contesto dell'amnistia pasquale, si associa ad essi la 'massà dei sostenitori di Barabba".
PILATO MISE PACE DAVANTI A GIUSTIZIA PER CONDANNARE GESÙ
Per Benedetto XVI, Ponzio Pilato era convinto della innocenza di Gesù ma decise di mettere la "pace", assicurata dalla stabilità delle istituzioni e della forza militare dell'impero romano, alla "giustizia". Analizzando il processo e la condanna di Gesù nel suo ultimo libro «Gesù di Nazareth. Dall'ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione», in uscita il prossimo 10 marzo, il pontefice afferma: "Alla fine vinse in lui (Pilato, ndr) l'interpretazione pragmatica del diritto: più importante della verità del caso è la forza pacificante del diritto... Un'assoluzione dell'innocente poteva recare danno non solo a lui personalmente - il timore per questo fu certamente un motivo determinante per il suo agire -, ma poteva anche provocare ulteriori dispiaceri e disordini che, proprio nei giorni della Pasqua, erano da evitare. La pace fu in questo caso per lui più importante della giustizia. Doveva passare in seconda linea non soltanto la grande ed inaccessibile verità, ma anche quella concreta del caso: credette di adempiere in questo modo il vero senso del diritto - la sua funzione pacificatrice. Così forse calmò la sua coscienza. Per il momento tutto sembrò andar bene. Gerusalemme rimase tranquilla. Il fatto, però, che la pace, in ultima analisi, non può essere stabilita contro la verità, doveva manifestarsi più tardi".
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