Nella rassegna stampa di oggi:
1) Aborti più facili: per la Cgil è «splendido» - La dittatura giudiziaria degli anni tangentari ha mollato il morso sulla Casta per addentare qualcosa di più morbido e indifeso. Oggi, mettono i loro sigilli sui confini della vita e della morte, all’ingesso dei laboratori dove il mistero dell’esistenza e del dolore viene sezionato e manipolato, sugli embrioni in provetta in attesa nei frigoriferi biologici… di Luigi Santambrogio LIBERO 10/10/08
2) Pio XII beato? Ma prima di tutto giusto - Il rabbino di Haifa protesta e "La Civiltà Cattolica" frena. Ma la beatificazione di papa Eugenio Pacelli è sempre più vicina. E anche la storia dovrà rendergli giustizia, sostiene su "L'Osservatore Romano" l'ebreo e laico Paolo Mieli - di Sandro Magister
3) 10/10/2008 16:18 – INDIA - Attivista indiano: Il massacro dei cristiani programmato da tempo di Nirmala Carvalho - Lenin Raghuvanshi ha visitato l’Orissa come membro di un’inchiesta voluta dalla Commissione europea per la prevenzione della tortura. I radicali indù hanno in programma di estirpare i cristiani dalla regione e riconvertire tribali e paria all’induismo.
4) 11/10/2008 09:18 – VIETNAM - Anche un giornale per bambini nella campagna contro i cattolici di Hanoi - di J.B. An Dang
5) Luigi Martin e Zelia Guerin - Autore: Schilirò, Valter e Leo, Adele Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - Quando abbiamo cominciato a chiedere l’intercessione di Luigi e Zelia Martin per la guarigione di Pietro, sapevamo ben poco di loro, ricordavamo solo che s. Teresa in “Storia di un’anima” diceva di aver avuto «un padre e una madre più degni del Cielo che della terra».
6) CRISI/ Bauman: soddisfare tutti i desideri, senza sacrifici. È il "vivere a credito" - Alberto Contri - sabato 11 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
7) CINEMA/ "La Classe": uno sguardo tra i banchi di scuola tra finzione e realtà - Antonio Autieri - sabato 11 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
8) ETICA E GIUSTIZIA - «La Carta non attribuisce il potere di disporre del fine vita – spiega il docente di diritto pubblico all’Università di Tor Vergata –. Semmai il contrario: c’è un divieto» «Continui equivoci sulla Costituzione» Marini: disponibilità della salute non della vita, Avvenire, 11 ottobre 2008
Aborti più facili: per la Cgil è «splendido» - La dittatura giudiziaria degli anni tangentari ha mollato il morso sulla Casta per addentare qualcosa di più morbido e indifeso. Oggi, mettono i loro sigilli sui confini della vita e della morte, all’ingesso dei laboratori dove il mistero dell’esistenza e del dolore viene sezionato e manipolato, sugli embrioni in provetta in attesa nei frigoriferi biologici… di Luigi Santambrogio LIBERO 10/10/08
Ma che avranno da ridere e festeggiare quei fresconi della Cgil? A Milano hanno inscenato caroselli e danze di ringraziamento alla notizia che gli aborti terapeutici sono tornati al limite della 24esima settimana. C’è davvero da rallegrarsi se tanti feti e prematuri, dopo la sentenza del Consiglio di Stato, anziché aiutati a sopravvivere, verranno ributtati nei cassonetti dei rifiuti speciali? Incredibile danza macabra: i compagni del sindacato comunista, riferiscono le cronache, non stavano più nella pelle. E solo per la soddisfazione di aver battuto il nemico Formigoni.
Tanto, a pagare il biglietto del divertimento, saranno i piccoli mai nati. «Splendida giornata», ha dichiarato, con incoscienza imbecille che sfiora l’apologia di reato (violazione della legge 194), il capataz lombardo del sindacato. Radioso giorno, sol dell’avvenire, naturalmente, aggiunge l’allegrone, «per le donne, i loro diritti, la loro libertà di scelta». Chissà invece per il feto, per i suoi diritti e libertà, cosa sarà quella sentenza?
Che splendida giornata
La questione in breve è questa: si trattava di decidere entro quale settimana possono essere praticati gli aborti terapeutici. La legge 194 lascia al medico la possibilità di decidere, comunque proibisce l’aborto se il feto è in grado di sopravvivere in modo autonomo. Lo scorso gennaio, la Regione Lombardia, stabiliva questo limite alla 22esima settimana e tre giorni, perché «nei nostri ospedali», dicevano le direttive lombarde, «grazie ai progressi scientifici e tecnologici, i feti possono vivere di vita autonoma già dalla 22esima settimana».
Dunque, nessun pregiudizio ideologico o morale, semplicemente la presa d’atto che i tempi son cambiati e le tecniche mediche pure. Un fatto oggettivo e scientifico che il Consiglio di Stato, su ricorso di 8 medici sponsorizzati Cgil, ha bocciato con chissà quale criterio (occorre attendere la pubblicazione delle motivazioni). Ma questo al sindacato (pure in sala parto ce lo troviamo tra i forcipi) importa nulla, a loro basta la soddisfazione, tutta politica e ideologica, di aver battuto quel ciellino di Governatore e tutta la compagnia cattolica dei pro-life. Il capoccia cigiellasco è così fuori di testa dalla contentezza che si lascia scappare quel funereo osanna sulla «splendida giornata», rubato indebitamente a Vasco Rossi.
Penoso e anche vergognoso per un ex grande sindacato come la Cgil. Negli spettacolini del cabaret di una volta, si battuteggiava sul fatto che «la prima gallina che canta ha fatto l’uovo». La Cgil ha cantato, anzi, ha messo su un coro polifonico da osteria, così sguaiato da mettere a rischio l’intero pollaio. L’uovo, poi, non promette nulla di buono: assomiglia tanto a quella scritta che salutava i deportati ebrei all’ingresso di Auschwitz: «Il lavoro vi renderà liberi». Ma lì, almeno, era chiaro di che libertà si trattasse. La Cgil definisce «splendida» una sentenza che assomiglia a una condanna capitale, che autorizza a buttare una vita a dispetto di ogni motivazione medica e scientifica.
Nello stesso giorno in cui altri due pronunciamenti (la Consulta e la Corte d’appello) accorciano l’esistenza ad Eluana Englaro, la ragazza in stato vegetativo da 16 anni per la quale il padre chiede l’interruzione della nutrizione e dell’idratazione.
Dalle tangenti alla vita
«Eluana deve morire, così finirà il mio inferno», ha dichiarato il padre in un’intervista. E in quel lapsus, «il mio inferno», ci sono tutti gli anni del dolore, strazio e disperazione di un amore a vuoto, muto e impassibile. Che non risponde e corrisponde più, senza speranza. Come può finire l’inferno con la morte di una figlia? Ma questa è altra storia e altro dramma. O forse no.
Coincidenze cattive, tre sentenze uscite da assisi di giudici e magistrati, segnale esemplare e arrogante di una già compiuta svolta istituzionale, preoccupante e pericolosa. La dittatura giudiziaria degli anni tangentari (la magistratura allora bruciava ladri e corruttori per conto dei giusti e degli onesti) ha mollato il morso sulla Casta per addentare qualcosa di più morbido e indifeso. Oggi, mettono i loro sigilli sui confini della vita e della morte, all’ingesso dei laboratori dove il mistero dell’esistenza e del dolore viene sezionato e manipolato, sugli embrioni in provetta in attesa nei frigoriferi biologici.
Ma una cosa è chiara: gli stregoni degli incroci cellulari e della dissolvenza embrionale, non potranno più parlare in nome della libera scienza e del progresso biotecnologico.
Gli ermellini del popolo
Liberi non saranno più: da oggi, a decidere chi viene al mondo e chi invece deve togliersi la seccatura dell’esserci, saranno i giudici ermellinati, le Corti, i Cortili e i Sottoscala della giustizia, los magistratos e los togatos. La legge c’è ed è chiara, ma loro sono stati predestinati ad applicarla oppure no.
A insindacabile e allegro giudizio, in nome e al posto del popolo. Come nelle migliori dittature.
Pio XII beato? Ma prima di tutto giusto - Il rabbino di Haifa protesta e "La Civiltà Cattolica" frena. Ma la beatificazione di papa Eugenio Pacelli è sempre più vicina. E anche la storia dovrà rendergli giustizia, sostiene su "L'Osservatore Romano" l'ebreo e laico Paolo Mieli - di Sandro Magister
ROMA, 10 ottobre 2008 – Celebrando ieri in San Pietro la messa nel cinquantesimo anniversario della morte di Pio XII, papa Joseph Ratzinger ha invitato tutti a pregare "perché prosegua felicemente la causa della sua beatificazione".
Fu Paolo VI in persona, nell'aula del Concilio Vaticano II, a proporre la beatificazione di Pio XII, assieme a quella di Giovanni XXIII. Era l'8 novembre 1965, quando già si addensavano su papa Eugenio Pacelli le accuse di aver collaborato con i suoi silenzi allo sterminio nazista degli ebrei: accuse divenute di dominio mondiale ad opera del dramma "Il Vicario" di Rolf Hochhuth, messo in scena per la prima volta due anni prima a Berlino.
Da allora, il percorso della causa di beatificazione di Pio XII si è intersecato con la controversia sui suoi silenzi. L'8 maggio 2007 la congregazione vaticana delle cause dei santi ha votato all'unanimità "l'eroicità delle virtù" di papa Pacelli, ultimo passo prima del processo di beatificazione vero e proprio. Ma Benedetto XVI non ha sinora autorizzato la pubblicazione del decreto. Una commissione di studio è stata incaricata di un ulteriore approfondimento, anche sulla base dei documenti presenti negli archivi vaticani ma ancora non accessibili al pubblico.
La contrarietà alla beatificazione di Pio XII è stata espressa più volte, negli anni passati da alcuni esponenti ebrei. Tra questi, l'attuale rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni.
Ad essi si è sorprendentemente unito, lo scorso 6 ottobre, il rabbino capo di Haifa, Shear Yashuv Cohen.
Sorprendentemente perché il rabbino Cohen si è scagliato contro la beatificazione di Pio XII subito dopo aver parlato nell'aula del sinodo dei vescovi, al quale era stato invitato come ospite speciale e nel quale aveva fatto ingresso con tutti gli onori, al fianco di Benedetto XVI, per la prima volta nella storia dei sinodi.
E anche lì, al termine del suo discorso, aveva lanciato una velata accusa contro papa Pacelli, dicendo:
"Noi ebrei non possiamo dimenticare il triste e doloroso fatto di come molti, inclusi grandi capi religiosi, non levarono una voce nello sforzo di salvare i nostri fratelli, ma scelsero di rimanere in silenzio e di aiutarli in segreto".
In segreteria di stato, il cardinale Tarcisio Bertone e il ministro degli esteri Dominique Mamberti si sono parecchio irritati per la sortita del rabbino e prima ancora per aver scelto lui come ospite, quando si sa che tra i leader ebrei ve ne sono molti – e di valore – che hanno un'alta stima di Pio XII.
Le autorità vaticane, naturalmente, non accettano che si interferisca dall'esterno su decisioni, come le proclamazioni di santi e beati, che competono strettamente alla Chiesa. Ma le opposizioni più insidiose alla beatificazione di Pio XII arrivano da dentro il campo cattolico più che da fuori.
Alcune di queste opposizioni sono scontate, ad esempio quella frontale degli studiosi della "scuola di Bologna", la cui esaltazione di Giovanni XXIII va di pari passo con la squalifica di Pio XII.
Altre invece sono più sottili e ammantate d'autorevolezza. È il caso della "Civiltà Cattolica", la rivista dei gesuiti di Roma che è stampata con il previo controllo della segreteria di stato.
Lo scorso 18 settembre, lo stesso giorno in cui Benedetto XVI difendeva le virtù eroiche di Pio XII parlando a un gruppo di ebrei della Pave the Way Foundation, "La Civiltà Cattolica" è uscita con un articolo del suo storico, padre Giovanni Sale, molto critico delle cautele diplomatiche con cui Pacelli, da segretario di stato, reagì alle leggi razziali antiebraiche promulgate in Italia nel 1938.
In Vaticano l'articolo – riprodotto in più lingue in www.chiesa – ha suscitato grande trambusto. Chi accusa i gesuiti della "Civiltà Cattolica" di far opera di boicottaggio, chi la segreteria di stato d'aver omesso il doveroso controllo.
Il cardinale Bertone ha cercato di riportare ordine dando grande evidenza, su "L'Osservatore Romano" dell'8 ottobre, alla sua prefazione ad un libro di strenua difesa di Pio XII, "La verità ti farà libero", scritto dall'americana suor Margherita Marchione e uscito lo stesso giorno per i tipi della Libreria Editrice Vaticana.
Ma un contraccolpo della baruffa provocata dalla "Civiltà Cattolica" si è ritrovato ancora su "L'Osservatore Romano" del giorno successivo, in una domanda di un'intervista su papa Pacelli.
"La Civiltà Cattolica ha scritto che Pio XII non ebbe voce di profeta. Non si tratta di un giudizio un po' anacronistico?".
L'intervista è a Paolo Mieli, allievo del grande storico del fascismo Renzo De Felice e direttore del maggiore quotidiano italiano, il "Corriere della Sera". Mieli è di famiglia ebraica, con parenti morti nei campi di concentramento nazisti.
E in un'intera pagina del "giornale del papa" Mieli letteralmente smantella la "leggenda nera" che pesa su Pio XII, da lui definito "il papa più importante del Novecento".
L'intervista è stata raccolta da Maurizio Fontana, che l'ha firmata, e dal direttore de "L'Osservatore Romano", Giovanni Maria Vian. È uscita giovedì 9 ottobre, lo stesso giorno della messa nel cinquantesimo della morte di Pio XII, con Benedetto XVI che nell'omelia ha detto di lui:
"Agì spesso in modo segreto e silenzioso proprio perché, alla luce delle concrete situazioni di quel complesso momento storico, egli intuiva che solo in questo modo si poteva evitare il peggio e salvare il più gran numero possibile di ebrei".
Ecco l'intervista, integrale:
La storia renderà giustizia a Pio XII
Intervista a Paolo Mieli
D. – Si parla spesso del dramma di Rolf Hochhuth "Il Vicario" messo in scena per la prima volta il 20 febbraio 1963 al Freie Volksbühne di Berlino. Ma le critiche agli atteggiamenti di papa Pacelli risalgono a molti anni prima. Quando nacque davvero il "problema Pio XII"?
R. – Lo spartiacque è senz'altro la messa in scena del "Vicario", ma alcune accuse, anche se non si configurarono come quelle di Hochhuth, furono addirittura precedenti l'inizio stesso della seconda guerra mondiale. Il primo a parlare delle titubanze di Pio XII fu infatti Emmanuel Mounier che, nel maggio del 1939, rimproverò garbatamente un silenzio che metteva in imbarazzo migliaia di cuori: quello di Pio XII in merito all'aggressione italiana all'Albania.
Della stessa natura fu il secondo indice puntato da parte di un altro intellettuale cattolico francese, François Mauriac, che nel 1951 lamentò, nella prefazione a un libro di Léon Poliakov, che gli ebrei perseguitati non avessero avuto il conforto di sentire dal papa condanne con parole nette e chiare per la "crocifissione di innumerevoli fratelli nel Signore". Va d'altra parte ricordato che lo stesso libro – uno dei primi testi importanti sull'antisemitismo – avanzava delle giustificazioni a quei silenzi. In sostanza, scriveva l'ebreo Poliakov, il papa era stato silente per non compromettere la sicurezza degli ebrei in modo maggiore di quanto non fosse già compromessa.
D. – Quindi il primo intervento di uno studioso ebreo sull'argomento fu molto cauto?
R. – Direi di più. A parte Poliakov, le prime valutazioni di esponenti delle comunità ebraiche di tutto il mondo non furono solo caute, ma addirittura calde nei confronti di Pio XII.
D. – Può essere intervenuto in questa cautela il fatto che le vere accuse al papa comincino a venire, già durante la guerra, da parte sovietica?
R. – Certamente Pio XII fu un papa anche – e sottolineo "anche" – anticomunista. E durante questi decenni di polemiche gli è stato spesso rimproverato di essere stato turbato da questa visione. Ricordiamo, ad esempio, due suoi famosi discorsi pronunciati prima di diventare papa, nel corso di due viaggi in Francia (1937) e in Ungheria (1938), in cui venivano sottolineate maggiormente le persecuzioni del regime comunista piuttosto che quelle del regime nazista.
A questo riguardo va però fatta una premessa: la tematizzazione della Shoah come noi oggi la recepiamo è di molti decenni successiva alla fine della seconda guerra mondiale. Io ricordo che negli anni Cinquanta e Sessanta si parlava ancora approssimativamente di deportati nei campi di concentramento. Si sapeva che agli ebrei era toccata la sorte peggiore, ma la piena consapevolezza della Shoah è qualcosa di successivo. Negli anni Trenta, pochissimi avevano l'idea di quello che poteva accadere agli ebrei. Certo, in Germania c'era stata la "notte dei cristalli". Ma è ovviamente molto più facile leggere e comprendere i fatti oggi, col senno del poi. E gli ebrei fuggiti dalla Germania non furono accolti a braccia aperte in nessuna parte del mondo, neanche negli Stati Uniti. Insomma, fu un problema complesso. Il mondo occidentale, il mondo civile, tranne alcune eccezioni, non capì, non si rese conto di quello che stava accadendo. Perciò quando noi parliamo di un papa alla fine degli anni Trenta, possiamo comprendere che fosse più sensibile alle persecuzioni anticristiane in Unione Sovietica rispetto a quanto stava emergendo nel mondo nazista. Questo non vuol dire che fosse un nazista camuffato.
D. – Anni Trenta: la polemica spesso si sposta anche su Pio XI...
R. – Uno dei rimproveri portati al cardinale Pacelli, segretario di Stato di Pio XI, è stato quello di averne attenuato le condanne del nazionalsocialismo. Tra le tante accuse – secondo me non del tutto giustificate – che ha ricevuto Pacelli c'è stata anche quella di aver smussato, di aver attenuato i toni dell'enciclica "Mit Brennender Sorge". In realtà, esaminando sotto il profilo storico l'attività di papa Pacelli, ricorderei alcuni particolari. Quando iniziò la guerra egli criticò l'apatia della Chiesa francese sotto la dominazione nazista nella Francia di Vichy; poi criticò l'antisemitismo, quello sì evidente, del monsignore slovacco Josef Tiso; diede – come ben raccontato in un libro di Renato Moro, "La Chiesa e lo sterminio degli ebrei", Il Mulino – la propria disponibilità e addirittura una mano, con decisione rischiosissima, a dei complotti contro Hitler tra il 1939 e il 1940. Continuo: quando nel giugno 1941 l'Unione Sovietica fu invasa dalla Germania, c'era una certa resistenza nel mondo occidentale a stringere accordi con chi fino a quel momento aveva combattuto la guerra dalla parte della Germania nazista. Pio XII invece si diede molto da fare per facilitare un'alleanza fra Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica.
E infine il capitolo più importante: durante l'occupazione nazista di Roma – come raccontato ad esempio in due libri, quello famoso di Enzo Forcella ("La resistenza in convento", Einaudi) e l'altro appena uscito di Andrea Riccardi ("L'inverno più lungo", Laterza) – la Chiesa mise a disposizione tutta se stessa: quasi ogni basilica, ogni chiesa, ogni seminario, ogni convento ospitò e diede una mano agli ebrei. Tant'è che a Roma, a fronte dei duemila ebrei deportati, diecimila riuscirono a salvarsi. Ora, non voglio dire che tutti quei diecimila li salvò la Chiesa di Pio XII, però senz'altro la Chiesa contribuì a salvarne la maggior parte. Ed è impossibile che il papa non fosse a conoscenza di quello che facevano i suoi preti e le sue suore. Il risultato fu che per anni, anni e anni – ci sono decine di citazioni possibili – personalità importantissime del mondo ebraico hanno riconosciuto questo merito intestandolo esplicitamente a Pio XII.
Di queste testimonianze si è persa ormai quasi traccia. Ne ha parlato, ad esempio, un bel libro di Andrea Tornielli ("Pio XII il papa degli ebrei", Piemme). È una letteratura molto vasta di cui vorrei fornire qualche scampolo. Nel 1944 il gran rabbino di Gerusalemme, Isaac Herzog, dichiara: "Il popolo d'Israele non dimenticherà mai ciò che Pio XII e i suoi illustri delegati, ispirati dai principi eterni della religione che stanno alla base di un'autentica civiltà, stanno facendo per i nostri sventurati fratelli e sorelle nell'ora più tragica della nostra storia. Una prova vivente della divina provvidenza in questo mondo".
Nello stesso anno, il sergente maggiore Joseph Vancover scrive: "Desidero raccontarvi della Roma ebraica, del gran miracolo di aver trovato qui migliaia di ebrei. Le chiese, i conventi, i frati e le suore e soprattutto il pontefice sono accorsi all'aiuto e al salvataggio degli ebrei sottraendoli agli artigli dei nazisti, e dei loro collaborazionisti fascisti italiani. Grandi sforzi non scevri da pericoli sono stati fatti per nascondere e nutrire gli ebrei durante i mesi dell'occupazione tedesca. Alcuni religiosi hanno pagato con la loro vita per quest'opera di salvataggio. Tutta la Chiesa è stata mobilitata allo scopo, operando con grande fedeltà. Il Vaticano è stato il centro di ogni attività di assistenza e salvataggio nelle condizioni della realtà e del dominio nazista".
Cito poi da una lettera dal fronte italiano del soldato Eliyahu Lubisky, membro del kibbutz socialista Bet Alfa. Fu pubblicata sul settimanale "Hashavua" il 4 agosto 1944: "Tutti i profughi raccontano il lodevole aiuto da parte del Vaticano. Sacerdoti hanno messo in pericolo le loro vite per nascondere e salvare gli ebrei. Lo stesso pontefice ha partecipato all'opera di salvataggio degli ebrei".
Ancora, 15 ottobre 1944. Registriamo la relazione del commissario straordinario delle comunità israelitiche di Roma, Silvio Ottolenghi: "Migliaia di nostri fratelli si sono salvati nei conventi, nelle chiese, negli extraterritoriali. In data 23 luglio ho avuto l'ordine di essere ricevuto da Sua Santità al quale ho portato il ringraziamento della comunità di Roma per l'assistenza eroica e affettuosa fattaci dal clero attraverso i conventi e i collegi... Ho riferito a Sua Santità il desiderio dei correligionari di Roma di andare in massa a ringraziarlo. Ma tale manifestazione non potrà essere fatta che alla fine della guerra per non pregiudicare tutti coloro che al nord hanno ancora bisogno di protezione".
D. – Questo a guerra ancora in corso. Veniamo a oggi...
R. – Oggi purtroppo l'attenzione su Pio XII è talmente forte che anche un normale dibattito storiografico s'incendia.
D. – La questione scotta a tal punto che ancora c'è il problema della fotografia di Pio XII a Yad Vashem e della sua didascalia. Nonostante la massa di testimonianze appena accennate. Cos'è successo?
R. – È successo che nel corso degli anni si è diffusa la leggenda nera di Pio XII. Ricordiamo i libri di John Cornwell ("Hitler's Pope [Il papa di Hitler]") e di Daniel Goldhagen ("Hitlers willige Vollstrecker [I volenterosi carnefici di Hitler]") dove queste accuse si fanno più esplicite. Si è formato un senso comune per cui Pio XII viene visto come un pontefice addirittura complice del Führer nazista. Una cosa pazzesca! E pensare che al processo Eichmann nel 1961 fu espresso un giudizio sul papa che vale la pena rileggere. A parlare è Gideon Hausner, procuratore generale di Stato a Gerusalemme: "A Roma il 16 ottobre 1943 fu organizzata una vasta retata nel vecchio quartiere ebraico. Il clero italiano partecipò all'opera di salvataggio, i monasteri aprirono agli ebrei le loro porte. Il pontefice intervenne personalmente a favore degli ebrei arrestati a Roma".
D. – Solo due anni prima della rappresentazione del "Vicario"...
R. – Ed è proprio dal 1963 che prende piede una revisione del ruolo di Pio XII di due tipi. Uno malizioso – interno alla Chiesa stessa – che contrapponeva a Pio XII la figura di Giovanni XXIII. Fu un'operazione devastante: si è trattato Giovanni XXIII come un papa che avrebbe avuto nel corso della seconda guerra mondiale quelle sensibilità che invece Pio XII non aveva avuto. Una tesi molto bizzarra. E tra le righe delle invettive contro Pacelli, sembra emergere che al pontefice sia stato presentato il conto per il suo anticomunismo. In realtà Pio XII è stato un papa in linea con la storia della Chiesa cattolica del Novecento. Se si legge quello che ha scritto o si ascoltano in registrazione i suoi discorsi ci si rende conto come espresse, ad esempio, anche critiche al liberalismo. Voglio dire che non era affatto un alfiere dell'atlantismo anticomunista.
D. – Non era cioè il cappellano dell'Occidente...
R. – Assolutamente no. L'immagine di Pio XII come il cappellano della grande offensiva anticomunista nella guerra fredda è fuorviante. Anche se, naturalmente, era anticomunista. E di questo anticomunismo gli è stato presentato un conto salatissimo che ne ha deformato l'immagine attraverso rappresentazioni teatrali, pubblicazioni e film. Ma chiunque abbia un atteggiamento non pregiudiziale e provi a conoscere Pacelli attraverso i documenti, non può che rimanere stupito di questa leggenda nera che non ha alcun senso. Pio XII è stato un grande papa, all'altezza della situazione. È come se oggi rinfacciassimo a Roosevelt di non aver detto parole più chiare nei confronti degli ebrei. Ma come si può sindacare all'interno di una guerra e in più per una personalità disarmata com'è un papa? La speciosità di questa offensiva nei confronti di Pio XII appare davvero sospetta a qualsiasi persona in buona fede ed è una speciosità a cui è doveroso opporre resistenza. Prima o poi ci sarà pure qualcuno che rileggerà i fatti alla luce anche delle testimonianze cui accennavo prima.
D. – Ci sono differenze fra la storiografia europea, in particolare italiana, e quella americana su Pio XII?
R. – Secondo me sì. Non dobbiamo dimenticare che questa avversione nei confronti di Pio XII è nata nel mondo anglosassone e protestante. Non è nata nel mondo ebraico che, invece, si è adattato nel tempo per non essere preso in contropiede da una campagna internazionale. Ovvero: se un papa viene accusato di aver lasciato correre l'antisemitismo, ovviamente il mondo ebraico si sente impegnato a vederci chiaro. Si arriva così all'episodio della settima sala dello Yad Vashem a Gerusalemme dove è apparsa una fotografia del papa con una didascalia che definisce "ambiguo" il suo comportamento. Oppure alla richiesta, nel 1998, da parte dell'allora ambasciatore d'Israele presso la Santa Sede, Aaron Lopez, di una moratoria nella beatificazione di Pio XII. Ora, in questa storia della moratoria io non entro perché non è un problema storiografico. Però c'è qualcosa di eccessivamente pervicace nei confronti di questo papa e puzza di bruciato lontano un miglio.
È dal 1963 che sono stati accesi i riflettori su Pio XII alla ricerca delle prove della sua colpevolezza e non è venuto fuori niente. Anzi, gli studi hanno portato alla luce una documentazione molto copiosa che attesta come la sua Chiesa diede agli ebrei un aiuto fondamentale. Mi ricordo a questo proposito un gesto molto bello: nel giugno 1955 l'Orchestra Filarmonica d'Israele chiese di poter fare un concerto in onore di Pio XII in Vaticano per esprimere gratitudine a questo papa e suonò alla presenza del papa un tempo della settima sinfonia di Beethoven. Questo era il clima. E allorché il papa morì, Golda Meir – ministro degli esteri d'Israele e futuro premier – disse: "Quando il martirio più spaventoso ha colpito il nostro popolo durante i dieci anni del terrore nazista, la voce del Pontefice si è levata in favore delle vittime. Noi piangiamo la perdita di un grande servitore della pace". La voce del pontefice per qualcuno non si era levata, ma loro l'avevano udita. Capito? Golda Meir aveva udito la sua voce. E William Zuckermann, direttore della rivista "Jewish Newsletter", scrisse: "Tutti gli ebrei d'America rendano omaggio ed esprimano il loro compianto perché probabilmente nessuno statista di quella generazione aveva dato agli ebrei più poderoso aiuto nell'ora della tragedia. Più di chiunque altro noi abbiamo avuto il modo di beneficiare della grande e caritatevole bontà e della magnanimità del rimpianto pontefice durante gli anni della persecuzione e del terrore". Così è stato considerato Pio XII per anni, per decenni. Erano forse tutti pazzi? No, anzi, erano coloro che avevano subito le persecuzioni di cui Pio XII è incolpato come complice. Se noi lo prendiamo come un caso storiografico, quello della leggenda nera è pazzesco. Però io penso che, a parte qualche polemista, ogni storico degno di questo nome si batterà – anche nel caso di persone come me che non sono cattolico – per ristabilire la verità.
D. – Cosa è emerso fino a oggi dalla storiografia israeliana? C'è stata un'evoluzione nel giudizio degli storici? È ancora oggi acceso un dibattito su Pio XII?
R. – Direi che la storiografia israeliana è molto trattenuta. In realtà il caso è ancora aperto per la pervicacia di un altro mondo che non è il mondo ebraico. Secondo me vanno considerati tre aspetti. Prima di tutto Pio XII paga il conto per il suo anticomunismo. Secondo: questo papa conosceva bene la Germania e aveva avuto un atteggiamento filotedesco che, attenzione, non vuol dire filonazista. Infine va detto che le critiche a Pio XII provengono sempre da mondi nei confronti dei quali le critiche potrebbero essere dieci volte tanto. Mondi che nel corso della Shoah non seppero dare una presenza neanche lontanamente vicina a quella che loro rimproverano a Pio XII di non avere avuto.
D. – Vuole farci qualche esempio?
R. – Penso a quanto è accaduto in Francia, in Polonia, ma anche negli stessi Stati Uniti. Ragioniamo: la tesi di coloro che accusano Pio XII è che tutti sapevano e che comunque si poteva sapere. Io allora vi chiedo: chi ricordiamo, durante la seconda guerra mondiale, tra le personalità di questi mondi che abbiano levato la sua voce nella maniera in cui si rimprovera al papa di non averlo fatto? Io non ne conosco.
D. – Fa riferimento anche agli antifascisti italiani?
R. – Assolutamente sì. Ma insomma: chi può essere indicato come qualcuno che ha fatto per gli ebrei qualcosa che il papa non ha fatto? Io non ne conosco. Ci saranno casi singoli, come ci sono stati casi singoli di alti prelati della Chiesa. Almeno, questo papa tutto ciò che era nelle sue possibilità lo ha fatto. Ha consentito a diecimila ebrei che stavano a Roma – ma è successo anche in altre parti d'Italia – di salvarsi rispetto ai duemila che invece sono stati uccisi. Non capisco quale dovrebbe essere il termine di paragone. Allora credo si possa ipotizzare che queste critiche, queste invettive, partano da mondi che non hanno la coscienza in ordine rispetto a questo problema.
D. – La leggenda nera è quindi un caso di cattiva coscienza?
R. – Direi di sì. Non si spiega altrimenti. La verità è che l'odio per Pio XII nacque in un contesto preciso, quello dell'inizio della guerra fredda. Ricordiamo che fu il papa che rese possibile in Italia la vittoria della Democrazia Cristiana nel 1948. Io sono convinto che le accuse nei suoi confronti siano lo spurgo di un odio nato nella seconda metà degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta. La letteratura ostile a Pio XII è successiva alla fine della guerra. In Italia, parte dopo la rottura del governo di unità nazionale del 1947 e matura durante tutti gli anni Cinquanta in modo più acceso. Tutto questo deposito di odio o di forte avversione è emerso in anni successivi. Del resto, se fosse venuto alla luce immediatamente, gli ebrei che avevano avuto la vita salva per merito di questa Chiesa, non avrebbero consentito che si dicesse e si scrivesse quanto è stato detto e scritto. Essendo venuto fuori venti o trent'anni dopo, tutti i testimoni, tutti coloro che erano stati salvati – stiamo parlando di migliaia di persone – non c'erano più e la nuova generazione dei loro figli assorbì quelle accuse. E infatti chi ha fatto e fa resistenza a queste accuse? Gli storici.
D. – Per di più si sono poi aggiunte le voci dei cattolici che hanno contrapposto a Pio XII il suo successore, Giovanni XXIII.
R. – Infatti credo che l'avvio delle cause di beatificazione dei due papi sia stato annunciato contemporaneamente non certo per caso. Del resto quando Paolo VI andò in Terra Santa nel 1964 e parlò in termini molto caldi di Pio XII, non ci furono grandi proteste. Nessuno protestò. Ed era già partita l'operazione "Vicario". Le accuse sembravano incredibili. Successivamente la valanga è venuta crescendo a mano a mano che scompariva la generazione dei testimoni diretti. Io comunque penso che a Pio XII sarà resa giustizia dagli storici.
D. – Abbiamo accennato ai cattolici. "La Civiltà Cattolica" ha scritto che Pio XII non ebbe voce di profeta. Non si tratta di un giudizio un po' anacronistico? Forse il pontefice sarebbe dovuto andare il 16 ottobre 1944 nel ghetto come era andato nel quartiere bombardato di San Lorenzo poche settimane prima?
R. – Sinceramente, quella parte di sangue ebraico che corre nelle mie vene mi fa preferire un papa che aiuta i miei correligionari a sopravvivere, piuttosto di uno che compie un gesto dimostrativo. Un papa che va in un quartiere bombardato è un papa che piange sulle vittime, compie un gesto di calore e affetto per la città, mentre controversa poteva essere la sua presenza nel ghetto. Certo, col senno di poi si può dire di tutto, anche – come è stato scritto – che sarebbe stato giusto che si fosse buttato sulle rotaie per impedire ai treni di partire. Io penso però che si tratti di giudizi espressi alla leggera. E poi, sinceramente, su questi argomenti, rimproverare un altro di non aver fatto ciò che nessuno dei tuoi ha fatto, è un po' azzardato. A me infatti non risulta che esponenti della Resistenza antinazista romana siano andati al ghetto o si siano buttati sulle rotaie. Sono discorsi veramente poco sereni.
D. – Sulla polemica all'interno del cattolicesimo il rabbino David Dalin è arrivato a scrivere che Pio XII è il bastone più grosso di cui i cattolici progressisti possono disporre per usarlo come arma contro i tradizionalisti...
R. – L'aspetto più sconveniente, ma a me evidente (anche se lo giudico dal di fuori), è che questa battaglia nel mondo cattolico che contrappone le figure di Giovanni XXIII e di Pio XII non è molto coraggiosa, perché nessuno la fa a volto scoperto. Non c'è un libro o un articolo di un rappresentante autorevole del mondo cattolico che dica chiaramente Giovanni XXIII sì e Pio XII no. È una battaglia condotta tra le righe, fatta di sottigliezze. Il discorso per me è semplice: o si è davvero convinti che Pio XII sia stato un papa complice del nazismo, oppure se le cose stanno nei termini discussi in questa intervista, allora certa gente dovrebbe rendersi conto che questi argomenti contribuiscono solo alla persistenza della leggenda nera su questo papa. Si noti bene: io credo che questa leggenda nera abbia i tempi contati. Pio XII non sarà un papa segnato da una "damnatio memoriae".
D. – Perché dice questo?
R. – Proprio dal punto di vista storico le evidenze a favore sono tali e tante, e la mancanza di evidenze contrarie è così ampia che questa offensiva contro Pio XII è destinata a esaurirsi.
D. – Un'ultima domanda sull'atteggiamento di Pio XII. Come si possono ricostruire i caratteri del suo silenzio operoso nei confronti della Shoah?
R. – Io ho pensato molto spesso a Pio XII provando a immaginare che tipo di personalità fosse. È stato paragonato a Benedetto XV, il papa della prima guerra mondiale. Ma la seconda guerra mondiale è stata molto diversa. Sicuramente Pacelli è stato una persona tormentata, che ha avuto dei dubbi. Lui stesso si soffermò nel 1941 sul proprio "silenzio". Si è trovato in un crocevia terribile che ha messo in discussione alcuni suoi convincimenti. Poi ha avuto un periodo successivo alla guerra molto lungo, fino al 1958, in cui ha continuato a essere un papa forte, presente, importante, decisivo per la ricostruzione dell'Italia nel dopoguerra. Forse è stato il papa più importante del Novecento. Fu sicuramente tormentato da dubbi. Sulla questione del silenzio, come ho detto, si è interrogato. Ma proprio questo mi dà l'idea di una sua grandezza.
Tra l'altro mi ha molto colpito un fatto. Una volta finita la guerra, se Pio XII avesse avuto la coscienza sporca, si sarebbe vantato dell'opera di salvezza degli ebrei. Lui invece non l'ha mai fatto. Non ha mai detto una parola. Poteva farlo. Poteva farlo scrivere, farlo dire. Non lo ha fatto. Questa è per me la prova di quale fosse lo spessore della sua personalità. Non era un papa che sentiva il bisogno di difendersi. Per quanto riguarda il giudizio su Pio XII, devo dire che mi è rimasto nel cuore quanto scrisse nel 1964 Robert Kempner, un magistrato ebreo di origini tedesche, numero due della pubblica accusa al processo di Norimberga: "Qualsiasi presa di posizione propagandistica della Chiesa contro il governo di Hitler sarebbe stata non solamente un suicidio premeditato, ma avrebbe accelerato l'assassinio di un numero ben maggiore di ebrei e sacerdoti".
Concludo: per vent'anni i giudizi su Pio XII sono stati unanimemente condivisi. Secondo me, allora, nell'offensiva contro di lui i conti non tornano. E chiunque si accinge a studiarlo con onestà intellettuale deve partire proprio da questo. Dai conti che non tornano.
10/10/2008 16:18 – INDIA - Attivista indiano: Il massacro dei cristiani programmato da tempo di Nirmala Carvalho - Lenin Raghuvanshi ha visitato l’Orissa come membro di un’inchiesta voluta dalla Commissione europea per la prevenzione della tortura. I radicali indù hanno in programma di estirpare i cristiani dalla regione e riconvertire tribali e paria all’induismo.
Bhubaneshwar (AsiaNews) – La campagna di attacchi contro i cristiani in Orissa era programmata da mesi. Lo afferma Lenin Raghuvanshi, direttore del Comitato popolare per la vigilanza sui diritti umani. Il dott. Raghuvanshi ha visitato l’Orissa come membro per un’inchiesta della Commissione europea per la prevenzione della tortura.
Parlando ad AsiaNews egli ha detto che “nel distretto di Kandhamal [l’epicentro delle violenze di queste settimane – ndr] si sta attuando uno sradicamento della popolazione cristiana marginale ad opera dei quadri radicali indù: Rss, Bd, Vhp (Rashtriya Swayamsevak Sangh; Bajrang Dal; Vishwa Hindu Parishad)”.
L’ondata di violenze ha ucciso finora 61 persone, fatto 18 mila feriti, distrutto 4500 case, incendiato e razziato 181 chiese. Essa è stata in apparenza motivata dall’uccisione di Swami Laxamananda Saraswati, un leader del Vhp, avvenuta il 23 agosto scorso, ad opera di un gruppo di maoisti, anche se i gruppi fondamentalisti indù da subito hanno accusato i cristiani dell’assassinio.
“In realtà – spiega Raghuvanshi – fin dal 14 agosto, circa 10 giorni prima della morte dello Swami, una folla di membri dell’Rss è arrivata al villaggio di Sahasipudar minacciando la gente di violenze se avessero ancora continuato a seguire il cristianesimo. Gli estremisti hanno avvertito i cristiani che d’ora in poi la Gita [uno dei libri sacri dell’induismo – ndr] doveva essere il loro testo sacro”.
In Orissa, campagne per riconvertire tribali e paria cristiani all’induismo datano da decenni. Lo stesso Swami ucciso in agosto era uno dei propugnatori più accaniti. Nel dicembre scorso, alla vigilia di Natale, è stato proprio lui a spingere a nuovi attacchi contro i cristiani, bruciando 13 chiese e uccidendo 3 persone, oltre a mettere in fuga migliaia di fedeli.
“Dopo le violenze anti-cristiane di dicembre 2007 – dice Raghuvanshi – almeno 3 famiglie si sono riconvertite all’induismo per paura. Ed è curioso constatare che in diverse chiese in rovina, distrutte dagli assalti, pende adesso un ritratto dello Swami Laxamananda”.
Il dott. Lenin Raghuvanshi ha da poco vinto il premio “Acha Peace Star”, per il suo impegno a favore della riconciliazione fra comunità in India. Commentando ancora le violenze avvenute in Orissa e il suo lavoro di inchiesta, egli ha detto: “Siamo stati testimoni delle atrocità più deplorevoli e inumane. Forse questi fondamentalisti stanno cercando di accrescere l’ira nazionalistica e l’odio fra le comunità in vista delle elezioni dell’anno prossimo. Qui le elezioni si vincono sopprimendo delle vite umane. Quanto in basso può scendere l’umanità?”.
11/10/2008 09:18 – VIETNAM - Anche un giornale per bambini nella campagna contro i cattolici di Hanoi - di J.B. An Dang
Sul periodico, destinato ai ragazzi delle elementari, “uno studente” delle primarie scrive di aver perso la fede a causa del comportamento dell’arcivescovo. Ordine di comparizione per il superiore dei Redentoristi.
Hanoi (AsiaNews) – Dopo radio, televisione e quotidiani, ora tocca alle riviste per bambini allinearsi nella campagna di disinformazione dei media controllati dallo Stato contro i cattolici. Questa settimana è stato fatto scendere in campo anche Thieu Nien Tien Phong (Bambini pionieri), periodico destinato ai piccoli delle scuole elementari.
La scenografia è sempre la stessa, già seguita dai giornali per gli aduli, come ad esempio dal quotidiano del Partito comunista Nhan Dan. Obiettivo dell’attacco sono gli esponenti della Chiesa cattolica, in primo luogo l’arcivescovo Joseph Ngo Quang Kiet. E c’è la protesta di un cattolico, Qui uno “studente delle scuole elementari”, afferma di aver perso la sua fede cattolica a causa delle affermazioni e dei comportamenti del vescovo.
“E’ spudorato – commenta padre Dang Huu Chau, un sacerdote di Hanoi – usare un giornale per bambini per diffondere queste evidenti bugie”.
Se la campagna di stampa segna così un ulteriore degrado, anche la campagna di intimidazione verso i sacerdoti ed i parrocchiani di Thai Ha registra un’escalation. Una parrocchiana racconta che nell’ultimo mese è stata convocata otto volte dalla polizia. Ogni volta le fanno la stessa domanda: perché è andata a pregare in una zona dove si sa che le riunioni di preghiera sono illegali?
Giovedì, poi, gli agenti si sono recati al monastero per presentare un ordine di comparizione a padre Matthew Vu Khoi Phung, superiore dei Redentoristi. E’ accusato di aver usato la sua influenza per incitare i fedeli a sfidare il governo, pregando illegalmente in una zona pubblica e disturbando l’ordine pubblico. Il Comitato del popolo (municipio) di Hanoi ha rilasciato un avviso nel quale minaccia azioni legali contro di lui e la polizia afferma di aver trovato ampia prova di “crimine organizzato” nelle veglie di preghiera di Thai Ha. Quando gli agenti sono arrivati, però, il superiore non era al monastero: era partito alcune ore prima per Ho Chi Minh City, per un incontro.
Luigi Martin e Zelia Guerin - Autore: Schilirò, Valter e Leo, Adele Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - Quando abbiamo cominciato a chiedere l’intercessione di Luigi e Zelia Martin per la guarigione di Pietro, sapevamo ben poco di loro, ricordavamo solo che s. Teresa in “Storia di un’anima” diceva di aver avuto «un padre e una madre più degni del Cielo che della terra».
Man mano che passavano i giorni è cresciuto in noi il desiderio di conoscerli.
Luigi e Zelia arrivano al Matrimonio dopo un brevissimo fidanzamento. Entrambi avevano verificato la possibilità di una vita religiosa e quando si incontrano, vivono la loro vocazione al Matrimonio nella totale apertura alla volontà di Dio.
Per circa dieci mesi vissero un cammino verginale dentro lo stato matrimoniale, forse un delicato gesto di amore con il quale Luigi “attese” la sua cara Zelia che non sapeva nulla dell’intimità coniugale.
Zelia scrive alla figlia:
Lett 192 Tu che ami tanto tuo padre, mia Paolina, penserai che gli recassi dispiacere e che gliene abbia arrecato il giorno del mio matrimonio. Ma no, egli mi comprendeva e mi consolava del suo meglio, poiché aveva gusti simili ai miei; credo anzi che il nostro reciproco affetto proprio così sia aumentato: i nostri sentimenti sono stati sempre all’unisono ed egli è sempre stato per me un consolatore ed un sostegno. Ma quando abbiamo avuto i nostri figlioli … tutto ci riusciva facilissimo, il mondo non ci era più di peso. Per me era il grande compenso, perciò desideravo averne molti, per allevarli per il Cielo…”
Luigi e Zelia si sono molto amati, qualche testimonianza dalle loro lettere:
- Lett 1 al fratello Isidoro: “..Io sono sempre felicissima con lui, mi rende la vita molto serena. Mio marito è un sant’uomo, ne auguro uno simile a tutte le donne: ecco l’augurio che faccio a loro per il nuovo anno…”
- Lett 46 a Luigi in viaggio d’affari: “Mio caro Luigi, … Quando riceverai questa lettera sarò occupata a mettere in ordine il tuo banco da lavoro; non ti dovrai irritare, non perderò nulla, nemmeno un vecchio quadrante, né un pezzetto di molla, insomma niente, e poi sarà tutto pulito sopra e sotto! Non potrai dire che «ho soltanto cambiato il posto alla polvere», perché non ce ne sarà più... Ti abbraccio di tutto cuore, oggi sono tanto felice al pensiero di rivederti che non posso lavorare. Tua moglie che ti ama più della sua vita”.
- Luigi così firmava una sua lettera: “Tuo marito e vero amico, che ti ama per la vita”
La loro vita non fu segnata da particolari esperienze mistiche o da fatti straordinari, ma dalla ferma convinzione che Dio si occupa di noi, anche nei fatti più piccoli della vita quotidiana.
In una lettera alla figlia Paolina, Zelia a proposito di un amico che diceva “Dio non si occupa di noi”, scriveva:”…lo vedrà se il buon Dio non se ne occupa, e credo che sarà ben presto, Mi addolora che amici così buoni abbiano simili sentimenti. Lo so bene io che il buon Dio si occupa di me: me ne sono già accorta molte volte in vita mia ed ho molti ricordi a questo riguardo che non si cancelleranno mai dalla mia memoria”(Lett 156)
Questa loro fiducia nasce quindi da esperienze concrete e non è frutto di sforzo psicologico. E’ questa certezza che sostiene i momenti di fatica.
Come noi, anche Zelia sperimenta tutta la debolezza della sua umanità.
Scrive nel 1876: “Anch’io vorrei farmi santa, ma non so da che parte incominciare; c’è tanto da fare che mi limito al desiderio. Dico spesso durante la giornata: «Mio Dio, come vorrei essere santa!». Poi non faccio le opere!” (Lett. 154)
La partecipazione alla Messa quotidiana, la preghiera comune, permeava la vita di questa famiglia e la fede era presentata ai figli come una risposta all’Amore di Dio per loro. Di questo i primi testimoni furono proprio i genitori; dice s. Teresa di suo papà: “non avevo che da guardarlo per sapere come pregano i santi”. Anche la sorella Celina testimonia: “Mia madre mi prendeva sulle sue ginocchia per aiutarmi a preparare le mie confessioni, ed era proprio alla confidenza delle sue figliuole che si rivolgeva sempre. Essendo molto persuasiva, era difficile nasconderle qualche cosa, così aiutò Maria ad essere meno indipendente”.
In casa Martin “Dio è il primo ad esser servito”.
Zelia era molto preoccupata per Leonia, la terza figlia, che aveva un carattere aspro e indocile e una grande difficoltà di autocontrollo. Scriveva alla cognata Lett 117: “… per cambiare questa natura ho fiducia solo in un miracolo. E’ vero che io non merito miracoli e, tuttavia, spero contro ogni speranza, Più la vedo difficile, più mi persuado che il buon Dio non permetterà che resti così. Pregherò tanto che si lascerà commuovere…”
Rivolgendosi a Paolina diceva riguardo Leonia Lett 210 “..Ella è meno dotata di voi di doni della natura, ha però un cuore che domanda di amare e di essere amato”.
Un loro grande desiderio era quello di donare alla Chiesa un figlio missionario.
Non immaginavano certo che avrebbero donato alla Chiesa una figlia Patrona delle Missioni e Dottore della Chiesa!
Teresa e le sue sorelle sono state educate alla missione fin dall’infanzia.
I coniugi Martin sono molto attenti alle necessità spirituali e corporali che incontrano perché “è Gesù stesso che viene a farci visita nella persona dei poveri e dei sofferenti”.
Lett 159 a Paolina: “...abbiamo incontrato un povero vecchio che aveva un aspetto bonario. Ho mandato Teresa a portargli una piccola elemosina, è sembrato tanto commosso ed ha tanto ringraziato che ho compreso che doveva essere molto infelice. Gli ho detto di seguirci, che gli avrei dato delle scarpe. Gli è stato servito un buon pasto: moriva di fame. (…) Raccomando alle tue preghiere … un povero uomo che sta per morire. Sono quarant’anni che non si confessa. Tuo padre fa tutto quello che può per deciderlo a convertirsi, ma lui pensa di essere un santo… Ed è veramente un brav’uomo, ma più difficile da convertire di un cattivo: non c’è che un miracolo della Grazia che possa far cadere il fitto velo che ha davanti agli occhi.”
In casa Martin lavorano delle domestiche, inoltre Zelia ha delle operaie che lavorano per lei a domicilio facendo il Punto d’Alençon.
Scrive al fratello: Lett 29 “Non è sempre il lauto guadagno che assicura l’affezione dei domestici; bisogna che essi sentano che li amiamo, bisogna manifestare loro della simpatia e non essere troppo rigidi a loro riguardo… Tu sai che sono molto vivace, eppure tutte le domestiche che ho avuto mi hanno amata... Vero è che non tratto le mie domestiche meno bene dei miei figli…”
Luigi considerava come un delitto antisociale ogni ritardo di pagamento a danno dei lavoratori e dei fornitori. Perciò esigeva che si pagasse subito “per non trattenere ingiustamente” diceva “una somma dovuta, o un salario guadagnato..”.
Luigi e Zelia ebbero nove figli di cui quattro morti in tenera età.
Scrive Zelia alla cognata a cui è morto il figlio Paolo alla nascita: Lett 72: “..Che il buon Dio le accordi la rassegnazione alla sua santa volontà. Il suo caro piccolo bimbo è presso di Lui, la vede, l’ama e lo ritroverà un giorno. E’ una grande consolazione chi io ho provata e che provo ancora. Quando chiudevo gli occhi dei miei cari figlioletti e li mettevo nella bara, provavo un dolore molto grande, ma sempre rassegnato. Non rimpiangevo i dolori e gli affanni sopportati per loro. Molti mi dicevano: «Sarebbe stato molto meglio non averli mai avuti». Non potevo tollerare questo linguaggio. Non trovo che i miei dolori ed affanni potessero essere commisurati con la felicità eterna dei miei bambini. (…) Lei lo vede, mia cara sorella, è un grande bene avere degli angioletti in Cielo, ma non è meno penoso, per la natura, perderli; sono queste le gravi afflizioni della nostra vita…”.
Nell’estate 1876, Zelia ha un doloroso rigonfiamento al seno che verrà diagnosticato come tumore fibroso molto grave, non operabile. Questa notizia getta tutta la famiglia nella costernazione.
Zelia reagisce con coraggio, mettendo la sua fiducia nel Signore.
Lett 189: “Insomma, il buon Dio mi fa la grazia di non spaventarmi; sono tranquillissima, mi sento quasi felice, non cambierei la mia sorte con nessun altra.
Se il buon Dio mi vuole guarire, sarò contentissima, perché in fondo desidero vivere: mi costa lasciar mio marito e le mie figliole. Ma d’altra parte mi dico: «Se non guarirò è forse perché per loro sarà più utile che io me ne vada». Intanto, farò tutto il possibile per ottenere un miracolo; conto sul pellegrinaggio di Lourdes, ma se non sarò guarita, cercherò di cantare lo stesso al ritorno”.
Lett 204: “…ci dobbiamo mettere nella disposizione di accettare generosamente la volontà di Dio, quale che sia, poiché sarà sempre quello che vi può essere di meglio per noi”.
Zelia morirà il 28 agosto 1877 dopo un doloroso calvario.
Il 16 agosto riesce con fatica a scrivere la sua ultima lettera al fratello: Lett 217 - …Decisamente la Santa Vergine non mi vuol guarire. …Che volete? Se la Santa Vergine non mi guarisce, è perché il mio tempo è finito e il buon Dio vuole che mi riposi altrove che sulla terra…”.
Dopo la morte di Zelia, Luigi lascia Alençon e si trasferisce con le figlie a Lisieux, dove poteva avere l’appoggio di Isidoro Guerin (fratello di Zelia) e di sua moglie.
E’ in questa cittadina che si comincia a delineare la vocazione delle sorelle Martin.
Luigi non si oppose mai alle richieste delle sue figlie, anzi riteneva un onore che Dio avesse scelto per sé nella sua famiglia queste anime destinate alla preghiera per la Chiesa. anche se la separazione era per lui dolorosa.
“Ti ho permesso, per la tua felicità, di entrare al Carmelo, ma non credere che non sia senza sacrificio da parte mia, perché ti amo tanto” così rispose alla richiesta di Paolina.
Uno dei suoi amici gli diceva: «Abramo non ha nulla da insegnarle; Lei avrebbe fatto come lui se il buon Dio le avesse domandato di sacrificare la sua Reginetta...». Egli replicò subito: «Sì, ma lo confesso, avrei alzato la mia spada lentamente, aspettando l’Angelo e l’Ariete».
La prima ad entrare al Carmelo fu Paolina, all’età di 21 anni, la seguirà Maria quattro anni dopo.
Anche Teresa chiede di entrare al Carmelo a 15 anni.
Leonia entrò alla Visitazione di Caen, dove finalmente trovò il suo equilibrio.
Celina entrò nel Carmelo solo dopo la morte del suo papà.
Dopo l’ingresso di Teresa al Carmelo, Luigi cominciò a manifestare i segni della malattia che lo avrebbe accompagnato fino alla morte. Cominciò con degli attacchi di paralisi ai quali si aggiunge una progressiva perdita di memoria.
Anche in questa crescente confusione mentale, Luigi continuava, nei momenti di lucidità, a dar testimonianza dell’offerta di sé all’Amore misericordioso.
Luigi muore il 29 luglio 1894.
Leggendo la loro storia, abbiamo trovato una famiglia normale che ha vissuto, nel loro tempo, le nostre stesse preoccupazioni per il lavoro, per l’educazione dei figli, per la salute… Hanno vissuto tutte le condizioni della vita affidandosi completamente al Signore perché certi del Suo amore per loro, certi della Sua Presenza buona nella loro vita.
Così vivendo, “il quotidiano diventa eroico e l’eroico quotidiano”.
Luigi e Zelia sono annoverati tra i Beati come coppia di sposi. La loro chiamata ci conferma che la vita matrimoniale non è uno stato inferiore rispetto alla vita consacrata.
La Chiesa ce li propone ora come modelli da seguire.
Anche noi siamo chiamati alla santità vivendo pienamente il nostro essere sposo e sposa nella vita ordinaria, nell’affezione a Cristo ed alla sua Chiesa.
Valter Schilirò e Adele Leo
Monza, 04 ottobre 2008
Festa di S. Francesco
Le lettere citate sono tratte da “Lettere familiari” di Zelia Guérin Martin – Ed. OCD - Roma
CRISI/ Bauman: soddisfare tutti i desideri, senza sacrifici. È il "vivere a credito" - Alberto Contri - sabato 11 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Di fronte al crollo del sistema mondiale della finanza, sono sempre più forti le lamentele sul fatto che l’economia virtuale ha perso ogni relazione con quella reale. Anche da parte di chi fino a ieri ci ha sguazzato e ne ha pure ampiamente beneficiato.
Ma la lezione che traspare da quanto sta accadendo è assai più amara di quanto si dice, perché non riguarda solo il settore dell’economia, ma i più importanti pilastri della convivenza sociale: l’educazione, lo studio, il lavoro – e – più in generale – la visione del mondo. Con la sua consueta e fulminante lucidità, il sociologo Zygmunt Bauman ha individuato una delle radici di questo disastro: la crescente abitudine del “vivere a credito”, che sta dilagando anche e soprattutto tra le classi più giovani. In sostanza, nota Baumann, quando un tempo si voleva appagare un qualsiasi desiderio, si stabiliva una scala di priorità, si mettevano da parte i soldi un poco alla volta, si rinunciava a qualcos’altro, si faticava un po’ di più, ci si ingegnava. Oggi non è più così: vuoi una cosa? Compri subito e paghi dopo. E se hai fatto troppi debiti, c’è sempre qualcuno pronto a prestarti altri soldi, mentre i tuoi precedenti “pagherò” verranno addirittura rivenduti, creando il meccanismo vizioso dei titoli “tossici”. Ma la tossicità di questo approccio è tanto più grave in quanto ha pesantemente contaminato la complessiva visione della vita: la facilità con cui è stato possibile appagare qualsiasi desiderio immediato, anche superfluo, sembra aver reso del tutto inutile il ricorso al labor, allo studio, alla fatica, al sacrificio.
In termini più sociologici, si può osservare che nel nostro paese, dietro l’esempio quotidiano di grandi “rentier”, di manager rampanti, di smargiassi rappresentanti del jet-set e delle terrazze romane quotidianamente celebrati da Dagospia, dalla tv e dai settimanali popolari, la maggioranza dei nostri ragazzi ha creduto che il successo fosse un traguardo raggiungibile grazie ad un po’ di fortuna, ad una buona dose di furbizia, alle amicizie giuste o magari ad una comparsata televisiva. Sempre con il viatico della necessaria raccomandazione alle spalle, senza la quale oggi sembra impossibile acchiappare un qualsiasi lavoro decente. Sicchè lo studio, la fatica, il sudore, sono apparsi del tutto inutili.
Oggi tutte le colpe vengono date alla finanza, ma il circo mediatico che ha sempre osannato i personaggi citati (e si è ben guardato dal denunciare l’incestuoso e malato rapporto tra economia, finanza e politica che ha favorito il prosperare del mostruoso meccanismo che sta portando il mondo sull’orlo del baratro), non si rende nemmeno conto delle proprie responsabilità. Anzi, ora si mette pure – e in coro - a cantare il ritornello della finanza che ha tradito l’economia. Andrea Romano, su Il Riformista, ha molto opportunamente osservato che oggi in Italia ci troviamo inoltre di fronte alla crisi senza una classe dirigente di rincalzo. Per la verità ci sarebbe, ed è quella che cresce nei movimenti organizzati e orientati soprattutto all’educazione: lì crescono giovani abituati a studiare, a faticare, a confrontarsi in tutti i suoi aspetti con la società reale. Il problema è uno solo: chi è oggi al potere li saprà valorizzare dando loro lo spazio che si meritano, o li userà per l’ennesima volta come portatori d’acqua e donatori di sangue per poter sopravvivere un altro po’, perdendo definitivamente l’unica chance rimasta al paese?
CINEMA/ "La Classe": uno sguardo tra i banchi di scuola tra finzione e realtà - Antonio Autieri - sabato 11 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Dopo la vittoria della Palma d’oro a Cannes e un trionfale successo nei cinema francesi, arriva anche in Italia Entre les Murs di Laurent Cantet. Che da noi, dove esce oggi venerdì 10 ottobre, prende il titolo più semplice ed efficace possibile per un film sul mondo della scuola: La classe. E in effetti si svolge praticamente tutto all’interno della classe in cui opera l’insegnante François Bégaudeau: vero nome dello scrittore, ed ex insegnante, autore del libro omonimo sull’argomento da cui è tratto il film (edito con lo stesso titolo da Einaudi Stile Libero), cui ha collaborato alla sceneggiatura e di cui interpreta il protagonista. Insomma, siamo dalle parti del cinema-verità, quasi un documentario o meglio una docufiction (per dirla con termine alla moda), il tutto agevolato da un attore che fa (o faceva) l’insegnante e studenti che recitano delle parti ma sono in realtà dei veri studenti e non attori in erba. Anche se c’è più cinema in questo film che in tante pellicole che circolano nelle sale. Ma è vero che di documentaristico c’è un elemento: più che una storia classica, con un inizio e una fine, siamo di fronte a uno spaccato di vita di un gruppo costituito da un insegnante e dai suoi allievi. In una scuola media superiore parigina, il giovane ma già abbastanza esperto François si trova a che fare con un gruppo di adolescenti (che segue da alcuni anni ma che vivono, crescendo, una continua e difficile evoluzione) istintivi, strafottenti, quasi violenti; sicuramente ribelli e insofferenti alla sua autorità. Chi si alza ed esce dalla classe, chi risponde male, chi non obbedisce alle richieste del prof (“non ho voglia di leggere” afferma candida una ragazza, suscitando le sue ire). I ragazzi sono di varia estrazione sociale e di diverse etnie, e questo si ripercuote sull’armonia generale: alcuni si guardano in cagnesco, si concepiscono nemici per le rispettive provenienza: salvo allearsi contro il professore in alcuni casi, quasi drammatici…
E attorno all’insegnante non c’è un contesto che lo aiuti: se il preside lo assiste nelle sue richieste disciplinari nessuno prevede una proposta educativa (anche se François ci crede a un insegnamento che non sia solo comunicazione di nozioni), i colleghi sembrano più confusi di lui, smarriti di fronte alle difficoltà, oppure fermi nella riproposizione di una disciplina ferrea ma anacronistica, o ancora astratti nella formulazione di proposte strampalate (c’è chi propone una patente a punti dello studente, a ogni infrazione via un punto fino all’espulsione). In tutto ciò, François si batte per il recupero dei ragazzi e contro la loro stessa ingratitudine. Ma vien da pensare che da solo non ce la farà: perché lui cerca il dialogo, ma non funziona; prova ad affermare la sua autorità, ma con scarsi risultati. Soprattutto, vorrebbe “giocare” con i ragazzi sul piano della loro umanità, che cerca in tutti i modi di far emergere (e, in certi momenti, con qualcuno ci riesce). Nessuno però gli fa compagnia nel suo pur apprezzabile tentativo. Anche se il finale sembrerebbe conciliatorio: ma non lo è, come dimostra l’ultima, amara, commovente battuta di una ragazza sfiduciata da se stessa e dalla scuola, e fino ad allora quasi invisibile perfino per il bravo professore… In un film apprezzabile dal punto di vista cinematografico – per nulla claustrofobico nonostante sia tutto in un luogo chiuso, e sapiente nella gestione del ritmo e della tensione crescente – Laurent Cantet si conferma (come nei primi film Risorse umane e A tempo pieno, sul mondo del lavoro) regista sincero, appassionato e sensibile, abile nell’evitare la retorica ma anche uno sguardo cinico e distante. E se il tema “multietnico” interroga chi vive nella scuola italiana, lo è ancora di più il livello educativo: film da consigliare e far vedere a insegnanti e studenti (e genitori), magari insieme e discutendone, La classe chiede a chi ha responsabilità educative di mettersi in gioco. Non cercando un modello che non c’è, e che non pretende nemmeno di essere (semmai, c’è più l’ammissione di un’impotenza: e qui si vede la distanza da film “retorici” o discutibili del passato, uno su tutto L’attimo fuggente).
Ma affrontando con serietà le domande che pone, con sorprendente e disarmata onestà.
ETICA E GIUSTIZIA - «La Carta non attribuisce il potere di disporre del fine vita – spiega il docente di diritto pubblico all’Università di Tor Vergata –. Semmai il contrario: c’è un divieto» «Continui equivoci sulla Costituzione» Marini: disponibilità della salute non della vita, Avvenire, 11 ottobre 2008
DA ROMA GIOVANNI RUGGIERO
Quando ha letto nell’editoriale di Stefano Rodotà sulla Repubblica
di domenica scorsa di una prepotenza del legislatore, che «vorrebbe espropriare le persone del diritto di governare liberamente la propria esistenza», gli è parso di non credere ai propri occhi, e ha sorriso. «Voce dal sen sfuggita?», chiediamo a Francesco Saverio Marini, docente di Istituzioni di diritto pubblico a Torvergata: il giovane costituzionalista sorride ancora e spiega che forse l’illustre collega ha espresso più di quanto volesse dire nella realtà. Ma nella sostanza, ci spiega Marini, la tesi che il testamento biologico sia previsto già in Costituzione è solo frutto di una cattiva interpretazione dell’articolo 32 della Carta, come quella appunto fornita da Rodotà.
Professore, l’equivoco come nasce?
Nell’articolo 32 – dal quale alcuni fanno derivare il diritto alla disponibilità della vita che poi darebbe luogo al testamento biologico – in realtà è prevista soltanto la libertà di salute e si contemplano limiti e trattamenti sanitari obbligatori nei soli casi previsti dalla legge. Quindi è una 'libertà di salute' che consente a ciascuno di stabilire se e come curarsi. Partendo da questa premessa, il passaggio successivo incorre in un vizio logico: quello di ritenere che, avendo la possibilità di non curarmi, io possa non curarmi fino alla morte e, quindi, posso disporre della mia vita.
La Costituzione stessa imporrebbe così la disponibilità della vita?
È una deduzione basata sul vizio logico che consente di giocare sul termine di 'disponibilità'. Una cosa è la disponibilità di fatto – posso decidere di non curarmi o anche di suicidarmi e, nei fatti dispongo della mia vita, così come posso uccidere un’altra persona e, quindi, dispongo della vita altrui – però altra cosa è la disponibilità di diritto. È da qualche secolo che questa disponibilità non viene riconosciuta; anzi, il nostro ordinamento la sanzio- na. Si pensi all’omicidio del consenziente o all’assistenza al suicidio.
Si è anche sostenuto che esiste il diritto di governare liberamente la propria esistenza e di lasciare gli interessati liberi di decidere secondo i propri convincimenti. Cosa ne pensa?
Si arriva a questa conclusione automatica, sempre partendo da quell’errore interpretativo dell’articolo 32. Si ritiene la vita un atto giuridico di disposizione, come fosse un qualsiasi altro bene. Il discorso di Rodotà giuridicamente non regge. L’errore è appunto quello di ritenere che la Costituzione già attribuisca a tutti il potere di disporre del fine vita.
Ma c’è o non c’è questo diritto in Costituzione?
Assolutamente non c’è. Semmai il contrario: c’è un divieto. Una futura legge sul testamento biologico è complessa. Intanto non potrebbe far riferimento a un vero 'testamento', perché questo è un atto di disposizione e ciò non è ipotizzabile, riferendosi alla vita. È ipotizzabile, semmai, riferendoci alla libertà di salute, l’espressione di una volontà che abbia una durata nel tempo. Parliamo di 'ultra attività' della volontà: una volontà espressa per un periodo successivo. Qui interveniamo sui limiti della libertà di salute, nel senso che si può stabilire il periodo di validità di questa volontà di non curarsi. Ma è una volontà che può valere per uno o due anni, forse di più, ma non certamente per vent’anni.
Per quale motivo?
È del tutto evidente: perché negli anni può mutare e muta la situazione fisica e di fatto che ha portato il soggetto a esprimere quella volontà. Intendo dire che un conto è esprimere una volontà quando si è già manifestata una malattia degenerativa nel nostro organismo e un conto è esprimere questa stessa volontà di morire quando si gode di ottima salute. L’equivoco, dunque, è confondere libertà di salute e disponibilità della vita. Su questo equivoco giocano non solo i giuristi ma la stessa Cassazione. L’articolo 32, che non c’entra nulla con la disponibilità, non porta automaticamente al cosiddetto testamento biologico.
Come giudica la recente sentenza della Corte Costituzionale sul conflitto di attribuzione? Pare che favorisca, oltretutto, la tendenza dei giudici a creare diritto quando aggiungono alla legge cose non previste. Così, almeno, pare sia avvenuto nel caso concreto di Eluana.
La sentenza non sembra da condividere nella parte in cui dichiara l’inammissibilità del ricorso per mancanza dei requisiti oggettivi. Non è infatti da escludere che una sentenza di un giudice ordinario possa invadere le attribuzioni delle Camere. La Consulta con le sentenze 'additive' (quando, cioè, introduce disposizioni non previste dalla legge) crea diritto. Quello che però i giudici ordinari non possono fare è emettere sentenze di questo tipo. Nel caso volessero estendere una norma, dovrebbero rimettere la questione alla Corte. Di fatto, però, accade che i giudici talvolta creino la legge, ma qui, evidentemente, siamo nel campo dell’errore giudiziario.
1) Aborti più facili: per la Cgil è «splendido» - La dittatura giudiziaria degli anni tangentari ha mollato il morso sulla Casta per addentare qualcosa di più morbido e indifeso. Oggi, mettono i loro sigilli sui confini della vita e della morte, all’ingesso dei laboratori dove il mistero dell’esistenza e del dolore viene sezionato e manipolato, sugli embrioni in provetta in attesa nei frigoriferi biologici… di Luigi Santambrogio LIBERO 10/10/08
2) Pio XII beato? Ma prima di tutto giusto - Il rabbino di Haifa protesta e "La Civiltà Cattolica" frena. Ma la beatificazione di papa Eugenio Pacelli è sempre più vicina. E anche la storia dovrà rendergli giustizia, sostiene su "L'Osservatore Romano" l'ebreo e laico Paolo Mieli - di Sandro Magister
3) 10/10/2008 16:18 – INDIA - Attivista indiano: Il massacro dei cristiani programmato da tempo di Nirmala Carvalho - Lenin Raghuvanshi ha visitato l’Orissa come membro di un’inchiesta voluta dalla Commissione europea per la prevenzione della tortura. I radicali indù hanno in programma di estirpare i cristiani dalla regione e riconvertire tribali e paria all’induismo.
4) 11/10/2008 09:18 – VIETNAM - Anche un giornale per bambini nella campagna contro i cattolici di Hanoi - di J.B. An Dang
5) Luigi Martin e Zelia Guerin - Autore: Schilirò, Valter e Leo, Adele Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - Quando abbiamo cominciato a chiedere l’intercessione di Luigi e Zelia Martin per la guarigione di Pietro, sapevamo ben poco di loro, ricordavamo solo che s. Teresa in “Storia di un’anima” diceva di aver avuto «un padre e una madre più degni del Cielo che della terra».
6) CRISI/ Bauman: soddisfare tutti i desideri, senza sacrifici. È il "vivere a credito" - Alberto Contri - sabato 11 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
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8) ETICA E GIUSTIZIA - «La Carta non attribuisce il potere di disporre del fine vita – spiega il docente di diritto pubblico all’Università di Tor Vergata –. Semmai il contrario: c’è un divieto» «Continui equivoci sulla Costituzione» Marini: disponibilità della salute non della vita, Avvenire, 11 ottobre 2008
Aborti più facili: per la Cgil è «splendido» - La dittatura giudiziaria degli anni tangentari ha mollato il morso sulla Casta per addentare qualcosa di più morbido e indifeso. Oggi, mettono i loro sigilli sui confini della vita e della morte, all’ingesso dei laboratori dove il mistero dell’esistenza e del dolore viene sezionato e manipolato, sugli embrioni in provetta in attesa nei frigoriferi biologici… di Luigi Santambrogio LIBERO 10/10/08
Ma che avranno da ridere e festeggiare quei fresconi della Cgil? A Milano hanno inscenato caroselli e danze di ringraziamento alla notizia che gli aborti terapeutici sono tornati al limite della 24esima settimana. C’è davvero da rallegrarsi se tanti feti e prematuri, dopo la sentenza del Consiglio di Stato, anziché aiutati a sopravvivere, verranno ributtati nei cassonetti dei rifiuti speciali? Incredibile danza macabra: i compagni del sindacato comunista, riferiscono le cronache, non stavano più nella pelle. E solo per la soddisfazione di aver battuto il nemico Formigoni.
Tanto, a pagare il biglietto del divertimento, saranno i piccoli mai nati. «Splendida giornata», ha dichiarato, con incoscienza imbecille che sfiora l’apologia di reato (violazione della legge 194), il capataz lombardo del sindacato. Radioso giorno, sol dell’avvenire, naturalmente, aggiunge l’allegrone, «per le donne, i loro diritti, la loro libertà di scelta». Chissà invece per il feto, per i suoi diritti e libertà, cosa sarà quella sentenza?
Che splendida giornata
La questione in breve è questa: si trattava di decidere entro quale settimana possono essere praticati gli aborti terapeutici. La legge 194 lascia al medico la possibilità di decidere, comunque proibisce l’aborto se il feto è in grado di sopravvivere in modo autonomo. Lo scorso gennaio, la Regione Lombardia, stabiliva questo limite alla 22esima settimana e tre giorni, perché «nei nostri ospedali», dicevano le direttive lombarde, «grazie ai progressi scientifici e tecnologici, i feti possono vivere di vita autonoma già dalla 22esima settimana».
Dunque, nessun pregiudizio ideologico o morale, semplicemente la presa d’atto che i tempi son cambiati e le tecniche mediche pure. Un fatto oggettivo e scientifico che il Consiglio di Stato, su ricorso di 8 medici sponsorizzati Cgil, ha bocciato con chissà quale criterio (occorre attendere la pubblicazione delle motivazioni). Ma questo al sindacato (pure in sala parto ce lo troviamo tra i forcipi) importa nulla, a loro basta la soddisfazione, tutta politica e ideologica, di aver battuto quel ciellino di Governatore e tutta la compagnia cattolica dei pro-life. Il capoccia cigiellasco è così fuori di testa dalla contentezza che si lascia scappare quel funereo osanna sulla «splendida giornata», rubato indebitamente a Vasco Rossi.
Penoso e anche vergognoso per un ex grande sindacato come la Cgil. Negli spettacolini del cabaret di una volta, si battuteggiava sul fatto che «la prima gallina che canta ha fatto l’uovo». La Cgil ha cantato, anzi, ha messo su un coro polifonico da osteria, così sguaiato da mettere a rischio l’intero pollaio. L’uovo, poi, non promette nulla di buono: assomiglia tanto a quella scritta che salutava i deportati ebrei all’ingresso di Auschwitz: «Il lavoro vi renderà liberi». Ma lì, almeno, era chiaro di che libertà si trattasse. La Cgil definisce «splendida» una sentenza che assomiglia a una condanna capitale, che autorizza a buttare una vita a dispetto di ogni motivazione medica e scientifica.
Nello stesso giorno in cui altri due pronunciamenti (la Consulta e la Corte d’appello) accorciano l’esistenza ad Eluana Englaro, la ragazza in stato vegetativo da 16 anni per la quale il padre chiede l’interruzione della nutrizione e dell’idratazione.
Dalle tangenti alla vita
«Eluana deve morire, così finirà il mio inferno», ha dichiarato il padre in un’intervista. E in quel lapsus, «il mio inferno», ci sono tutti gli anni del dolore, strazio e disperazione di un amore a vuoto, muto e impassibile. Che non risponde e corrisponde più, senza speranza. Come può finire l’inferno con la morte di una figlia? Ma questa è altra storia e altro dramma. O forse no.
Coincidenze cattive, tre sentenze uscite da assisi di giudici e magistrati, segnale esemplare e arrogante di una già compiuta svolta istituzionale, preoccupante e pericolosa. La dittatura giudiziaria degli anni tangentari (la magistratura allora bruciava ladri e corruttori per conto dei giusti e degli onesti) ha mollato il morso sulla Casta per addentare qualcosa di più morbido e indifeso. Oggi, mettono i loro sigilli sui confini della vita e della morte, all’ingesso dei laboratori dove il mistero dell’esistenza e del dolore viene sezionato e manipolato, sugli embrioni in provetta in attesa nei frigoriferi biologici.
Ma una cosa è chiara: gli stregoni degli incroci cellulari e della dissolvenza embrionale, non potranno più parlare in nome della libera scienza e del progresso biotecnologico.
Gli ermellini del popolo
Liberi non saranno più: da oggi, a decidere chi viene al mondo e chi invece deve togliersi la seccatura dell’esserci, saranno i giudici ermellinati, le Corti, i Cortili e i Sottoscala della giustizia, los magistratos e los togatos. La legge c’è ed è chiara, ma loro sono stati predestinati ad applicarla oppure no.
A insindacabile e allegro giudizio, in nome e al posto del popolo. Come nelle migliori dittature.
Pio XII beato? Ma prima di tutto giusto - Il rabbino di Haifa protesta e "La Civiltà Cattolica" frena. Ma la beatificazione di papa Eugenio Pacelli è sempre più vicina. E anche la storia dovrà rendergli giustizia, sostiene su "L'Osservatore Romano" l'ebreo e laico Paolo Mieli - di Sandro Magister
ROMA, 10 ottobre 2008 – Celebrando ieri in San Pietro la messa nel cinquantesimo anniversario della morte di Pio XII, papa Joseph Ratzinger ha invitato tutti a pregare "perché prosegua felicemente la causa della sua beatificazione".
Fu Paolo VI in persona, nell'aula del Concilio Vaticano II, a proporre la beatificazione di Pio XII, assieme a quella di Giovanni XXIII. Era l'8 novembre 1965, quando già si addensavano su papa Eugenio Pacelli le accuse di aver collaborato con i suoi silenzi allo sterminio nazista degli ebrei: accuse divenute di dominio mondiale ad opera del dramma "Il Vicario" di Rolf Hochhuth, messo in scena per la prima volta due anni prima a Berlino.
Da allora, il percorso della causa di beatificazione di Pio XII si è intersecato con la controversia sui suoi silenzi. L'8 maggio 2007 la congregazione vaticana delle cause dei santi ha votato all'unanimità "l'eroicità delle virtù" di papa Pacelli, ultimo passo prima del processo di beatificazione vero e proprio. Ma Benedetto XVI non ha sinora autorizzato la pubblicazione del decreto. Una commissione di studio è stata incaricata di un ulteriore approfondimento, anche sulla base dei documenti presenti negli archivi vaticani ma ancora non accessibili al pubblico.
La contrarietà alla beatificazione di Pio XII è stata espressa più volte, negli anni passati da alcuni esponenti ebrei. Tra questi, l'attuale rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni.
Ad essi si è sorprendentemente unito, lo scorso 6 ottobre, il rabbino capo di Haifa, Shear Yashuv Cohen.
Sorprendentemente perché il rabbino Cohen si è scagliato contro la beatificazione di Pio XII subito dopo aver parlato nell'aula del sinodo dei vescovi, al quale era stato invitato come ospite speciale e nel quale aveva fatto ingresso con tutti gli onori, al fianco di Benedetto XVI, per la prima volta nella storia dei sinodi.
E anche lì, al termine del suo discorso, aveva lanciato una velata accusa contro papa Pacelli, dicendo:
"Noi ebrei non possiamo dimenticare il triste e doloroso fatto di come molti, inclusi grandi capi religiosi, non levarono una voce nello sforzo di salvare i nostri fratelli, ma scelsero di rimanere in silenzio e di aiutarli in segreto".
In segreteria di stato, il cardinale Tarcisio Bertone e il ministro degli esteri Dominique Mamberti si sono parecchio irritati per la sortita del rabbino e prima ancora per aver scelto lui come ospite, quando si sa che tra i leader ebrei ve ne sono molti – e di valore – che hanno un'alta stima di Pio XII.
Le autorità vaticane, naturalmente, non accettano che si interferisca dall'esterno su decisioni, come le proclamazioni di santi e beati, che competono strettamente alla Chiesa. Ma le opposizioni più insidiose alla beatificazione di Pio XII arrivano da dentro il campo cattolico più che da fuori.
Alcune di queste opposizioni sono scontate, ad esempio quella frontale degli studiosi della "scuola di Bologna", la cui esaltazione di Giovanni XXIII va di pari passo con la squalifica di Pio XII.
Altre invece sono più sottili e ammantate d'autorevolezza. È il caso della "Civiltà Cattolica", la rivista dei gesuiti di Roma che è stampata con il previo controllo della segreteria di stato.
Lo scorso 18 settembre, lo stesso giorno in cui Benedetto XVI difendeva le virtù eroiche di Pio XII parlando a un gruppo di ebrei della Pave the Way Foundation, "La Civiltà Cattolica" è uscita con un articolo del suo storico, padre Giovanni Sale, molto critico delle cautele diplomatiche con cui Pacelli, da segretario di stato, reagì alle leggi razziali antiebraiche promulgate in Italia nel 1938.
In Vaticano l'articolo – riprodotto in più lingue in www.chiesa – ha suscitato grande trambusto. Chi accusa i gesuiti della "Civiltà Cattolica" di far opera di boicottaggio, chi la segreteria di stato d'aver omesso il doveroso controllo.
Il cardinale Bertone ha cercato di riportare ordine dando grande evidenza, su "L'Osservatore Romano" dell'8 ottobre, alla sua prefazione ad un libro di strenua difesa di Pio XII, "La verità ti farà libero", scritto dall'americana suor Margherita Marchione e uscito lo stesso giorno per i tipi della Libreria Editrice Vaticana.
Ma un contraccolpo della baruffa provocata dalla "Civiltà Cattolica" si è ritrovato ancora su "L'Osservatore Romano" del giorno successivo, in una domanda di un'intervista su papa Pacelli.
"La Civiltà Cattolica ha scritto che Pio XII non ebbe voce di profeta. Non si tratta di un giudizio un po' anacronistico?".
L'intervista è a Paolo Mieli, allievo del grande storico del fascismo Renzo De Felice e direttore del maggiore quotidiano italiano, il "Corriere della Sera". Mieli è di famiglia ebraica, con parenti morti nei campi di concentramento nazisti.
E in un'intera pagina del "giornale del papa" Mieli letteralmente smantella la "leggenda nera" che pesa su Pio XII, da lui definito "il papa più importante del Novecento".
L'intervista è stata raccolta da Maurizio Fontana, che l'ha firmata, e dal direttore de "L'Osservatore Romano", Giovanni Maria Vian. È uscita giovedì 9 ottobre, lo stesso giorno della messa nel cinquantesimo della morte di Pio XII, con Benedetto XVI che nell'omelia ha detto di lui:
"Agì spesso in modo segreto e silenzioso proprio perché, alla luce delle concrete situazioni di quel complesso momento storico, egli intuiva che solo in questo modo si poteva evitare il peggio e salvare il più gran numero possibile di ebrei".
Ecco l'intervista, integrale:
La storia renderà giustizia a Pio XII
Intervista a Paolo Mieli
D. – Si parla spesso del dramma di Rolf Hochhuth "Il Vicario" messo in scena per la prima volta il 20 febbraio 1963 al Freie Volksbühne di Berlino. Ma le critiche agli atteggiamenti di papa Pacelli risalgono a molti anni prima. Quando nacque davvero il "problema Pio XII"?
R. – Lo spartiacque è senz'altro la messa in scena del "Vicario", ma alcune accuse, anche se non si configurarono come quelle di Hochhuth, furono addirittura precedenti l'inizio stesso della seconda guerra mondiale. Il primo a parlare delle titubanze di Pio XII fu infatti Emmanuel Mounier che, nel maggio del 1939, rimproverò garbatamente un silenzio che metteva in imbarazzo migliaia di cuori: quello di Pio XII in merito all'aggressione italiana all'Albania.
Della stessa natura fu il secondo indice puntato da parte di un altro intellettuale cattolico francese, François Mauriac, che nel 1951 lamentò, nella prefazione a un libro di Léon Poliakov, che gli ebrei perseguitati non avessero avuto il conforto di sentire dal papa condanne con parole nette e chiare per la "crocifissione di innumerevoli fratelli nel Signore". Va d'altra parte ricordato che lo stesso libro – uno dei primi testi importanti sull'antisemitismo – avanzava delle giustificazioni a quei silenzi. In sostanza, scriveva l'ebreo Poliakov, il papa era stato silente per non compromettere la sicurezza degli ebrei in modo maggiore di quanto non fosse già compromessa.
D. – Quindi il primo intervento di uno studioso ebreo sull'argomento fu molto cauto?
R. – Direi di più. A parte Poliakov, le prime valutazioni di esponenti delle comunità ebraiche di tutto il mondo non furono solo caute, ma addirittura calde nei confronti di Pio XII.
D. – Può essere intervenuto in questa cautela il fatto che le vere accuse al papa comincino a venire, già durante la guerra, da parte sovietica?
R. – Certamente Pio XII fu un papa anche – e sottolineo "anche" – anticomunista. E durante questi decenni di polemiche gli è stato spesso rimproverato di essere stato turbato da questa visione. Ricordiamo, ad esempio, due suoi famosi discorsi pronunciati prima di diventare papa, nel corso di due viaggi in Francia (1937) e in Ungheria (1938), in cui venivano sottolineate maggiormente le persecuzioni del regime comunista piuttosto che quelle del regime nazista.
A questo riguardo va però fatta una premessa: la tematizzazione della Shoah come noi oggi la recepiamo è di molti decenni successiva alla fine della seconda guerra mondiale. Io ricordo che negli anni Cinquanta e Sessanta si parlava ancora approssimativamente di deportati nei campi di concentramento. Si sapeva che agli ebrei era toccata la sorte peggiore, ma la piena consapevolezza della Shoah è qualcosa di successivo. Negli anni Trenta, pochissimi avevano l'idea di quello che poteva accadere agli ebrei. Certo, in Germania c'era stata la "notte dei cristalli". Ma è ovviamente molto più facile leggere e comprendere i fatti oggi, col senno del poi. E gli ebrei fuggiti dalla Germania non furono accolti a braccia aperte in nessuna parte del mondo, neanche negli Stati Uniti. Insomma, fu un problema complesso. Il mondo occidentale, il mondo civile, tranne alcune eccezioni, non capì, non si rese conto di quello che stava accadendo. Perciò quando noi parliamo di un papa alla fine degli anni Trenta, possiamo comprendere che fosse più sensibile alle persecuzioni anticristiane in Unione Sovietica rispetto a quanto stava emergendo nel mondo nazista. Questo non vuol dire che fosse un nazista camuffato.
D. – Anni Trenta: la polemica spesso si sposta anche su Pio XI...
R. – Uno dei rimproveri portati al cardinale Pacelli, segretario di Stato di Pio XI, è stato quello di averne attenuato le condanne del nazionalsocialismo. Tra le tante accuse – secondo me non del tutto giustificate – che ha ricevuto Pacelli c'è stata anche quella di aver smussato, di aver attenuato i toni dell'enciclica "Mit Brennender Sorge". In realtà, esaminando sotto il profilo storico l'attività di papa Pacelli, ricorderei alcuni particolari. Quando iniziò la guerra egli criticò l'apatia della Chiesa francese sotto la dominazione nazista nella Francia di Vichy; poi criticò l'antisemitismo, quello sì evidente, del monsignore slovacco Josef Tiso; diede – come ben raccontato in un libro di Renato Moro, "La Chiesa e lo sterminio degli ebrei", Il Mulino – la propria disponibilità e addirittura una mano, con decisione rischiosissima, a dei complotti contro Hitler tra il 1939 e il 1940. Continuo: quando nel giugno 1941 l'Unione Sovietica fu invasa dalla Germania, c'era una certa resistenza nel mondo occidentale a stringere accordi con chi fino a quel momento aveva combattuto la guerra dalla parte della Germania nazista. Pio XII invece si diede molto da fare per facilitare un'alleanza fra Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica.
E infine il capitolo più importante: durante l'occupazione nazista di Roma – come raccontato ad esempio in due libri, quello famoso di Enzo Forcella ("La resistenza in convento", Einaudi) e l'altro appena uscito di Andrea Riccardi ("L'inverno più lungo", Laterza) – la Chiesa mise a disposizione tutta se stessa: quasi ogni basilica, ogni chiesa, ogni seminario, ogni convento ospitò e diede una mano agli ebrei. Tant'è che a Roma, a fronte dei duemila ebrei deportati, diecimila riuscirono a salvarsi. Ora, non voglio dire che tutti quei diecimila li salvò la Chiesa di Pio XII, però senz'altro la Chiesa contribuì a salvarne la maggior parte. Ed è impossibile che il papa non fosse a conoscenza di quello che facevano i suoi preti e le sue suore. Il risultato fu che per anni, anni e anni – ci sono decine di citazioni possibili – personalità importantissime del mondo ebraico hanno riconosciuto questo merito intestandolo esplicitamente a Pio XII.
Di queste testimonianze si è persa ormai quasi traccia. Ne ha parlato, ad esempio, un bel libro di Andrea Tornielli ("Pio XII il papa degli ebrei", Piemme). È una letteratura molto vasta di cui vorrei fornire qualche scampolo. Nel 1944 il gran rabbino di Gerusalemme, Isaac Herzog, dichiara: "Il popolo d'Israele non dimenticherà mai ciò che Pio XII e i suoi illustri delegati, ispirati dai principi eterni della religione che stanno alla base di un'autentica civiltà, stanno facendo per i nostri sventurati fratelli e sorelle nell'ora più tragica della nostra storia. Una prova vivente della divina provvidenza in questo mondo".
Nello stesso anno, il sergente maggiore Joseph Vancover scrive: "Desidero raccontarvi della Roma ebraica, del gran miracolo di aver trovato qui migliaia di ebrei. Le chiese, i conventi, i frati e le suore e soprattutto il pontefice sono accorsi all'aiuto e al salvataggio degli ebrei sottraendoli agli artigli dei nazisti, e dei loro collaborazionisti fascisti italiani. Grandi sforzi non scevri da pericoli sono stati fatti per nascondere e nutrire gli ebrei durante i mesi dell'occupazione tedesca. Alcuni religiosi hanno pagato con la loro vita per quest'opera di salvataggio. Tutta la Chiesa è stata mobilitata allo scopo, operando con grande fedeltà. Il Vaticano è stato il centro di ogni attività di assistenza e salvataggio nelle condizioni della realtà e del dominio nazista".
Cito poi da una lettera dal fronte italiano del soldato Eliyahu Lubisky, membro del kibbutz socialista Bet Alfa. Fu pubblicata sul settimanale "Hashavua" il 4 agosto 1944: "Tutti i profughi raccontano il lodevole aiuto da parte del Vaticano. Sacerdoti hanno messo in pericolo le loro vite per nascondere e salvare gli ebrei. Lo stesso pontefice ha partecipato all'opera di salvataggio degli ebrei".
Ancora, 15 ottobre 1944. Registriamo la relazione del commissario straordinario delle comunità israelitiche di Roma, Silvio Ottolenghi: "Migliaia di nostri fratelli si sono salvati nei conventi, nelle chiese, negli extraterritoriali. In data 23 luglio ho avuto l'ordine di essere ricevuto da Sua Santità al quale ho portato il ringraziamento della comunità di Roma per l'assistenza eroica e affettuosa fattaci dal clero attraverso i conventi e i collegi... Ho riferito a Sua Santità il desiderio dei correligionari di Roma di andare in massa a ringraziarlo. Ma tale manifestazione non potrà essere fatta che alla fine della guerra per non pregiudicare tutti coloro che al nord hanno ancora bisogno di protezione".
D. – Questo a guerra ancora in corso. Veniamo a oggi...
R. – Oggi purtroppo l'attenzione su Pio XII è talmente forte che anche un normale dibattito storiografico s'incendia.
D. – La questione scotta a tal punto che ancora c'è il problema della fotografia di Pio XII a Yad Vashem e della sua didascalia. Nonostante la massa di testimonianze appena accennate. Cos'è successo?
R. – È successo che nel corso degli anni si è diffusa la leggenda nera di Pio XII. Ricordiamo i libri di John Cornwell ("Hitler's Pope [Il papa di Hitler]") e di Daniel Goldhagen ("Hitlers willige Vollstrecker [I volenterosi carnefici di Hitler]") dove queste accuse si fanno più esplicite. Si è formato un senso comune per cui Pio XII viene visto come un pontefice addirittura complice del Führer nazista. Una cosa pazzesca! E pensare che al processo Eichmann nel 1961 fu espresso un giudizio sul papa che vale la pena rileggere. A parlare è Gideon Hausner, procuratore generale di Stato a Gerusalemme: "A Roma il 16 ottobre 1943 fu organizzata una vasta retata nel vecchio quartiere ebraico. Il clero italiano partecipò all'opera di salvataggio, i monasteri aprirono agli ebrei le loro porte. Il pontefice intervenne personalmente a favore degli ebrei arrestati a Roma".
D. – Solo due anni prima della rappresentazione del "Vicario"...
R. – Ed è proprio dal 1963 che prende piede una revisione del ruolo di Pio XII di due tipi. Uno malizioso – interno alla Chiesa stessa – che contrapponeva a Pio XII la figura di Giovanni XXIII. Fu un'operazione devastante: si è trattato Giovanni XXIII come un papa che avrebbe avuto nel corso della seconda guerra mondiale quelle sensibilità che invece Pio XII non aveva avuto. Una tesi molto bizzarra. E tra le righe delle invettive contro Pacelli, sembra emergere che al pontefice sia stato presentato il conto per il suo anticomunismo. In realtà Pio XII è stato un papa in linea con la storia della Chiesa cattolica del Novecento. Se si legge quello che ha scritto o si ascoltano in registrazione i suoi discorsi ci si rende conto come espresse, ad esempio, anche critiche al liberalismo. Voglio dire che non era affatto un alfiere dell'atlantismo anticomunista.
D. – Non era cioè il cappellano dell'Occidente...
R. – Assolutamente no. L'immagine di Pio XII come il cappellano della grande offensiva anticomunista nella guerra fredda è fuorviante. Anche se, naturalmente, era anticomunista. E di questo anticomunismo gli è stato presentato un conto salatissimo che ne ha deformato l'immagine attraverso rappresentazioni teatrali, pubblicazioni e film. Ma chiunque abbia un atteggiamento non pregiudiziale e provi a conoscere Pacelli attraverso i documenti, non può che rimanere stupito di questa leggenda nera che non ha alcun senso. Pio XII è stato un grande papa, all'altezza della situazione. È come se oggi rinfacciassimo a Roosevelt di non aver detto parole più chiare nei confronti degli ebrei. Ma come si può sindacare all'interno di una guerra e in più per una personalità disarmata com'è un papa? La speciosità di questa offensiva nei confronti di Pio XII appare davvero sospetta a qualsiasi persona in buona fede ed è una speciosità a cui è doveroso opporre resistenza. Prima o poi ci sarà pure qualcuno che rileggerà i fatti alla luce anche delle testimonianze cui accennavo prima.
D. – Ci sono differenze fra la storiografia europea, in particolare italiana, e quella americana su Pio XII?
R. – Secondo me sì. Non dobbiamo dimenticare che questa avversione nei confronti di Pio XII è nata nel mondo anglosassone e protestante. Non è nata nel mondo ebraico che, invece, si è adattato nel tempo per non essere preso in contropiede da una campagna internazionale. Ovvero: se un papa viene accusato di aver lasciato correre l'antisemitismo, ovviamente il mondo ebraico si sente impegnato a vederci chiaro. Si arriva così all'episodio della settima sala dello Yad Vashem a Gerusalemme dove è apparsa una fotografia del papa con una didascalia che definisce "ambiguo" il suo comportamento. Oppure alla richiesta, nel 1998, da parte dell'allora ambasciatore d'Israele presso la Santa Sede, Aaron Lopez, di una moratoria nella beatificazione di Pio XII. Ora, in questa storia della moratoria io non entro perché non è un problema storiografico. Però c'è qualcosa di eccessivamente pervicace nei confronti di questo papa e puzza di bruciato lontano un miglio.
È dal 1963 che sono stati accesi i riflettori su Pio XII alla ricerca delle prove della sua colpevolezza e non è venuto fuori niente. Anzi, gli studi hanno portato alla luce una documentazione molto copiosa che attesta come la sua Chiesa diede agli ebrei un aiuto fondamentale. Mi ricordo a questo proposito un gesto molto bello: nel giugno 1955 l'Orchestra Filarmonica d'Israele chiese di poter fare un concerto in onore di Pio XII in Vaticano per esprimere gratitudine a questo papa e suonò alla presenza del papa un tempo della settima sinfonia di Beethoven. Questo era il clima. E allorché il papa morì, Golda Meir – ministro degli esteri d'Israele e futuro premier – disse: "Quando il martirio più spaventoso ha colpito il nostro popolo durante i dieci anni del terrore nazista, la voce del Pontefice si è levata in favore delle vittime. Noi piangiamo la perdita di un grande servitore della pace". La voce del pontefice per qualcuno non si era levata, ma loro l'avevano udita. Capito? Golda Meir aveva udito la sua voce. E William Zuckermann, direttore della rivista "Jewish Newsletter", scrisse: "Tutti gli ebrei d'America rendano omaggio ed esprimano il loro compianto perché probabilmente nessuno statista di quella generazione aveva dato agli ebrei più poderoso aiuto nell'ora della tragedia. Più di chiunque altro noi abbiamo avuto il modo di beneficiare della grande e caritatevole bontà e della magnanimità del rimpianto pontefice durante gli anni della persecuzione e del terrore". Così è stato considerato Pio XII per anni, per decenni. Erano forse tutti pazzi? No, anzi, erano coloro che avevano subito le persecuzioni di cui Pio XII è incolpato come complice. Se noi lo prendiamo come un caso storiografico, quello della leggenda nera è pazzesco. Però io penso che, a parte qualche polemista, ogni storico degno di questo nome si batterà – anche nel caso di persone come me che non sono cattolico – per ristabilire la verità.
D. – Cosa è emerso fino a oggi dalla storiografia israeliana? C'è stata un'evoluzione nel giudizio degli storici? È ancora oggi acceso un dibattito su Pio XII?
R. – Direi che la storiografia israeliana è molto trattenuta. In realtà il caso è ancora aperto per la pervicacia di un altro mondo che non è il mondo ebraico. Secondo me vanno considerati tre aspetti. Prima di tutto Pio XII paga il conto per il suo anticomunismo. Secondo: questo papa conosceva bene la Germania e aveva avuto un atteggiamento filotedesco che, attenzione, non vuol dire filonazista. Infine va detto che le critiche a Pio XII provengono sempre da mondi nei confronti dei quali le critiche potrebbero essere dieci volte tanto. Mondi che nel corso della Shoah non seppero dare una presenza neanche lontanamente vicina a quella che loro rimproverano a Pio XII di non avere avuto.
D. – Vuole farci qualche esempio?
R. – Penso a quanto è accaduto in Francia, in Polonia, ma anche negli stessi Stati Uniti. Ragioniamo: la tesi di coloro che accusano Pio XII è che tutti sapevano e che comunque si poteva sapere. Io allora vi chiedo: chi ricordiamo, durante la seconda guerra mondiale, tra le personalità di questi mondi che abbiano levato la sua voce nella maniera in cui si rimprovera al papa di non averlo fatto? Io non ne conosco.
D. – Fa riferimento anche agli antifascisti italiani?
R. – Assolutamente sì. Ma insomma: chi può essere indicato come qualcuno che ha fatto per gli ebrei qualcosa che il papa non ha fatto? Io non ne conosco. Ci saranno casi singoli, come ci sono stati casi singoli di alti prelati della Chiesa. Almeno, questo papa tutto ciò che era nelle sue possibilità lo ha fatto. Ha consentito a diecimila ebrei che stavano a Roma – ma è successo anche in altre parti d'Italia – di salvarsi rispetto ai duemila che invece sono stati uccisi. Non capisco quale dovrebbe essere il termine di paragone. Allora credo si possa ipotizzare che queste critiche, queste invettive, partano da mondi che non hanno la coscienza in ordine rispetto a questo problema.
D. – La leggenda nera è quindi un caso di cattiva coscienza?
R. – Direi di sì. Non si spiega altrimenti. La verità è che l'odio per Pio XII nacque in un contesto preciso, quello dell'inizio della guerra fredda. Ricordiamo che fu il papa che rese possibile in Italia la vittoria della Democrazia Cristiana nel 1948. Io sono convinto che le accuse nei suoi confronti siano lo spurgo di un odio nato nella seconda metà degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta. La letteratura ostile a Pio XII è successiva alla fine della guerra. In Italia, parte dopo la rottura del governo di unità nazionale del 1947 e matura durante tutti gli anni Cinquanta in modo più acceso. Tutto questo deposito di odio o di forte avversione è emerso in anni successivi. Del resto, se fosse venuto alla luce immediatamente, gli ebrei che avevano avuto la vita salva per merito di questa Chiesa, non avrebbero consentito che si dicesse e si scrivesse quanto è stato detto e scritto. Essendo venuto fuori venti o trent'anni dopo, tutti i testimoni, tutti coloro che erano stati salvati – stiamo parlando di migliaia di persone – non c'erano più e la nuova generazione dei loro figli assorbì quelle accuse. E infatti chi ha fatto e fa resistenza a queste accuse? Gli storici.
D. – Per di più si sono poi aggiunte le voci dei cattolici che hanno contrapposto a Pio XII il suo successore, Giovanni XXIII.
R. – Infatti credo che l'avvio delle cause di beatificazione dei due papi sia stato annunciato contemporaneamente non certo per caso. Del resto quando Paolo VI andò in Terra Santa nel 1964 e parlò in termini molto caldi di Pio XII, non ci furono grandi proteste. Nessuno protestò. Ed era già partita l'operazione "Vicario". Le accuse sembravano incredibili. Successivamente la valanga è venuta crescendo a mano a mano che scompariva la generazione dei testimoni diretti. Io comunque penso che a Pio XII sarà resa giustizia dagli storici.
D. – Abbiamo accennato ai cattolici. "La Civiltà Cattolica" ha scritto che Pio XII non ebbe voce di profeta. Non si tratta di un giudizio un po' anacronistico? Forse il pontefice sarebbe dovuto andare il 16 ottobre 1944 nel ghetto come era andato nel quartiere bombardato di San Lorenzo poche settimane prima?
R. – Sinceramente, quella parte di sangue ebraico che corre nelle mie vene mi fa preferire un papa che aiuta i miei correligionari a sopravvivere, piuttosto di uno che compie un gesto dimostrativo. Un papa che va in un quartiere bombardato è un papa che piange sulle vittime, compie un gesto di calore e affetto per la città, mentre controversa poteva essere la sua presenza nel ghetto. Certo, col senno di poi si può dire di tutto, anche – come è stato scritto – che sarebbe stato giusto che si fosse buttato sulle rotaie per impedire ai treni di partire. Io penso però che si tratti di giudizi espressi alla leggera. E poi, sinceramente, su questi argomenti, rimproverare un altro di non aver fatto ciò che nessuno dei tuoi ha fatto, è un po' azzardato. A me infatti non risulta che esponenti della Resistenza antinazista romana siano andati al ghetto o si siano buttati sulle rotaie. Sono discorsi veramente poco sereni.
D. – Sulla polemica all'interno del cattolicesimo il rabbino David Dalin è arrivato a scrivere che Pio XII è il bastone più grosso di cui i cattolici progressisti possono disporre per usarlo come arma contro i tradizionalisti...
R. – L'aspetto più sconveniente, ma a me evidente (anche se lo giudico dal di fuori), è che questa battaglia nel mondo cattolico che contrappone le figure di Giovanni XXIII e di Pio XII non è molto coraggiosa, perché nessuno la fa a volto scoperto. Non c'è un libro o un articolo di un rappresentante autorevole del mondo cattolico che dica chiaramente Giovanni XXIII sì e Pio XII no. È una battaglia condotta tra le righe, fatta di sottigliezze. Il discorso per me è semplice: o si è davvero convinti che Pio XII sia stato un papa complice del nazismo, oppure se le cose stanno nei termini discussi in questa intervista, allora certa gente dovrebbe rendersi conto che questi argomenti contribuiscono solo alla persistenza della leggenda nera su questo papa. Si noti bene: io credo che questa leggenda nera abbia i tempi contati. Pio XII non sarà un papa segnato da una "damnatio memoriae".
D. – Perché dice questo?
R. – Proprio dal punto di vista storico le evidenze a favore sono tali e tante, e la mancanza di evidenze contrarie è così ampia che questa offensiva contro Pio XII è destinata a esaurirsi.
D. – Un'ultima domanda sull'atteggiamento di Pio XII. Come si possono ricostruire i caratteri del suo silenzio operoso nei confronti della Shoah?
R. – Io ho pensato molto spesso a Pio XII provando a immaginare che tipo di personalità fosse. È stato paragonato a Benedetto XV, il papa della prima guerra mondiale. Ma la seconda guerra mondiale è stata molto diversa. Sicuramente Pacelli è stato una persona tormentata, che ha avuto dei dubbi. Lui stesso si soffermò nel 1941 sul proprio "silenzio". Si è trovato in un crocevia terribile che ha messo in discussione alcuni suoi convincimenti. Poi ha avuto un periodo successivo alla guerra molto lungo, fino al 1958, in cui ha continuato a essere un papa forte, presente, importante, decisivo per la ricostruzione dell'Italia nel dopoguerra. Forse è stato il papa più importante del Novecento. Fu sicuramente tormentato da dubbi. Sulla questione del silenzio, come ho detto, si è interrogato. Ma proprio questo mi dà l'idea di una sua grandezza.
Tra l'altro mi ha molto colpito un fatto. Una volta finita la guerra, se Pio XII avesse avuto la coscienza sporca, si sarebbe vantato dell'opera di salvezza degli ebrei. Lui invece non l'ha mai fatto. Non ha mai detto una parola. Poteva farlo. Poteva farlo scrivere, farlo dire. Non lo ha fatto. Questa è per me la prova di quale fosse lo spessore della sua personalità. Non era un papa che sentiva il bisogno di difendersi. Per quanto riguarda il giudizio su Pio XII, devo dire che mi è rimasto nel cuore quanto scrisse nel 1964 Robert Kempner, un magistrato ebreo di origini tedesche, numero due della pubblica accusa al processo di Norimberga: "Qualsiasi presa di posizione propagandistica della Chiesa contro il governo di Hitler sarebbe stata non solamente un suicidio premeditato, ma avrebbe accelerato l'assassinio di un numero ben maggiore di ebrei e sacerdoti".
Concludo: per vent'anni i giudizi su Pio XII sono stati unanimemente condivisi. Secondo me, allora, nell'offensiva contro di lui i conti non tornano. E chiunque si accinge a studiarlo con onestà intellettuale deve partire proprio da questo. Dai conti che non tornano.
10/10/2008 16:18 – INDIA - Attivista indiano: Il massacro dei cristiani programmato da tempo di Nirmala Carvalho - Lenin Raghuvanshi ha visitato l’Orissa come membro di un’inchiesta voluta dalla Commissione europea per la prevenzione della tortura. I radicali indù hanno in programma di estirpare i cristiani dalla regione e riconvertire tribali e paria all’induismo.
Bhubaneshwar (AsiaNews) – La campagna di attacchi contro i cristiani in Orissa era programmata da mesi. Lo afferma Lenin Raghuvanshi, direttore del Comitato popolare per la vigilanza sui diritti umani. Il dott. Raghuvanshi ha visitato l’Orissa come membro per un’inchiesta della Commissione europea per la prevenzione della tortura.
Parlando ad AsiaNews egli ha detto che “nel distretto di Kandhamal [l’epicentro delle violenze di queste settimane – ndr] si sta attuando uno sradicamento della popolazione cristiana marginale ad opera dei quadri radicali indù: Rss, Bd, Vhp (Rashtriya Swayamsevak Sangh; Bajrang Dal; Vishwa Hindu Parishad)”.
L’ondata di violenze ha ucciso finora 61 persone, fatto 18 mila feriti, distrutto 4500 case, incendiato e razziato 181 chiese. Essa è stata in apparenza motivata dall’uccisione di Swami Laxamananda Saraswati, un leader del Vhp, avvenuta il 23 agosto scorso, ad opera di un gruppo di maoisti, anche se i gruppi fondamentalisti indù da subito hanno accusato i cristiani dell’assassinio.
“In realtà – spiega Raghuvanshi – fin dal 14 agosto, circa 10 giorni prima della morte dello Swami, una folla di membri dell’Rss è arrivata al villaggio di Sahasipudar minacciando la gente di violenze se avessero ancora continuato a seguire il cristianesimo. Gli estremisti hanno avvertito i cristiani che d’ora in poi la Gita [uno dei libri sacri dell’induismo – ndr] doveva essere il loro testo sacro”.
In Orissa, campagne per riconvertire tribali e paria cristiani all’induismo datano da decenni. Lo stesso Swami ucciso in agosto era uno dei propugnatori più accaniti. Nel dicembre scorso, alla vigilia di Natale, è stato proprio lui a spingere a nuovi attacchi contro i cristiani, bruciando 13 chiese e uccidendo 3 persone, oltre a mettere in fuga migliaia di fedeli.
“Dopo le violenze anti-cristiane di dicembre 2007 – dice Raghuvanshi – almeno 3 famiglie si sono riconvertite all’induismo per paura. Ed è curioso constatare che in diverse chiese in rovina, distrutte dagli assalti, pende adesso un ritratto dello Swami Laxamananda”.
Il dott. Lenin Raghuvanshi ha da poco vinto il premio “Acha Peace Star”, per il suo impegno a favore della riconciliazione fra comunità in India. Commentando ancora le violenze avvenute in Orissa e il suo lavoro di inchiesta, egli ha detto: “Siamo stati testimoni delle atrocità più deplorevoli e inumane. Forse questi fondamentalisti stanno cercando di accrescere l’ira nazionalistica e l’odio fra le comunità in vista delle elezioni dell’anno prossimo. Qui le elezioni si vincono sopprimendo delle vite umane. Quanto in basso può scendere l’umanità?”.
11/10/2008 09:18 – VIETNAM - Anche un giornale per bambini nella campagna contro i cattolici di Hanoi - di J.B. An Dang
Sul periodico, destinato ai ragazzi delle elementari, “uno studente” delle primarie scrive di aver perso la fede a causa del comportamento dell’arcivescovo. Ordine di comparizione per il superiore dei Redentoristi.
Hanoi (AsiaNews) – Dopo radio, televisione e quotidiani, ora tocca alle riviste per bambini allinearsi nella campagna di disinformazione dei media controllati dallo Stato contro i cattolici. Questa settimana è stato fatto scendere in campo anche Thieu Nien Tien Phong (Bambini pionieri), periodico destinato ai piccoli delle scuole elementari.
La scenografia è sempre la stessa, già seguita dai giornali per gli aduli, come ad esempio dal quotidiano del Partito comunista Nhan Dan. Obiettivo dell’attacco sono gli esponenti della Chiesa cattolica, in primo luogo l’arcivescovo Joseph Ngo Quang Kiet. E c’è la protesta di un cattolico, Qui uno “studente delle scuole elementari”, afferma di aver perso la sua fede cattolica a causa delle affermazioni e dei comportamenti del vescovo.
“E’ spudorato – commenta padre Dang Huu Chau, un sacerdote di Hanoi – usare un giornale per bambini per diffondere queste evidenti bugie”.
Se la campagna di stampa segna così un ulteriore degrado, anche la campagna di intimidazione verso i sacerdoti ed i parrocchiani di Thai Ha registra un’escalation. Una parrocchiana racconta che nell’ultimo mese è stata convocata otto volte dalla polizia. Ogni volta le fanno la stessa domanda: perché è andata a pregare in una zona dove si sa che le riunioni di preghiera sono illegali?
Giovedì, poi, gli agenti si sono recati al monastero per presentare un ordine di comparizione a padre Matthew Vu Khoi Phung, superiore dei Redentoristi. E’ accusato di aver usato la sua influenza per incitare i fedeli a sfidare il governo, pregando illegalmente in una zona pubblica e disturbando l’ordine pubblico. Il Comitato del popolo (municipio) di Hanoi ha rilasciato un avviso nel quale minaccia azioni legali contro di lui e la polizia afferma di aver trovato ampia prova di “crimine organizzato” nelle veglie di preghiera di Thai Ha. Quando gli agenti sono arrivati, però, il superiore non era al monastero: era partito alcune ore prima per Ho Chi Minh City, per un incontro.
Luigi Martin e Zelia Guerin - Autore: Schilirò, Valter e Leo, Adele Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - Quando abbiamo cominciato a chiedere l’intercessione di Luigi e Zelia Martin per la guarigione di Pietro, sapevamo ben poco di loro, ricordavamo solo che s. Teresa in “Storia di un’anima” diceva di aver avuto «un padre e una madre più degni del Cielo che della terra».
Man mano che passavano i giorni è cresciuto in noi il desiderio di conoscerli.
Luigi e Zelia arrivano al Matrimonio dopo un brevissimo fidanzamento. Entrambi avevano verificato la possibilità di una vita religiosa e quando si incontrano, vivono la loro vocazione al Matrimonio nella totale apertura alla volontà di Dio.
Per circa dieci mesi vissero un cammino verginale dentro lo stato matrimoniale, forse un delicato gesto di amore con il quale Luigi “attese” la sua cara Zelia che non sapeva nulla dell’intimità coniugale.
Zelia scrive alla figlia:
Lett 192 Tu che ami tanto tuo padre, mia Paolina, penserai che gli recassi dispiacere e che gliene abbia arrecato il giorno del mio matrimonio. Ma no, egli mi comprendeva e mi consolava del suo meglio, poiché aveva gusti simili ai miei; credo anzi che il nostro reciproco affetto proprio così sia aumentato: i nostri sentimenti sono stati sempre all’unisono ed egli è sempre stato per me un consolatore ed un sostegno. Ma quando abbiamo avuto i nostri figlioli … tutto ci riusciva facilissimo, il mondo non ci era più di peso. Per me era il grande compenso, perciò desideravo averne molti, per allevarli per il Cielo…”
Luigi e Zelia si sono molto amati, qualche testimonianza dalle loro lettere:
- Lett 1 al fratello Isidoro: “..Io sono sempre felicissima con lui, mi rende la vita molto serena. Mio marito è un sant’uomo, ne auguro uno simile a tutte le donne: ecco l’augurio che faccio a loro per il nuovo anno…”
- Lett 46 a Luigi in viaggio d’affari: “Mio caro Luigi, … Quando riceverai questa lettera sarò occupata a mettere in ordine il tuo banco da lavoro; non ti dovrai irritare, non perderò nulla, nemmeno un vecchio quadrante, né un pezzetto di molla, insomma niente, e poi sarà tutto pulito sopra e sotto! Non potrai dire che «ho soltanto cambiato il posto alla polvere», perché non ce ne sarà più... Ti abbraccio di tutto cuore, oggi sono tanto felice al pensiero di rivederti che non posso lavorare. Tua moglie che ti ama più della sua vita”.
- Luigi così firmava una sua lettera: “Tuo marito e vero amico, che ti ama per la vita”
La loro vita non fu segnata da particolari esperienze mistiche o da fatti straordinari, ma dalla ferma convinzione che Dio si occupa di noi, anche nei fatti più piccoli della vita quotidiana.
In una lettera alla figlia Paolina, Zelia a proposito di un amico che diceva “Dio non si occupa di noi”, scriveva:”…lo vedrà se il buon Dio non se ne occupa, e credo che sarà ben presto, Mi addolora che amici così buoni abbiano simili sentimenti. Lo so bene io che il buon Dio si occupa di me: me ne sono già accorta molte volte in vita mia ed ho molti ricordi a questo riguardo che non si cancelleranno mai dalla mia memoria”(Lett 156)
Questa loro fiducia nasce quindi da esperienze concrete e non è frutto di sforzo psicologico. E’ questa certezza che sostiene i momenti di fatica.
Come noi, anche Zelia sperimenta tutta la debolezza della sua umanità.
Scrive nel 1876: “Anch’io vorrei farmi santa, ma non so da che parte incominciare; c’è tanto da fare che mi limito al desiderio. Dico spesso durante la giornata: «Mio Dio, come vorrei essere santa!». Poi non faccio le opere!” (Lett. 154)
La partecipazione alla Messa quotidiana, la preghiera comune, permeava la vita di questa famiglia e la fede era presentata ai figli come una risposta all’Amore di Dio per loro. Di questo i primi testimoni furono proprio i genitori; dice s. Teresa di suo papà: “non avevo che da guardarlo per sapere come pregano i santi”. Anche la sorella Celina testimonia: “Mia madre mi prendeva sulle sue ginocchia per aiutarmi a preparare le mie confessioni, ed era proprio alla confidenza delle sue figliuole che si rivolgeva sempre. Essendo molto persuasiva, era difficile nasconderle qualche cosa, così aiutò Maria ad essere meno indipendente”.
In casa Martin “Dio è il primo ad esser servito”.
Zelia era molto preoccupata per Leonia, la terza figlia, che aveva un carattere aspro e indocile e una grande difficoltà di autocontrollo. Scriveva alla cognata Lett 117: “… per cambiare questa natura ho fiducia solo in un miracolo. E’ vero che io non merito miracoli e, tuttavia, spero contro ogni speranza, Più la vedo difficile, più mi persuado che il buon Dio non permetterà che resti così. Pregherò tanto che si lascerà commuovere…”
Rivolgendosi a Paolina diceva riguardo Leonia Lett 210 “..Ella è meno dotata di voi di doni della natura, ha però un cuore che domanda di amare e di essere amato”.
Un loro grande desiderio era quello di donare alla Chiesa un figlio missionario.
Non immaginavano certo che avrebbero donato alla Chiesa una figlia Patrona delle Missioni e Dottore della Chiesa!
Teresa e le sue sorelle sono state educate alla missione fin dall’infanzia.
I coniugi Martin sono molto attenti alle necessità spirituali e corporali che incontrano perché “è Gesù stesso che viene a farci visita nella persona dei poveri e dei sofferenti”.
Lett 159 a Paolina: “...abbiamo incontrato un povero vecchio che aveva un aspetto bonario. Ho mandato Teresa a portargli una piccola elemosina, è sembrato tanto commosso ed ha tanto ringraziato che ho compreso che doveva essere molto infelice. Gli ho detto di seguirci, che gli avrei dato delle scarpe. Gli è stato servito un buon pasto: moriva di fame. (…) Raccomando alle tue preghiere … un povero uomo che sta per morire. Sono quarant’anni che non si confessa. Tuo padre fa tutto quello che può per deciderlo a convertirsi, ma lui pensa di essere un santo… Ed è veramente un brav’uomo, ma più difficile da convertire di un cattivo: non c’è che un miracolo della Grazia che possa far cadere il fitto velo che ha davanti agli occhi.”
In casa Martin lavorano delle domestiche, inoltre Zelia ha delle operaie che lavorano per lei a domicilio facendo il Punto d’Alençon.
Scrive al fratello: Lett 29 “Non è sempre il lauto guadagno che assicura l’affezione dei domestici; bisogna che essi sentano che li amiamo, bisogna manifestare loro della simpatia e non essere troppo rigidi a loro riguardo… Tu sai che sono molto vivace, eppure tutte le domestiche che ho avuto mi hanno amata... Vero è che non tratto le mie domestiche meno bene dei miei figli…”
Luigi considerava come un delitto antisociale ogni ritardo di pagamento a danno dei lavoratori e dei fornitori. Perciò esigeva che si pagasse subito “per non trattenere ingiustamente” diceva “una somma dovuta, o un salario guadagnato..”.
Luigi e Zelia ebbero nove figli di cui quattro morti in tenera età.
Scrive Zelia alla cognata a cui è morto il figlio Paolo alla nascita: Lett 72: “..Che il buon Dio le accordi la rassegnazione alla sua santa volontà. Il suo caro piccolo bimbo è presso di Lui, la vede, l’ama e lo ritroverà un giorno. E’ una grande consolazione chi io ho provata e che provo ancora. Quando chiudevo gli occhi dei miei cari figlioletti e li mettevo nella bara, provavo un dolore molto grande, ma sempre rassegnato. Non rimpiangevo i dolori e gli affanni sopportati per loro. Molti mi dicevano: «Sarebbe stato molto meglio non averli mai avuti». Non potevo tollerare questo linguaggio. Non trovo che i miei dolori ed affanni potessero essere commisurati con la felicità eterna dei miei bambini. (…) Lei lo vede, mia cara sorella, è un grande bene avere degli angioletti in Cielo, ma non è meno penoso, per la natura, perderli; sono queste le gravi afflizioni della nostra vita…”.
Nell’estate 1876, Zelia ha un doloroso rigonfiamento al seno che verrà diagnosticato come tumore fibroso molto grave, non operabile. Questa notizia getta tutta la famiglia nella costernazione.
Zelia reagisce con coraggio, mettendo la sua fiducia nel Signore.
Lett 189: “Insomma, il buon Dio mi fa la grazia di non spaventarmi; sono tranquillissima, mi sento quasi felice, non cambierei la mia sorte con nessun altra.
Se il buon Dio mi vuole guarire, sarò contentissima, perché in fondo desidero vivere: mi costa lasciar mio marito e le mie figliole. Ma d’altra parte mi dico: «Se non guarirò è forse perché per loro sarà più utile che io me ne vada». Intanto, farò tutto il possibile per ottenere un miracolo; conto sul pellegrinaggio di Lourdes, ma se non sarò guarita, cercherò di cantare lo stesso al ritorno”.
Lett 204: “…ci dobbiamo mettere nella disposizione di accettare generosamente la volontà di Dio, quale che sia, poiché sarà sempre quello che vi può essere di meglio per noi”.
Zelia morirà il 28 agosto 1877 dopo un doloroso calvario.
Il 16 agosto riesce con fatica a scrivere la sua ultima lettera al fratello: Lett 217 - …Decisamente la Santa Vergine non mi vuol guarire. …Che volete? Se la Santa Vergine non mi guarisce, è perché il mio tempo è finito e il buon Dio vuole che mi riposi altrove che sulla terra…”.
Dopo la morte di Zelia, Luigi lascia Alençon e si trasferisce con le figlie a Lisieux, dove poteva avere l’appoggio di Isidoro Guerin (fratello di Zelia) e di sua moglie.
E’ in questa cittadina che si comincia a delineare la vocazione delle sorelle Martin.
Luigi non si oppose mai alle richieste delle sue figlie, anzi riteneva un onore che Dio avesse scelto per sé nella sua famiglia queste anime destinate alla preghiera per la Chiesa. anche se la separazione era per lui dolorosa.
“Ti ho permesso, per la tua felicità, di entrare al Carmelo, ma non credere che non sia senza sacrificio da parte mia, perché ti amo tanto” così rispose alla richiesta di Paolina.
Uno dei suoi amici gli diceva: «Abramo non ha nulla da insegnarle; Lei avrebbe fatto come lui se il buon Dio le avesse domandato di sacrificare la sua Reginetta...». Egli replicò subito: «Sì, ma lo confesso, avrei alzato la mia spada lentamente, aspettando l’Angelo e l’Ariete».
La prima ad entrare al Carmelo fu Paolina, all’età di 21 anni, la seguirà Maria quattro anni dopo.
Anche Teresa chiede di entrare al Carmelo a 15 anni.
Leonia entrò alla Visitazione di Caen, dove finalmente trovò il suo equilibrio.
Celina entrò nel Carmelo solo dopo la morte del suo papà.
Dopo l’ingresso di Teresa al Carmelo, Luigi cominciò a manifestare i segni della malattia che lo avrebbe accompagnato fino alla morte. Cominciò con degli attacchi di paralisi ai quali si aggiunge una progressiva perdita di memoria.
Anche in questa crescente confusione mentale, Luigi continuava, nei momenti di lucidità, a dar testimonianza dell’offerta di sé all’Amore misericordioso.
Luigi muore il 29 luglio 1894.
Leggendo la loro storia, abbiamo trovato una famiglia normale che ha vissuto, nel loro tempo, le nostre stesse preoccupazioni per il lavoro, per l’educazione dei figli, per la salute… Hanno vissuto tutte le condizioni della vita affidandosi completamente al Signore perché certi del Suo amore per loro, certi della Sua Presenza buona nella loro vita.
Così vivendo, “il quotidiano diventa eroico e l’eroico quotidiano”.
Luigi e Zelia sono annoverati tra i Beati come coppia di sposi. La loro chiamata ci conferma che la vita matrimoniale non è uno stato inferiore rispetto alla vita consacrata.
La Chiesa ce li propone ora come modelli da seguire.
Anche noi siamo chiamati alla santità vivendo pienamente il nostro essere sposo e sposa nella vita ordinaria, nell’affezione a Cristo ed alla sua Chiesa.
Valter Schilirò e Adele Leo
Monza, 04 ottobre 2008
Festa di S. Francesco
Le lettere citate sono tratte da “Lettere familiari” di Zelia Guérin Martin – Ed. OCD - Roma
CRISI/ Bauman: soddisfare tutti i desideri, senza sacrifici. È il "vivere a credito" - Alberto Contri - sabato 11 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Di fronte al crollo del sistema mondiale della finanza, sono sempre più forti le lamentele sul fatto che l’economia virtuale ha perso ogni relazione con quella reale. Anche da parte di chi fino a ieri ci ha sguazzato e ne ha pure ampiamente beneficiato.
Ma la lezione che traspare da quanto sta accadendo è assai più amara di quanto si dice, perché non riguarda solo il settore dell’economia, ma i più importanti pilastri della convivenza sociale: l’educazione, lo studio, il lavoro – e – più in generale – la visione del mondo. Con la sua consueta e fulminante lucidità, il sociologo Zygmunt Bauman ha individuato una delle radici di questo disastro: la crescente abitudine del “vivere a credito”, che sta dilagando anche e soprattutto tra le classi più giovani. In sostanza, nota Baumann, quando un tempo si voleva appagare un qualsiasi desiderio, si stabiliva una scala di priorità, si mettevano da parte i soldi un poco alla volta, si rinunciava a qualcos’altro, si faticava un po’ di più, ci si ingegnava. Oggi non è più così: vuoi una cosa? Compri subito e paghi dopo. E se hai fatto troppi debiti, c’è sempre qualcuno pronto a prestarti altri soldi, mentre i tuoi precedenti “pagherò” verranno addirittura rivenduti, creando il meccanismo vizioso dei titoli “tossici”. Ma la tossicità di questo approccio è tanto più grave in quanto ha pesantemente contaminato la complessiva visione della vita: la facilità con cui è stato possibile appagare qualsiasi desiderio immediato, anche superfluo, sembra aver reso del tutto inutile il ricorso al labor, allo studio, alla fatica, al sacrificio.
In termini più sociologici, si può osservare che nel nostro paese, dietro l’esempio quotidiano di grandi “rentier”, di manager rampanti, di smargiassi rappresentanti del jet-set e delle terrazze romane quotidianamente celebrati da Dagospia, dalla tv e dai settimanali popolari, la maggioranza dei nostri ragazzi ha creduto che il successo fosse un traguardo raggiungibile grazie ad un po’ di fortuna, ad una buona dose di furbizia, alle amicizie giuste o magari ad una comparsata televisiva. Sempre con il viatico della necessaria raccomandazione alle spalle, senza la quale oggi sembra impossibile acchiappare un qualsiasi lavoro decente. Sicchè lo studio, la fatica, il sudore, sono apparsi del tutto inutili.
Oggi tutte le colpe vengono date alla finanza, ma il circo mediatico che ha sempre osannato i personaggi citati (e si è ben guardato dal denunciare l’incestuoso e malato rapporto tra economia, finanza e politica che ha favorito il prosperare del mostruoso meccanismo che sta portando il mondo sull’orlo del baratro), non si rende nemmeno conto delle proprie responsabilità. Anzi, ora si mette pure – e in coro - a cantare il ritornello della finanza che ha tradito l’economia. Andrea Romano, su Il Riformista, ha molto opportunamente osservato che oggi in Italia ci troviamo inoltre di fronte alla crisi senza una classe dirigente di rincalzo. Per la verità ci sarebbe, ed è quella che cresce nei movimenti organizzati e orientati soprattutto all’educazione: lì crescono giovani abituati a studiare, a faticare, a confrontarsi in tutti i suoi aspetti con la società reale. Il problema è uno solo: chi è oggi al potere li saprà valorizzare dando loro lo spazio che si meritano, o li userà per l’ennesima volta come portatori d’acqua e donatori di sangue per poter sopravvivere un altro po’, perdendo definitivamente l’unica chance rimasta al paese?
CINEMA/ "La Classe": uno sguardo tra i banchi di scuola tra finzione e realtà - Antonio Autieri - sabato 11 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Dopo la vittoria della Palma d’oro a Cannes e un trionfale successo nei cinema francesi, arriva anche in Italia Entre les Murs di Laurent Cantet. Che da noi, dove esce oggi venerdì 10 ottobre, prende il titolo più semplice ed efficace possibile per un film sul mondo della scuola: La classe. E in effetti si svolge praticamente tutto all’interno della classe in cui opera l’insegnante François Bégaudeau: vero nome dello scrittore, ed ex insegnante, autore del libro omonimo sull’argomento da cui è tratto il film (edito con lo stesso titolo da Einaudi Stile Libero), cui ha collaborato alla sceneggiatura e di cui interpreta il protagonista. Insomma, siamo dalle parti del cinema-verità, quasi un documentario o meglio una docufiction (per dirla con termine alla moda), il tutto agevolato da un attore che fa (o faceva) l’insegnante e studenti che recitano delle parti ma sono in realtà dei veri studenti e non attori in erba. Anche se c’è più cinema in questo film che in tante pellicole che circolano nelle sale. Ma è vero che di documentaristico c’è un elemento: più che una storia classica, con un inizio e una fine, siamo di fronte a uno spaccato di vita di un gruppo costituito da un insegnante e dai suoi allievi. In una scuola media superiore parigina, il giovane ma già abbastanza esperto François si trova a che fare con un gruppo di adolescenti (che segue da alcuni anni ma che vivono, crescendo, una continua e difficile evoluzione) istintivi, strafottenti, quasi violenti; sicuramente ribelli e insofferenti alla sua autorità. Chi si alza ed esce dalla classe, chi risponde male, chi non obbedisce alle richieste del prof (“non ho voglia di leggere” afferma candida una ragazza, suscitando le sue ire). I ragazzi sono di varia estrazione sociale e di diverse etnie, e questo si ripercuote sull’armonia generale: alcuni si guardano in cagnesco, si concepiscono nemici per le rispettive provenienza: salvo allearsi contro il professore in alcuni casi, quasi drammatici…
E attorno all’insegnante non c’è un contesto che lo aiuti: se il preside lo assiste nelle sue richieste disciplinari nessuno prevede una proposta educativa (anche se François ci crede a un insegnamento che non sia solo comunicazione di nozioni), i colleghi sembrano più confusi di lui, smarriti di fronte alle difficoltà, oppure fermi nella riproposizione di una disciplina ferrea ma anacronistica, o ancora astratti nella formulazione di proposte strampalate (c’è chi propone una patente a punti dello studente, a ogni infrazione via un punto fino all’espulsione). In tutto ciò, François si batte per il recupero dei ragazzi e contro la loro stessa ingratitudine. Ma vien da pensare che da solo non ce la farà: perché lui cerca il dialogo, ma non funziona; prova ad affermare la sua autorità, ma con scarsi risultati. Soprattutto, vorrebbe “giocare” con i ragazzi sul piano della loro umanità, che cerca in tutti i modi di far emergere (e, in certi momenti, con qualcuno ci riesce). Nessuno però gli fa compagnia nel suo pur apprezzabile tentativo. Anche se il finale sembrerebbe conciliatorio: ma non lo è, come dimostra l’ultima, amara, commovente battuta di una ragazza sfiduciata da se stessa e dalla scuola, e fino ad allora quasi invisibile perfino per il bravo professore… In un film apprezzabile dal punto di vista cinematografico – per nulla claustrofobico nonostante sia tutto in un luogo chiuso, e sapiente nella gestione del ritmo e della tensione crescente – Laurent Cantet si conferma (come nei primi film Risorse umane e A tempo pieno, sul mondo del lavoro) regista sincero, appassionato e sensibile, abile nell’evitare la retorica ma anche uno sguardo cinico e distante. E se il tema “multietnico” interroga chi vive nella scuola italiana, lo è ancora di più il livello educativo: film da consigliare e far vedere a insegnanti e studenti (e genitori), magari insieme e discutendone, La classe chiede a chi ha responsabilità educative di mettersi in gioco. Non cercando un modello che non c’è, e che non pretende nemmeno di essere (semmai, c’è più l’ammissione di un’impotenza: e qui si vede la distanza da film “retorici” o discutibili del passato, uno su tutto L’attimo fuggente).
Ma affrontando con serietà le domande che pone, con sorprendente e disarmata onestà.
ETICA E GIUSTIZIA - «La Carta non attribuisce il potere di disporre del fine vita – spiega il docente di diritto pubblico all’Università di Tor Vergata –. Semmai il contrario: c’è un divieto» «Continui equivoci sulla Costituzione» Marini: disponibilità della salute non della vita, Avvenire, 11 ottobre 2008
DA ROMA GIOVANNI RUGGIERO
Quando ha letto nell’editoriale di Stefano Rodotà sulla Repubblica
di domenica scorsa di una prepotenza del legislatore, che «vorrebbe espropriare le persone del diritto di governare liberamente la propria esistenza», gli è parso di non credere ai propri occhi, e ha sorriso. «Voce dal sen sfuggita?», chiediamo a Francesco Saverio Marini, docente di Istituzioni di diritto pubblico a Torvergata: il giovane costituzionalista sorride ancora e spiega che forse l’illustre collega ha espresso più di quanto volesse dire nella realtà. Ma nella sostanza, ci spiega Marini, la tesi che il testamento biologico sia previsto già in Costituzione è solo frutto di una cattiva interpretazione dell’articolo 32 della Carta, come quella appunto fornita da Rodotà.
Professore, l’equivoco come nasce?
Nell’articolo 32 – dal quale alcuni fanno derivare il diritto alla disponibilità della vita che poi darebbe luogo al testamento biologico – in realtà è prevista soltanto la libertà di salute e si contemplano limiti e trattamenti sanitari obbligatori nei soli casi previsti dalla legge. Quindi è una 'libertà di salute' che consente a ciascuno di stabilire se e come curarsi. Partendo da questa premessa, il passaggio successivo incorre in un vizio logico: quello di ritenere che, avendo la possibilità di non curarmi, io possa non curarmi fino alla morte e, quindi, posso disporre della mia vita.
La Costituzione stessa imporrebbe così la disponibilità della vita?
È una deduzione basata sul vizio logico che consente di giocare sul termine di 'disponibilità'. Una cosa è la disponibilità di fatto – posso decidere di non curarmi o anche di suicidarmi e, nei fatti dispongo della mia vita, così come posso uccidere un’altra persona e, quindi, dispongo della vita altrui – però altra cosa è la disponibilità di diritto. È da qualche secolo che questa disponibilità non viene riconosciuta; anzi, il nostro ordinamento la sanzio- na. Si pensi all’omicidio del consenziente o all’assistenza al suicidio.
Si è anche sostenuto che esiste il diritto di governare liberamente la propria esistenza e di lasciare gli interessati liberi di decidere secondo i propri convincimenti. Cosa ne pensa?
Si arriva a questa conclusione automatica, sempre partendo da quell’errore interpretativo dell’articolo 32. Si ritiene la vita un atto giuridico di disposizione, come fosse un qualsiasi altro bene. Il discorso di Rodotà giuridicamente non regge. L’errore è appunto quello di ritenere che la Costituzione già attribuisca a tutti il potere di disporre del fine vita.
Ma c’è o non c’è questo diritto in Costituzione?
Assolutamente non c’è. Semmai il contrario: c’è un divieto. Una futura legge sul testamento biologico è complessa. Intanto non potrebbe far riferimento a un vero 'testamento', perché questo è un atto di disposizione e ciò non è ipotizzabile, riferendosi alla vita. È ipotizzabile, semmai, riferendoci alla libertà di salute, l’espressione di una volontà che abbia una durata nel tempo. Parliamo di 'ultra attività' della volontà: una volontà espressa per un periodo successivo. Qui interveniamo sui limiti della libertà di salute, nel senso che si può stabilire il periodo di validità di questa volontà di non curarsi. Ma è una volontà che può valere per uno o due anni, forse di più, ma non certamente per vent’anni.
Per quale motivo?
È del tutto evidente: perché negli anni può mutare e muta la situazione fisica e di fatto che ha portato il soggetto a esprimere quella volontà. Intendo dire che un conto è esprimere una volontà quando si è già manifestata una malattia degenerativa nel nostro organismo e un conto è esprimere questa stessa volontà di morire quando si gode di ottima salute. L’equivoco, dunque, è confondere libertà di salute e disponibilità della vita. Su questo equivoco giocano non solo i giuristi ma la stessa Cassazione. L’articolo 32, che non c’entra nulla con la disponibilità, non porta automaticamente al cosiddetto testamento biologico.
Come giudica la recente sentenza della Corte Costituzionale sul conflitto di attribuzione? Pare che favorisca, oltretutto, la tendenza dei giudici a creare diritto quando aggiungono alla legge cose non previste. Così, almeno, pare sia avvenuto nel caso concreto di Eluana.
La sentenza non sembra da condividere nella parte in cui dichiara l’inammissibilità del ricorso per mancanza dei requisiti oggettivi. Non è infatti da escludere che una sentenza di un giudice ordinario possa invadere le attribuzioni delle Camere. La Consulta con le sentenze 'additive' (quando, cioè, introduce disposizioni non previste dalla legge) crea diritto. Quello che però i giudici ordinari non possono fare è emettere sentenze di questo tipo. Nel caso volessero estendere una norma, dovrebbero rimettere la questione alla Corte. Di fatto, però, accade che i giudici talvolta creino la legge, ma qui, evidentemente, siamo nel campo dell’errore giudiziario.