giovedì 30 ottobre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI e la teologia della Croce in San Paolo - Intervento in occasione dell'Udienza generale - CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 29 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in Piazza San Pietro. - Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sul tema: "L’importanza della cristologia - La teologia della Croce" nella predicazione paolina.
2) Giovanni XXIII, “Giusto fra le Nazioni”, chiede la Fondazione Wallenberg - Dichiarazioni del suo fondatore Baruj Tenembaum - BUENOS AIRES (Argentina), giovedì, 30 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Il creatore della Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg, Baruj Tenembaum, ha rivolto un appello affinché Giovanni XXIII sia dichiarato “Giusto fra le Nazioni”.
3) Quando Halloween diventa intollerante - ROMA, mercoledì, 29 ottobre 2008 (ZENIT.org).- La festa di Halloween oltre a cancellare la festa di Tutti i Santi (primo novembre) sta diventando intollerante verso chi osserva la tradizione cristiana.
4) Uccisi a Mosca due sacerdoti gesuiti - Sabato e lunedì, entrambi nella residenza della comunità - ROMA, mercoledì, 29 ottobre 2008 (ZENIT.org).- E' una settimana di sangue per la Congregazione dei Gesuiti. Sabato 25 e lunedì 27, infatti, sono stati uccisi due sacerdoti, p. Victor Betancourt e p. Otto Messmer. Entrambi gli omicidi sono stati commessi a Mosca.
5) 29/10/2008 16:09 – INDIA - La Chiesa indiana ricorda p. Bernard Digal, martire della fede in Orissa - di Nirmala Carvalho - Mons, Cheenat, arcivescovo di Cuttack- Bhubaneshwar, sottolinea l’opera “instancabile” a favore dei “cristiani perseguitati” e la sua devozione per la Madonna. I confratelli ribadiscono le “virtù e la capacità di perdonare i suoi persecutori”. Domani l’ultimo saluto della comunità al prete ucciso.
6) Appartengo a una minoranza. Tutelatemi. - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 29 ottobre 2008 Gazzettino di Padova: «Niente 4 Novembre, per tutelare le minoranze» Alcuni insegnanti della cittadina veneta non vogliono far partecipare gli studenti alla cerimonia per la celebrazione della Vittoria
7) HOLYween riparte anche quest’anno - Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 29 ottobre 2008 Niente zucche vuote o ghigni di zombi, ma volti di Santi.
8) SCUOLA/ Il “non avvenimento” dello sciopero generale di oggi - Roberto Fontolan - giovedì 30 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
9) UNIVERSITA'/ 2. Cesana: oltre la piazza, per ricorstruire serve gente che ami la propria libertà - Giancarlo Cesana - giovedì 30 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
10) MILANO SOLIDALE / 2 La rivoluzione sociale affonda le proprie radici sociali nella Lombardia dell'industrializzazione - INT. Alberto Cova - giovedì 30 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
11) IL MANICHEISMO CI SOFFOCA - RIANNODARE I FILI DEL DIALOGO. - CON I DATI CERTI - MARCO TARQUINIO – Avvenire, 30 ottobre 2008
12) matita blu - Il neonato è una persona. O no? - di Tommaso Gomez – Avvenire, 30 ottobre 2008
13) Il regista Krzysztof Zanussi al Festival internazionale del film di Roma - Il cinema come viaggio- alla scoperta del male - di Luca Pellegrini, L’Osservatore Romano, 30 ottobre 2008


Benedetto XVI e la teologia della Croce in San Paolo - Intervento in occasione dell'Udienza generale - CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 29 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in Piazza San Pietro. - Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sul tema: "L’importanza della cristologia - La teologia della Croce" nella predicazione paolina.
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Cari fratelli e sorelle,
nella personale esperienza di san Paolo c'è un dato incontrovertibile: mentre all'inizio era stato un persecutore ed aveva usato violenza contro i cristiani, dal momento della sua conversione sulla via di Damasco, era passato dalla parte del Cristo crocifisso, facendo di Lui la sua ragione di vita e il motivo della sua predicazione. La sua fu un’esistenza interamente consumata per le anime (cfr 2 Cor 12,15), per niente tranquilla e al riparo da insidie e difficoltà. Nell’incontro con Gesù gli si era reso chiaro il significato centrale della Croce: aveva capito che Gesù era morto ed era risorto per tutti e per lui stesso. Ambedue le cose erano importanti; l’universalità: Gesù è morto realmente per tutti, e la soggettività: Egli è morto anche per me. Nella Croce, quindi, si era manifestato l'amore gratuito e misericordioso di Dio. Questo amore Paolo sperimentò anzitutto in se stesso (cfr Gal 2,20) e da peccatore diventò credente, da persecutore apostolo. Giorno dopo giorno, nella sua nuova vita, sperimentava che la salvezza era ‘grazia’, che tutto discendeva dalla morte di Cristo e non dai suoi meriti, che del resto non c’erano. Il "vangelo della grazia" diventò così per lui l'unico modo di intendere la Croce, il criterio non solo della sua nuova esistenza, ma anche la risposta ai suoi interlocutori. Tra questi vi erano, innanzitutto, i giudei che riponevano la loro speranza nelle opere e speravano da queste la salvezza; vi erano poi i greci che opponevano la loro sapienza umana alla croce; infine, vi erano quei gruppi di eretici, che si erano formati una propria idea del cristianesimo secondo il proprio modello di vita.
Per san Paolo la Croce ha un primato fondamentale nella storia dell’umanità; essa rappresenta il punto focale della sua teologia, perché dire Croce vuol dire salvezza come grazia donata ad ogni creatura. Il tema della croce di Cristo diventa un elemento essenziale e primario della predicazione dell’Apostolo: l'esempio più chiaro riguarda la comunità di Corinto. Di fronte ad una Chiesa dove erano presenti in modo preoccupante disordini e scandali, dove la comunione era minacciata da partiti e divisioni interne che incrinavano l'unità del Corpo di Cristo, Paolo si presenta non con sublimità di parola o di sapienza, ma con l'annuncio di Cristo, di Cristo crocifisso. La sua forza non è il linguaggio persuasivo ma, paradossalmente, la debolezza e la trepidazione di chi si affida soltanto alla "potenza di Dio" (cfr1 Cor 2,1-4). La Croce, per tutto quello che rappresenta e quindi anche per il messaggio teologico che contiene, è scandalo e stoltezza. L'Apostolo lo afferma con una forza impressionante, che è bene ascoltare dalle sue stesse parole: "La parola della Croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio...è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani" (1 Cor 1,18-23).
Le prime comunità cristiane, alle quali Paolo si rivolge, sanno benissimo che Gesù ormai è risorto e vivo; l'Apostolo vuole ricordare non solo ai Corinzi o ai Galati, ma a tutti noi, che il Risorto è sempre Colui che è stato crocifisso. Lo ‘scandalo’ e la ‘stoltezza’ della Croce stanno proprio nel fatto che laddove sembra esserci solo fallimento, dolore, sconfitta, proprio lì c'è tutta la potenza dell'Amore sconfinato di Dio, perché la Croce è espressione di amore e l’amore è la vera potenza che si rivela proprio in questa apparente debolezza. Per i Giudei la Croce è skandalon, cioè trappola o pietra di inciampo: essa sembra ostacolare la fede del pio israelita, che stenta a trovare qualcosa di simile nelle Sacre Scritture. Paolo, con non poco coraggio, sembra qui dire che la posta in gioco è altissima: per i Giudei la Croce contraddice l'essenza stessa di Dio, il quale si è manifestato con segni prodigiosi. Dunque accettare la croce di Cristo significa operare una profonda conversione nel modo di rapportarsi a Dio. Se per i Giudei il motivo del rifiuto della Croce si trova nella Rivelazione, cioè la fedeltà al Dio dei Padri, per i Greci, cioè i pagani, il criterio di giudizio per opporsi alla Croce è la ragione. Per questi ultimi, infatti, la Croce è moría, stoltezza, letteralmente insipienza, cioè un cibo senza sale; quindi più che un errore, è un insulto al buon senso.
Paolo stesso in più di un'occasione fece l'amara esperienza del rifiuto dell'annuncio cristiano giudicato ‘insipiente’, privo di rilevanza, neppure degno di essere preso in considerazione sul piano della logica razionale. Per chi, come i greci, vedeva la perfezione nello spirito, nel pensiero puro, già era inaccettabile che Dio potesse divenire uomo, immergendosi in tutti i limiti dello spazio e del tempo. Decisamente inconcepibile era poi credere che un Dio potesse finire su una Croce! E vediamo come questa logica greca è anche la logica comune del nostro tempo. Il concetto di apátheia, indifferenza, quale assenza di passioni in Dio, come avrebbe potuto comprendere un Dio diventato uomo e sconfitto, che addirittura si sarebbe poi ripreso il corpo per vivere come risorto? "Ti sentiremo su questo un’altra volta" (At 17,32) dissero sprezzantemente gli Ateniesi a Paolo, quando sentirono parlare di risurrezione dei morti. Ritenevano perfezione il liberarsi del corpo concepito come prigione; come non considerare un’aberrazione il riprendersi il corpo? Nella cultura antica non sembrava esservi spazio per il messaggio del Dio incarnato. Tutto l’evento "Gesù di Nazaret" sembrava essere contrassegnato dalla più totale insipienza e certamente la Croce ne era il punto più emblematico.
Ma perché san Paolo proprio di questo, della parola della Croce, ha fatto il punto fondamentale della sua predicazione? La risposta non è difficile: la Croce rivela "la potenza di Dio" (cfr1 Cor 1,24), che è diversa dal potere umano; rivela infatti il suo amore: "Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio, è più forte degli uomini" (ivi v. 25). Distanti secoli da Paolo, noi vediamo che nella storia ha vinto la Croce e non la saggezza che si oppone alla Croce. Il Crocifisso è sapienza, perché manifesta davvero chi è Dio, cioè potenza di amore che arriva fino alla Croce per salvare l'uomo. Dio si serve di modi e strumenti che a noi sembrano a prima vista solo debolezza. Il Crocifisso svela, da una parte, la debolezza dell'uomo e, dall'altra, la vera potenza di Dio, cioè la gratuità dell'amore: proprio questa totale gratuità dell'amore è la vera sapienza. Di ciò san Paolo ha fatto esperienza fin nella sua carne e ce lo testimonia in svariati passaggi del suo percorso spirituale, divenuti precisi punti di riferimento per ogni discepolo di Gesù: "Egli mi ha detto: ti basta la mia grazia: la mia potenza, infatti si manifesta pienamente nella debolezza" (2 Cor 12,9); e ancora: "Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti" (1 Cor 1,28). L’Apostolo si identifica a tal punto con Cristo che anch'egli, benché in mezzo a tante prove, vive nella fede del Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per i peccati di lui e per quelli di tutti (cfr Gal 1,4; 2,20). Questo dato autobiografico dell'Apostolo diventa paradigmatico per tutti noi.
San Paolo ha offerto una mirabile sintesi della teologia della Croce nella seconda Lettera ai Corinzi (5,14-21), dove tutto è racchiuso tra due affermazioni fondamentali: da una parte Cristo, che Dio ha trattato da peccato in nostro favore (v. 21), è morto per tutti (v. 14); dall'altra, Dio ci ha riconciliati con sé, non imputando a noi le nostre colpe (vv. 18-20). E’ da questo "ministero della riconciliazione" che ogni schiavitù è ormai riscattata (cfr 1 Cor 6,20; 7,23). Qui appare come tutto questo sia rilevante per la nostra vita. Anche noi dobbiamo entrare in questo "ministero della riconciliazione", che suppone sempre la rinuncia alla propria superiorità e la scelta della stoltezza dell’amore. San Paolo ha rinunciato alla propria vita donando totalmente se stesso per il ministero della riconciliazione, della Croce che è salvezza per tutti noi. E questo dobbiamo saper fare anche noi: possiamo trovare la nostra forza proprio nell’umiltà dell’amore e la nostra saggezza nella debolezza di rinunciare per entrare così nella forza di Dio. Noi tutti dobbiamo formare la nostra vita su questa vera saggezza: non vivere per noi stessi, ma vivere nella fede in quel Dio del quale tutti possiamo dire: "Mi ha amato e ha dato se stesso per me".


Giovanni XXIII, “Giusto fra le Nazioni”, chiede la Fondazione Wallenberg - Dichiarazioni del suo fondatore Baruj Tenembaum - BUENOS AIRES (Argentina), giovedì, 30 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Il creatore della Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg, Baruj Tenembaum, ha rivolto un appello affinché Giovanni XXIII sia dichiarato “Giusto fra le Nazioni”.
Questo titolo è conferito dallo Yad Vashem, il Memoriale dell'Olocausto in Israele, a quanti salvarono gli ebrei durante l'Olocausto.
“Se Papa Giovanni XXIII non verrà dichiarato 'Giusto fra le Nazioni', saranno i nostri figli a consacrarlo, visto che la figura di questo grande personaggio della storia diventa ogni giorno più grande”, ha affermato Tenembaum, prestigioso rappresentante ebraico e pioniere a livello mondiale del dialogo interreligioso negli anni Sessanta del secolo scorso.
La dichiarazione di Tenembaum, inviata a ZENIT, arriva in occasione del 50° anniversario dell'elezione del Cardinale Angelo Giuseppe Roncalli a Sommo Pontefice con il nome di Giovanni XXIII.
Dopo un simposio scientifico organizzato nel giugno 2003 dall'Università di Bologna e dalla Fondazione Giovanni XXIII per il 40° anniversario della morte di Angelo Roncalli, su istanza della Fondazione Wallenberg, le Poste Argentine emisero un francobollo dedicato alla memoria del “Papa Buono”.
Qualche anno prima, nel settembre del 2000, in una cerimonia presso la Missione dell'Osservatore Permanente del Vaticano presso le Nazioni Unite e in presenza dell'allora Segretario di Stato vaticano, il Cardinale Angelo Sodano, la Fondazione Wallenberg dichiarò aperta la campagna internazionale per il riconoscimento dell'azione umanitaria svolta da Angelo G. Roncalli.
Monsignor Roncalli, prima di essere Papa, “intercesse presso il re Boris di Bulgaria a favore degli ebrei bulgari, e presso il Governo turco a favore dei rifugiati ebrei che erano fuggiti in Turchia”, ha ricordato Tenembaum.
“Ha anche fatto tutto il possibile per evitare la deportazione degli ebrei greci. E' stato inoltre una delle principali fonti di informazione del Vaticano sull'annientamento di milioni di ebrei della Polonia e dell'Europa dell'est”.
Quando fu Delegato Apostolico del Vaticano a Istanbul nel 1944, inoltre, “organizzò una rete per salvare gli ebrei e altri perseguitati dal nazismo”.
“Grazie alle sue azioni, migliaia di condannati a morte riuscirono a salvare la propria vita – ha sottolineato Tenembaum –. La sua opera e la sua figura si allineano così a quelle di numerosi diplomatici salvatori dell'Olocausto come lo svizzero Raoul Wallenberg, il portoghese Aristides de Sousa Mendes e il turco Selahattin Ulkumen, tra molti altri”, aggiunge.
“Con il pontificato di Giovanni XXIII è stata inaugurata una nuova era nelle relazioni tra la Chiesa cattolica e l'ebraismo – ha constatato il fondatore –. Si è trattato di un'epoca caratterizzata dalla comprensione e dall'intesa dopo secoli di denigrazione, pregiudizi e persecuzione religiosa”.
“Le porte del dialogo interreligioso hanno cominciato ad aprirsi allora e sono rimaste aperte durante il pontificato di Papa Giovanni Paolo II, che si rivolgeva agli ebrei come ai 'fratelli maggiori', ha visitato i campi di concentramento nazisti in segno di contrizione e solidarietà con le vittime ebraiche e si è recato in pellegrinaggio in Terra Santa, nello Stato di Israele”.
La Fondazione Wallenberg svolge un ampio lavoro di ricerca storica destinata a rivelare l'importante azione umanitaria svolta da monsignor Roncalli.
“L'obiettivo è far conoscere all'opinione pubblica internazionale le azioni altruiste e generose compiute dal delegato apostolico Roncalli molto prima di essere consacrato Papa Giovanni XXIII, il 28 ottobre 1958”, ha concluso Tenembaum.
[Per ulteriori informazioni: www.raoulwallenberg.net]


Quando Halloween diventa intollerante - ROMA, mercoledì, 29 ottobre 2008 (ZENIT.org).- La festa di Halloween oltre a cancellare la festa di Tutti i Santi (primo novembre) sta diventando intollerante verso chi osserva la tradizione cristiana.
Un insegnate di religione ha scritto a ZENIT per raccontare che nella scuola romana dove insegna, le maestre di inglese hanno tappezzato aule e corridoi con disegni di zucche e streghe.
In qualità di insegnante di religione, nonché in osservanza della festività, così come è indicata sul calendario, il maestro ha pensato bene di far conoscere la festa di Tutti i Santi, apprestandosi a tappezzare aule e corridoi con immagini e storie dei santi
Per correttezza, prima di iniziare il suo lavoro, il maestro ha informato le colleghe, le quali però hanno reagito negativamente, sostenendo che “non era opportuno”, perché “a scuola ci sono anche alunni non cattolici”.
L’insegnante di religione ha allora spiegato che anche i non cattolici fanno festa il giorno di Tutti i Santi. Al che le maestre hanno sollevato il problema della “delicatezza della questione”.
Il maestro ha quindi replicato sostenendo che “non c’è nessuna delicatezza nei confronti dei cristiani che vorrebbero celebrare i loro santi”. Tuttavia non c’è stato verso di far accettare la diffusione di immagini e di storie dei santi.
Nella lettera inviata a ZENIT, l’insegnante di religione ha commentato: “Mi è stato detto che è questione di delicatezza, ma nessuno ha avuto delicatezza di pensare che scherzare e ironizzare sulla morte a ridosso di una festa cristiana potesse urtare la mia sensibilità!”.
“Non ho chiesto di oscurare il loro lavoro – ha aggiunto il maestro –, ho chiesto di mettere il mio lavoro accanto al loro, ma tutto ciò è stato rifiutato. Credo che ancora una volta abbia trionfato il ‘politicamente corretto’, ovvero quella scuola di pensiero che invoca libertà per tutti tranne che per noi cristiani!”.


Uccisi a Mosca due sacerdoti gesuiti - Sabato e lunedì, entrambi nella residenza della comunità - ROMA, mercoledì, 29 ottobre 2008 (ZENIT.org).- E' una settimana di sangue per la Congregazione dei Gesuiti. Sabato 25 e lunedì 27, infatti, sono stati uccisi due sacerdoti, p. Victor Betancourt e p. Otto Messmer. Entrambi gli omicidi sono stati commessi a Mosca.
Un comunicato inviato dalla Compagnia di Gesù a ZENIT questo mercoledì ricorda che p. Betancourt, ecuadoregno, è stato assassinato nel domicilio della comunità la sera di sabato scorso.
Stava invece rientrando in comunità lunedì sera da un viaggio all’estero p. Messmer, Superiore della Regione Russa, ucciso nello stesso posto.
Un altro gesuita, preoccupato per il silenzio dei confratelli, si è recato questo martedì nell’abitazione della comunità rinvenendo i corpi dei due sacerdoti senza vita e con segni di violenza. Ha avvisato immediatamente la polizia, che in questo momento sta conducendo indagini a tutto campo senza escludere alcuna ipotesi.
Padre Messmer, cittadino russo, era nato il 14 luglio del 1961 a Karaganda (Kazakhstan) in una famiglia di origini tedesche e profondamente cattolica. Era stato ordinato sacerdote il 29 maggio 1988 e aveva emesso gli ultimi voti il 7 ottobre 2001. Dal 13 ottobre del 2002 era il Superiore della Regione Indipendente Russa della Compagnia di Gesù. Ha due fratelli gesuiti: monsignor Nikolaus, Vescovo di Bishkek (Kirghizistan), e Hieronymus, che appartiene alla Provincia della Germania.
Padre Betancourt era nato il 7 luglio del 1966 a Guayaquil (Ecuador) ed era stato ordinato sacerdote il 31 luglio del 1997. Dal 2001 faceva parte della Regione Russa. Aveva lavorato nella pastorale delle vocazioni e attualmente insegnava Teologia nell’Istituto di Filosofia, Teologia e Storia “San Tommaso” di Mosca.
Padre Adolfo Nicolás, Generale della Compagnia di Gesù, ha invitato tutti i gesuiti a esprimere aiuto, sostegno e solidarietà ai confratelli della Regione Russa, “così provata in questo momento”, e ha espresso “la sua profonda vicinanza ai familiari dei gesuiti deceduti”, ricorda il comunicato.
Ringraziando per le condoglianze ricevute dalla Chiesa “fin dal primo momento in cui la notizia dell’accaduto è stata confermata”, “esorta altresì tutta la Compagnia a rivolgere preghiere per l’eterno riposo dei confratelli e per il fine di ogni violenza”.


29/10/2008 16:09 – INDIA - La Chiesa indiana ricorda p. Bernard Digal, martire della fede in Orissa - di Nirmala Carvalho - Mons, Cheenat, arcivescovo di Cuttack- Bhubaneshwar, sottolinea l’opera “instancabile” a favore dei “cristiani perseguitati” e la sua devozione per la Madonna. I confratelli ribadiscono le “virtù e la capacità di perdonare i suoi persecutori”. Domani l’ultimo saluto della comunità al prete ucciso.
Mumbai (AsiaNews) – “Padre Digal era il tesoriere della diocesi, un prete sensibile, generoso e sempre pronto a rispondere ai bisogni degli altri religiosi prima ancora dei suoi. Alla continua ricerca della comunione fraterna”. È il ricordo di mons. Rapheel Cheenath, arcivescovo di Cuttack- Bhubaneshwar, di p. Bernard Digal, morto la sera del 28 ottobre in un letto del St. Thomas Hsopital a Chennai.
P. Digal era stato assalito da un gruppo di fondamentalisti indù la notte del 25 agosto, nei primi giorni delle persecuzioni contro i cristiani dell’Orissa. Nonostante le cure mediche alle quali è stato sottoposto, la salute è andata peggiorando. Sabato 25 ottobre è stato ricoverato nell’ospedale di Chennai, nel Tamil Nadu ed è stato sottoposto a un delicato intervento chirurgico per rimuovere un grumo di sangue formatosi nel cervello in seguito alle percosse subite dai fondamentalisti la notte dell’assalto. Il 27 ottobre i polmoni hanno collassato ed è subentrata una grave crisi respiratoria, in seguito alla quale al religioso è stato attaccato un respiratore artificiale. Egli ha ricevuto l’unzione degli infermi e alle 9.25 del 28 ottobre, assistito da mons. Cheenath, è morto.
“A p. Bernard è stata consegnata la corona dei martiri: egli ha ricevuto la palma della vittoria dai santi in paradiso”, racconta l’arcivescovo di Cuttack- Bhubaneshwar. “Fin dall’inizio delle violenze contro i cristiani, i cui primi episodi risalgono al dicembre del 2007, p. Bernard ha sempre voluto restare fra la sua gente a coordinare i lavoro di assistenza e sviluppo, promuovendo iniziative di pace”. Il prelato sottolinea inoltre le opere a favore dei “cristiani vittime della carneficina” e della devozione particolare “per la Vergine Maria e la recita del rosario: egli ci confidava spesso di come trovasse rifugio e sostegno nella Madonna, anche nei momenti di più cupa disperazione”.
Mons. Rapheel Cheenath conclude sottolineando come “i cristiani di Kandhamal abbiano ora un potente intercessore nei cieli”, perché p. Bernard continuerà il suo lavoro“ dalla casa celeste. La sua fine è culminata in una kenosis, una resa totale alla passione sulla croce di Gesù Cristo; ora speriamo nella gloria della resurrezione. La vittoria del Cristo risorto è motivo di speranza, la speranza della vita eterna dopo la morte”.
P. Bernard, che AsiaNews ha incontrato lo scorso 10 settembre durante la degenza dell’Holy Spirit Hospital di Mumbai (vedi foto), aveva 48 anni ed era stato ordinato prete il 29 maggio 1992. Egli era nativo del villaggio di Tiangia, a Kandhamal, una delle zone più colpite dalle recenti violenze anticristiane perpetrate dai fondamentalisti indù. Egli aveva ripercorso i drammatici momenti dell’assalto, in seguito al quale “per una notte intera è rimasto senza conoscenza e seminudo nella foresta”. Il funerale sarà celebrato domani, giovedì 30 ottobre.
P. Ajay Singh, direttore del Jan Vikas, un centro di iniziativa sociale della diocesi di Cuttack-Bhubaneshwar, ricorda la “santità” di padre Digal, il suo “zelo missionario”, il suo “servizio per la gente”, le parole di “perdono” verso i responsabili delle violenze” e il lavoro incessante finalizzato al “loro recupero”. Anche p. Manoj Digal, cugino della vittima e nativo dello stesso villaggio, ricorda il “lavoro incessante con i cristiani di Kandhamal, che subiscono violenze e umiliazioni di ogni tipo. Le sue virtù sono l’umiltà, la capacità di perdonare, il senso di giustizia, e il sacrificio di sé fino alla morte”.


Appartengo a una minoranza. Tutelatemi. - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 29 ottobre 2008 Gazzettino di Padova: «Niente 4 Novembre, per tutelare le minoranze» Alcuni insegnanti della cittadina veneta non vogliono far partecipare gli studenti alla cerimonia per la celebrazione della Vittoria
Io non mangio formaggio, lo detesto, m’infastidisce anche l’odore, non capisco come si faccia a rovinare la pasta al ragù con il parmigiano. Non condivido, né apprezzo lo sguardo sazio e compiaciuto di chi gusta il formaggio con il miele, lo so, appartengo ad una minoranza.
Secondo voi, in nome della tutela delle minoranze, potrei chiedere ai miei familiari di astenersi in mia presenza, dal cospargere la pasta con il formaggio grattato?
Secondo voi, potrei chiedere ai ristoratori di togliere dal menù i piatti che riportano nel nome la parola “formaggio”?
Banditi ad esempio: la pizza ai quattro formaggi, risotto al gorgonzola, formaggio con le pere e via elencando.
Adducendo a motivo di questa richiesta, che mi sento oltraggiata, m’infastidisce l’odore e la vista di persone che non rispettano il mio disappunto e che con il loro atteggiamento mi rovinano l’appetito.
Una richiesta di questo tipo, spero sarebbe presa per folle, ma se oltre a non amare il formaggio dicessi di appartenere ad una minoranza religiosa che tra le prescrizioni del proprio credo ha quello di astenersi dal mangiare, toccare e persino leggere il nome di qualsiasi formaggio, forse potrei farcela.

Si sta diffondendo in Italia una strana epidemia, la chiamano “rispetto delle minoranze”.
Così dopo le richieste di abolizione del presepe nelle scuole, del crocefisso nelle aule, della carne di maiale dai menù scolastici, ora è la volta dell’alzabandiera in commemorazione dei defunti della prima guerra mondiale.
Badate bene, non sono le “minoranze” che lo chiedono, ma è l’eccesso di 'zelo' da parte di qualcuno che propone queste iniziative.

Le maestre di una scuola di Villafranca Padovana, e mi piange il cuore che questa cosa arrivi da Padova, dove ho radici vive e forti e dove mi hanno insegnato il rispetto e l’orgoglio per la tradizione, ma sta di fatto che queste maestre zelanti hanno deciso di non portare i bambini alla cerimonia dell’alzabandiera e della posa della corona di alloro in memoria dei caduti della prima guerra mondiale il 4 novembre.
Motivo? Non offendere le minoranze.
Siamo arrivati non a sfiorare il ridicolo, ma ad esserci immersi nel ridicolo.
Con questo criterio dovremmo abolire tutte le feste religiose e laiche, per non urtare chi non le condivide, forse costoro aspirano ad una società senza passato e senza futuro dove si può vivere solo l’istante, ignorando che questo porta alla pazzia, perché non sappiamo chi siamo se non sappiamo da dove veniamo.

Ma la cosa incredibile è che davanti a questa “minoranza di maestre” nessuno faccia nulla e tutti si dicano impotenti, del resto anche le maestre appartengono a una minoranza, quella degli educatori che con il loro atteggiamento cercano di distruggere la storia, la cultura, le tradizioni e quindi il futuro di chi è loro affidato.

Al direttore didattico e al sindaco di Villafranza Padovana, consiglio di promuovere l'ottimo e istruttivo seminario in corso a Milano, Brescia e Cremona. "Conoscere l'islam. Incontrare i musulmani" organizzato da Diesse e tenuto da una brava e magistrale Valentina Colombo, insieme ad altri relatori che bene hanno spiegato cose che nelle nostre scuole non sono per nulla ovvie, e i fatti ce lo dimostrano.


HOLYween riparte anche quest’anno - Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 29 ottobre 2008 Niente zucche vuote o ghigni di zombi, ma volti di Santi.
Lo scorso anno le Sentinelle del mattino, un’associazione di giovani cattolici che in Italia e in Europa hanno dato vita ad un progetto di evangelizzazione ormai diffuso in più di 30 città, proposero di vivere la notte di tutti i santi in un modo diverso. Niente zucche vuote o ghigni di zombi, ma volti di Santi. HOLYween riscosse un inaspettato successo: radio e TV si interessarono all’evento e su molti balconi apparvero le facce dei santi con il logo dell’iniziativa.
L’iniziativa HOLYween riparte anche quest’anno con rinnovato slancio. La proposta è semplice: tappezzare di volti di santi le nostre città: sui balconi, sulle vetrine dei negozi, sulle facciate delle chiese e sulle porte delle case.
I volti dei santi sono la più bella faccia del nostro Paese ed è un autentico spettacolo camminare per città e paesi “guardati” da tutti questi testimoni della fede.
Nella notte del 31 ottobre chiunque potrà aderire, semplicemente appendendo un poster o un’immagine dove meglio preferisce, in modo che tutti possano vedere non zombi, ma santi.
I più organizzati hanno fatto stampare una gigantografia di 6 metri da appendere sulla facciata della chiesa. Altri preferiscono il santo patrono, oppure personaggi semplicemente “in fama di santità” (come la giovane Benedetta Bianchi Porro di Sirmione o la sarda Simona Tronci).
Quali sono i volti più gettonati? Lo scorso anno furono quelli di Madre Teresa, di Padre Pio, di Giovanni Paolo II, ma anche Santa Teresina di Lisieux o San Francesco non furono da meno.
Vedremo quest’anno come HOLYween sarà accolta dalla gente, in tutta la Penisola.


SCUOLA/ Il “non avvenimento” dello sciopero generale di oggi - Roberto Fontolan - giovedì 30 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Ieri ho passato un paio d’ore in un liceo classico romano, una scuola statale di buona qualità, non di quelle blasonate (tipo Visconti o Tasso), ma dalla fama piuttosto solida.
C’era l’autogestione. E non ho capito in cosa consistesse, dal momento che il cortile interno, pessimamente tenuto, florido di erbacce e mozziconi, è stato perennemente affollato di ragazzi impegnati nell’attività che apparentemente più li appassiona, il cicaleccio. Ragazzi belli, vestiti anche decentemente sebbene con una chiara tendenza allo sdrucito; ragazze splendenti di gioventù, forsennatamente abbarbicate le une alle altre per raccontarsi chissà quali segreti.
Ogni tanto un evidente capetto chiamava a sé i fedelissimi impartendo indicazioni, forse di un programma assembleare, forse di una più sana serata di calcetto. Una professoressa armata di buona volontà stanava i gruppetti sperduti nei corridoi e visibilmente in cerca di disimpegno: non potete stare qua, o andate in palestra o un aula magna o in classe se avete l’insegnante. Una signora volonterosa e dotata di senso di responsabilità, non si sa mai: nel bighellonare qualcuno degli incustoditi potrebbe farsi male…
Con una prof parlavo di bisogno affettivo, ottenendo accondiscendenza e comprensione ma anche la risposta secca: “dovere educativo”. Sono rimasto sorpreso, favorevolmente: non è affatto facile che un insegnante usi parlare di educazione dando alla parola un peso che ho sentito reale e denso.
Mi sembrava che la conversazione, mentre fuori imperversavano inconcludenza e vaghezza, stesse prendendo una piega attraente. Ma ho capito poco dopo che per la prof la coppia bisogno affettivo-dovere educativo fosse in realtà una coppia di opposti. Nel rapporto con gli studenti lo spazio concesso al bisogno affettivo lo si toglie al dovere educativo. Le due cose non possono convivere, ed è anzi assurdo pensare che possano vivere nella stessa persona, nello stesso rapporto, nella stessa classe.
Per l’insegnante, una persona quadrata, seria, di valore, esperta, competente, davvero encomiabile, l’affetto (meglio: affezione) si avvicina pericolosamente all’indulgenza e l’educazione si sostanzia decisamente nella “buona educazione”. Siamo dalle parti della condotta, insomma. Senza naturalmente trascurare la didattica, Ariosto e Promessi sposi, che anzi deve regnare sovrana su tutto, e giustamente, ci mancherebbe.
Dalla finestra arrivava l’eco dei non avvenimenti del cortile, mentre dietro i vetri si scorgevano i movimenti rapidi delle teste e delle labbra dei nostri figli sospesi nella mattinata (non sanno ancora che quelle due ore, quelle precise, irripetibili, uniche ed immortali due ore non torneranno mai più).
L’autogestione, l’occupazione, la manifestazione: nelle scuole d’Italia da giorni non si parla d’altro. Una nervosa eccitazione si è impadronita delle conversazioni a tavola e dei dialoghi tra mamme: hanno occupato? Per ora no, ma domani fanno l’assemblea… e tua figlia? Mah, è tutta agitata, ma a scuola col sacco a pelo non ce la mando… Non è questione di maggioranze e minoranze: queste, spalleggiate da insegnanti e genitori, si sono imposte su quelle, così come da giorni a Roma i cortei improvvisati di liceali sbucati dai portoni scolastici si sono imposti sulla vita dei quartieri facendoli impazzire di traffico e di appuntamenti mancati.
Oggi, giovedì 30 ottobre, ci sarà il non avvenimento più rumoroso e spettacolare (e si spera pacifico, almeno questo, data l’insensatezza generale simboleggiata dalle risse di ieri “per prendersi la testa del corteo”), il magma delle ultime settimane si incanalerà per le povere strade di Roma, destinate alle convulsioni (ormai consuete: c’è un corteo alla settimana). E tutto vi confluirà, le settimane perse, i dialoghi senza uscita, le apprensioni familiari, e tanti ragazzi che, bene illusi dai loro badanti adulti sulla “necessità di una svolta”, pensano di cucire la giovinezza con il filo consunto della ribellione (“altrimenti che giovani sono?” dicono non nei bar ma nelle scuole: come si può tollerare una simile idiozia?). Domani, per fortuna, è un altro giorno.


UNIVERSITA'/ 2. Cesana: oltre la piazza, per ricorstruire serve gente che ami la propria libertà - Giancarlo Cesana - giovedì 30 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Sciopero e manifestazione su scuola e università: protagonista negativo è ancora “la Gelmini”. Ma “la Gelmini” non è il problema. Il Ministro dell’Istruzione è responsabile di una legge che intende razionalizzare e ridurre la spesa. Si può e si deve discutere. Possibilità e tempo ce ne sono, data la limitatezza e la dilazione del provvedimento (gli aspetti economici verranno attuati dal 2010). Tuttavia la proposta di alternative non verrà dal vociare delle dimostrazioni, perché proprio queste costituiscono il problema di scuola e università. Parlo di quest’ultima, in cui lavoro.
Mi sono iscritto a Medicina, Milano, nel 1967. A dicembre abbiamo occupato. Da allora tutti gli anni ci sono stati, oltre a occupazioni, scioperi, blocchi, proteste, vandalismi e quant’altro, in un numero variabile di atenei. L’abitudine si è diffusa alla scuola, a inizio anno, con prolungamenti fino alle vacanze di Natale. Ora i ribelli sono una minoranza sempre più piccola e povera di contenuti, ma il rumore e la confusione che fanno sono sempre notevoli. Infatti un fenomeno di contestazione così persistente non è solo studentesco. Ha il sostegno e la complicità degli adulti, dentro e fuori le aule. Sembra un metodo scelto per sfogare il malcontento e la frustrazione di un cambiamento mancato, e anzi di un peggioramento in atto. Ma è un metodo corrosivo. Non c’è istituzione che possa reggere a quarant’anni di rivoluzione strisciante e di demagogia conseguente. In effetti l’università italiana ha perso il suo prestigio internazionale e vacilla paurosamente verso l’insignificanza sociale. D’altra parte, l’università, in quanto luogo di formazione dell’elite della società, è lo specchio di questa e anche la società italiana ha perso molto in capacità di lavoro e tecnologia.
Sembrerebbe una situazione disperante e non perché non vi siano rimedi, ma perché, dato il basso livello raggiunto, ne sono proposti troppi, tutti giusti, prioritari e quindi in conflitto tra di loro. Non si sa da che parte incominciare. Contro-appelli e contro-manifestazioni aumentano la confusione generale. Ministri assai più esperti della Gelmini, anche di sinistra, sono stati insultati allo stesso modo. Il ricorso all’ordine pubblico spaventa anche chi lo propone, e non senza ragione.
Eppure una possibilità ci deve essere perché non siamo finiti, checché ne dicano le classifiche internazionali. Nell’università italiana ci sono esperienze di comunità, insegnamento e ricerca dove si impara non solo a studiare, ma a vivere. Si impara cioè una cultura, che è la vera anima della scuola, che è libera e non di Stato, non solo perché, come vediamo, lo Stato non può darla, ma perché è meglio che non la dia. Bisogna che i protagonisti di queste esperienze amino la loro libertà, non cedano alla tentazione di delegarla ad altri o a un ribellismo impotente che cerchi di bruciare le tappe. E’ responsabilità degli studenti che non vogliono perdere il tempo – che è della vita e non dell’università – e soprattutto dei docenti che vogliono essere tali, ovvero propositivi della positività di conoscenza e tradizione che li sostiene. Al punto in cui siamo, per ricostruire ci vorranno anni, se non decenni. D’altra parte, la politica, se vuole concorrere allo sviluppo pacifico, non può essere che democrazia e compromesso. Gridare per le strade o sui binari della ferrovia, ora, non serve più. Grazie dell’ospitalità.
(Il Foglio, 30 Ottobre 2008)


MILANO SOLIDALE / 2 La rivoluzione sociale affonda le proprie radici sociali nella Lombardia dell'industrializzazione - INT. Alberto Cova - giovedì 30 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Per proseguire la nostra breve rassegna storica sull’aspetto «solidale» di Milano, abbiamo posto alcune domande al professor Alberto Cova, professore di storia economica e Preside della Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano.
Professor Cova, quali sono state, a grandi linee, le caratteristiche dello sviluppo economico lombardo a cavallo tra ottocento e novecento e quali i riflessi problematici sull’assetto sociale?
A partire dalla metà del XIX secolo in Lombardia, si irrobustiscono i segni di una trasformazione delle strutture produttive. La novità è data dalle prime esperienze di fabbrica secondo i modelli della classica “rivoluzione industriale”. Ai settori tradizionali del tessile che, per la Lombardia significa soprattutto la seta, si affiancano le prime industrie per la lavorazione del cotone e poi, dalla metà del secolo in poi, le industrie meccaniche il cui sviluppo è, in parte, trascinato dall’avvento della ferrovia. La crescita industriale si accentua potentemente verso la fine del secolo e negli anni del novecento sino alla guerra mondiale. Accanto al tessile e alla meccanica si aggiungono una buona crescita dell’industria chimica e poi dell’elettromeccanica trascinata dall’apparire di quella straordinaria novità costituita dall’impiego dell’energia elettrica non tanto o non soltanto per gli usi civili quanto per le attività di produzione e scambio.
La concentrazione produttiva è notevole e riguarda particolarmente Milano, Bergamo, Brescia, Como, ossia le province che già in età moderna si erano distinte per la presenza di un importante tessuto di attività manifatturiere essenzialmente legate alla terra: setificio, produzione lattiero-casearia, lino e un po’ di ferro.
Per effetto della trasformazione delle strutture economiche e della concentrazione produttiva appaiono i problemi tipici dell’industrializzazione: la totale dipendenza del lavoratore dall’impresa che tratta i dipendenti senza troppi riguardi per le “persone”, il lavoro femminile e minorile, il livello (basso) delle retribuzioni, le condizioni di lavoro in fabbrica; la crescente importanza della “conoscenza” e, quindi, dei livelli di scolarità agli effetti di migliorare la propria posizione nel lavoro ma anche di assumere iniziative proprie nei diversi settori dell’economia. Ma appaiono anche gli squilibri nella disponibilità di risorse umane e, più precisamente, una domanda di lavoro alla quale non sempre corrisponde, in sede locale, un’offerta adeguata. Di qui i primi movimenti migratori interni.
Di fronte alle emergenti sfide sociali come si è mosso il modo cattolico nel suo livello locale e nelle sue forme associative?
In un contesto come quello richiamato e che porta in Lombardia (ma anche in altre regioni d’Italia ugualmente interessate dalla trasformazione industriale) situazioni e problemi che in Europa e negli Stati Uniti sono noti ormai da decenni, si registrano le grandi esperienze dei cattolici nel campo economico e sociale prima, politico, poi.
Si guarda anche a ciò che sta capitando altrove e specialmente nei paesi come la Francia, il Belgio, la Germania con i quali esistono da sempre relazioni di qualche consistenza e affinità culturali non marginali. Ma esistono anche iniziative straordinariamente importanti, specifiche della realtà italiana e Lombarda, in diversi campi del sociale e dell’economico che costituiscono una risposta ai problemi nuovi emergenti da una società attraversata da cambiamenti profondissimi.
Si tratta di iniziative che riguardano la scolarizzazione di base e, più in generale, l’educazione dei giovani in un’epoca che rischia di sconvolgere i valori della tradizione; si tratta di impegnarsi a fondo per la formazione professionale per formare conoscenze e competente idonee al lavoro in fabbrica; si tratta di insegnare le buone tecniche agricole in un settore, come quello primario, che, anche nella Lombardia che si sta industrializzando, continua ad occupare un posto importante in molte province; si tratta di considerare i giovani e soprattutto le giovani che passano dai paesi alla città o ai luoghi nei quali sono in attività le nuove imprese industriali e che devono essere messe in condizioni di inserirsi bene nelle nuove realtà. Senza dimenticare l’assistenza agli emigrati fuori d’Italia la cui consistenza è grande. E senza dimenticare l’azione diretta a sostegno delle classi popolari e specialmente dei lavoratori effettuata attraverso lo strumento delle cooperative di lavoro, di consumo di credito e anche l’apporto dei cattolici alla prime esperienze di costituzione del sindacato a partire dalle leghe del lavoro sin dai primissimi anni del Novecento e in settori di grande rilevanza economica come il tessile e il meccanico.
Tutto questo si fa con il contributo di sacerdoti e laici e, per la Lombardia, la funzione del clero rimanda alla grande riforma di san Carlo Borromeo che ha voluto un clero profondissimamente integrato con la realtà locale e agente diretto o ispiratore di iniziative che servono alla comunità della quali è pastore e guida.
Potrebbe farci qualche nome per esempio?
I nomi sono noti e vanno dai grandi Vescovi come Ferrari, Scalabrini, Bonomelli a Piamarta, Orione, Guanella, Francesca Cabrini, Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa e a mille altri. E ai grandi laici per ricordare i quali basterà citare Giuseppe Toniolo, Giuseppe Tovini, Stanislao Medolago Albani, Filippo Meda.
Tutto questo si è fatto perché alla fine dell’Ottocento, come tutti sanno, l’immortale enciclica di Leone XIII la Rerun Novarum ha trovato in Lombardia un terreno fertilissimo che ha consentito la fioritura di una montagna di opere che non possono essere ignorate se non si vuol dare della storia dell’Italia contemporanea una falsa rappresentazione, com’e si è tentato di fare.
Come l’autorità della Chiesa ha guardato a questi eventi e come è intervenuta a livello pastorale?
Il cardinale Ferrari come vescovo della Chiesa di sant’Ambrogio ha vissuto la fase iniziale e forse più intensa della trasformazione. Ha guidato la diocesi, come si sa, dalla metà degli anni novanta dell’ottocento sino agli anni del passaggio dalla guerra alla pace dopo quello che i contemporanei chiamavano la “guerra europea”. Come tale ha sostenuto tutte le iniziative assunte nel sociale; ha appoggiato con forza il progetto di Padre Gemelli per la fondazione dell’Università Cattolica; ha promosso direttamente le opere di assistenza e sostegno al lavoro dei giovani.
Come si è detto, i fenomeni migratori degli anni tra l’otto e il novecento non avevano i caratteri degli anni sessanta e meno che mai quelli di adesso. Gli spostamenti riguardavano sostanzialmente gente della campagna che si trasferiva là dove le nuove industrie chiedevano mano d’opera. Si trattava di gente che non presentava grandi problemi di integrazione perché i loro comportamenti derivavano da valori condivisi, sul fondamento della stessa fede religiosa, con una sostanziale unità di lingua non intaccata dai dialetti pure importanti. Sicché tutte le iniziative delle quali si è parlato e che Andrea Ferrari sosteneva favorivano l’integrazione fra gli originari e gli “immigrati” e rafforzavano le relazioni fra vecchi e nuovi.
Ma soprattutto, il cardinal Ferrari ha sostenuto, mettendo i gioco la sua stessa posizione nei rapporto con la Santa Sede, il lavoro e le riflessioni che l’ambiente milanese conduceva negli anni precedenti la prima guerra mondiale nella prospettiva, ormai matura, del superamento della posizione di “astensione” della componente cattolica della realtà italiana dalla vita istituzionale e politica dell’Italia. Credo sia pacificamente acquisito che da Milano e dalla Lombardia siano partite le prime esperienze di “partecipazione” alla vita nazionale con i primi cattolici deputati. E negli anni della “guerra europea” di fronte alla grande e delicatissima questione della possibile neutralità, l’azione pastorale del cardinale si era espressa in un’azione pastorale diretta da un lato ad esortare i cattolici a compiere il loro dovere di cittadini nella prospettiva, però, di raggiungere poi “una pace decorosa e duratura” come ha fatto rilevare Giorgio Rumi.


IL MANICHEISMO CI SOFFOCA - RIANNODARE I FILI DEL DIALOGO. - CON I DATI CERTI - MARCO TARQUINIO – Avvenire, 30 ottobre 2008
Il decreto Gelmini è diventato legge, tra dosi d’urto di retorica e urti, tout court,
d’aula e di piazza. La «Riforma della scuo­la » è insomma fatta (ma se questa 'messa a punto' riformatrice merita la 'R' maiu­scola, come avremmo dovuto catalogare i ben più ampi interventi progettati da Ber­linguer e De Mauro, elaborati e realizzati da Moratti, modulati e rimodulati da Fio­roni?). Eppure il caso resta più che mai a­perto. E non solo per la decisione del Par­tito democratico di cavalcare le tante ten­sioni delle ultime settimane e, in qualche modo, di riassumerle, drammatizzarle e sublimarle sul piano politico attraverso il lancio di un referendum abrogativo della neonata legge. E neanche solo perché stan­ziamenti e tagli ai fondi per scuola e uni­versità sono contenuti nella Finanziaria (applicativa della manovrona d’estate) an­cora all’esame del Parlamento. Il sistema d’istruzione italiano – cruciale 'fabbrica di futuro' di questo nostro Paese – rima­ne, infatti, nel suo complesso un grande malato. E a rivelarcelo non sono certo, og­gi, le preoccupate agitazioni degli inse­gnanti o le nervose mobilitazioni e con­trapposizione di settori (soprattutto ro­mani e milanesi) del mondo studentesco. Ecco perché vorremmo augurarci un gran­de e corale sforzo per riannodare i fili di dialogo che si sono andati via via strap­pando, per superare le slabbrature pole­miche, per smontare trionfalismi ed esa­gerazioni, per ripristinare un’attenzione serena e rigorosa ai fatti. Forse è sperare troppo, dato che i prossimi mesi potreb­bero proporci una deliberata confusione tra campagna elettorale per le europee e campagna pre-referendaria pro o contro il ritorno del «maestro unico» e del valore del voto in condotta e sull’eliminazione di duemila scuole «troppo piccole».
Certo è sperare con ostinazione, visto e considerato che la materia scolastica e u­niversitaria – lo testimoniano quarant’an­ni di «contestazioni» – si presta a una se­rie pressoché infinita di clamorose e de­pistanti strumentalizzazioni. Quanti han­no capito, per esempio, che la scuola sta­tale il prossimo anno riceverà più soldi e che i 'tagli' più forti (pari, tanto per ren­dersi conto, a più del doppio di quelli al «fondo di funzionamento» delle univer­sità) sono invece previsti ai fondi per le materne ed elementari paritarie che del sistema pubblico fanno parte integrante? E quanti sono stati informati del fatto che quelle stesse scuole – le uniche che ri­schiano davvero di essere colpite a morte – garantiscono un servizio pubblico es­senziale e, per di più, ogni anno fanno ri­sparmiare alle casse dello Stato la bellez­za di 6 miliardi di euro? Sicuramente è sperare controcorrente, nel momento in cui riaffiorano antiche ten­tazioni manichee. Basti considerare che – in una Piazza Navona gremita ieri da mi­gliaia di studenti inermi e non violenti – le vergognose provocazioni e gli intollerabi­li scontri a colpi di mazza tra i «neri» del Blocco studentesco e i «rossi» dei Centri sociali sono stati stentoreamente e fretto­losamente raccontati (anche da impor­tanti esponenti politici e sindacali) come un’«aggressione fascista» ai «nostri ragaz­zi ». Eppure dovremmo aver imparato una volta per tutte che non si sterilizza un’in­fezione di violenza se si pretende di igno­rarne la metà abbondante.
Le vicende di questi giorni (assieme alle inquietanti nubi che già oscurano anche l’orizzonte economico italiano) segnala­no, insomma, che servirebbe – qui e ora – una grande freddezza, un autentico sfor­zo di ricucitura e un’enorme pazienza riformatrice per superare i conflitti d’in­teresse politici e corporativi e per depura­re dagli slogan contrapposti il dibattito sul mondo della scuola. Perché è già scocca­ta da un pezzo, e dovremmo deciderci a ri­conoscerlo, l’ora di una vera assunzione di responsabilità da parte delle grandi for­ze politiche e sindacali di concerto con le realtà vive della società italiana. C’è una grande «questione educativa» nel nostro Paese. Fare della scuola e dell’università non un terreno di lavoro comune, ma un campo di battaglia sarebbe la più assurda delle risposte. Dovremo riparlarne.


Legge 40 alla Consulta, la partita è aperta - di Viviana Daloiso – Avvenire, 30 ottobre 2008
INSINTESI
1L’articolo 14 della legge 40 è sottoposto all’esame della Consulta, rimandato all’ultimo momento a data da destinarsi.
2Dal Tar del Lazio alla Corte, in discussione punti decisivi.
Sulla questione della costituzionalità della legge 40, e in particolare del suo articolo 14 che vieta la produzione di più di tre embrioni a ciclo di fecondazione assistita e la conservazione in freezer degli stessi, la Consulta ha deciso di prendere tempo. Proprio ieri pomeriggio, a una settimana dall’udienza che avrebbe dovuto decidere sul discusso ricorso del Tar del Lazio dello scorso gennaio, è infatti trapelata la notizia di un rinvio a data da destinarsi. Complici, con ogni probabilità, anche i due successivi ricorsi arrivati sul banco della Corte negli ultimi mesi – entrambi provenienti dal Tribunale di Firenze, ed entrambi volti a contestare lo stesso articolo 14 –: la Corte Costituzionale potrebbe infatti prendere in esame tutte e tre le richieste, ed esprimersi con un unico pronunciamento. A conferma della delicatezza d’una decisione su cui vale la pena spendere qualche parola.
L’articolo «incriminato»
Tutti e tre i ricorsi su cui la Consulta è stata chiamata a esprimersi vertono su un unico articolo della legge 40, il 14, e in particolare su due suoi commi: quelli relativi al divieto di produrre più di 3 embrioni e di congelarli. Si tratta di pratiche inevitabili se si vuole introdurre la diagnosi dell’embrione concepito in vitro realizzata prima di avviare la gravidanza, vero obiettivo dei ricorsi e il cui divieto è stato di fatto eluso dalla stessa sentenza del Tar prima e dalle nuove linee guida emanate dall’ex ministro Turco poi.
La selezione pre-impianto – va ricordato – consente di scartare gli esemplari difettosi e impiantare solo quello 'sano'. È una tecnica che però richiede un elevato numero di embrioni per poter essere eseguita con successo. L’articolo 14, tuttavia, non è una parte a se stante della norma: è legato intimamente all’impianto generale della legge 40 e al suo spirito, così come è ben condensato nell’articolo 1, che tutela chiaramente i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito. Ecco perché manomettere questa parte della legge equivarrebbe a scardinarne l’architrave. È perché si tutela il concepito che sono stati istituiti i divieti di sovrapproduzione e conseguente congelamento di embrioni, esattamente come il no alla diagnosi pre-impianto che scientificamente non ha ancora dimostrato di essere una tecnica innocua per l’embrione, e tantomeno di essere volta a tutelarne la salute (si effettua la diagnosi per scartare gli embrioni malati, non certo per curarli).
Le ambiguità del Tar
Il ricorso con cui il Tar ha sollevato la questione di costituzionalità della legge 40 davanti alla Consulta ha un percorso piuttosto contrastato.
L’associazione Warm (World Association of Reproductive Medicine), nella quale sono rappresentati centri di procreazione medicalmente assistita, aveva infatti già impugnato il divieto davanti al Tribunale amministrativo del Lazio nel 2005. Con la sentenza 3452 il Tar aveva respinto il ricorso, affermando che la diagnosi pre­impianto «è preclusa dalla legge in quanto ricade nel divieto di selezione a scopo eugenetico, seppure trattasi di eugenetica negativa, volta cioè a fare sì che non nascano persone portatrici di malattie ereditarie, e non già a perseguire scopi di 'miglioramento' della specie umana». Il provvedimento è però stato annullato (per motivi procedurali) dal Consiglio di Stato, che ha rispedito il fascicolo al Tar.
Di qui la nuova sentenza, di segno opposto, alla base del ricorso alla Consulta ancora pendente. Questa seconda sentenza del Tar affianca alla sostanziale apertura alla diagnosi pre­impianto la 'raccomandazione' che ogni indagine sia comunque volta alla tutela dell’embrione, e non alla sua selezione.
Ma a che scopo si effettua una diagnosi pre-impianto se non a quello di selezionare gli embrioni? Non a caso ne serve un numero consistente per aumentare la probabilità di successo. E come può una pratica invasiva come la diagnosi pre-impianto tutelare l’embrione? Domande che il Tribunale amministrativo ha girato alla Corte Costituzionale.
La tutela della donna
Altro punto da esaminare è quello sollevato dalle sentenze del Tribunale di Firenze, in particolare da quella dello scorso luglio in cui il giudice Isabella Mariani ha accolto il ricorso di una coppia portatrice di esostosi (un’anomalia ereditaria che causa la crescita irregolare delle ossa) ordinando al centro che l’aveva rifiutata di eseguire la diagnosi pre­impianto e sostenendo che il medico deve seguire le regole della migliore scienza ed esperienza clinica «con specifico riguardo alla salute della donna». Si dimentica, tuttavia, che il divieto alla produzione di più di tre embrioni per ciclo tiene in conto proprio la salute della donna, evitando che quest’ultima si sottoponga a trattamenti di iperstimolazione ovarica altrettanto lesivi per la sua salute.
I possibili scenari
Il parere della Corte Costituzionale sulla legge 40 sarà, allora, decisivo. «Se infatti la Consulta dovesse accogliere i ricorsi, dichiarando incostituzionale l’articolo 14 della norma – spiega Aldo Loiodice, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Bari –, non solo i divieti di produzione di più di tre embrioni e di congelamento degli stessi verrebbero meno, ma l’intero impianto della legge ne resterebbe stravolto». Un’ipotesi che potrebbe addirittura rimettere il destino della norma in mano al Parlamento, aprendo il vaso di Pandora delle immaginabili fratture all’interno degli stessi schieramenti. Verrebbe così rimesso in gioco quello che con voto ampio e trasversale fu deciso nel 2004 varando la legge e fu poi ribadito con forza dal referendum popolare del 2005. «Se invece la Corte Costituzionale dovesse rigettare quei ricorsi – continua Loiodice – la legge 40 rimarrebbe intatta. Il che confermerebbe la decisione presa nel 2005 dalla stessa Consulta, che dichiarò inammissibile il referendum unico di abrogazione della legge proposto dai radicali definendo 'costituzionalmente necessaria' la disciplina sulla procreazione medicalmente assistita e ricordando come la Costituzione italiana assegni alla Repubblica il compito di proteggere i diritti inviolabili dell’uomo, tra cui quello alla vita».


matita blu - Il neonato è una persona. O no? - di Tommaso Gomez – Avvenire, 30 ottobre 2008
Questa puntata di 'Matita blu' è dedicata a chi è convinto che i giornali siano tutti uguali. A chi ancora non ha ben capito che se il cronista è sempre un interprete, esistono però interpreti buoni e cattivi, bravi e meno bravi, che pensano anzitutto alla notizia da narrare o a un’ideologia da servire. A chi ritiene inutile maturare l’abilità critica per saper riconoscere i primi dai secondi.
Lunga premessa per raccontarvi due approcci assai diversi al convegno in programma oggi e domani all’Ospedale pediatrico Mayer di Firenze sul tema: 'Sfide della neonatologia alla bioetica e alla società'.
Per Michele Bocci di Repubblica la notizia non è il convegno in sé. Non è se rianimare o meno chi nasce dopo 22-23 settimane di gestazione. Non è neppure la partecipazione dell’olandese Eduard Verhagen, che un poco imbarazza: Repubblica è favorevole all’eutanasia, ma quella dei neonati ancora è difficile da far mandar giù a tutti i lettori. Bisogna trasformare Verhagen in vittima: dell’oscurantismo e della censura.
Trovato! L’articolo punta il dito contro Riccardo Migliori, coordinatore toscano di An, e la sua interrogazione al presidente del Consiglio per sapere «se Comune e Regione hanno patrocinato il convegno». Tanto basta per costruire un titolo bellico: 'Eutanasia per neonati, guerra a Firenze. An contro un convegno: quel medico olandese la pratica, non parli'. Il neonatologo Giampaolo Donzelli, organizzatore dell’incontro, replica in modo apparentemente pacato a Migliori, che Bocci fa passare per un esagitato censore: «Invitare un rappresentante della comunità scientifica internazionale per farsi esporre le sue tesi non vuol dire sposarle». Ma Donzelli le sposa o no?
«Noi non siamo d’accordo: nella Carta di Firenze c’è scritto che i firmatari sono estranei a ogni forma di eutanasia pediatrica e neonatale». Bene, vorrà dire che accanto a Verhagen ci sarà un luminare che sosterrà una tesi opposta… O no?
A Il Foglio, in effetti, fornisce altre informazioni che Bocci tace. Ad esempio, che nella Carta «alcuni neonatologi italiani sostenevano che i prematuri di 22-23 settimane non andassero in pratica mai rianimati. Furono smentiti dalla Società italiana di neonatologia, dal Comitato nazionale di bioetica', eccetera.
ltra osservazione del Foglio: «Non si contesta il diritto di invitare Verhagen per fargli spiegare il suo eugenismo compassionevole. Singolare è l’assenza di qualsiasi contraddittorio, in un convegno che presenta anche una relazione intitolata: 'Il neonato è persona?'.
Proprio così, con il punto interrogativo». Bocci e Repubblica vanno capiti: i paladini della laicità non possono non trovarsi in imbarazzo di fronte a un convegno a senso unico. Non è un caso che nei giorni scorsi sulla rianimazione dei neonati prematuri, che «troppo spesso sono lasciati morire», sia autorevolmente intervenuto l’Osservatore Romano. Le sue domande sono state raccolte da Corriere della sera, Messaggero e Mattino. Repubblica le ha ignorate.


Il regista Krzysztof Zanussi al Festival internazionale del film di Roma - Il cinema come viaggio- alla scoperta del male - di Luca Pellegrini, L’Osservatore Romano, 30 ottobre 2008
Lo spirito della sopravvivenza tocca anche le coscienze maligne: chi fa il male vuole continuare a farlo. Ma Krzysztof Zanussi ci ha spesso dimostrato, nella sua ampia cinematografia, che conversione, perdono, penitenza e salvezza sono imprevedibili e alla portata di tutti. A Warm Heart, in concorso al Festival del film di Roma, affronta ancora una volta questi temi, ma con humor sottile, inaspettato. Sembra tornare alla sua prima trilogia degli anni Settanta (L'illuminazione, La spirale, Constans) nella quale il più famoso tra i registi polacchi indicava come a interessarlo fossero la scienza e la precarietà della vita, la sofferenza e la mancanza di senso, la corruzione del male e del potere, la responsabilità morale e sociale, lo spirito e la materia, la passione e il desiderio, il rapporto col mondo e con Dio. "I tre film che ha nominato formano un collage di varie considerazioni nei confronti dell'esistenza umana - dice Zanussi - ma la mia visione dell'arte e dell'uomo è rimasta sempre la stessa. Se altri notano un'evoluzione nella mia cinematografia, lo possono fare "da lontano". Io mi sento uguale a ieri anche se il mondo è cambiato rapidamente. Dal mio primissimo film, La struttura del cristallo del 1969, ho sempre mantenuto una visione unitaria della vita, in cui l'artista è innanzi tutto uomo come lo spettatore e cerca, offrendo se stesso, di condividere con lui parte della propria esperienza. Io nego il ruolo assegnato dalla tradizione marxista all'artista, inteso come l'ingegnere dello spirito umano, il suo istruttore. Anche la Chiesa ha dimostrato talvolta questa tendenza: trattare l'arte come puro strumento educativo. Ma l'arte è più che un mero strumento, è qualcosa di assai più nobile. Se vogliamo esprimere la nostra solidarietà con un altro uomo, condividendo con lui la nostra anima, "esponendoci" non per il nostro, ma per il suo guadagno, allora si capisce che l'arte è un atto più nobile dell'istruzione. Per istruire, infatti, io debbo svolgere il ruolo di colui che sa proponendo parte di questo mio sapere a qualcuno. Questa disuguaglianza non mi piace. Preferisco fare riferimento all'arte come un momento di condivisione col prossimo di una parte di noi".
In questo orizzonte, come interpreta l'ispirazione?
Questa è una domanda che tocca la libertà. Vale per tutti: l'artista non è diverso da qualsiasi uomo. Tutti abbiamo la libertà di opporci o ignorare l'ispirazione, anche divina. Così come possiamo ribellarci o rimanere indifferenti alla libertà stessa. Se io, invece, cerco di diminuire il mio ego d'artista per ascoltare la voce che mi guida alla verità, questo diventa in me un atto liberatorio. Realizzo così la mia libertà tramite la sottomissione, intendendola come ascolto umile.
Kontrakt, del 1980, affrontava temi strettamente legati alle sue esperienze: il malcostume della borghesia polacca nell'era comunista e la satira politica, con una continua oscillazione tra metafora e realtà. Sembrava una sterzata amara verso i toni della commedia. La vita è una commedia?
È un'espressione poetica molto ben radicata nella nostra cultura. Come "la vita è un sogno". Non si rischia molto nell'affermarlo. Nel Contratto di matrimonio, così era il titolo in italiano, ho tentato di riflettere sulla vita mondana dei protagonisti mettendoli al vaglio della presenza di una specie di divinità naturale: un cervo, simbolo dei cacciatori, appare alla fine e costringe le due donne, Lilka e Dorota, a inginocchiarsi dinanzi a lui. Questo perché, anche se prendiamo la vita come una commedia, la divinità esiste e l'uomo può negarla o, invece, riscoprirla.
Questa ricerca di Dio ha sempre segnato il suo cinema. Ne La vita come malattia mortale sessualmente trasmessa affrontava il dramma dell'uomo agnostico che chiede a Dio di ricevere almeno un segno per credere; nel seguito, Supplemento, scandagliava la difficoltà, per i giovani, di individuare il senso o la vocazione religiosa e di saper rispondere con libertà. Nel recente Il sole nero, come in una tragedia classica, una donna viveva il sentimento della vendetta e l'esigenza della giustizia. Ora con A Warm Heart, torna alla commedia, ma i toni sono amari e il contesto "morale".
È una scelta, quella della commedia, che mi pareva necessaria oggi per parlare di cose molto serie. È morale perché la storia che racconto conferma la mia profonda fede mentre il mondo postmoderno afferma, invece, la sua inutilità, la non esistenza. Ma i temi che tratto, anche se in forma diversa, sono i miei abituali. Sorridendo cerco di costatare che tutta la visione del mondo basata sul postmodernismo, sull'assenza dei valori certi, è un concetto sbagliato perché non si può vivere se non c'è la distinzione chiara tra bene e male, tra verità e menzogna, tra bello e brutto. Mi sono ispirato alla filosofia decostruzionista di Jacques Derrida dalla quale nasce un mondo estremo e esagerato in cui la mancanza di Dio, l'impossibilità di una verità e del grande racconto, creano un paradosso avvertito dal personaggio "cattivo" del film: in un mondo senza valori la nostra vita non si può nemmeno raccontare.
Chi è questo suo nuovo cattivo?
È un oligarca che, in attesa di un trapianto di cuore, rischia di morire. È la personificazione del male. Però anche lui ritrova una salvezza, un momento di luce nella notte, quando ammette il suo sbaglio, si converte e promette di cambiare vita. È un personaggio non credente la cui unica fede è nella sua ricchezza e nei suoi eccessi di vita. Non crede nell'eternità, nel giudizio ultimo, vive solamente basandosi sui principi edonistici del piacere e del consumo. Alla fine ammetterà di aver vissuto male, le sue ultime parole sono queste: "Ora mi è rimasto soltanto il tempo della penitenza". Il film, una specie di favola nera, si chiude quando l'oligarca comincia a distribuire la sua ricchezza tra i poveri.
Chi è il donatore di cuore?
Un giovane semplice e ingenuo che vuole suicidarsi, inseguito dagli sgherri dell'oligarca. Anche per questo personaggio, per fortuna, arriverà il tempo della salvezza, che non è mai negata: si getterà a capofitto in un nuovo lavoro, un nuovo ideale, la protezione degli animali. Per uno scherzo del destino, un vero paradosso, sarà invece un angelo del male, uno scagnozzo dell'oligarca, a rendertsi utile al suo padrone con un ultimo dono.
Perché la scelta di un attore ucraino per il personaggio dell'oligarca?
Bogdan Stupka, un grande attore, attualmente direttore del Teatro di Stato di Kiev, è stato anche ministro della Cultura: conosce come deve muoversi un personaggio pubblico e di potere e per questo riassume bene l'anima dell'oligarca. Il fenomeno dell'oligarchia, inoltre, è tipico soltanto di alcuni Paesi dell'Est. Infatti, in Russia e in Ucraina la trasformazione del sistema è andata malissimo perché le ricchezze dello stato si sono semplicemente trasferite dalla ex-nomenclatura, ossia dai privilegiati di prima, a quelli che sono i privilegiati di oggi. In questi Paesi non c'è stata Solidarnosc come in Polonia, non c'è stata una resistenza popolare, una riforma profonda e interiore, ma soltanto un cambio esteriore del sistema.
È in grado di recuperare qualche cosa del passato e della storia del suo Paese e dell'Est europeo negli anni del totalitarismo?
Prima di tutto rimpiango la mancanza della libertà. Ha un grande fascino. Non è vero che tutti vogliono essere liberi. La fuga dalla libertà, nel sistema totalitario, era resa possibile, mentre oggi tutti sono condannati alla libertà. La vita è molto più difficile!
Un'immagine abbastanza fosca e certo provocatoria! È davvero sicuro che sia così?
Molti non vogliono sentirsi liberi. Pensi alla sicurezza, che fa parte di questo concetto, con tutto ciò che ne consegue nella vita civile. La gente si sentiva, allora, molto più sicura perché il vicino non poteva fare carriera, guadagnare più di me, avere più spazio o potere. Questo dava una grande illusione di sicurezza. Oggi avverto una certa forma di nostalgia per questi tempi in cui ciascuno aveva il diritto di essere pigro, passivo, immobile. Fa parte della natura umana: c'era un fascino perverso nel sistema totalitario comunista, che offriva in cambio della libertà una sicurezza passiva, una pigrizia intellettuale, una tranquillità nel pubblico e nel privato. Oggi, nella società del libero mercato dobbiamo fronteggiare gran parte degli stessi problemi e degli stessi dubbi, solo che si manifestano in modo diverso.
Uno dei contesti in cui maggiormente si avvertono proprio questi dubbi e le più forti tensioni è quello giovanile. Lei ha sempre posto come elemento portante nel suo cinema anche l'insofferenza e la ribellione morale dei giovani contro la corruzione dei padri.
Nella mia gioventù, anche di regista, il tema è stato al centro delle mie attenzioni. Oggi ho raggiunto l'età dei padri e sono, per questo motivo, pronto a smascherare anche la corruzione dei giovani. Mi colpisce soprattutto il fatto che i giovani insistano - fingendo anche a se stessi - nel non rendersi conto che sono corruttibili, come tutti noi. La decomposizione della nostra integrità, come dimostro anche nel mio ultimo film, è un soggetto che mi interessa sempre moltissimo.
Il potere del male affrontava il male che alberga nel cuore dell'uomo e la presenza della Grazia che ci aiuta e spinge a lottare per il bene. Da allora, però, il male, nelle sue diverse radici e manifestazioni, è sempre apparso nelle sue opere.
Il male è qualcosa di subdolo, inquieto, affascinante, una forza dinamica e attiva che agisce nell'uomo e nella storia. Ricordo come tanti cristiani rimasero sconvolti da una delle affermazioni più forti di Paolo vi: siamo "sotto l'esistenza del diavolo". Io non l'ho mai contestata. Mi accorgo che oggi il male si nasconde e l'uomo crede di essere innocente. È una tendenza, una tentazione che porta ad occultare, se non a rendere addirittura superflue, le proprie scelte morali.
Oggi è più pessimista di un tempo?
Non sono stato mai un pessimista. Rifiuto questa etichetta e questo termine. Io semplicemente riconosco l'esistenza del male che talvolta prevarica sul bene. Ma non ho mai detto e sostenuto che il male vince. Il vero pessimismo è l'indifferenza, la mancanza della speranza, la negazione del male: così la vita perde il suo dinamismo e noi perdiamo la libertà delle nostre scelte.
Nel frattempo, lei ha scelto il soggetto del suo prossimo film.
Girerò un film storico su santa Edvige, della stirpe degli Angioini, canonizzata da Giovanni Paolo ii a Cracovia nel 1997. Di origine francese, divenne nel xiv secolo regina di Polonia e Lituania e successivamente patrona di queste nazioni. La sua vita riassume il concetto del "regnare servendo". È un personaggio che ha introdotto lo spirito cristiano nella politica interna e internazionale e, dunque, di indubbia attualità. Le radici cristiane della nostra politica civile sembrano sparire inesorabilmente nel nostro mondo. Oggi è diffuso quello che io ritengo un atteggiamento barbaro, anti-cristiano, che si concretizza in una politica senza scrupoli, senza carità.
(©L'Osservatore Romano - 30 ottobre 2008)